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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2015

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aggiornamento al 31.12.2015

aggiornamento al 21.12.2015

aggiornamento al 09.12.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.12.2015

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FINALMENTE:
una Sezione di controllo della Corte dei Conti che si è posta il nostro stesso interrogativo!!

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 31.12.2014 (in evidenza) (proprio un anno fa ...) avevamo affrontato la problematica circa la riconoscibilità -o meno-  dell'incentivo alla progettazione interna relativamente alla figura del R.U.P..
     Nella fattispecie de qua, davamo conto di come sussistesse -nella giurisprudenza di controllo delle varie Sezioni regionali della Corte dei Conti- una contrapposizione che è all'incirca pari al 50% fra due tesi: 1) chi sostiene  l’erogazione dell’incentivo al R.U.P. sempre e comunque e 2) chi sostiene l’erogazione dell’incentivo al R.U.P. solo in caso di progettazione interna.
     Ebbene, in illo tempore davamo conto di come un comune avesse formulato un quesito alla Sez. controllo della Lombardia, della Corte dei Conti, rappresentando l'evidente contrasto interpretativo cui fece seguito un'incomprensibile "non risposta" e limitandosi la Corte de qua a riconfermare il proprio orientamento di cui al parere 01.10.2014 n. 247.
     Per fortuna, ora, il nostro auspicio di far chiarezza definitivamente (a livello centrale) è stato condiviso dalla sez. controllo dell'Emilia Romagna, la cui deliberazione è riportata a seguire:

INCENTIVO PROGETTAZIONELa Sezione, in presenza del contrasto interpretativo sulle questioni oggetto della richiesta di parere, dispone la rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza in ordine all’opportunità di sottoporre alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite, le seguenti questioni di massima:
1) “
se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati”;
2) “
se la nozione di "collaboratori" di cui al comma 7-ter dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall'art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori”.
---------------
Con nota del 28.10.2015, pervenuta a questa Sezione l’01.12.2015 per il tramite del CAL, il Presidente della Provincia di Teramo ha trasmesso una richiesta di parere concernente la corretta interpretazione delle norme in tema di incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 del Decreto legislativo n. 163/2006.
Più precisamente, l’ente, in sede di predisposizione del regolamento richiesto dalla norma per disciplinare le modalità di erogazione degli incentivi, ravvisa la necessità di un intervento interpretativo di questa Corte sui seguenti due quesiti, tra loro strettamente connessi:
1) la possibilità di riconoscere l’incentivo in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati;
2) se la nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori.
...
La questione in esame concerne la disciplina degli incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 del Decreto legislativo n. 163/2006, su cui si è andata formando nel tempo una copiosa giurisprudenza della Corte dei conti in funzione consultiva, sia in sede regionale sia in sede centrale nomofilattica.
La normativa di riferimento, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014 –che non hanno tuttavia innovato in modo sostanziale la disciplina rilevante ai fini della soluzione dei quesiti in esame– è rappresentata dai commi 7-bis e ter dell’art. 93 del D.Lgs n. 163/2006 i quali recitano: “7-bis - A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter - L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale
.".
La ratio della norma, come precisato dalle SS.RR. in sede di controllo (
deliberazione 04.10.2011 n. 51), è quella di destinare una quota di risorse pubbliche “a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
In linea con i principi di efficienza ed economicità, il legislatore mostra un favor per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale, consentendo il riconoscimento agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, in deroga ai due principi cardine del pubblico impiego: di onnicomprensività della retribuzione e di definizione contrattuale delle componenti economiche, sanciti, rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal successivo art. 45, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (cfr. Sezione delle Autonomie
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come si evince dal richiamato testo novellato,
la legge individua alcune regole generali per la ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto regolamentare interno alla singola amministrazione, assunto previa contrattazione decentrata.
Su alcuni punti fermi che il regolamento interno deve rispettare si registra una generale uniformità di lettura da parte delle Sezioni regionali di controllo, che di seguito si richiamano:

-
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti agli appalti di lavori (non, pertanto, negli appalti di fornitura di beni o di servizi);
-
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
-
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno la graduazione delle percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia all’Autorità di vigilanza,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150);
-
devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Diversamente, si rilevano contrasti interpretativi in relazione ad entrambi i quesiti formulati dalla Provincia di Teramo.
Quesito n. 1
In merito alla possibilità di riconoscere l’incentivo in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili (di progettazione, di direzione dei lavori e di collaudo) siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati, una prima linea di lettura appare incline a fornire risposta positiva; tale orientamento, in sintesi, poggia sull’assunto che l’incentivo economico sia finalizzato a remunerare le figure professionali elencate nella norma, inclusa quella del Responsabile del procedimento, purché ricoperte da personale interno all’amministrazione e operanti nell’ambito di procedimenti volti alla realizzazione di opere pubbliche e lavori.
In tal senso può essere richiamata la deliberazione della Sezione di controllo per la Liguria (cfr.
parere 18.04.2013 n. 18) secondo la quale “La soluzione del quesito proposto presuppone la preventiva analisi del ruolo assolto dal Responsabile unico del procedimento, il quale svolge una funzione pregnante all’interno del medesimo, gestendone le varie fasi, assicurando il contraddittorio con le parti private e il coordinamento con gli uffici interni. Tali compiti assumono particolare rilevanza nell’ambito delle procedure di affidamento di opere o servizi. Ciò è confermato dal fatto che anche in caso di incarichi di progettazione o pianificazione a soggetti esterni deve essere nominato comunque un Responsabile unico che coordini le diverse attività svolte dagli incaricati. Tale considerazione induce a ritenere che debba essere riconosciuto a tale figura il diritto ad una quota parte dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione ed esecuzione dell’opera”.
In sostanza, secondo l’interpretazione precedentemente descritta, al Responsabile unico del procedimento, in caso di opere pubbliche e lavori, può essere legittimamente attributo l’incentivo economico, anche se l’attività di progettazione è completamente affidata a figure esterne; ciò, secondo quanto precisato dalla Sezione Liguria, troverebbe giustificazione nella circostanza che i compiti svolti dal RUP nel caso della realizzazione di opere pubbliche e lavori rimarrebbero sostanzialmente uguali, a prescindere dall’esternalizzazione delle altre attività contemplate dall’art. 93 del D.lgs. 163 del 2006.
Questa prospettiva riecheggia anche in più recenti pronunce della Sezione regionale di controllo per la Lombardia; tra tutte, il
parere 01.10.2014 n. 247 collega l’erogazione dell’incentivo all’espletazione degli “incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi)”, escludendo che la norma richieda “ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”.
In linea con questa interpretazione possono essere citate anche le pronunce della medesima Sezione Lombardia, parere 28.10.2015 n. 351 e parere 20.07.2015 n. 236, le quali, sebbene vertenti su quesiti differenti dalla tematica in esame, ribadiscono la possibilità di incentivare le attività strumentali alla progettazione anche qualora la stessa venga esternalizzata integralmente.
Una seconda linea interpretativa delle disposizioni in commento emerge dal
parere 02.10.2014 n. 197 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte, la quale, chiamata a rispondere in merito alla riconoscibilità dell’incentivo economico al RUP in ipotesi di progettazione affidata all’esterno (sia nel caso in cui anche le altre attività di direzione lavori e collaudo risultino esternalizzate, sia nel caso di direzione lavori interna e collaudo esterno), ha fornito una lettura più restrittiva dell’art. 93 (peraltro già preceduta dal parere 30.08.2012 n. 290 e parere 19.12.2013 n. 434), stabilendo un nesso funzionale tra il compenso incentivante e lo svolgimento dell’attività di progettazione all’interno dell’Ente.
Le citate deliberazioni subordinano il diritto al compenso incentivante non al mero espletamento delle attività indicate nella norma nell’ambito della realizzazione di opere pubbliche o lavori, ma alla circostanza che la progettazione sia avvenuta all’interno dell’amministrazione.
Conseguentemente, “con specifico riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.
Con successiva pronuncia (parere 20.01.2015 n. 17), la Sezione di controllo per il Piemonte ha ulteriormente precisato che, ai fini della riconoscibilità dell’incentivo al RUP, non è necessario che tutte le fasi della progettazione (preliminare, definitiva e esecutiva) siano svolte da personale interno all’Ente, purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia le quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
La soluzione al quesito relativo alla possibilità di attribuire l’incentivo economico al RUP anche in presenza di progettazione, direzione dei lavori e collaudo esternalizzati va, ad avviso di questa Sezione, ricercata richiamando i principi alla base delle disposizioni di cui ai commi 7-bis - 7-quinquies dell’art. 93 del d.lgs. 163/2006 (ex art. 92, commi 5 e 6) e al comma 6 dell’art. 90, come individuati dalle stesse SS.RR in sede di controllo e dalla Sezione delle Autonomie nelle deliberazioni precedentemente richiamate; le disposizioni in commento, infatti, cercano di contemperare il principio di economicità ed efficienza gestionale dell’amministrazione con l’esigenza di valorizzazione del personale interno chiamato a svolgere attività di natura professionale legate alla progettazione di opere pubbliche.
Sotto il primo profilo, l’art. 90, comma 6, limita la possibilità di ricorso dell’amministrazione aggiudicatrice all’esternalizzazione delle attività di progettazione, evitando così aggravi di spesa; sotto il secondo profilo, l’art. 93, commi 7-bis – 7-quinquies, consente, in deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico impiego, il riconoscimento di utilità economiche aggiuntive in ragione delle prestazioni professionalmente qualificate, legate all’attività di progettazione, richieste alle specifiche figure professionali ivi indicate, per le quali l’amministrazione evita di avvalersi di soggetti esterni.
Secondo questa ricostruzione l’incentivo economico non appare associato al mero espletamento di funzioni, ma risulta funzionale a favorire l’esercizio di attività legate alla progettazione all’interno dell’amministrazione. In questo modo, infatti, si realizza il bilanciamento di interessi (economia di spesa – valorizzazione delle attività professionali del personale interno) perseguito dalla norma, bilanciamento che verrebbe invece meno qualora l’amministrazione esternalizzasse integralmente le attività incentivate.
Il nesso funzionale tra incentivo e attività di progettazione sembrerebbe inoltre confermato anche dalla collocazione sistematica dell’art. 93 all’interno della Sezione I “Progettazione interna ed esterna” del codice, dalla rubrica della norma “Livelli della progettazione per gli appalti e per le concessioni” e dalla denominazione del fondo “per la progettazione (80% delle risorse) e l’innovazione (20% delle risorse)”.
Con particolare riferimento alla figura del RUP, oggetto del contrasto interpretativo tra Sezioni regionali, appare condivisibile l’impostazione di fondo della Sezione Piemonte secondo la quale l’attribuzione dell’incentivo non risulta collegata alla mera qualifica; diversamente non si comprenderebbe la ratio dell’esclusione dal compenso aggiuntivo del RUP nelle procedure di affidamento di beni e servizi, anch’esso investito di una serie di compiti assimilabili a quelli svolti dal RUP negli appalti di lavori.
L’incentivo deve essere invece correlato alle attività specifiche che il RUP, nelle fattispecie di realizzazione di opere pubbliche e lavori, è chiamato a svolgere a supporto dell’attività di progettazione.
Ciò premesso, in ipotesi di esternalizzazione di tutte le figure previste dall’art. 93, ed in particolare della fase di progettazione, non appare tuttavia possibile escludere a priori che al RUP sia richiesto l’esercizio di compiti funzionali alla progettazione tra quelli elencati nell’art. 10 del Regolamento di cui al DPR 207/2010; si fa riferimento, a titolo esemplificativo, alla redazione del documento preliminare alla progettazione (lettera c); al coordinamento delle attività in presenza di progettazione preliminare (lettera e), definitiva ed esecutiva (lettera f).
Al riguardo, in linea con quanto sopra, la Sezione giurisdizionale per la Calabria (
sentenza 03.02.2014 n. 22) ha riconosciuto la legittimità dell’incentivo concesso al RUP, pur in presenza di esternalizzazione delle attività di progettazione, avendo quest’ultimo redatto il documento preliminare alla progettazione.
In queste ipotesi, dovrebbe essere compito del regolamento dosare l’attribuzione dell’incentivo in relazione alle responsabilità effettivamente assunte, anche eventualmente operando differenziazioni tra le ipotesi di progettazione esternalizzata o interna.
Quesito n. 2
Il secondo quesito attiene alla nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006; la Provincia di Teramo chiede se tale nozione faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori.
Anche su questo quesito –strettamente connesso con il primo– si riscontra un contrasto interpretativo tra Sezioni regionali. Più precisamente, con parere 17.12.2014 n. 141, la Sezione regionale di controllo per le Marche ha fornito una lettura restrittiva della nozione di collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a) addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
c) responsabile o addetto allo svolgimento della procedura di gara.
Facendo applicazione del principio di tassatività, la pronuncia recita: “come si è avuto modo di chiarire, il Fondo previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro
”.
Elementi in favore di una lettura più ampia della nozione di collaboratore e delle attività incentivabili possono trarsi dalla pronuncia della Sezione regionale di controllo per la Lombardia (parere 20.07.2015 n. 236) la quale, sebbene non avesse ad oggetto la qualificazione della nozione di collaboratore, ha ritenuto ammissibile l’incentivo economico anche per le attività attinenti alla fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività di progettazione esterna, in particolare con riferimento a quelle relative alle operazioni di scelta del contraente, di redazione del bando di gara, dei procedimenti di aggiudicazione, liquidazione, verifica in corso d’opera e controllo di conformità dell’opera. Ciò nella considerazione che tali attività possano essere considerate di supporto alla progettazione.
Ad avviso di questa Sezione, la tesi restrittiva sostenuta dalla Sezione di controllo per le Marche appare maggiormente in linea con il principio di tassatività che caratterizza la disciplina degli incentivi alla progettazione, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività delle retribuzioni del pubblico impiego e, pertanto, non suscettibile di estensione analogica.
Conseguentemente, la nozione di collaboratore dovrebbe essere limitata allo staff tecnico di supporto alle figure professionali esplicitamente individuate dall’art. 93 d.lgs. 163/2006, per lo svolgimento di attività strettamente connesse con la progettazione, evitando così un’estensione del perimetro applicativo degli incentivi, attraverso la nozione di “collaboratore”.
P.Q.M.
la Sezione, in presenza del contrasto interpretativo sulle questioni oggetto della richiesta di parere, dispone la rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174 del 10/10/2012, convertito con legge n. 213 del 07/12/2012, in ordine all’opportunità di sottoporre alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite, le seguenti questioni di massima:
1) “
se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati”;
2) “
se la nozione di "collaboratori" di cui al comma 7-ter dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall'art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori”.
La pronuncia sulla richiesta di parere formulata dalla Provincia di Teramo è conseguentemente sospesa (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, deliberazione 22.12.2015 n. 358).

     Nel contempo, vogliamo evidenziare (a seguire) il recente parere della Sez. di controllo del Veneto sulla questione rappresentata con l'AGGIORNAMENTO AL 21.12.2015 ovverosia se spetti, o meno, l'incentivo sulle attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114, fattispecie deferita dalla Corte dell'Emilia Romagna alla Sez. Autonomie.
     Ebbene, secondo i giudici Veneti l'interrogativo non sussisterebbe laddove sostengono che "
la questione possa considerarsi ormai definitivamente risolta dal legislatore che, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, e nella formulazione della nuova disciplina di cui al citato comma 7-ter (in sede di riparto della neo istituito fondo per la progettazione), esclude tout court la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero delle attività qualificabili come “manutentive” (quindi sia ordinarie che straordinarie), a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione".

INCENTIVO PROGETTAZIONECirca l'incentivo alla progettazione interna in materia di servizi manutentivi, è emerso un orientamento consolidato della giurisprudenza consultiva per quanto attiene ad alcuni principi generali che si illustrano di seguito:
• la possibilità di corrispondere l’incentivo in argomento è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi manutentivi;
• in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva);
• si devono escludere dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in economia).

Questo Collegio ritiene che la questione possa considerarsi ormai definitivamente risolta dal legislatore che, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, e nella formulazione della nuova disciplina di cui al citato comma 7-ter (in sede di riparto della neo istituito fondo per la progettazione), esclude tout court la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero delle attività qualificabili come “manutentive” (quindi sia ordinarie che straordinarie), a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione.
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Nell'operare una distinzione tra i collaboratori del responsabile unico del procedimento (RUP) e gli altri collaboratori che svolgono attività amministrativa e/o contabile strettamente collegate ai lavori, con riferimento a questi ultimi, si deve evidenziare che non può escludersi, in via di principio, la possibilità che i “collaboratori” cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da dipendenti appartenenti a profili amministrativi e contabili.
Tuttavia, va tenuto in debito conto che la maggior parte delle attività incentivate dall’art. 92 cit., presenta un contenuto strettamente tecnico (progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, redazione piano di sicurezza, direzione lavori, collaudo).

Siccome la ratio della normativa in questione mira alla valorizzazione delle professionalità interne ed a limitare il conferimento di incarichi professionali,
le figure di “collaboratori” cui fa riferimento l’art. 92 cit. sono da individuare –di norma– tra il personale tecnico che di volta in volta partecipa alla redazione dei vari elaborati o al compimento di specifiche attività tecniche.
Discorso diverso, invece, va fatto per i collaboratori del RUP che è titolare di una pluralità di competenze che coinvolgono tutte le fasi di realizzazione dell’opera pubblica (progettazione, affidamento dei lavori, esecuzione dei lavori), per cui non tutte le competenze del RUP hanno necessariamente un contenuto strettamente tecnico. Per questo motivo,
il RUP ben può avvalersi di collaboratori appartenenti al ruolo del personale amministrativo, purché in possesso delle necessarie competenze professionali. Da ciò consegue che anche i suddetti collaboratori possono essere ricompresi nella ripartizione degli incentivi in argomento.
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Si ribadisce che il fondo di cui all’art. 92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi– diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, “benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche, possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro”.
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R
elativamente alla questione di diritto intertemporale della disciplina da applicare, ai fini del riconoscimento dell’incentivo in questione, al progetto di opera o lavoro approvato prima del 19/08/2014 (data di entrata in vigore della legge n. 114/2014 di conversione del d.l. 90/2014) con riferimento alle attività svolte successivamente a tale data, “la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe da ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene compiuta … e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata, bensì nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento”.
Pertanto,
il riferimento temporale ai fini dell’individuazione della disciplina da applicare va fissato nel momento dell’approvazione dell’opera, prescindendo dal momento in cui le prestazioni incentivate siano state in concreto poste in essere.
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Il Commissario Straordinario del Comune di Rovigo, con la nota indicata in epigrafe, ha posto una serie di quesiti relativi all’interpretazione dell’art. 92 del d.lgs. 21.04.2006, n. 163 alla luce delle modifiche apportate dal d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114.
Con il primo quesito viene chiesto se tra le attività previste per la ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione rientrino i lavori di manutenzione straordinaria che comportano attività di progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva approvate rispettivamente dagli organi competenti), direzione lavori e collaudo.
Al riguardo, viene richiamata il parere 17.12.2014 n. 141 della Sezione regionale di controllo delle Marche nella quale, rifacendosi ad un precedente della Sezione regionale di controllo della Toscana (parere 19.03.2013 n. 15), viene affermato che “le manutenzioni straordinarie sarebbero riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche al compimento delle quali la norma subordina l'erogazione dell'incentivo. Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al testo dell'art. 92 operata con il d.l. 90/2014 non abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi relativi agli interventi di manutenzione straordinaria”.
Con il secondo quesito si chiede se tra i "collaboratori” del responsabile del procedimento, degli incaricati della redazione del progetto, del piano di sicurezza, della direzione lavori e del collaudo, possano rientrare i dipendenti che prestano, nell'ambito della struttura competente alla realizzazione dell'opera, attività amministrative strettamente collegate ai lavori. In particolare, viene richiesto se i collaboratori, appartenenti al ruolo del personale amministrativo, debbano essere in possesso di specifiche competenze professionali, con la conseguente individuazione precisa dell'attività svolta all'interno del gruppo di lavoro individuato o se, non essendo personale tecnico con attività chiaramente identificate ai sensi del D.P.R. 05.10.2010, n. 207, sia sufficiente l'inserimento del solo nominativo nel gruppo di lavoro.
Il terzo quesito mira a sapere se il fondo per la progettazione possa essere utilizzato per incentivare il personale tecnico amministrativo addetto ai procedimenti di esproprio, oppure alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti, o al responsabile o addetto allo svolgimento della procedura di gara.
Con il quarto quesito, infine, vengono richieste una serie di specificazioni, in ordine alla questione di diritto intertemporale, sulla disciplina da applicare al progetto di opera o lavoro approvato prima all’entrata in vigore della legge 114/2014, di conversione del d.l. 90/2014.
Nello specifico, il Commissario Straordinario del Comune di Rovigo chiede se si debba applicare:
   a) la disciplina previgente, per le attività svolte prima e anche per quelle portate a compimento dopo il 19/08/2014 (data di entrata in vigore della sopra citata legge 114/2014) con i criteri disciplinati dal precedente regolamento sia per la quantificazione del fondo sia per la distribuzione (supportati dall'affidamento degli incarichi del gruppo di lavoro con l'individuazione delle percentuali assegnate a ciascun dipendente);
   b) la disciplina previgente solo per le attività svolte antecedentemente al 19/08/2014; mentre per quelle portate a compimento successivamente, troverebbero applicazione le nuove misure e le modalità stabilite dalla legge di riforma e dal nuovo regolamento attuativo.
Con riferimento a questa ultima ipotesi, viene richiesto, in particolare, la modalità di liquidazione dell'incentivo trattandosi di incarichi professionali conferiti prima dell'entrata in vigore dell'attuale legge (anche se portati a compimento dopo) e che trovano copertura nei quadri economici dei progetti approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell'esercizio di riferimento.
A questo riguardo viene richiamata il parere 14.04.2015 n. 211 di questa Sezione che ribadisce l’orientamento espresso dalla Sezione delle Autonomie (con deliberazione 24.03.2015 n. 11) in base al quale “la soluzione si deve collocare nell'alveo dell'irretroattività della norma e del criterio tempus regit actum, in guisa che la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe, da ricercarsi nel momento in cui l'attività incentivata viene compiuta … e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata, bensì nel momento in cui l'opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell'esercizio di riferimento”, individuando nel momento dell'approvazione dell'opera il riferimento temporale per la scelta della disciplina da applicare al caso di specie, prescindendo dal momento in cui le prestazioni incentivate siano state in concreto poste in essere.
...
... i quesiti sopra illustrati, proposti dal Commissario Straordinario del Comune di Rovigo, possono ritenersi solo parzialmente ammissibili.
In particolare, sono da considerare inammissibili il secondo quesito -nella parte in cui viene richiesto se “i collaboratori appartenenti al ruolo del personale amministrativo debbano essere in possesso di specifiche competenze professionali con la conseguente individuazione precisa dell'attività svolta all'interno del gruppo di lavoro individuato o se, non essendo personale tecnico con attività chiaramente identificate ai sensi del DPR 207/2010, è sufficiente l'inserimento del solo nominativo nel gruppo di lavoro”– ed il quarto quesito, nella parte in cui si chiedono in concreto le modalità della liquidazione dell’incentivo in questione, dovendo la Sezione limitarsi alla definizione della linea interpretativa che, tra l’altro, il richiedente ben dimostra di conoscere.
Nei limiti di quanto sopra rappresentato, la Sezione può passare all’esame del merito dei quesiti presentati, tutti inerenti alle problematiche relative alle modifiche introdotte dal citato d.l. 90/2014 (e dalla relativa legge di conversione) alla disciplina dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. 163/2006. Infatti, l’art. 13 del suddetto provvedimento ha espressamente abrogato i commi 5 e 6 dell’art. 92, in materia di incentivi per la progettazione; mentre l’art. 13-bis, introdotto in sede di conversione, ha previsto l’istituzione, a carico delle stazioni appaltanti e per le finalità descritte, di un fondo per la progettazione e l’innovazione, destinato alle risorse umane e strumentali necessarie per tali finalità.
In particolare, in base alla nuova disciplina, le amministrazioni pubbliche destineranno a un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, secondo modalità determinate da un regolamento adottato dall’amministrazione. Sempre tale regolamento dovrà definire i criteri di riparto di tali somme, ferme restando le ripartizioni direttamente disposte dall’atto normativo.
In ordine a questa novella legislativa, viene posto il primo quesito, relativo alla riconoscibilità dell’incentivo in argomento, anche ai casi di lavori di manutenzione straordinaria che comportano attività di progettazione, direzione lavori e collaudo posto che il comma 7-ter del citato art. 13-bis, esclude espressamente le “attività manutentive” dal novero delle attività da prendere in considerazione ai fini del riparto delle risorse destinate nel fondo per la progettazione e l’innovazione di nuova istituzione, senza operare nessuna differenziazione tra attività manutentive ordinarie e straordinarie.
Per comprendere la portata del quesito sottoposto all’attenzione di questo Collegio è opportuno ricordare che il tema dei presupposti e delle modalità applicative previste dall’abrogato comma 5 dell’art. 92, d.lgs. n. 163/2006, è stato diffusamente affrontato dalla giurisprudenza contabile in sede consultiva e numerose pronunce hanno riguardato, in particolare, proprio la questione della possibilità di ricomprendere nell’ambito di operatività della norma anche ipotesi di interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, fatti eseguire dagli enti locali (Sez. Lombardia parere 06.03.2013 n. 72 e parere 28.05.2014 n. 188; Sez. Liguria parere 10.05.2013 n. 24; Sez. Piemonte parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97, Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71 e da ultimo parere 09.09.2015 n. 393 di questa Sezione).
Sul tema, quindi,
è emerso un orientamento consolidato della giurisprudenza consultiva per quanto attiene ad alcuni principi generali che si illustrano di seguito:
• la possibilità di corrispondere l’incentivo in argomento è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi manutentivi;
• in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva);
• si devono escludere dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in economia).

Questo Collegio ritiene che la questione possa considerarsi ormai definitivamente risolta dal legislatore che, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, e nella formulazione della nuova disciplina di cui al citato comma 7-ter (in sede di riparto della neo istituito fondo per la progettazione), esclude tout court la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero delle attività qualificabili come “manutentive” (quindi sia ordinarie che straordinarie), a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione.
In merito all’interpretazione fornita dalla Sezione regionale di controllo per le Marche nel parere 17.12.2014 n. 141, citata nella richiesta di parere a sostegno della riconoscibilità dell’incentivo in questione anche alle attività di manutenzione straordinaria, si fa presente quanto segue.
La succitata deliberazione richiama il parere 19.03.2013 n. 15 della Sezione regionale di controllo per la Toscana, nella quale si prendono in considerazione le sole ipotesi di attività di manutenzione ordinaria, senza peraltro pronunciarsi sull’attività di manutenzione straordinaria ai fini del riconoscimento dell’incentivo de quo.
La stessa Sezione regionale di controllo per la Toscana ha successivamente affrontato, in più occasioni (parere 12.11.2014 n. 237 e parere 28.10.2015 n. 490) la questione interpretativa concernente la spettanza dell’incentivo di progettazione alle attività di manutenzione straordinaria escludendo le attività manutentive dall’ambito di applicazione dell’art. 92, alla luce dell’intervenuta novella legislativa che preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (cfr. anche Sezione regionale di controllo per l’Umbria parere 14.05.2015 n. 71).
In ordine al secondo quesito, in cui viene chiesto se tra i collaboratori del responsabile del procedimento, degli incaricati della redazione del progetto, del piano di sicurezza, della direzione lavori e del collaudo, possano rientrare i dipendenti che prestano, nell’ambito della struttura competente alla realizzazione dell’opera, attività amministrative strettamente collegate ai lavori, la Sezione richiama l’orientamento espresso dal citato parere 17.12.2014 n. 141 della Sezione di controllo per le Marche, che l’Amministrazione dimostra di conoscere.
Nella suddetta pronuncia
viene operata una distinzione tra i collaboratori del responsabile unico del procedimento (RUP) e gli altri collaboratori che svolgono attività amministrativa e/o contabile strettamente collegate ai lavori.
Con riferimento a questi ultimi, si deve evidenziare che non può escludersi, in via di principio, la possibilità che i “collaboratori” cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da dipendenti appartenenti a profili amministrativi e contabili. Tuttavia, va tenuto in debito conto che la maggior parte delle attività incentivate dall’art. 92 cit., presenta un contenuto strettamente tecnico (progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, redazione piano di sicurezza, direzione lavori, collaudo).
In virtù di questo contenuto specialistico delle prestazioni sopra evidenziate, in caso di affidamento esterno, le stazioni appaltanti dovrebbero far ricorso a professionisti esterni abilitati ed iscritti ai rispettivi albi professionali (art. 90, d.lgs. 163/2006).
Siccome la ratio della normativa in questione mira alla valorizzazione delle professionalità interne ed a limitare il conferimento di incarichi professionali,
le figure di “collaboratori” cui fa riferimento l’art. 92 cit. sono da individuare –di norma– tra il personale tecnico che di volta in volta partecipa alla redazione dei vari elaborati o al compimento di specifiche attività tecniche.
Discorso diverso, invece, va fatto per i collaboratori del RUP che è titolare di una pluralità di competenze che coinvolgono tutte le fasi di realizzazione dell’opera pubblica (progettazione, affidamento dei lavori, esecuzione dei lavori), per cui non tutte le competenze del RUP hanno necessariamente un contenuto strettamente tecnico. Per questo motivo,
il RUP ben può avvalersi di collaboratori appartenenti al ruolo del personale amministrativo, purché in possesso delle necessarie competenze professionali. Da ciò consegue che anche i suddetti collaboratori possono essere ricompresi nella ripartizione degli incentivi in argomento.
Con riferimento al terzo quesito sulla possibilità dell’utilizzazione del fondo per incentivare il personale tecnico-amministrativo addetto alle procedure di esproprio, alle attività di accatastamento ed allo svolgimento delle procedure di gara,
si ribadisce che il Fondo di cui all’art. 92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi– diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, “benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche, possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro
(Sez. controllo Marche, parere 17.12.2014 n. 141).
Con riferimento, infine, all’ultimo quesito relativo
limitatamente alla questione di diritto intertemporale della disciplina da applicare, ai fini del riconoscimento dell’incentivo in questione, al progetto di opera o lavoro, approvato prima del 19/08/2014 (data di entrata in vigore della legge n. 114/2014 di conversione del d.l. 90/2014) con riferimento alle attività svolte successivamente a tale data, la Sezione richiama l’orientamento, espresso dalla Sezione delle Autonomie con deliberazione 24.03.2015 n. 11 e ripresa dal parere 14.04.2015 n. 211 di questa Sezione –e che l’Amministrazione dimostra di conoscere- in base al quale “la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe da ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene compiuta … e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata, bensì nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento”.
Alla luce di tale orientamento, pertanto,
il riferimento temporale ai fini dell’individuazione della disciplina da applicare va fissato nel momento dell’approvazione dell’opera, prescindendo dal momento in cui le prestazioni incentivate siano state in concreto poste in essere (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 17.12.2015 n. 568).

     Ed anche la Sez. Campania (col parere riportato a seguire) non ha dubbi laddove ha recentissimamente statuito quanto segue: "Già in costanza della previgente normativa, l’orientamento maggioritario delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva limitava fortemente le ipotesi di incentivazione per le attività di progettazione collegate ai servizi di manutenzione fino a giungere all’adozione di un’interpretazione restrittiva, in base alla quale “l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e traendone la conclusione che, a priori, "i lavori di manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le attività retribuibili con l’incentivo in questione”.
Ancora più restrittiva appare la novella normativa che esclude “tout court” che gli incentivi si estendano agli appalti di servizi di manutenzione ordinaria e straordinaria: le disposizioni di cui all'art. 13-bis, d.l. n. 90 del 2014, nel modificare il cit. art. 93, pur ricalcando in linea di massima il testo del previgente art. 92, comma 5, escludono “expressis verbis” (nel comma 7-bis) le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l'innovazione
".

INCENTIVO PROGETTAZIONEQuesta Sezione ha avuto già modo di affrontare numerose questioni interpretative attinenti alla novella normativa (art. 13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90) con il parere 23.02.2015 n. 20 (da intendersi qui integralmente richiamato), al quale si rinvia per una completa disamina della disciplina in materia.
In quella sede, venivano richiamati i principi generali e i divieti previsti o desumibili dalla normativa, con riferimento a:
- limite percentuale massimo complessivo e computo nel quadro economico;
- divieto di estensione dell’incentivo agli appalti di fornitura e servizi;
- rilevanza tecnica dei lavori e delle opere;
- necessario raggiungimento della fase di pubblicazione del bando di gara o di spedizione degli inviti;
- necessaria predeterminazione dei criteri di ripartizione dell’incentivo;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva complessiva;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva individuale;
- tassatività dell’elenco dei possibili beneficiari;
- tetto quantitativo individuale;
- principio di effettività delle attività incentivate;
- principio dell’alterità;
- divieto di redistribuzione delle quote di incentivo non ripartite a causa dell’affidamento all’esterno all’organico o all’assenza di attività connesse all’appalto da parte dei soggetti destinatari;
- divieto di distribuire quote di incentivo per atti di pianificazione non collegati direttamente alla realizzazione di opere pubbliche;
- necessaria sussistenza di un interesse pubblico all’erogazione di compensi incentivanti.

L’attività regolamentare e contrattuale degli enti locali non potrà non tenere conto dell’intero complesso dei principi e dei divieti sopra richiamati in via esemplificativa, onde non incorrere nella violazione del regime vincolistico cui soggiace l’attività di spesa nella materia “de qua”, con conseguenti effetti sul piano della responsabilità amministrativo-contabile.
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Va ribadito che l’incentivo per la progettazione dà luogo ad una ipotesi derogatoria del principio di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione, e non si presta pertanto a interpretazione analogica.
Altresì,
si ritiene che la possibilità di corrispondere l’incentivo è strettamente limitata all’area degli appalti pubblici di lavori.
Già in costanza della previgente normativa, l’orientamento maggioritario delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva limitava fortemente le ipotesi di incentivazione per le attività di progettazione collegate ai servizi di manutenzione
fino a giungere all’adozione di un’interpretazione restrittiva, in base alla quale “l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e traendone la conclusione che, a priori, "i lavori di manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le attività retribuibili con l’incentivo in questione”.
Ancora più restrittiva appare la novella normativa che esclude “tout court” che gli incentivi si estendano agli appalti di servizi di manutenzione ordinaria e straordinaria: le disposizioni di cui all'art. 13-bis, d.l. n. 90 del 2014, nel modificare il cit. art. 93, pur ricalcando in linea di massima il testo del previgente art. 92, comma 5, escludono “expressis verbis” (nel comma 7-bis) le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l'innovazione.
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Va qui richiamato quanto già precisato da questa Sezione in relazione al
la “ratio” delle disposizioni in commento, volte, da un lato, a contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione, dall’altro a incentivare i dipendenti delle pubbliche amministrazioni che svolgono attività professionali strettamente connesse alla realizzazione di opere pubbliche.
Soltanto tali finalità possono giustificare la deroga al principio dell’onnicomprensività del trattamento economico per il personale coinvolto, per cui qualunque previsione derogatoria è da considerarsi di natura speciale e intesa a consentire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne ad ogni amministrazione e ad assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che la stessa amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno gli incarichi tecnici.
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“I collaboratori”, cui fa riferimento la norma, sono da individuare esclusivamente tra il personale del ruolo tecnico che partecipa alla redazione dei vari elaborati del progetto o del piano della sicurezza ovvero al compimento di specifiche attività, quali la direzione lavori e il collaudo, al fine di valorizzare le professionalità interne e di limitare nel contempo, nell’ottica del contenimento della spesa, il conferimento di incarichi esterni professionali.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco della Città metropolitana di Napoli ha formulato, con un’unica istanza, due articolate richieste di parere.
Con un primo quesito, ... 
Con un secondo quesito, si rappresenta quanto segue: “a seguito del decreto legge 24.06.2014 n. 90 convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014 n. 114 questo Ente ha in corso l’adozione del nuovo regolamento per fissare i criteri per l’utilizzo del fondo per la progettazione e l’innovazione. Si chiede di conoscere se, alla luce della nuova disciplina legislativa, è possibile prevedere la corresponsione dell’incentivo nel caso di manutenzione ordinaria e straordinaria per le quali è prevista un’attività di progettazione.
Si chiede, altresì, se è possibile la corresponsione dell’incentivo ai collaboratori amministrativi dei soggetti (es. rup, progettisti, direttore dei lavori, ecc.) coinvolti nel procedimento di progettazione e realizzazione dell’opera e/o del lavoro
”.
...
Quanto al secondo quesito, va parimente esclusa qualsiasi valutazione sulle prospettate modifiche che l’ente intende apportare al Regolamento per fissare i criteri per l’utilizzo del fondo per la progettazione e l’innovazione. Va, infatti, evitato qualsiasi coinvolgimento della Sezione regionale di controllo nell’attività regolamentare dell’ente, consistente, come richiesto nel caso di specie, nella valutazione “ex ante” della legittimità dei contenuti di un atto regolamentare.
Esclusivamente in relazione alla disamina dei principi generali desumibili dalla normativa in materia di incentivi per la progettazione, inseriti nel più ampio quadro delle norme di contenimento della spesa, possono svolgersi le seguenti considerazioni.
L’art. 93 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163 è stato oggetto di modifiche mediante l’art. 13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90, recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114.
Il cit. d.l. 24.06.2014, n. 90 ha inoltre abrogato il comma 5 dell’art. art. 92, comma 5.
Nel merito,
questa Sezione ha avuto già modo di affrontare numerose questioni interpretative attinenti alla predetta novella normativa con il parere 23.02.2015 n. 20 (da intendersi qui integralmente richiamato), al quale si rinvia per una completa disamina della disciplina in materia.
In quella sede, venivano richiamati i principi generali e i divieti previsti o desumibili dalla normativa, con riferimento a:
- limite percentuale massimo complessivo e computo nel quadro economico;
- divieto di estensione dell’incentivo agli appalti di fornitura e servizi;
- rilevanza tecnica dei lavori e delle opere;
- necessario raggiungimento della fase di pubblicazione del bando di gara o di spedizione degli inviti;
- necessaria predeterminazione dei criteri di ripartizione dell’incentivo;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva complessiva;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva individuale;
- tassatività dell’elenco dei possibili beneficiari;
- tetto quantitativo individuale;
- principio di effettività delle attività incentivate;
- principio dell’alterità;
- divieto di redistribuzione delle quote di incentivo non ripartite a causa dell’affidamento all’esterno all’organico o all’assenza di attività connesse all’appalto da parte dei soggetti destinatari;
- divieto di distribuire quote di incentivo per atti di pianificazione non collegati direttamente alla realizzazione di opere pubbliche;
- necessaria sussistenza di un interesse pubblico all’erogazione di compensi incentivanti.

L’attività regolamentare e contrattuale degli enti locali non potrà non tenere conto dell’intero complesso dei principi e dei divieti sopra richiamati in via esemplificativa, onde non incorrere nella violazione del regime vincolistico cui soggiace l’attività di spesa nella materia “de qua”, con conseguenti effetti sul piano della responsabilità amministrativo-contabile.
Per quanto qui più interessa,
va ribadito che l’incentivo per la progettazione dà luogo ad una ipotesi derogatoria del principio di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione, e non si presta pertanto a interpretazione analogica (ex multis, Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 28.05.2014 n. 188; Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24; Sez. controllo Piemonte, Piemonte parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana, parere 13.11.2012 n. 293 e parere 19.03.2013 n. 15).
Quanto alle tipologie di attività di progettazione comprese nel novero delle norme, nel confermare il maggioritario orientamento delle Sezioni regionali di controllo,
si ritiene che la possibilità di corrispondere l’incentivo è strettamente limitata all’area degli appalti pubblici di lavori.
Già in costanza della previgente normativa, l’orientamento maggioritario delle Sezioni regionali di controllo in sede consultiva limitava fortemente le ipotesi di incentivazione per le attività di progettazione collegate ai servizi di manutenzione (Sez. controllo Puglia, parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114) fino a giungere all’adozione di un’interpretazione restrittiva, in base alla quale “l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e traendone la conclusione che, a priori, "i lavori di manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le attività retribuibili con l’incentivo in questione (Sez. controllo Toscana, parere 19.03.2013 n. 15; Sez. Liguria, parere 10.05.2013 n. 24).
Ancora più restrittiva appare la novella normativa che esclude “tout court” che gli incentivi si estendano agli appalti di servizi di manutenzione ordinaria e straordinaria: le disposizioni di cui all'art. 13-bis, d.l. n. 90 del 2014, nel modificare il cit. art. 93, pur ricalcando in linea di massima il testo del previgente art. 92, comma 5, escludono “expressis verbis” (nel comma 7-bis) le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l'innovazione (Sezione regionale di controllo per la Liguria, parere 24.10.2014 n. 60, Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 28.10.2015 n. 490).
Quanto al novero dei soggetti potenzialmente destinatari degli incentivi si ritiene di riportare il testo del cit. art. 93, il quale prevede che: “7. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori, alla vigilanza e ai collaudi, nonché agli studi e alle ricerche connessi, gli oneri relativi alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e dei piani generali di sicurezza quando previsti ai sensi del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494, gli oneri relativi alle prestazioni professionali e specialistiche atte a definire gli elementi necessari a fornire il progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, ivi compresi i rilievi e i costi riguardanti prove, sondaggi, analisi, collaudo di strutture e di impianti per gli edifici esistenti, fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento e all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente articolo
”.
Evidentemente, anche in ragione della specificità della richiesta di parere prospettata dall’ente istante e delle conseguenze che dalle scelte gestionali potrebbero derivare in termini di responsabilità amministrativo contabile, questa Sezione non può esprimersi nel dettaglio circa i destinatari degli incentivi.
Tuttavia, va qui richiamato quanto già precisato da questa Sezione nel citato parere 23.02.2015 n. 20 in relazione al
la “ratio” delle disposizioni in commento, volte, da un lato, a contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione, dall’altro a incentivare i dipendenti delle pubbliche amministrazioni che svolgono attività professionali strettamente connesse alla realizzazione di opere pubbliche.
Soltanto tali finalità possono giustificare la deroga al principio dell’onnicomprensività del trattamento economico per il personale coinvolto, per cui qualunque previsione derogatoria è da considerarsi di natura speciale e intesa a consentire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne ad ogni amministrazione e ad assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che la stessa amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno gli incarichi tecnici.

Prescindendo dai profili più strettamente contrattuali di pertinenza di altre sedi magistratuali, da una interpretazione teleologica e sistematica, oltre che letterale, delle disposizioni in parola deriva, ai fini giuscontabili qui in esame, che
i collaboratori”, cui fa riferimento la norma, sono da individuare esclusivamente tra il personale del ruolo tecnico che partecipa alla redazione dei vari elaborati del progetto o del piano della sicurezza ovvero al compimento di specifiche attività, quali la direzione lavori e il collaudo, al fine di valorizzare le professionalità interne e di limitare nel contempo, nell’ottica del contenimento della spesa, il conferimento di incarichi esterni professionali (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 21.12.2015 n. 254).

     A questo punto, pertanto, non ci resta che attendere il responso definitivo da Roma.
31.12.2015 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAL’ordine di demolizione non si prescrive. L’ordine di demolizione del manufatto abusivo è una sanzione amministrativa e non si prescrive.
Cassazione. La rimozione dell’abuso edilizio è una sanzione amministrativa che ha scopo di tutelare il territorio.

Con la sentenza 15.12.2015 n. 49331, la Corte di Cassazione ricorda che l’ordine di demolizione anche, se arriva dal giudice penale, non ha finalità punitive. L’intervento non può dunque essere considerato una sanzione penale, nel senso indicato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma ha il solo scopo di tutelare il territorio riportando i luoghi nello stato in cui erano prima dell’abuso.
La Suprema corte accoglie il ricorso del Pm contro l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato estinto per «decorso del tempo» l’ordine di demolizione di alcuni immobili abusivi. Alla base della scelta la convinzione che l’atto, qualificato come pena secondo i principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, fosse ormai prescritto come indicato dall’articolo 173 del codice penale che prevede l’estinzione delle pene, dell’arresto e dell’ammenda dopo 5 anni. Una conclusione che parte da premesse sbagliate.
Il Procuratore della Repubblica chiede alla Cassazione di annullare un’ordinanza adottata senza tenere conto che l’ordine di demolizione, come affermato anche dalla dottrina, é una sanzione amministrativa di tipo ablatorio, accessoria alla sentenza di condanna impartita dal giudice penale. Il Pm nel suo ricorso sottolinea le differenze esistenti tra l’ordine di demolizione e la confisca, applicabile in caso di lottizzazione abusiva: distinguo che sottraggono la prima alla prescrizione.
l ricorso è fondato su solide ragioni. Per la Suprema corte il Tribunale si è concentrato, sbagliandone l’interpretazione sulla giurisprudenza di Strasburgo, senza considerare la vigente disciplina urbanistica (Dpr 380/2001) che regola la procedura di demolizione degli immobili abusivi. Nel mirino finisce il solo immobile “irregolare” che può essere demolito d’ufficio a prescindere dall’accertamento delle responsabilità. L’ordine di demolizione come sanzione amministrativa non presuppone, infatti, la sussistenza di un danno né un elemento psicologico del responsabile dell’abuso ed è applicabile, anche in caso di violazioni incolpevoli, tanto alle persone fisiche come a quelle giuridiche e agli enti di fatto e in alcuni casi persino “trasmissibile” agli eredi del responsabile o a chi acquista la disponibilità del bene.
Il provvedimento finalizzato alla demolizione ha una sua autonomia rispetto a quanto avviene in sede di processo penale tanto è vero -sottolinea la Cassazione- che neppure il sequestro penale dell’immobile è di ostacolo alla sua “distruzione”. Una lettura che non si pone in contrasto con le norme Cedu: per l’interpretazione di Strasburgo la demolizione, a differenza della confisca, non è una pena (sentenza 20.01.2009 caso Sud Fondi contro Italia)
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
3. Nel concentrare, infatti, l'attenzione sull'analisi della giurisprudenza della Corte EDU, il Tribunale ha del tutto omesso di considerare nel suo complesso l'articolata procedura relativa alla demolizione degli immobili abusivi delineata dalla vigente disciplina urbanistica.
L'art. 27 del d.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale il potere dovere di vigilare, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale, al fine di assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il medesimo articolo, al comma 2, stabilisce che il dirigente o il responsabile dell'ufficio tecnico comunale, «quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi".
Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al R.D. 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora d.lgs. n. 42 del 2004), il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.
Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora articoli 13 e 14 del d.lgs. n. 42 del 2004) o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del Titolo Il del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora Parte Terza del d.lgs. n. 42 del 2004), il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662.
Si tratta, in tali casi, della c.d. demolizione d'ufficio, la quale non è preceduta da alcuna attività procedimentale finalizzata all'individuazione di soggetti responsabili o alla irrogazione di sanzioni, in quanto la norma attribuisce, al responsabile dell'ufficio tecnico ed agli altri soggetti indicati, la possibilità di diretta azione per la demolizione del manufatto abusivo durante tutto il corso della sua esecuzione ed in tutti i casi di contrasto con la disciplina urbanistica e gli strumenti urbanistici, da eseguirsi con le modalità indicate dall'art. 41 d.P.R. 380/2001.
Al di fuori delle ipotesi sopra ricordate, l'art. 27, comma 3, d.P.R. 380/2001 stabilisce che, «qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi quindici giorni dalla notifica il dirigente o il responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può procedere al sequestro del cantiere».
li successivo comma 4 dispone, inoltre, che «gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere e dispone gli atti conseguenti».
Per le opere eseguite da amministrazioni statali provvede l'art. 28 d.P.R. 380/2001, imponendo al responsabile del competente ufficio comunale, qualora ricorrano le ipotesi di cui all'articolo 27, di informare immediatamente la regione e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, al quale compete, d'intesa con il presidente della giunta regionale, la adozione dei provvedimenti previsti dal richiamato articolo 27.
4. Le disposizioni in precedenza ricordate prevedono, dunque, un immediato intervento demolitorio, effettuato d'ufficio sul solo presupposto della presenza sul territorio di un immobile abusivo, perché eseguito in assenza di titolo abilitativo o in difformità dalle norme urbanistiche o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, che prescinde da qualsivoglia accertamento di responsabilità, riguarda esclusivamente l'immobile ed ha, quale unico scopo, la sua eliminazione ed il ripristino dell'originario stato del territorio.
A ciò si aggiunge, per gli interventi diversi da quelli soggetti a demolizione d'ufficio, la possibilità di interventi cautelari urgenti di cui all'art. 27, comma 3, e la particolare procedura di segnalazione dell'abuso da parte della polizia giudiziaria di cui all'art. 27, comma 4, che vede distinti gli obblighi di segnalazione all'autorità giudiziaria ed a quella amministrativa per l'adozione dei provvedimenti di competenza di quest'ultima.
Il successivo art. 31 d.P.R. 380/2001 disciplina, inoltre, l'ingiunzione alla demolizione delle opere eseguite in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, disposizioni applicabili, secondo quanto disposto dal comma 9-bis del medesimo articolo, anche agli interventi eseguiti in base a d.i.a. sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R. 380/2001.
Accertata l'esecuzione di tali interventi, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve ingiungere al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che, in caso di inottemperanza , viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3 (il comma 4 stabilisce, inoltre, che l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente).
I successivi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, introdotti dalla legge 164/2014, prevedono anche, in caso di accertata inottemperanza, l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti, la quale, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.
Le regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma 4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione. I proventi delle sanzioni spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.
L'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del comune ha, quale finalità, la demolizione a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
Il comma 8 dell'art. 31 individua i poteri sostitutivi del competente organo regionale in caso di inerzia.
L'art. 31, al comma 9, infine, dispone che, per le opere abusive cui esso si riferisce, «il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita».
5. Come si evince dal complesso delle disposizioni appena richiamate,
la disciplina urbanistica individua la demolizione dell'abuso edilizio come un'attività avente finalità ripristinatorie dell'originario assetto del territorio imposta all'autorità amministrativa, che deve provvedervi direttamente nei casi previsti dall'art. 27, comma 2, o attraverso la procedura di ingiunzione.
Si tratta, come osservato anche dalla più attenta dottrina, di sanzioni amministrative che prescindono dalla sussistenza di un danno e dall'elemento psicologico del responsabile, in quanto applicabili anche in caso di violazioni incolpevoli, sono rivolte non solo alle persone fisiche, ma anche alle persone giuridiche ed agli enti di fatto e sono generalmente trasmissibili nei confronti degli eredi del responsabile (v., ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del 30.05.2011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene (v., ad es. Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4, n. 6554 del 24.12.2008. V. anche n. Cass. Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti, Rv. 245918).
La particolarità della demolizione ha portato, sempre in dottrina, anche a dubitare della riconducibilità della stessa nel novero delle sanzioni amministrative propriamente dette ed ha indotto ad operare anche una condivisibile distinzione tra natura «ripristinatoria» della demolizione, natura «riparatoria» dell'interesse pubblico leso dell'acquisizione gratuita e delle sanzioni pecuniarie alternative alla demolizione e natura «punitiva» delle sanzioni pecuniarie aggiuntive alla riduzione in pristino, nonché quelle conseguenti all'inottemperanza all'ingiunzione a demolire.
6. Va altresì rilevato che, considerato il complesso delle disposizioni sopra richiamate,
i provvedimenti finalizzati alla demolizione dell'immobile abusivo adottati dall'autorità amministrativa risultano completamente autonomi rispetto alle eventuali statuizioni del giudice penale e, più in generale, alle vicende del processo penale, tanto è vero che si è affermato, ad esempio, come il sequestro penale dell'immobile non sia ostativo alla demolizione (v., ad es,. Consiglio di Stato Sez. 6, n. 3626 del 09.07.2013; Sez. 4, n. 1260 del 06.03.2012. V. anche Cass. Sez. 3, n. 17188 del 24/03/2010, Marinelli, Rv. 247152; Sez. 3, n. 9186 del 14/01/2009, RM. in proc. Mancini e altro, Rv. 243098)
7.
Per ciò che concerne, in particolare, la demolizione ordinata dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R., 380/2001, va rilevato, in primo luogo, che la disposizione si pone in continuità normativa con il previgente art. 7 della legge 47/1985 (Sez. 3, n. 32211 del 29/05/2003, Di Bartolo, Rv. 225548) e costituisce atto dovuto del giudice penale, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo al quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez.3, n. 37906 del 22/05/2012, Mascia ed altro, non massimata; Sez. 6, n. 6337 del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511 ed altre prec. conf. Ma si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep. 1997), Luongo, Rv. 206659).
La disposizione, inoltre, si pone come norma di chiusura del complesso sistema sanzionatorio amministrativo in precedenza descritto (cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308 del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699).
Quanto alla sua natura, va osservato che trattasi di una sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio ed ha carattere reale.
Per tali ragioni, l'ordine di demolizione impartito dal giudice può essere revocato dallo stesso giudice che lo ha emesso quando risulti incompatibile con un provvedimento adottato dall'autorità amministrativa, indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza
(Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972; Sez. 3, n. 3456 del 21/11/2012 (dep.2013), Oliva, Rv. 254426; Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050 Sez. 3, n. 73 del 30/04/1992, Rizzo, Rv. 190604; Sez. 3, n. 3895 del 12/02/1990, Migno, Rv. 183768), ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto (Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep. 2011), D'Avino, Rv. 249309; Sez. 3, n. 6579 del 01/04/1994, Galotta ed altri, Rv. 198063; Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699, cit.).
Il giudice può inoltre emettere l'ordine di demolizione anche nell'ipotesi dell'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. indipendentemente dall'accordo delle parti ed esso resta eseguibile indipendentemente dal decorso del termine previsto dall'art. 445, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 18533 del 23/3/2011, Abbate, Rv. 250291), dovendosi escludere la sua natura di pena accessoria (Sez. 3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv. 240539; Sez. 6, n. 2880 del 10/06/2002 (dep. 2003), Gobbi, Rv. 223716; Sez. 3, n. 64 del 14/1/1998, P.M. in proc. Corrado F, Rv. 210128 ed altre prec. conf.), il che determina anche la inapplicabilità della sospensione condizionale della pena (Sez. 3, n. 34297 del 05/07/2007, Moretti, Rv. 237220; Sez. 3, n. 36555 del 09/07/2002, Prencipe, Rv. 222485; Sez. 3, n. 2294 del 18/06/1999, Neri F, Rv. 215070 ed altre prec. conf.).
In caso di omessa statuizione da parte del primo giudice, l'ordine può essere impartito dal giudice dell'appello (Sez. 5, n. 13812 del 11/11/1999, Giovannella F ed altro, Rv. 214608) o direttamente dalla Corte di cassazione (Sez. 3, n. 18509 del 15/1/2015, RG. in proc. Gioffrè, Rv. 263557; Sez. 3, n. 1365 del 18/09/1992, P.M. in proc. Marchese, Rv. 192057).
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non impedisce, come si è accennato in precedenza, la demolizione (Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802; Sez. 3, n. 801 del 2/12/2010 (dep. 2011), Giustino e altri, Rv. 249129; Sez. 3, n. 45301 del 7/10/2009, Roscetti, Rv. 245213 ed altre prec. conf.), così come la sua locazione (Sez. 3, n. 37051 del 08/07/2003, Moressa, Rv. 226319) e l'ordine demolitorio non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317; Sez. 3, n. 3720 del 24/11/1999 (dep. 2000), Barbadoro G, Rv. 215601).
La sua efficacia, poi, si estende all'intero manufatto, comprensivo di aggiunte o modifiche successive all'esercizio dell'azione penale e/o alla condanna per il reato edilizio (Sez. 3, n. 38947 del 9/7/2013, Amore, Rv. 256431; Sez. 3, n. 21797 del 27/4/2011, Apuzzo, Rv. 250389 ed altre prec. conf.). Esso opera anche in caso di avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio comunale (Sez. 3, n. 26149 del 09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, Sentenza n. 37120 del 08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321).
8.
La natura dell'ordine di demolizione impartito dal giudice è stata presa in considerazione anche con riferimento alla questione oggetto del presente procedimento, concernente la eventuale estinzione dello stesso per il decorso del tempo.
Si è così stabilito che
l'ordine impartito dal giudice, che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non è soggetto alla prescrizione quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative dall'art. 28 della l. 689/1981, che riguarda le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 16537 del 18/02/2003, Filippi, Rv. 227176) e, stante la sua natura di sanzione amministrativa, non si estingue neppure per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del 7/7/2015, Formisano, non ancora massimata; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670), atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv. 226573).
9. I principi in precedenza menzionati sono pienamente condivisi dal Collegio, che ad essi intende dare continuità. Essi non si pongono, inoltre, in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU che il provvedimento impugnato richiama.
Va a tale proposito rilevato come questa Corte abbia già avuto modo di affermare la compatibilità dell'ordine di demolizione e del sequestro eseguiti dopo la cessione a terzi del manufatto abusivo con le norme CEDU, come interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009, nel caso Sud Fondi c/ Italia (Sez. 3, n. 48925 del 22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918. Nello stesso senso, Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403).
Si è in quell'occasione precisato che proprio considerando le argomentazioni sviluppate dalla Corte di Strasburgo poteva ricavarsi che
la demolizione, a differenza della confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua essenza a punire per impedire la reiterazione di trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Si osservava, inoltre, che
la sentenza «nel mentre ha ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di demolizione delle opere abusive incompatibili con le disposizioni degli strumenti urbanistici eventualmente accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli abilitativi illegittimi. Sembra quindi confermato che la invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha escluso un sequestro o un ordine di demolizione dell'opera contrastante con le norme urbanistiche nei confronti di chiunque ne sia in possesso, anche qualora si tratti di terzo acquirente estraneo al reato, ma ha addirittura implicitamente ritenuto che una tale sanzione ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai ricorrenti».
10. Tali considerazioni vanno qui ribadite, ricordando anche come autorevole dottrina abbia recentemente ricordato, nel commentare la «sentenza Varvara» (Corte EDU Varvara c. Italia, del 29/10/2013) e la lettura datane dalla Corte Costituzionale (sent. 49/2015), che le sentenze della Corte europea non vanno interpretate ricorrendo all'apparato concettuale e linguistico proprio del diritto interno, in quanto la Corte, quando non utilizza termini che richiamano espressamente il significato che essi hanno nel diritto nazionale, utilizza nozioni definite «autonome», rilevando anche come un diverso approccio potrebbe portare a incomprensioni o distorsioni foriere di gravi conseguenze.
11. Alla luce delle considerazioni sopra svolte deve dunque pervenirsi alla conclusione che
l'ordine di demolizione dell'immobile abusivo impartito dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, diversamente da quanto sostenuto nell'impugnato provvedimento, non ha affatto natura di sanzione penale nel senso individuato dalla normativa CEDU, ostandovi non soltanto la qualificazione giuridica attribuitagli attraverso l'analisi giurisprudenziale, dianzi ricordata, ma anche il fatto che la demolizione imposta dal giudice, come si è più volte rilevato in precedenza, non ha finalità punitive.
L'intervento del giudice penale si colloca, come pure si è detto, a chiusura di una complessa procedura amministrativa finalizzata al ripristino delle originario assetto del territorio alterato dall'intervento edilizio abusivo, nell'ambito del quale viene considerato il solo oggetto del provvedimento (l'immobile da abbattere), prescindendo del tutto dall'individuazione di responsabilità soggettive, tanto che la demolizione si effettua anche in caso di alienazione del manufatto abusivo a terzi estranei al reato, i quali potranno poi far valere in altra sede le proprie ragioni.
L'intervento del giudice penale, inoltre, non è neppure scontato, dato che egli provvede ad impartire l'ordine di demolizione se la stessa ancora non sia stata altrimenti eseguita.

12. Va conseguentemente affermato il seguente principio di diritto:
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..

UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Agenti inquinanti aria indoor: la guida al gas radon.
Guida al gas radon, un nuovo opuscolo del Ministero sugli effetti dell’esposizione al radon e le misure per prevenirne i rischi (... continua) (30.12.2015 - link a www.acca.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILe (povere) pensioni del 2016 - Adeguamenti e riforma Fornero tagliano gli assegni e alzano l’età pensionabile (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: FONDO PREVIDENZA COMPLEMENTARE “PERSEO SIRIO” NON FACCIAMOCI INGANNARE (CSA di Milano, nota 14.12.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI: G.U. 30.12.2015 n. 302, suppl. ord. n. 70/L, "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)" (Legge 28.12.2015 n. 208).
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Si legga anche: Legge di stabilità 2016, ok definitivo dal Senato. Tutte le misure comma per comma.
Nel 2016 risorse pari a 2,4 miliardi per le infrastrutture, le periferie e l'edilizia scolastica (22.12.2015 - link a www.casaeclima.com).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 30.12.2015 n. 302 "Modalità tecniche di emissione della Carta d’identità elettronica" (Ministero dell'Interno, decreto 23.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 30.12.2015 n. 302 "Proroga di termini previsti da disposizioni legislative" (D.L. 30.12.2015 n. 210).
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Si legga anche: Milleproroghe, slitta al 01.01.2017 la pubblicazione telematica di bandi di gara e avvisi.
Prorogato al 30.04.2016 il termine per l'affidamento dei lavori di messa in sicurezza degli edifici scolastici (24.12.2015 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 53 del 30.12.2015, "Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) - Collegato 2016" (L.R. 29.12.2015 n. 42).
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Di interesse si leggano:
Art. 7 - (Modifiche agli articoli 1, 17 e 20 della l.r. 19/2008)
Art. 15 - (Modifiche all’articolo 1 della l.r. 35/2014)
Art. 16 - (Modifiche all’articolo 8 della l.r. 33/2015)
Art. 20 - (Personale trasferito in Regione in attuazione della legge 07.04.2014, n. 56)

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 29.12.2015 n. 301 "Regolamento in materia di parametri fisici per l’ammissione ai concorsi per il reclutamento nelle Forze armate, nelle Forze di polizia a ordinamento militare e civile e nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco, a norma della legge 12.01.2015, n. 2" (D.P.R. 17.12.2015 n. 207).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 28.12.2015 n. 300 "Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2016" (D.P.C.M. 21.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 28.12.2015, "Nono aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 21.12.2015 n. 11595).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 24.12.2015, "Modulistica unificata e standardizzata per la presentazione della denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire (DIA): adeguamento della modulistica nazionale alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia e integrazioni alla d.g.r. n. 3543 dell’08.05.2015" (deliberazione G.R. 17.12.2015 n. 4601).
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Si legga (utilizzi) anche la modulistica senza l'intestazione del BURL.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 22.12.2015 "Approvazione delle linee guida per l’infrastruttura di ricarica dei veicoli elettrici" (deliberazione G.R. 14.12.2015 n. 4593).
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Di interesse si leggano i seguenti punti:
6 DISPOSIZIONI PER GLI ENTI LOCALI
6.1 Pianificazione e predisposizione dei progetti delle infrastrutture di ricarica
6.2 Strumenti di supporto da parte degli Enti Locali

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 21.12.2015 n. 296 "Regolamento recante norme regolamentari in materia di revisioni periodiche, di adeguamenti tecnici e di varianti costruttive per i servizi di pubblico trasporto effettuati con funivie, funicolari, sciovie e slittinovie destinate al trasporto di persone" (Ministero delle Infrastrutture ed ei Trasporti, decreto 01.12.2015 n. 203).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

VARI: OGGETTO: Sede dell’impresa individuale - Richiesta chiarimenti (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 28.12.2015 n. 283970 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: entrata in vigore delle sanzioni (ANCE di Bergamo, circolare 22.12.2015 n. 239).

APPALTI: Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – responsabilità solidale in materia contributiva – limite di due anni (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 15.12.2015 n. 29/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche RAEE - Istruzioni operative per la gestione e lo smaltimento dei pannelli fotovoltaici incentivati (ai sensi dell’art. 40 del D.Lgs. 49/2014) (G.S.E. - Gestore Servizi Energetici, 14.12.2015).

VARIOggetto: Accertamenti su copertura assicurativa. Termini di validità e applicazione artt. 180-193 del Codice della Strada (Ministero dell'Interno, nota 10.12.2015 n. 8593 di prot.).

ENTI LOCALI: Oggetto: D.P.C.M. 29.08.2014 n. 171, art. 16, comma 2, lett. o), Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane - "Attività di vigilanza sulla realizzazione delle opere d'arte negli edifici pubblici ai sensi della legge 29.07.1949, n. 717 e successive modificazioni" (MIBACT, nota 10.12.2015 n. 2798 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: chiarimenti interpretativi e disposizioni applicative in materia di distanze relative agli artt. da 900 "Specie di finestre" a 907 "Distanza delle costruzioni dalle vedute" c.c. (Comune di Verona, circolare 24.11.2015 n. 59).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Cumulabilità del congedo parentale fruito in modalità oraria con altri riposi o permessi. Chiarimenti (INPS, messaggio 03.11.2015 n. 5704 - link a www.inps.it).

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Decreto legislativo n. 80 del 15.06.2015 in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9 della legge delega n. 183 del 2014 (Jobs Act) - Fruizione del congedo parentale in modalità oraria (INPS, circolare 18.08.2015 n. 152 - link a www.inps.it).

VARI: OGGETTO: Sede dell’imprenditore individuale - Richiesta parere (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 14.01.2013 n. 5095 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Sportello unico per l'edilizia, nuove norme nel Collegato ambientale.
La tutela dell'assetto idrogeologico entra nelle materie di competenza dello sportello unico (28.12.2015 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il “tempo” dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori in caso di s.ci.a. Certezza del diritto, tutela dei terzi e falsi miti - Riflessioni a margine della legge 07.08.2015, n. 124 (23.12.2015 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La configurazione del potere di autotutela caducatoria tra la storicità delle proprie radici e la nuova veste attribuita dalla legge 124/2015 – 2. Il rapporto tra autotutela e principio di legalità così come rivisitato alla stregua del limite temporale imposto per l’annullamento d’ufficio. Riflessioni in ambito nazionale e sovranazionale. – 3. Autotutela e potere inibitorio della p.a.: il nuovo art. 19, commi 3 e 4. – 4. Potere di autotutela e sospensione: art. 21-quater, comma 2. Cenni. – 5. La deroga al termine dei diciotto mesi: l’art. 21-nonies, comma 2-bis. – 6. Considerazioni di sintesi.

APPALTI - AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE: Green economy, il Collegato ambientale è legge. Focus sulle (tante) novità.
Modifiche alla disciplina dei sistemi efficienti di utenza (SEU), appalti verdi, credito di imposta alle imprese per la bonifica dell'amianto, fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico (22.12.2015 - link a www.casaeclima.com).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Linee Guida per lo svolgimento delle Ispezioni.
Sono state pubblicate le “Linee Guida per lo Svolgimento delle Ispezioni”, un documento volto a regolare e definire l’attività ispettiva dell’ANAC in tutte le materie sottoposte alla vigilanza della stessa, attraverso l’indicazione di precise regole comportamentali e di specifici protocolli adottabili in tale sede, al fine precipuo di assicurare adeguata trasparenza e omogeneità nella conduzione della delicata ed importante attività accertativa svolta fuori sede (14.12.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTILe clausole sociali devono garantire appalti efficienti. Lavoro. Cantone: conta la scelta d’impresa.
La clausola sociale che impone il riassorbimento dei lavoratori nel passaggio tra un appaltatore e un altro non deve ostacolare la possibilità di organizzare in modo più efficiente la gestione del contratto. Giusto tutelare i lavoratori, ma l'impresa che subentra nel contratto deve essere libera di organizzarsi al meglio puntando alla massima efficienza possibile.
In sintesi è quello che l'Autorità Anticorruzione ha messo nero su bianco nel  parere 10.12.2015 n. 16723 di prot. rilasciato alla commissione Lavoro del Senato (su richiesta del presidente Maurizio Sacconi) che ha avanzato dei dubbi sulle clausole sociali contenute in più punti del disegno di legge delega per la riforma degli appalti, licenziato la settimana scorsa dalla commissione lavori pubblici di Palazzo Madama.
Per il presidente dell'Autorità Raffaele Cantone, che ha firmato il parere, «il riassorbimento dei lavoratori deve essere armonizzabile con l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto». Corollario: l'applicazione della clausola sociale può essere consentita soltanto dopo aver valutato la sua «compatibilità con l'organizzazione di impresa».
«La clausola sociale -chiarisce Cantone-, non può alterare o forzare la valutazione dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento dell'impresa e, in tal senso, non può imporre un obbligo di integrale riassorbimento dei lavoratori del pregresso appalto, senza adeguata considerazione delle mutate condizioni del nuovo appalto, del contesto sociale e di mercato o del contesto imprenditoriale in cui dette maestranze si inseriscono».
«Prevale e non può che essere così -ha commentato Sacconi- , l'esigenza di garantire ai servizi in appalto una sempre maggiore efficienza che, nel caso dell'appaltante pubblico, significa un determinante contributo alla spending review. Cosa ben diversa è il dumping sociale di coloro che non rispettano i minimi contrattuali».
L'interpretazione di Cantone è stata fatta propria dalla commissione Lavoro, che nel parere sulla delega appalti ha chiesto di rivedere i quattro punti del provvedimento che impongono al governo di tenere conto della stabilità occupazionale nella riforma del sistema dei contratti pubblici da varare al più tardi entro luglio 2016.
Tra questi figura anche l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori nell'avvicendamento degli appalti relativi ai call center. Difficile che il testo della delega arrivato al traguardo della terza lettura in Senato, dopo oltre un anno di cammino parlamentare,venga a questo punto ritoccato, imponendo un nuovo passaggio alla Camera. Ma è chiaro che l'interpretazione dell'Authority non potrà essere ignorata nella stesura del nuovo codice.
Da parte di Cantone è arrivata poi anche una nuova bocciatura del maxi appalto da 157milioni bandito dal Comune di Bologna per assegnare in un colpo solo la manutenzione degli impianti e delle strutture degli edifici comunali. Appalto giudicato «restrittivo della concorrenza» per non essere stato suddiviso in più lotti, favorendo la partecipazione delle Pmi
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAddio alle clausole sociali. È libera l'azienda subentrante negli appalti. Il presidente dell'Anac Raffaele Cantone sulle misure del ddl delega.
Stop alle clausole sociali nei cambi di appalto. L'azienda subentrante non sarà costretta, come oggi, ad assumere il personale in forza nell'azienda cedente. Il riassorbimento, infatti, sarà armonizzabile con l'organizzazione dell'impresa subentrante. Ciò vuol dire che, qualora il cambio d'appalto avvenga tra un'azienda poco e una più informatizzata, il riassorbimento del personale sarà condizionato e limitato alle reali necessità di manodopera della nuova azienda.

A stabilirlo è il ddl delega sugli appalti pubblici, che giovedì ha ricevuto l'ok della commissione lavoro sulla base anche del parere positivo di Raffaele Cantone, presidente dell'Anac, espresso nella nota 10.12.2015 n. 16723 di prot..
Le clausole sociali. Le clausole sociali sono speciali patti, generalmente di natura contrattuale, che impongono a carico dei soggetti appaltatori o concessionari di pubblici servizi, nella fase di esecuzione dell'appalto, vincoli che condizionano oppure limitano la libertà d'iniziativa economica, al fine di tutelare interessi collettivi dal punto di vista sociale.
La fonte normativa è l'art. 69 del dlgs n. 163/2006 che riconosce la piena legittimità alla previsione di patti del genere da parte delle stazioni appaltanti, se attinenti «a esigenze sociali o ambientali».
Nella traduzione pratica, questi patti costituiscono «clausole sociali» (di cui sono pieni di disciplinari di gara): veri e propri obblighi per l'impresa aggiudicataria che subentra nell'esecuzione di un appalto di garantire i livelli occupazionali, procedendo ad assumere il personale già in forza nell'impresa cessante.
Limiti alla libertà d'impresa. Le clausole sociali, evidentemente, limitano la concorrenza e libertà d'impresa riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione, perché restringe all'impresa l'ambito operativo entro cui può organizzare il proprio lavoro (nello specifico quello acquisito con un appalto).
Lavoro che non è solo rappresentato da impianti e attrezzature, ma anche dalla manodopera, per cui invece è stabilito l'obbligo del riassorbimento del personale già in servizio.
Stop alle clausole sociali. Il ddl delega sugli appalti pubblici prevede di limitare le clausole sociali o, quanto meno, una lettura diversa. Circa la legittimità delle nuove norme, che sostanzialmente mirano a rendere «legislativa» (e non più contrattuale) la previsione di clausole sociali (nei call center, per fare un esempio, sarà un decreto a disciplinarle), la commissione lavoro alla camera aveva chiesto due pareri all'autorità nazionale anticorruzione e all'autorità garante della concorrenza e del mercato (si veda ItaliaOggi del 3 dicembre).
Con la citata nota prot. n. 16723/2015, Cantone scrive alla commissione lavoro evidenziando «che, secondo il consolidato orientamento dell'Autorità, il riassorbimento dei lavoratori deve essere armonizzabile con l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto e che pertanto può essere consentito soltanto previa valutazione di compatibilità con l'organizzazione di impresa. La clausola sociale, infatti», aggiunge infine nella nota, «non può alterare o forzare la valutazione dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento dell'impresa e, in tal senso, non può imporre un obbligo d'integrale riassorbimento dei lavoratori del pregresso appalto, senza adeguata considerazione delle mutate condizioni del nuovo appalto, del contesto sociale e di mercato o del contesto imprenditoriale in cui dette maestranze si inseriscono» (articolo ItaliaOggi del 12.12.2015).

APPALTI: Appalti pubblici, i collegi arbitrali aperti agli ex magistrati. Dall'autorità nazionale anticorruzione gli aggiornamenti alla legge Severino.
Collegi arbitrali per appalti pubblici aperti ai magistrati in pensione; sanabili a posteriori le clausole compromissorie non autorizzate dai bandi di gara; arbitro di nomina pubblica non ricusabile.

Sono queste alcune delle indicazioni fornite dall'Autorità nazionale anticorruzione con la determinazione 10.12.2015 n. 13, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 300 del 28.12.2015 che aggiorna la precedente determina n. 6 del 18.12.2013 sulle modifiche apportate alla disciplina dell'arbitrato nei contratti pubblici dalla legge 190/2012 (cosiddetta legge Severino).
Con la legge 190 la disciplina degli arbitrati nei contratti pubblici è stata radicalmente modificata introducendo, per esempio, il divieto di nomina dei magistrati e degli avvocati dello stato nel collegio arbitrale e sottoponendo il ricorso all'arbitrato ad apposita autorizzazione dell'organo amministrativo della stazione appaltante.
L'intervento dell'Anac si è reso necessario per chiarire alcuni profili interpretativi che possono avere rilevanza per l'attività della camera arbitrale costituita presso Anac, e risolvere alcuni dubbi di diritto transitorio. In particolare la determina chiarisce che il divieto di nomina dei magistrati, degli avvocati dello stato e dei componenti delle commissioni tributarie opera per quelli in servizio, mentre potendo essere nominati coloro che sono in pensione.
Dal punto di vista del diritto intertemporale il divieto non ha efficacia retroattiva e non può applicarsi ai collegi già costituiti, o alle nomine già disposte e accettate alla data di entrata in vigore della legge, ancorché il collegio non sia stato ancora costituito e sia stata presentata alla camera arbitrale la richiesta di nomina del terzo arbitro. Per quel che concerne l'arbitro di nomina pubblica (preferibilmente scelto fra dirigenti dell'amministrazione) la determina precisa che non si applica l'istituto della ricusazione e che per la nomina si devono seguire le regole generali sulle incompatibilità.
Sul tema dell'autorizzazione preventiva all'inserimento della clausola compromissoria nel bando di gara la determina chiarisce che l'obbligo si applica ai bandi pubblicati dopo l'entrata in vigore della legge con la conseguenza che le clausole previste nei contratti stipulati dopo novembre 2012 senza autorizzazione preventiva contenuta nel bando di gara, sono da intendersi nulle.
Si salverebbero soltanto gli arbitrati già conferiti (nomina effettuata e accettata) prima del novembre 2012. La determina però afferma la legittimità dell'autorizzazione a posteriori al fine di salvare le clausole compromissorie già inserite nei contratti evitando disparità di trattamento fra contratti in corso e futuri contratti (articolo ItaliaOggi del 30.12.2015).

APPALTI: Oggetto: Indicazioni interpretative concernenti le modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei contratti pubblici dalla legge 06.11.2012, n. 190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione (determinazione 10.12.2015 n. 13, recante l’aggiornamento della determinazione 18.12.2013 n. 6 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Oggetto: Richiesta di chiarimenti in merito alle modalità di verifica dei requisiti ex art. 38 del d.lgs. 163/2006 sull’aggiudicatario di una gara esperita sul Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA) (comunicato del Presidente 10.12.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTINelle convenzioni per le gare obblighi informativi chiari.
Nelle convenzioni fra comuni per la gestione delle gare, è necessaria una puntuale indicazione dei soggetti tenuti agli obblighi informativi verso l'Anac e alla legittimazione attiva e passiva per il contenzioso con le imprese.

È questa l'indicazione fornita dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone con il comunicato del Presidente 02.12.2015, reso noto ieri, sugli adempimenti ex art. 33, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici.
Le indicazioni seguono il precedente comunicato del 10 novembre nel quale si precisava che non sarebbe stato rilasciato il Cig (codice identificativo gara) ai comuni non capoluogo di provincia che non avessero adempiuto all'obbligo di espletare le procedure di acquisizione di lavori servizi e forniture, attraverso le unioni di comuni, sottoscrivendo accordi consortili e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo agli strumenti elettronici di acquisto gestiti dalla Consip o da altro soggetto aggregatore di riferimento.
La norma prevede tale obbligo dal primo novembre 2015, ma la legge di stabilità 2016 prevede a partire dal 01.01.2016 la possibilità per i comuni con meno di 10.000 abitanti di procedere ad acquisti autonomi, anche in deroga a quanto stabilito all'articolo 33, comma 3-bis, del Codice appalti, per gli acquisti di importo sotto ai 40.000 euro.
Sopra i 40.000 euro, invece, l'Autorità ha preso infatti atto di alcuni problemi che insorgono nell'ipotesi in cui i comuni optino per la convenzione con altra amministrazione, fattispecie in cui non si procede alla istituzione di un autonomo soggetto dotato di personalità giuridica per lo svolgimento delle procedure di aggiudicazione.
Per risolvere questi problemi, che attengono alle competenze su singoli atti e alle responsabilità anche rispetto agli adempimenti verso l'Anac e verso gli operatori economici, il comunicato invita gli enti locali ad una attenta valutazione sugli elementi inerenti la ripartizione degli obblighi informativi tra amministrazioni deleganti e delegate e sulla identificazione del soggetto che ha la legittimazione attiva e passiva in giudizio, nelle ipotesi di contenzioso che riguardi la gara. Il comunicato precisa che è la convenzione la sede nella quale provvedere ad una dettagliata disciplina del raccordo tra le amministrazioni coinvolte nelle diverse fasi del medesimo procedimento di aggiudicazione.
Nella convenzione, in particolare, devono essere definite le modalità di conduzione del procedimento e, in generale, il raccordo fra le diverse funzioni. Pertanto nella convenzione deve essere individuata non solo «la struttura o l'ufficio preposto alla gestione centralizzata della gara», ma anche «la disciplina che assicurerà il suo legittimo e corretto funzionamento, alla luce del quadro normativo di riferimento».
L'invito è quindi a provvedere ad una «puntuale predeterminazione dei soggetti sui quali ricadranno sia gli obblighi informativi che la legittimazione attiva e passiva in giudizio, riservando a tali finalità apposite clausole delle convenzioni» (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Oggetto: indicazioni operative sugli adempimenti ex art. 33, comma 3-bis, decreto legislativo 12.04.2006 n.163 e ss.mm.ii. (comunicato del Presidente 02.12.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Relazione annuale del Responsabile della prevenzione della corruzione – proroga al 15.01.2016 del termine per la pubblicazione (comunicato del Presidente 25.11.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUnioni, un'occasione mancata. I mini enti le snobbano. Pochi risparmi e doppie spese. La Corte conti in audizione (alla camera: solo il 30% dei piccoli comuni si è associato.
L'associazionismo comunale forzoso ha fallito. Le unioni continuano a essere snobbate dai piccoli comuni.
Solo il 30% degli enti con popolazione al di sotto dei 5.000 abitanti (1.735 enti sul totale di 5.646) ha infatti aderito al modello delle unioni. Mentre le fusioni, dopo il piccolo exploit del 2014 (quando si sono contati 24 «matrimoni» tra enti che hanno fatto scomparire dallo scenario amministrativo 57 comuni) procedono a rilento. Nel 2015 sono state solo 6, mentre l'anno prossimo se ne attendono una ventina.

In audizione sulla gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, la sezione autonomie della Corte dei conti ha certificato un dato già evidenziato in passato.
I mini enti non credono nelle unioni, nonostante, come messo in luce dalla Corte, questo modello di governance locale stia iniziando a produrre i primi frutti in
 termini di risparmi. La sezione autonomie ha passato al setaccio un campione di unioni (164, rappresentative di 722 comuni associati, sul totale di 444) scelte tra quelle che hanno inviato per gli esercizi 2013-2014 i certificati di conto consuntivo, disponibili presso il Viminale.
E ha evidenziato come l'aumento della spesa corrente da parte delle unioni (trend assolutamente normale visto l'incremento delle funzioni fondamentali associate) sia ampiamente compensato dalla riduzione della spesa corrente dei comuni associati: 76,6 milioni di giuro nel 2014 a fronte di 40,4 milioni di extra costi sostenuti dalle unioni. Certo, osserva la Corte nell'audizione 01.12.2015 dinanzi alla commissione affari costituzionali della camera, «l'azzeramento della spesa per le funzioni associate non si è verificato per tutti i comuni interessati, in quanto, ove così fosse stato, la riduzione complessiva degli impegni avrebbe dovuto avere una consistenza più significativa».
I più «virtuosi» secondo l'indagine della Corte dei conti, sono stati gli enti sopra i 5.000 abitanti che hanno ridotto gli impegni correnti del 4%. I mini enti, invece, hanno tagliato i costi solo dell'1,3% e per due funzioni in particolare: giustizia e cultura. Dal campione di enti esaminato dalla Corte emerge che le funzioni maggiormente delegate dai comuni alle unioni nel 2014 sono state la cultura (74%), i servizi produttivi (63%), il turismo (47%), lo sviluppo economico (34%) e la polizia locale (19%). Vi sono invece altre funzioni che i comuni continuano a gestire in proprio nonostante siano associati in unioni. Dall'istruzione all'amministrazione, dalla viabilità ai trasporti, dal sociale alla gestione del territorio e dell'ambiente, le voci di spesa non si riducono, anzi raddoppiano.
Perché queste funzioni sono proprio quelle per cui le unioni finiscono per spendere di più. Sulle difficoltà incontrate dall'associazionismo comunale è intervenuta anche la Conferenza delle regioni.
In audizione i rappresentanti del parlamentino dei governatori regionali hanno sottolineato «la difficoltà nella gestione contabile delle forme associate, nel raccordo con i bilanci dei comuni aderenti». In particolare, secondo le regioni, «le funzioni fondamentali non hanno ancora un'articolazione in servizi e non sono riconducibili ai programmi del bilancio armonizzato. La normativa pertanto condiziona le potenzialità di intervento del legislatore regionale, in quanto la ricerca di sinergie fra enti minori ed enti più strutturati resta affidata alla sola libera iniziativa degli amministratori locali. Ciò è ancora più evidente nelle regioni dove è alto il numero dei comuni sotto la soglia dei 5.000 abitanti» (articolo ItaliaOggi del 03.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIREVISORI ENTI LOCALI/ Occhio di bue. Chiarezza sul taglio dei compensi.
Che la Sez. autonomie della Corte dei Conti si sia espressa (con deliberazione 29.09.2015 n. 29) implicitamente a favore del taglio del 10% sui compensi spettanti ai revisori a seguito all'applicazione del dl 78/2010 è un fatto.
Sì, perché in realtà il dispositivo della delibera non prende posizione «esplicita» bensì dice che non ricorrono i presupposti per l'adozione di una procedura di orientamento interpretativo ai sensi dell'art. 6, comma 4, del dl 10.10.2012, n. 174, ma in premessa sostiene che resta «ferma la giurisprudenza delle sezioni regionali di controllo», le quali già nel 2010 (Toscana), nel 2011 (Campania, Emilia Romagna e Lombardia) e nel 2015 (Lombardia e Puglia) si erano espresse a favore del taglio.
Diventa, pertanto, definitiva l'interpretazione che accomuna i revisori degli enti locali agli amministratori pubblici, quali sindaci, assessori e consiglieri comunali, per quanto riguarda il taglio dei compensi.
Fa piacere sentire al convegno nazionale Ancrel di Padova del 3 ottobre scorso, che una autorevole voce del ministero dell'economia, come quella dell'Ispettore capo Salvatore Bilardo, si sia espressa davanti a tutti sostenendo che è un errore considerare il compenso dei revisori un «
costo della politica» e quindi assoggettarlo al taglio del 10% previsto dal dl 78/2010.
Ma è anche vero che non possiamo dare colpa ai giudici se da loro viene data tale interpretazione che annovera i revisori, invece, tra i destinatari del taglio.
È compito del legislatore far chiarezza, soprattutto dopo aver caricato di innumerevoli nuovi adempimenti e responsabilità i revisori senza che a questo abbia fatto seguito un giusto riconoscimento anche in termini di compensi.
Considerando, poi, che è dal 2005 che non vengono adeguati i compensi, anche se la legge prevede un aggiornamento triennale, si ritiene che il legislatore debba intervenire urgentemente e porvi rimedio.
Diversamente nessuno in futuro vorrà più accettare un incarico da revisore di ente locale e i revisori degli enti locali scompariranno come sono scomparsi un tempo i sistematori di birilli (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, assunzioni bloccate dalla spesa. Il censimento.
La gran parte dei Comuni, sulla base dei dati del censimento del personale degli enti locali del ministero dell’Interno, non può effettuare assunzioni anche se ha rispettato il Patto di stabilità, effettua i pagamenti entro i termini e ha tagliato la spesa del personale. E ciò perché la spesa corrente è calata in misura ancora maggiore e, di conseguenza, l’incidenza percentuale degli oneri per i dipendenti sul totale delle spese di esercizio è aumentata.
Questa situazione determina, sulla base della
deliberazione 18.09.2015 n. 27 della sezione Autonomie della Corte dei Conti, il divieto di effettuare assunzioni e di inserire risorse nella parte variabile del fondo per la contrattazione decentrata.
Sono evidenti le conseguenze assai negative per molte amministrazioni e, soprattutto, il paradossale effetto che di produce, quello di disincentivare i comuni dal perseguire efficaci politiche di contenimento della spesa.
Vediamo i dati resi noti dal censimento al 31.12.2014. L’incidenza della spesa del personale sulla spesa corrente è stata pari al 31,8% nel 2014, al 29,31% nel 2013, al 30,80% nel 2012, al 31,73% nel 2011 ed al 31,84% del 2010. Va ricordato che il parere dei giudici contabili indica come base di riferimento il triennio 2011/2013, quindi il valore medio del 30,61, cifra che nel 2014 è stata superata.
Lo stesso censimento dice che nel 2014 il 97,4% enti soggetti al Patto di stabilità ed il 90,1% delle amministrazioni non soggette al Patto hanno rispettato il tetto di spesa del personale, che è fissato nel valore medio del triennio 2011/2013 negli enti soggetti al Patto e nel 2008 negli enti non soggetti al Patto. Quindi hanno applicato in modo “virtuoso” le disposizioni in vigore. Ma ciò oggi non basta.
Infatti, sulla base dei dati appena ricordati, la stragrande maggioranza dei Comuni non può effettuare assunzioni di personale a nessun titolo, ambito che comprende non solo quelle a tempo indeterminato, ma anche quelle a tempo determinato, i co.co.co. e le altre forme di assunzioni flessibili. E non può inserire, neppure come riproposizione, somme nella parte variabile del fondo del personale o incrementare per i nuovi servizi il fondo dei dirigenti.
La conseguenza ancora più paradossale è data dal fatto che il contenimento della spesa corrente in molte amministrazioni è frutto non solo dei tagli alle dotazioni finanziarie e della necessità di rispettare il patto di stabilità, ma di decisioni autonome dei singoli enti: basta pensare agli effetti che si producono con i piani di razionalizzazione e con le dismissioni. Comportamenti che vengono così scoraggiati. Come viene scoraggiato il ricorso ai piani di contenimento della spesa corrente che, in caso di effettivo conseguimento degli obiettivi prefissati, consente di destinare una quota fino al 50% alla incentivazione del personale e/o fino al 100% al recupero delle somme illegittimamente inserite nei fondi per la contrattazione decentrata.
Non si può infine mancare di sottolineare che le scelte delle amministrazioni sono state compiute senza che fossero noti gli effetti dell’aumento della incidenza della spesa del personale sulla spesa corrente. Infatti solamente dallo scorso autunno è stata tratta la conseguenza che il superamento di questo rapporto produce effetti immediatamente "cogenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.12.2015).

QUESITI & PARERI

PATRIMONIO: Spese per acquisto arredi per la Protezione civile. Applicazione art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, negli enti locali.
L'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, contiene disposizioni in materia di riduzione della spesa delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli enti locali, specificamente per l'acquisto di mobili e arredi. Il comma 144 del medesimo articolo prevede delle fattispecie di salvezza, tra cui gli acquisti effettuati per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica: in detta eccezione non sembrano rientrare gli acquisti di mobili e arredi per la Protezione civile.
La Corte costituzionale ha affermato che i vincoli posti dal legislatore statale per ragioni di coordinamento della finanza pubblica possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise dal legislatore.
Sulla scia di questi principi espressi dalla Consulta, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 1, comma 141, suddetto, obbliga gli enti locali al rispetto complessivo del tetto di spesa risultante dall'applicazione dell'insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi previsti da norme in materia di coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spesa soggette a limitazione avvenga in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell'ente.

Il Comune pone dei quesiti in ordine alle limitazioni di spesa vigenti per acquisti di mobili e arredi, in particolare, se sia possibile acquistare scaffali ed arredi per la nuova sede della protezione civile, e se, per la base di calcolo in percentuale della spesa ammissibile per detti beni mobili, si debba o meno tener conto di quanto speso nel 2010 per gli arredi scolastici.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
Le questioni poste dall'Ente concernono una norma statale, per cui è d'obbligo precisare che competenti ad esprimersi sulla sua corretta applicazione sono gli uffici statali. Le riflessioni che seguono vengono, pertanto, formulate in via meramente collaborativa.
L'articolo 1, comma 141, della legge 228/2012 dispone che negli anni 2013, 2014 e 2015 gli enti locali non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia
[1], salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili.
Ai sensi dell'art. 1, comma 144, L. n. 228/2012, sono esclusi espressamente dal campo di applicazione del comma 141 gli acquisti effettuati per le esigenze del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, per i servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli essenziali di assistenza.
In generale, la Corte dei conti ha affermato che la disposizione di cui al comma 141 mira a contenere la spesa pubblica complessiva per l'acquisto di mobili e arredi ed ha portata generale tale da ricomprendere anche gli arredi necessari ad allestire opere di nuova realizzazione, collegati quindi ad opere di nuova costruzione o ristrutturazione comportanti un ampliamento. Dette spese sono dunque da ricomprendere nel limite stabilito dalla norma, che non può essere di ammontare superiore al 20% della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili
[2].
Per quanto concerne le fattispecie di salvezza di cui al comma 144, ed in particolare quella relativa alla tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, questo Servizio si è già espresso nel senso di non potervi ricondurre gli acquisti delle autovetture riferite alla protezione civile
[3].
In particolare, si è segnalato quanto chiarito dal Governo, con riferimento al DPCM 03.08.2011 (oggi abrogato e trasfuso nel DPCM 25.09.2014) che prevede l'esclusione dal proprio ambito applicativo delle autovetture, tra le altre, 'adibite ai servizi operativi di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica'
[4]. In particolare, il Governo [5] ha ritenuto che non rientrino nell'esclusione stessa, tra le altre, per quanto qui di interesse, le auto utilizzate per servizi di protezione civile.
Si ritiene che simili considerazioni possano valere anche per l'acquisto dei beni mobili (scaffali ed arredi) di cui si discute nel caso in esame per la nuova sede della protezione civile, con la conseguenza di non potersi ricondurre gli stessi all'eccezione di cui al comma 144 riferita agli acquisti (tra l'altro) per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica.
Peraltro, il rispetto delle norme di contenimento della spesa pubblica -quale è l'art. 1, comma 141, in commento- va valutato anche tenuto conto delle modalità di applicazione di queste nelle autonomie locali, alla luce di quanto espresso al riguardo dalla Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio. Questi vincoli possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise dal legislatore
[6].
Nel quadro di questi principi espressi dalla Corte costituzionale, il Giudice contabile ha mostrato un orientamento non univoco in ordine all'applicazione negli enti locali delle norme di contenimento della spesa pubblica dettate dal legislatore statale.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti per la regione siciliana, con parere n. 94 del 30.11.2012, hanno affermato che il limite di spesa posto per le autovetture dall'art. 5, comma 2, DL n. 95/2012, deve essere interpretato alla stregua di quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 139/2012, con possibilità di compensazioni nell'ambito delle singole voci di spesa (in quel caso la richiesta di parere faceva riferimento alle tipologie di spesa di cui all'art. 6, DL n. 78/2010)
[7].
Di diverso tenore è, invece, l'orientamento espresso dalla Corte dei conti Lombardia, la quale sempre con riferimento al limite di spesa posto dall'art. 5, DL n. 95/2012, in tema di autovetture, ha affermato che non ne risulta possibile la deroga compensando lo sforamento con una maggiore riduzione delle altre voci di spesa oggetto di contenimento in base ad altre disposizioni di legge
[8].
A fronte delle diverse posizioni espresse dalle sezioni regionali di controllo in ordine all'applicazione negli enti locali delle norme di contenimento delle spese per il funzionamento degli apparati amministrativi, la Corte dei conti sezione Lombardia
[9], chiamata questa volta ad esprimersi proprio sull'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, oggetto d'esame, ha deferito alla Sezione delle Autonomie la questione concernente la sua corretta interpretazione, in particolare in ordine alla possibilità di conseguire l'obiettivo di riduzione delle spese per mobili e arredi (e in generale per i consumi intermedi) in maniera complessiva, avuto riguardo alle distinte previsioni di legge di contenimento della spesa [10], e dunque al risparmio complessivo di spesa derivante da queste.
Ebbene, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie
[11], ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 1, comma 141, impone la ricerca di una soluzione interpretativa che salvaguardi le scelte decisionali degli enti locali in tema di allocazione delle risorse, ed ha espresso il seguente principio di diritto, al quale si devono conformare tutte le sezioni regionali di controllo: 'L'art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel disporre limiti puntuali alle spese per l'acquisto di mobili e arredi, obbliga gli enti locali al rispetto complessivo del tetto di spesa risultante dall'applicazione dell'insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi previsti da norme in materia di coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spesa soggette a limitazione avvenga in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell'ente'.
In particolare, e venendo al quesito dell'Ente circa la quantificazione della spesa ammissibile per mobili e arredi, questa, in mancanza di precise indicazioni sul punto dei competenti organi statali, sembrerebbe ricavarsi applicando il relativo coefficiente di riduzione alla totalità della spesa sostenuta negli anni 2010 e 2011 per i mobili e arredi, ivi compresi quelli scolastici.
Si ritiene, infatti, che l'esclusione
[12] degli acquisti di mobili ed arredi destinati all'uso scolastico ed ai servizi dell'infanzia dall'applicazione delle norme di contenimento della spesa non possa comportare la sottrazione dalla base di calcolo percentuale, riferita alla spesa media degli anni 2010-2011, della spesa sostenuta per le suddette specifiche categorie di mobili e arredi, atteso che tale operazione si tradurrebbe in una limitazione del quantum disponibile per tutte le tipologie di mobili e arredi, non espressamente prevista dal legislatore.
Resta inteso che su queste considerazioni, rese in via meramente collaborativa, prevarranno gli eventuali chiarimenti di diverso avviso che dovessero pervenire dai competenti uffici statali.
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[1] Eccezione introdotta a seguito della novella recata dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l. 21.06.2013 n. 69, introdotto dalla legge di conversione 09.08.2013 n. 98.
[2] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, deliberazione n. 244 del 25.06.2013.
[3] Cfr. note n. 8908 del 20.03.2013, n. 33498 del 18.11.2013 e n. 4319 del 10.02.2014.
[4] DPCM 25.09.2014 recante: 'Determinazione del numero massimo e delle modalità di utilizzo delle autovetture di servizio con autista adibite al trasporto di persone'. Vedi in particolare l'art. 1, c. 2, del DPCM 25.09.2014 (in cui è stato trasfuso l'art. 1, c. 3, del DPCM 03.08.2011).
[5] Governo italiano, Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Censimento permanente delle auto di servizio della pubblica amministrazione, Decreto Presidenza del Consiglio 03.08.2011, Formez PA, FAQ n. 9.
[6] Corte costituzionale, 04.06.2012, n. 139. In quella sede, la Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di alcune disposizioni dell'art. 6, DL n. 78/2010, ha affermato che tale norma prevede puntuali misure di riduzione di singole voci di spesa, ma ciò non esclude che da esse possa desumersi un limite complessivo nell'ambito del quale le Regioni (e gli enti locali, n.d.r.) restano libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa.
[7] Le Sezioni riunite per la regione siciliana, specificano, peraltro, che per le autovetture il limite complessivo di spesa è quello previsto dall'art. 6, c. 14, DL n. 78/2010 (80% della spesa sostenuta nel 2011), che coesiste col limite previsto dal sopravvenuto art. 5, DL n. 95/2012 (30% della spesa sostenuta nel 2011 a seguito della novella recata dall'art. 15, c. 1, D.L. n. 66/2014).
[8] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Lombardia, deliberazione n. 114 del 26.03.2013, secondo cui non si può ritenere possibile estendere il principio di compensazione a una serie eterogenea e di fonte non comune di obblighi di riduzione di spese del tutto differenziate (in quella fattispecie il comune richiedente citava l'art. 6, DL n. 78/2010, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012, etc.).
[9] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione Lombardia, deliberazione n. 296/2013.
[10] Nella specie, l'ente che aveva formulato la richiesta di parere indicava l'art. 6, DL n. 78/2010, l'art. 5, c. 2, DL n. 95/2012, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012.
[11] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, 30.12.2013, n. 26, la quale osserva come l'inciso posto all'inizio del comma 141 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni', tende a considerare le norme finalizzate alla riduzione delle spese per consumi intermedi in un'ottica complessiva, con possibilità di compensazione tra le singole voci di spesa nel rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a bilancio.
[12] Prevista dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l. 21.06.2013 n. 69, introdotto dalla legge di conversione 09.08.2013 n. 98, di novella dell'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012
(29.12.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: Fattura elettronica: emissione e pagamento.
DOMANDA:
Il consorzio per la gestione dei rifiuti emette fattura di servizio smaltimento al comune datata 09.12.2014. La fattura per un disguido non viene inviata al comune solo dopo verifica il consorzio invia il documento in forma cartacea in data 14.09.2015.
Il comune può pagare tale fattura in formato cartaceo o deve necessariamente chiedere la trasformazione in fattura elettronica?
RISPOSTA:
Va innanzitutto detto che le fatture cartacee emesse antecedentemente al 31.03.2015, benché il comma 210 dell’art. 1 della L. 244/2007 sembri escluderlo, sono comunque pagabili anche dopo il 30.06.2015 senza le necessità di riemettere i medesimi documenti in formato elettronico. Queste sono le istruzioni rese dal MEF, Dipartimento delle Finanze, con la circolare 1/DF del 31.03.2015.
Si riporta il passaggio che qui interessa: “…l'emissione di una seconda fattura in formato elettronico a fronte di una fattura correttamente e legittimamente emessa in formato cartaceo non e' consentito dalla normativa IVA. Non sarebbe, infatti, possibile emettere note di credito a storno delle fatture cartacee già emesse perché queste ultime non presenterebbero alcuno dei vizi che ne permettono una rettifica ai fini IVA. Conseguentemente, ove allo scadere del termine di cui al comma 210 una pubblica amministrazione stesse ancora processando una fattura emessa in forma cartacea prima dello scadere del termine di cui al comma 209, l'amministrazione dovrà senz'altro portare a compimento il relativo procedimento e, ove sussistano tutte le altre condizioni, procedere al pagamento”.
Detto ciò, poiché nel quesito si fa riferimento ad una fattura non inviata, è necessario puntualizzare che per la legge IVA una fattura si ha per emessa quando all'atto della sua consegna, spedizione, trasmissione o messa a disposizione del cessionario o committente. Il che significa che se il Consorzio nel 2014 non ha consegnato, spedito o trasmesso la fattura al Comune, ma soltanto redatto il documento, l’emissione è inesistente e pertanto il medesimo dovrà procedere all’emissione della fattura elettronica ai fini del pagamento (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La conservazione digitale.
DOMANDA:
In riferimento alla conservazione digitale CAD obbligatoria si chiede come procedere nei seguenti casi:
- alcune deliberazioni non sono state firmate digitalmente dal Segretario Comunale in quanto deceduto, pertanto risulta la verbalizzazione e la sola firma digitale del Sindaco;
- presso questo Ente si è insediato l'Organismo Straordinario Liquidazione composto da tre membri che attualmente firmano in modo autografo.
RISPOSTA:
A) In relazione alla prima domanda, si fa presente che la fase di conservazione documentale ha il solo effetto di garantire che il documento informatico conservi nel tempo il suo valore legale; di conseguenza i documenti andranno versati in conservazione, secondo le cadenze previste nel Manuale di conservazione (da adottarsi ai sensi dell’art. 8, D.P.C.M. 03.12.2013, recante “regole tecniche in materia di sistema di conservazione”) per il periodo prescritto.
Nel caso di specie, si ritiene che le delibere in questione -pur essendo prive della sottoscrizione del Segretario Comunale, in quanto deceduto- debbano essere versate in conservazione nello stato in cui si trovano, rimettendo, tuttavia, all’amministrazione ogni valutazione in merito ai profili di legittimità di tali deliberazioni e in merito all’opportunità di una loro rinnovazione.
B) Per quanto riguarda la seconda domanda, posto che l’art. 44, comma 1, del CAD disciplina espressamente il sistema di conservazione di documenti informatici, salvo voler procedere alla digitalizzazione degli originali dei documenti sottoscritti con firma autografa dall’Organismo Straordinario di Liquidazione insediatosi presso l’Ente, e alla successiva certificazione di conformità degli stessi, si ritiene opportuno che l’Organismo in questione si doti di tutti gli strumenti necessari alla formazione degli originali dei propri documenti con mezzi informatici, in conformità a quanto disposto dall’art. 40, comma 1, del CAD (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In cosa consiste la registrazione degli atti. Che cosa vuol dire registrazione in caso d'uso?
La registrazione degli atti è un'operazione che consiste nel loro deposito presso l'agenzia delle entrate competente (in origine presso l'ufficio del registro) e nel correlativo onere di pagamento di un'imposta, vale a dire l'imposta di registro.
La normativa di riferimento è rappresentata dal d.p.r. n. 131/1986: DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 26.04.1986, n. 131.
Ai sensi dell'art. 1 del suddetto decreto presidenziale: “l'imposta di registro si applica, nella misura indicata nella tariffa allegata al presente testo unico, agli atti soggetti a registrazione e a quelli volontariamente presentati per la registrazione”.
Si è soliti dire che gli atti devono essere registrati:
a) obbligatoriamente;
b) in caso d'uso;
c) volontariamente.
Un esempio di atto che dev'essere registrato obbligatoriamente è rappresentato dal contratto di locazione ad uso abitativo.
Che cosa vuol dire registrazione in caso d'uso?
Ai sensi dell'art. 6 del d.p.r. n. 131/1986, si ha caso d'uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell'adempimento di un'obbligazione delle suddette amministrazioni, enti o organi ovvero sia obbligatorio per legge o regolamento.
Se si litiga in merito, ad esempio, ad un contratto di locazione stipulato per un periodo di tempo inferiore a trenta giorni e la parte che pretende, ad esempio, un credito o un risarcimento lo deposita presso la cancelleria tra gli atti offerti al giudice per la decisione, allora quel contratto dev'essere registrato?
Non rappresenta caso d'uso, questo almeno il consolidato orientamento espresso dalla dottrina, il deposito di atti eventualmente soggetto a registrazione in caso d'uso in occasione di azioni giudiziarie non rappresenta quel così detto caso d'uso di cui stiamo trattando.
La tariffa allegata al d.p.r. n. 131/1986 determina l'importo dell'imposta che il depositante è tenuto a versare.
L'art. 39 del d.p.r. n. 131/1986 ricorda che: “per gli atti soggetti a registrazione in caso d'uso l'imposta è applicata in base alle disposizioni vigenti al momento della richiesta di registrazione”.
Per portare un esempio di atto soggetto a registrazione in caso d'uso, facciamo riferimento all'art. 2-bis della parte seconda della tariffa allegata al d.p.r. n. 131/1986. A mente di tale disposizioni sono soggetti a registrazione in caso d'uso: “Locazioni ed affitti di immobili, non formati per atto pubblico o scrittura privata autenticata di durata non superiore a trenta giorni complessivi nell'anno”.
Come ricorda l'agenzia delle entrare per calcolare i suddetti trenta giorni occorre “far riferimento al rapporto di locazione e di affitto dell'immobile intercorso nell'anno con lo stesso locatario e affittuario” (Circolare n. 12/E del 16.01.1998).
È utile ricordare, infine, che la registrazione attribuisce data certa al documento che ne rappresenta l'oggetto (28.12.2015 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: Serve l'autorizzazione comunale per installare le inferriate? Installazione inferriate è necessaria l'autorizzazione comunale?
Abito al piano rialzato di un edificio in condominio e dopo alcuni furti nella zona ho deciso d'installare delle inferriate alle mie finestre e portefinestre per ovvie ragioni di sicurezza.
Per l'installazione devo domandare l'autorizzazione al comune di residenza?

Questa la domanda che ci giunge da un nostro lettore.
Sebbene il suo quesito sia limitato ai rapporti con la pubblica amministrazione riteniamo utile richiamare l'attenzione anche sugli aspetti condominiali; lo facciamo rimandando alla lettura di questo articolo: Installazione inferriate su portefinestre.
L'attività edilizia è distinguibile in due categorie:
a) attività edilizia libera;
b) attività edilizia soggetta ad autorizzazioni amministrative.
Rispetto alla prima, sebbene non sempre obbligatorio (cfr. art. 6 d.p.r. n. 380/2001) è sempre consigliabile inviare una comunicazione d'inizio attività al comune competente, ossia il comune nel cui territorio è ubicato l'immobile oggetto d'intervento.
A titolo di esempio rientra nell'ambito dell'attività edilizia libera la manutenzione ordinaria finalizzata alla “riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” (cfr. artt. 3 e 6 d.p.r. n. 380/2001).
Quanto alle autorizzazioni amministrative, si tratta di procedimenti finalizzati ad ottenere un placet alla esecuzione delle opere che s'intendono realizzare. A seconda degli interventi si parla, ad esempio, di permesso di costruire (il caso più significativo è la costruzione di un nuovo edificio) o di SCIA (segnalazione certificata di inizio attività).
Poiché l'installazione ex novo di inferriate non può essere ricondotta nell'ambito dell'attività edilizia libera, per rispondere alla domanda del nostro lettore è necessario prima d'ogni cosa comprendere in quale categoria tra quelle indicate nel testo unico in materia edilizia (d.p.r. n. 380/2001) possano essere ricondotte.
Osservate le norme definitorie contenute nell'art. 3 del d.p.r. summenzionato, ad avviso di chi scrive, l'installazione delle inferriate dev'essere ricompresa nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento conservativo così definiti: "c) "interventi di restauro e di risanamento conservativo", gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio” (art. 3, primo comma, lett. c) d.p.r. n. 380/2001).
Le inferriate possono essere considerate elementi accessori.
In questo contesto, pertanto, deve farsi riferimento all'art. 22 del d.p.r. n. 380/2001 a mente del quale: “Sono realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
Prima di iniziare l'attività d'installazione, dunque, è necessario segnalarla al comune competente non con una semplice comunicazione, ma secondo le indicazioni previste dal testo unico per l'edilizia e dai regolamenti edilizi locali (relazione di un tecnico, ecc.). E' comunque consigliabile, vista l'importanza delle norme locali, reperire informazioni più dettagliate presso gli sportelli unici dell'edilizia del comune competente (24.12.2015 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'ammissibilità di interventi di installazione di impianti di comunicazioni elettroniche da installare su tralicci inferiori a mt. 6 su edifici esistenti nel centro storico - Comune di Velletri (Regione Lazio, parere 21.12.2015 n. 433845 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Abuso d'ufficio della Giunta sulla Municipalizzata.
IL CASO: l'azienda speciale di un Comune, costituita per la gestione di servizi comunali e sociali, su indicazione del sindaco e di alcuni assessori del Comune, assumeva alcuni dipendenti indicati dagli stessi componenti della giunta per l'erogazione di servizi fittizi.
Nel caso di specie, lo sviamento del potere e la violazione dell'art. 97 della Costituzione, possono essere ritenuti violazioni di legge alla stregua dei quali può essere contestato il reato di abuso di ufficio?

(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
La norma che disciplina il reato di abuso di ufficio è l'art. 323 del Codice Penale.
La norma così dispone: "Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".
La norma, in sostanza, vuole punire l'abuso funzionale, che si evidenzia su un piano oggettivo prima ancora che psicologico, che porta la violazione del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione tutelati dall'articolo 97 della Costituzione.
Per l'accertamento di tale reato occorre evidenziare in termini precisi, oltre all'individuazione di norme procedurali violate, anche quale aspetto le violazioni abbiano inciso sulla violazione delle buon andamento dell'amministrazione.
Più nello specifico, infatti, la giurisprudenza ha chiarito come, in tema di abuso d'ufficio, il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche solo dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità dell'organizzazione per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze favoritismi che impone al pubblico ufficiale e all'incaricato incaricato di pubblico servizio una regola di comportamento di immediata applicazione.
Così, nel caso di specie sopra descritto, non può ravvisarsi, come potrebbe apparire ad un primo esame, un'ipotesi di "eccesso di potere" (che non sarebbe da solo fonte di responsabilità penale), bensì una vera e propria ipotesi di "sviamento del potere".
Infatti, deve ritenersi sussistente il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando il comportamento incriminato sia orientato alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito: in questo caso si realizza il tipico vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge in quanto il potere non viene esercitato secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione, ma persegue obiettivi non previsti nella ponderazione tra interesse pubblico e interessi privati (Sez. un., n. 155 del 29/09/2011, Rossi).
Allo stesso modo, nel caso di specie, la condotta degli organi di indirizzo politico del Comune nonché del Direttore dell'Azienda speciale, costituiscono senz'altro violazione dell'art. 97 della Costituzione che, come visto, ha natura di precetto immediatamente applicabile (la cui violazione comporta anche l'abuso d'ufficio) quando pone il divieto di favoritismi, cioè impone l'obbligo di trattare i soggetti portatori di un interesse tutelato con la medesima misura
Il meccanismo con cui avvenivano le assunzioni, infatti, era ispirato dall'intento di favorire alcune persone vicine ai componenti della Giunta. Infatti, risulta l'attuazione di un meccanismo diretto a realizzare veri e propri favoritismi nelle assunzioni, consistito negli stanziamenti per far fronte a progetti fittizi, a vantaggio esclusivo degli assunti in maniera irregolare, perché in violazione delle norme finanziarie e di quelle che regolano le assunzioni presso gli enti locali.
In altri, invece, l'abuso d'ufficio non è stato ravvisato nella condotta consistita nella inosservanza delle disposizioni inserite nel bando di concorso il quale è atto amministrativo e, quindi, fonte normativa non riconducibile a quelle tassativamente indicate dal citato articolo 323 (cioè, la legge o il regolamento) (tratto dalla newsletter 21.12.2015 n. 131 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarico extra-ufficio: portata e limiti dell'autorizzazione iniziale.
IL CASO: dopo l'autorizzazione per l'incarico extra ufficio relativo al collaudo tecnico-funzionale di una discarica per RSU servita da impianti di pretrattamento e di lavorazione, seguiva il conferimento di numerosi successivi incarichi, rimasti tuttavia privi di autorizzazione, relativi al collaudo di varianti e ad impianti aggiuntivi.
La mancata autorizzazione delle numerose successive "estensioni" ricade nel divieto di svolgere incarichi in assenza di autorizzazione con conseguente obbligo, per il dipendente, di riversare il compenso nel conto dell'entrata del bilancio?

(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il dubbio in ordine alla violazione del divieto di svolgere incarichi extra ufficio in assenza di preventiva autorizzazione sorge, nel caso di specie, per il fatto che gli incarichi successivi all'originario titolo autorizzativo-ampliativo si riferiscono a varianti e, addirittura a impianti aggiuntivi, ne consegue che l'oggetto della prestazione risulta indubbiamente modificato, non trattandosi più della stessa opera da collaudare. Non avendo più il collaudo ad oggetto la medesima opera, non si tratterebbe della stessa obbligazione extra ufficio autorizzata, bensì altra e diversa prestazione, da sottoporre, conseguentemente, alla valutazione preventiva per verificarne la compatibilità con il lavoro d'ufficio, e l'assenza del conflitti di interessi.
Sennonché, tale conclusione di carattere generale, non può dirsi affatto scontata con riferimento ai singoli casi concreti che si possono verificare, in quanto la soluzione dipende non già dal mero confronto tra l'incarico originariamente conferito e quelli successivamente affidati ma dalla verifica, in concreto ed a svolgersi caso per caso, della riconducibilità degli incarichi successivi all'ambito oggettivo dell'unico titolo ampliativo originariamente rilasciato.
Nel caso di specie, è evidente che l'autorizzazione rilasciata per il collaudo funzionale di una "discarica per RSU servita da impianti di pretrattamento e di lavorazione" ha un ambito oggettivo estremamente vasto, tendenzialmente idoneo a ricomprendere non soltanto il collaudo tecnico-funzionale della discarica in sé, ma anche il collaudo tecnico funzionale degli impianti accessori, di compostaggio, nonché dei relativi ampliamenti e varianti. Tuttavia, ai fini della riconducibilità degli incarichi successivi all'originario titolo autorizzatorio, è necessario che questo presenti un orizzonte temporale sostanzialmente "aperto", come avviene tutte le volte in cui, nel nulla osta, viene inserita la richiesta, all'amministrazione o al soggetto privato conferente l'incarico, di fornire all'amministrazione di appartenenza del dipendente comunicazione relativa alla data di cessazione dall'incarico.
In presenza di una riconducibilità, da intendersi come sostanziale inerenza materiale, logica e giuridica dei successivi incarichi al nulla osta originario, nonché in presenza di una connotazione del nulla osta come autorizzazione "a tempo indeterminato", fino alla comunicazione della data di cessazione dell'incarico, è allora possibile ritenere che l'originario titolo ampliativo "copra" anche gli incarichi successivamente conferiti.
È evidente che l'amministrazione, laddove giunga, a seguito di una indagine puntuale e concreta, a tale conclusione non è tenuta ad informare la Procura della corte dei conti in ordine alla circostanza che il dipendente non ha riversato nell'entrata del bilancio il compenso ricevuto per gli incarichi successivamente espletati.
In proposito va rilevato che il versamento del compenso ricevuto nelle casse del Comune costituisce una sanzione per i soli dipendenti che svolgono incarichi extra ufficio in assenza di autorizzazione, così come previsto dall'art. 53, comma 7, del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 secondo cui "I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza (.) in caso di inosservanza del divieto (.) il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti".
Aggiunge il successivo articolo 7-bis che "l'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetto alla giurisdizione della corte dei conti", che, nel caso di specie, per quanto anzidetto, non parrebbe configurabile (tratto dalla newsletter 14.12.2015 n. 130 di http://asmecomm.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il consigliere non gestisce. Non può compiere atti di amministrazione. I paletti posti dalla giurisprudenza agli atti di delega dei sindaci.
Le deleghe conferite ai consiglieri comunali con decreto sindacale possono determinare un'impropria commistione tra funzioni di governo e funzioni di controllo politico?

Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale in qualità di componente di un organo collegiale, quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto. Poiché il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo.
Tale criterio generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi previsti dalla legge. In proposito, il Tar Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato».
Considerato che, nel caso di specie, le norme statutarie non contengono un'espressa previsione che consenta l'attribuzione di deleghe ai consiglieri, potrebbe determinarsi con la suddetta attribuzione una situazione, perlomeno potenziale, di conflitto di interesse.
A rafforzare tale orientamento soccorre il parere n. 4883/2011 reso in data 17.10.2012 dal consiglio di stato che, in un caso analogo, ha affermato di non condividere l'argomentazione difensiva dell'amministrazione secondo cui, mancando nella normativa comunale un'esplicita previsione che vieti al sindaco di conferire ai consiglieri comunali deleghe di studio e consulenza, il loro conferimento sarebbe legittimo (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Surroga.
Ricorrono i presupposti per l'applicazione dell'art. 141, comma 1, lett. b), n. 4, del Tuel qualora il consiglio possa procedere alla surroga di uno solo dei due consiglieri da ultimo dimessisi, attribuendo il seggio al candidato che, nella medesima lista, segue immediatamente l'ultimo eletto?

Nella fattispecie in esame, il comune ha rinnovato i propri organi a seguito delle elezioni amministrative, in esito alle quali sono stati eletti, oltre al sindaco, dodici consiglieri. Nel corso della consiliatura hanno rassegnato le dimissioni quattro consiglieri che sono stati surrogati con apposite delibere adottate, in seconda convocazione, con la presenza di quattro consiglieri.
In merito al quorum necessario al fine della validità delle sedute, il segretario comunale ha reso parere favorevole in quanto l'art. 273, comma 6, del Tuel detta una disciplina transitoria che legittima l'applicazione dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915, fino all'adeguamento della normativa locale ai criteri indicati dal citato decreto legislativo n. 267/2000.
Peraltro, il comune non ha adottato una disciplina regolamentare concernente il quorum per le sedute di seconda convocazione avverso le deliberazioni di surroga è stato proposto ricorso al Tar e, nelle more della pronuncia del giudice amministrativo, il consiglio di stato ha sospeso l'efficacia degli atti impugnati accogliendo la relativa richiesta di sospensiva. Precedentemente a tale pronuncia si erano dimessi altri due consiglieri, e, poiché il consigliere dimessosi per primo non è più surrogabile per assenza di ulteriori candidati nella medesima lista, da alcuni consiglieri è stata formulata istanza ai sensi dell'art. 141, comma 1, lett. b), n. 4, del Tuel.
Nel caso di specie, però, non sussistono i presupposti giustificativi per l'applicazione del richiamato art. 141 in quanto il consiglio è tenuto a provvedere alla surroga del consigliere dimessosi per secondo, ai sensi degli artt. 38, comma 8, e 45, comma 1, attribuendo il seggio al candidato che, nella medesima lista, segue immediatamente l'ultimo eletto. Infatti, solamente uno dei due consiglieri dimessosi successivamente non sarebbe surrogabile per mancanza di ulteriori candidati nella medesima lista.
Le norme citate, peraltro, impongono al consiglio l'obbligo di procedere alla surroga, configurando, quindi, la relativa attività come vincolata e non facoltativa. Inoltre, lo statuto del comune, prevede la presenza della metà dei consiglieri per la validità delle sedute. Pertanto, il consiglio, potendo funzionare anche con la presenza di sei consiglieri, dovrà procedere alla surroga del consigliere, elevando a sette il numero dei propri componenti.
Infine, anche qualora dovesse intervenire l'annullamento delle delibere consiliari da parte del Tar adito, i medesimi atti potranno essere comunque adottati nuovamente rispettando gli eventuali criteri dettati dal giudice amministrativo con riferimento al quorum necessario al fine della validità della seduta (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Corruzione: quali sono le "altre utilità".
IL CASO: il Comandante del Corpo della polizia locale nell'anno 2009, con atti contrari ai doveri d'ufficio, affida ad una società operante nel settore del lavori stradali un servizio di ripristino della viabilità post-incidente all'interno del territorio comunale.
A distanza di due anni, l'amministratore di quella stessa società corrisponde la somma di Euro 30.000 al gruppo sportivo dei vigili urbani, gestito dal medesimo Comandante del corpo. Tale corresponsione può essere considerata come "altra utilità" ai fini della contestazione del reato di corruzione ex art. 319 c.p.?

(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario richiamare l'art. 319 c.p. che disciplina il reato di corruzione.
La norma così dispone: "Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni.".
In tema di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, ai fini dell'accertamento della controprestazione offerta dal corruttore, la nozione di "altra utilità" quale oggetto della dazione o della promessa al pubblico ufficiale, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, non va circoscritta soltanto alle utilità di natura patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e indirette.
In tal senso, la Cassazione penale ha precisato, inoltre, che la nozione di "altra utilità", quale oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente (Sez. 6, n. 29789 del 27/06/2013), corrispondente, nel caso di specie, al Comandante della Polizia locale.
Più nello specifico, poi, sempre la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che il reato di corruzione di cui all'art. 319 c.p. "sussiste ogni qual volta la dazione in favore del pubblico ufficiale costituisca il compenso del favore ottenuto, a nulla rilevando che la stessa sia avvenuta a distanza di tempo dalla formazione dell'atto".
Alla luce dei chiarimenti ermeneutici sopra descritti, è evidente come nel caso di specie possa ravvisarsi il reato di corruzione propria, in quanto le somme di denaro corrisposte dall'amministratore dell'operatore economico che si era visto aggiudicare il contratto, benché non corrisposte direttamente al Comandante della Polizia Locale, venivano corrisposte (anche se a due anni di distanza) al Gruppo Sportivo dei Vigili urbani gestito proprio dallo stesso Comandante.
E' evidente come, in tal modo, il medesimo Comandante ne ottenga un vantaggio indiretto anche solo sotto il profilo del vantaggio sociale che ciò comporta.
Il concetto di "altra utilità" previsto dal reato di corruzione (come peraltro previsto anche nei reati di concussione e induzione indebita a dare e promettere utilità), è, come visto, molto esteso. La giurisprudenza, infatti, ne ha dilatato la portata, proprio per comprendere nella fattispecie punitiva quelle condotte poste in essere dai soggetti che commettono il delitto, per evitare, per quanto possibile, l'accertamento del sodalizio che porta alla commissione del reato.
Anche in un caso come quello descritto, in cui il lasso di tempo trascorso (più di due anni) e i destinatari della corresponsione di denaro (un Gruppo sportivo) potevano creare dubbi interpretativi, la giurisprudenza non ha avuto incertezze, richiamando i principi pronunciati dalla Cassazione, nell'inquadrare quelle medesime condotte nel reato di corruzione propria di cui all'art 319 c.p. (tratto dalla newsletter 09.12.2015 n. 129 di http://asmecomm.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Oneri di urbanizzazione secondaria – destinazione della quota spettante alle chiese ed altri edifici per servizi religiosi - Parere (Regione Emilia Romagna, parere 04.12.2015 n. 862614 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI  - VARI: Indebite pressioni sugli organi politici.
IL CASO: Un "consigliere politico" di un noto parlamentare, accetta importanti somme di denaro per fare pressioni affinché venga approvato, da un ente ministeriale, un importante finanziamento a favore di un consorzio per il completamento di un'opera di pubblico interesse. I fatti avvengono prima dell'entrata in vigore della L. 190/2012.
Nel caso di specie, il "consigliere politico" può rispondere anche del reato di corruzione o risponde di altro reato?

(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Nel caso di specie, va preliminarmente esclusa la possibilità di ravvisare il reato di corruzione nei fatti prospettati nel quesito.
Ed in vero la figura del "consigliere politico", che negli ultimi anni si è spesso vista associata a organi ministeriali, non è in realtà prevista da alcuna norma giuridica, non facendo parte di alcun organico ministeriale. Spesso si tratta di parlamentari che proprio grazie rapporti di fiducia con un determinato ministro vengono discrezionalmente designati come loro consiglieri personali su temi concernenti la politica.
Il "consigliere politico", quindi, non ricopre un incarico istituzionalizzato e le azioni da questi svolte non rientrano e non sono riconducibili all'esercizio di alcuna delle pubbliche funzioni richiamate lo stesso codice penale all'articolo 357.
Conseguentemente, non può essere attribuita alla figura del "consigliere politico" la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio. Questo presupposto, fa quindi venir meno la possibilità che allo stesso possa essere contestato il reato tipico della corruzione, non avendo agito quale espressione di una pubblica funzione ma sostanzialmente quale soggetto privato ben inserito e introdotto nei meccanismi ministeriali.
Viene invece in rilievo, nel caso di specie, il nuovo reato di traffico di influenze illecite, articolo 346-bis c.p., così come introdotto dalla legge 190/2012. La norma così dispone: "Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale".
Prima dell'entrata in vigore dell'art. 346-bis c.p., queste stesse fattispecie erano incriminabili per "millantato credito" (art. 346 c.p.).
Basti ricordare, infatti, che la giurisprudenza più recente aveva esteso il concetto di millanteria, al punto che si è considerata non necessaria una condotta ingannatoria o raggirante, perché ciò che rileva è la vanteria dell'influenza sul pubblico ufficiale, che, da sola, a prescindere dai rapporti effettivamente intrattenuti, offende l'immagine della pubblica amministrazione (v. ex plurimis, Cass., Sez. 6, 04.03.2003 n. 16255, Pirosu, rv 224872; idem, 17.03.2010 n. 13479, D'Alessio, rv 246734).
Nel caso di specie, quindi, con fatti avvenuti prima del novembre 2012, ovvero dell'entrata in vigore del nuovo reato di traffico di influenze illecite, sarebbe stato applicabile proprio tale tipo di contestazione penale. In realtà, con la nuova norma il Legislatore individua l'autore del reato non più in chi millanta influenze, non importa se vere o false, ma unicamente in chi sfrutta influenze effettivamente esistenti (il che giustifica il diverso trattamento riservato a chi sborsa denaro ripromettendosi di trarne vantaggio: non punibile nel primo caso, che ha per protagonista un millantatore puro sedicente faccendiere, concorrente nel reato nel secondo caso, che vede all'opera un faccendiere vero realmente in contatto con il pubblico ufficiale).
Tuttavia, in considerazione del fatto che il nuovo art. 346-bis prevede norme più miti rispetto al reato di millantato credito, e in applicazione del principio della applicazione della norma più favorevole al reo, ne consegue che i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, nei quali il cosiddetto faccendiere ha ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente, che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346 c.p., devono ora essere ricondotti nella nuova.
Si tratta, come già ha avuto modo di osservare la Cassazione, di un risultato paradossale determinato da una riforma presentata all'insegna del rafforzamento della repressione dei reati contro la pubblica amministrazione che ha prodotto, almeno in questo caso, l'esito contrario.
Infatti, mentre l'art. 346 c.p., comma 1, stabilisce la pena della reclusione da uno a cinque anni, l'art. 346-bis c.p., commina la reclusione da uno a tre anni, ossia una pena il cui massimo edittale, nel caso di affermazione della responsabilità penale, comporta l'irrogazione di una sanzione meno severa e, peraltro, preclude l'applicazione di qualsivoglia misura cautelare.
Per tale ragione, nel caso di specie descritto, dovendosi qualificare il fatto nell'alveo del reato di traffico di influenze illecite, non potranno applicarsi misure cautelari quali la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari (tratto dalla newsletter 01.12.2015 n. 128 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Doppio lavoro del dipendente, la PA deve sempre denunciare il fatto.
IL CASO: A seguito di una segnalazione, l'amministrazione è venuta a conoscenza che un suo dipendente di ruolo, a tempo pieno, ha svolto e tuttora svolge attività lavorativa libero professionale retribuita presso soggetti privati.
L'amministrazione è tenuta a denunciare il fatto tenuto conto che, in realtà, non vi è certezza né alcuna prova che il lavoratore abbia effettivamente svolto l'attività extra lavorativa segnalata?

(Risponde l’Avv. Nadia Corà)
In presenza di segnalazione o di esposto con il quale si evidenzia all'amministrazione l'attività extra lavorativa del dipendente, quest'ultima, verificata l’assenza di una preventiva autorizzazione, ha l'obbligo di intimare al dipendente di versare, entro un termine prefissato, nelle casse dell'ente la somma esattamente equivalente all'ammontare dei compensi percepiti per l'attività extra istituzionale non autorizzata, ai sensi dell'articolo 53, comma 7, del decreto legislativo 165/2001.
L'omesso adempimento dell'intimazione, e la conseguente omissione del versamento del compenso da parte del dipendente, di regola motivati sulla base della negazione dell'esistenza di lavoro non autorizzato, non esime l'amministrazione dall’obbligo di denuncia del fatto alla Corte dei conti.
Si tratta, laddove venga accertato il fatto, di un caso di lesione del principio di esclusività della prestazione nei confronti dell'ente pubblico, contrattualmente previsto, e di mancato riversamento nel bilancio dell'ente di appartenenza dei compensi percepiti dal dipendente non autorizzato.
Per tale motivo, in mancanza di versamento del compenso entro il termine assegnato nell'intimazione, sorge in capo all'amministrazione il preciso obbligo di denunciare, alla competente sezione regionale della Corte dei conti, la condotta del dipendente potendosi configurare, in tale ipotesi, e qualora i fatti risultino accertati, la responsabilità amministrativa-contabile del dipendente medesimo, per aver prestato attività libero-professionale retribuita presso soggetti privati pur non avendo mai presentato all'amministrazione richiesta di autorizzazione allo svolgimento di detta attività.
Va rilevato che, a seguito della denuncia alla Corte dei conti, il procedimento che si incardina prevede l’apertura, da parte della Procura contabile, di norma mediante delega alla Guardia di finanza, di una apposita indagine finalizzata all'accertamento dello svolgimento delle prestazioni non autorizzate e alla conseguente indebita percezione dei compensi. In questa fase di indagini, il dipendente ha la possibilità di far pervenire proprie osservazioni. Tuttavia, qualora dette osservazioni non vengano acquisite, ovvero non siano tali da discolpare il dipendente, la Procura erariale procede a notificare il c.d. “invito a dedurre”, attraverso il quale viene consentita al dipendente l'esplicazione delle proprie difese in una fase che non è ancora di natura processuale.
Anche in questo caso, laddove non risultino superati gli addebiti mossi dalla Procura, contenuti nell'invito a dedurre, il procedimento prosegue attraverso la citazione del dipendente davanti alla Corte dei conti per la sottoposizione al giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, che vede la procura regionale in qualità di parte attrice e il dipendente in qualità di convenuto.
La Corte dei conti, investita del giudizio di responsabilità, svolge il processo prendendo a riferimento, nel caso di specie, gli obblighi incombenti sul dipendente pubblico ai sensi dell'articolo 53, comma 7, del decreto legislativo n. 165/2001 al quale, com'è noto, è stato aggiunto il comma 7-bis. Quest'ultimo è indicativo della natura "sanzionatoria" e "repressivo-preventivo" della prescrizione che statuisce la responsabilità erariale del dipendente che omette di versare i proventi dell'attività extra lavorativa non autorizzata all'amministrazione, in quanto norma volta a scoraggiare la condotta antigiuridica, largamente diffusa nella prassi del c.d. doppio lavoro o “lavoretto” da eseguire nel “dopolavoro” pubblico, senza che nulla ne sappia, ufficialmente, l'amministrazione.
La reazione sanzionatoria, che consiste nella “non utilità”, per il lavoratore, della prestazione non autorizzata, in ragione della privazione dei compensi indebitamente percepiti all'amministrazione, viene comminata con sentenza della Corte dei conti a seguito dell'accertamento, da un lato, della condotta del dipendente di violazione dei doveri d'ufficio e, dall'altro lato, della colpa grave del dipendente medesimo che, in questo caso, è ravvisabile nella consapevole violazione dei doveri d'ufficio e, in particolare, nella consapevole omissione della richiesta di autorizzazione.
La somma che viene recuperata è quella al netto delle imposte corrisposte dal dipendente, in quanto effettivamente entrata nella relativa sfera patrimoniale.
La corte dei conti può tuttavia tenere conto, nello stabilire, con sentenza di condanna, l'ammontare della somma da recuperare a carico del dipendente, dell'assenza di censure sulla resa lavorativa, della qualifica del dipendente, e di ogni altro elemento concreto di attenuazione della colpa quale, ad esempio, una non adeguata conoscenza del regime di responsabilità per non avere l'amministrazione svolto, a favore dei propri dipendenti, adeguata attività formativa e divulgativa sui doveri d'ufficio e sul codice di comportamento.
In questo caso una parte del danno resta a carico dell'amministrazione, in conseguenza della mancata attivazione della stessa per promuovere la cultura della legalità, dell'integrità e della prevenzione dei fenomeni di irregolarità e di abuso nell'esercizio delle funzioni pubbliche (tratto dalla newsletter 24.11.2015 n. 127 di http://asmecomm.it).

ENTI LOCALI: Piano Anticorruzione obbligatorio anche per le Società partecipate.
IL CASO: Quali misure può adottare il responsabile per la Prevenzione della Corruzione rispetto all'omissione degli adempimenti da parte della società partecipata?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Nell'ambito dell'incarico di cui all'art. 1, comma 7, della Legge n. 190/2012, di Responsabile per la prevenzione della corruzione, è ricompreso il compito di verificare l'efficace attuazione del piano e la sua idoneità. A tal fine il RPC è tenuto a redigere, entro il 15 dicembre di ogni anno e secondo la Scheda standard predisposta dall'ANAC, la relazione annuale di rendiconto sull'efficacia delle misure di prevenzione definite nel piano. In detta relazione standardizzata va rendicontata anche l'attività di vigilanza nei confronti di enti e società partecipate e/o controllate con riferimento all' adozione e attuazione del PTPC o di adeguamento del modello di cui all'art. 6 del D.Lgs. 231/2001.
Nel 2014, il rendiconto dell'attività di vigilanza e controllo sugli enti e società partecipate era contenuto nella parte della Scheda standard dedicata alle "Misure di prevenzione", Sezione 3 "Misure ulteriori", Domanda.3.B.3.
Ne consegue che il PRC del Comune, che si identifica normalmente nel segretario comunale, ha l'obbligo di controllare non solo che gli enti e le società partecipate e/o controllate abbiano effettivamente adottato il PTPC o l'adeguamento del modello di cui all'art. 6 del D.Lgs. 231/2001, ma ha, altresì, l'obbligo di controllare che gli enti e le società partecipate e/o controllate abbiano dato concreta attuazione alle misure di prevenzione della corruzione contenute nel PTPC o nell'adeguamento del modello 231/2001.
Anche per gli enti e le società partecipate e/o controllate dal Comune va ricompresa nell'ambito delle misure di prevenzione della corruzione e dell'illegalità, la formazione anticorruzione destinare, all'interno dei suddetti enti e società, al RPC e al RTTI -laddove nominati-, agli organi di controllo interno, ai dirigenti e ai dipendenti. I contenuti della formazione debbono essere rivolti alla normativa anticorruzione e per la trasparenza e integrità, al PTCP e al PTTI, alla gestione del rischio, ai codici di comportamento, agli incandidabilità e incompatibilità degli incarichi, al conflitto di interesse, alla normativa sui contratti pubblici, alla tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, alla normativa penale sulla corruzione e, infine, ad altri contenuti ritenuti necessari in relazione al potenziamento delle capacità individuali e di gruppo.
Che la formazione anticorruzione costituisca una misura obbligatoria anche per gli enti e le società partecipate e/o controllate dal Comune si ricava anche dalla recente Determinazione ANAC n. 8 del 17/06/2015 relativa alle «Linee guida per l'attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici».
Le Linee guida sono innanzitutto indirizzate alle società e agli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni, nonché agli enti pubblici economici. Le stesse sono rivolte, inoltre, alle amministrazioni pubbliche che vigilano, partecipano e controllano gli enti di diritto privato e gli enti pubblici economici. Come si legge testualmente nel testo della determinazione "Ad avviso dell'Autorità, infatti, spetta in primo luogo a dette amministrazioni promuovere l'applicazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza da parte di tali enti. Ciò in ragione dei poteri che le amministrazioni esercitano nei confronti degli stessi ovvero del legame organizzativo, funzionale o finanziario che li correla... Dal quadro normativo sinteticamente tratteggiato emerge con evidenza l'intenzione del legislatore di includere anche le società e gli enti di diritto privato controllati e gli enti pubblici economici fra i soggetti tenuti all'applicazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza. La ratio sottesa alla legge n. 190 del 2012 e ai decreti di attuazione appare, infatti, quella di estendere le misure di prevenzione della corruzione e di trasparenza, e i relativi strumenti di programmazione, a soggetti che, indipendentemente dalla natura giuridica, sono controllati dalle amministrazioni pubbliche, si avvalgono di risorse pubbliche, svolgono funzioni pubbliche o attività di pubblico interesse".
La citata estensione delle misure di prevenzione della corruzione e di trasparenza agli enti e società controllate e/o partecipate include allora anche la misura di prevenzione costituita dalla formazione che va, come anzidetto, adottata e attuata anche in tali organismi.
Il RPC, in quanto soggetto che svolge un ruolo di impulso e di coordinamento sulla attuazione del PTPC del Comune, nel quale va ricompresa, come misura ulteriore, la vigilanza sull'adozione e sulla attuazione delle misure anticorruzione da parte degli organismi privati, e in quanto soggetto tenuto alla vigilanza e al controllo sull'attuazione delle misure, ha l'obbligo, nel caso di omissione:
- di contestare per iscritto, agli enti e società controllate e/o partecipate, l'inadempimento, diffidando gli stessi all'adempimento integrale e tempestivo, con assegnazione di un termine per l'adempimento;
- di segnalare all'ANAC, in caso di perdurante omissione, pur in presenza di diffida, l'inadempimento dell'ente e società partecipata e/o controllata.
Infine, il RPC è tenuto a rendicontare detto inadempimento nell'ambito della relazione da effettuare entro il 15 dicembre di ciascun anno. Per l'anno 2014, la suddetta rendicontazione andava effettuata nella parte della relazione dedicata alle considerazioni generali sull'efficacia dell'attuazione del PTPC e sul ruolo del RPC, nelle seguenti sezioni:
- "Aspetti critici dell'attuazione del PTCP", con riferimento alla misura di prevenzione ulteriore rappresentata dalla vigilanza nei confronti di enti e società partecipate e/o controllate;
- "Aspetti critici del ruolo del RPC" , rilevando l'inadempimento degli organismi partecipati e/o controllati come fattore che ha ostacolato l'azione di impulso e di coordinamento del RPC rispetto all'attuazione del PTPC, Gli obblighi di impulso, coordinamento, controllo e vigilanza del RPC nei confronti degli enti e società partecipati e/o controllati, in quanto integrati negli obiettivi dirigenziali, costituiscono oggetto di valutazione ai fini della corresponsione dell'indennità di risultato, tenuto conto della responsabilità dirigenziale che ne deriva in caso di inadempimento, oltre che della responsabilità di natura disciplinare (tratto dalla newsletter 12.11.2015 n. 126 di http://asmecomm.it).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, ecotassa con addizionale. Nei comuni che non raggiungono gli obiettivi di raccolta. Il collegato ambiente apre la strada a possibili rincari del tributo sui conferimenti in discarica.
Salasso in arrivo nei comuni inefficienti sul fronte della raccolta differenziata e del riciclaggio dei rifiuti. Al tributo per il conferimento in discarica verrà applicata un'addizionale del 20%. A pagarla saranno i municipi tutte le volte in cui a livello comunale o di Ato (Ambito territoriale ottimale) non siano stati conseguiti gli obiettivi minimi di raccolta. Al contrario, nei comuni efficienti, in cui il livello di raccolta differenziata supera gli standard previsti a livello statale, il tributo potrà essere scontato dal 30 al 70%.

A prevederlo è la legge recante misure per promuovere la green economy e il contenimento dell'uso eccessivo del suolo (meglio conosciuta come collegato ambientale -
Atto Camera n. 2093-B) approvata in via definitiva dalla camera dei deputati la settimana scorsa (si veda ItaliaOggi del 23/12/2015) dopo una gestazione parlamentare di oltre un anno.
Il rincaro della cosiddetta «ecotassa», istituita esattamente vent'anni fa (commi 24 e seguenti dell'art. 3 della legge n. 549/1995) a favore delle regioni per disincentivare lo smaltimento mediante semplice deposito in discarica o incenerimento senza il recupero di energia, è contenuto in una modifica inserita nel passaggio al senato e che la camera dei deputati ha confermato in terza lettura.
Come detto, al rincaro del 20% a carico dei comuni inefficienti, fanno da contraltare tutta una serie di sconti previsti per gli enti virtuosi. Per miglioramenti della raccolta differenziata (rispetto agli standard nazionali) fino al 10% la riduzione dell'ecotassa sarà del 30% e salirà fino al 40, 50, 60 e 70% se il superamento del livello di raccolta differenziata raggiungerà rispettivamente il 10, 15, 20 e 25%.
L'addizionale confluirà in un apposito fondo regionale destinato a finanziare interventi di prevenzione della produzione di rifiuti, incentivi per l'acquisto di prodotti e materiali riciclati e attività di informazione ai cittadini. Le regioni, inoltre, potranno prevedere incentivi economici per incrementare la raccolta differenziata e ridurre la quantità dei rifiuti non riciclati nei comuni.
Ecotassa al restyling.
Il collegato ambientale estende l'ecotassa anche ai rifiuti inviati agli impianti di incenerimento senza recupero energetico. Finora, invece, si pagava solo per il deposito di rifiuti solidi in discarica. Vengono assoggettati al pagamento del tributo, nella misura ridotta del 20%, in ogni caso, tutti gli impianti classificati esclusivamente come impianti di smaltimento mediante incenerimento a terra. Il gettito dell'ecotassa, come detto, andrà tutto alle regioni. È stata infatti soppressa la norma della legge del 1995 che ne attribuiva una quota del 10% alle province.
Meno rifiuti meno Tari.
L'articolo 36, introdotto nel corso dell'esame al senato, prevede la possibilità per i comuni di stabilire riduzioni tariffarie ed esenzioni della Tari in caso di effettuazione di attività di prevenzione nella produzione di rifiuti. Le riduzioni tariffarie dovranno essere commisurate alla quantità di rifiuti non prodotti (nuova lettera e-bis) del comma 659 della legge 147/2013).
Si tratta, in pratica, di una embrionale applicazione del principio comunitario «chi inquina paga» fino ad ora rimasto sulla carta e nuovamente rinviato ad opera della legge di stabilità 2016. Spetterà al ministero dell'ambiente intervenire con decreto per assicurare il rispetto della direttiva 2008/98/Ce.
Il dicastero guidato da Gian Luca Galletti avrebbe dovuto emanare il provvedimento entro giugno 2014, quindi un anno e mezzo fa. Ora il collegato ambientale riduce un po' il ritardo, spostando la dead line al 01.01.2015 (articolo ItaliaOggi del 30.12.2015).

VARIDoppia identificazione per la sede dell'impresa individuale. Un parere del Ministero dello Sviluppo Economico.
La sede dell'impresa individuale può coincidere con la residenza del titolare. Ma può anche non coincidere, necessariamente, con il luogo in cui avviene lo scambio o la produzione di beni o servizi ma, piuttosto, con il luogo dove viene svolta l'attività di organizzazione dei fattori produttivi (capitale, lavoro) volta all'ottenimento di un prodotto idoneo a soddisfare i bisogni dei consumatori.

Con due diversi pareri (parere 28.12.2015 n.
283970 di prot. e parere 14.01.2013 n. 5095 di prot.) il Ministero dello sviluppo economico fotografa le diverse possibilità civilistiche per l'individuazione della sede dell'impresa individuale.
Se la sede dell'impresa e quella di svolgimento dell'attività divergono, al fine di ottemperare agli adempimenti previsti dalla disciplina in materia di pubblicità legale d'impresa il titolare sarà tenuto sia a iscrivere la sede «principale» presso l'ufficio del registro delle imprese della competente camera di commercio, sia a denunciare l'avvio dell'attività presso una diversa localizzazione (anche in una diversa provincia).
Se, poi, la sede risulta «inattiva» nel momento in cui si denuncia l'avvio dell'attività presso l'unità locale, dovrà procedersi all'apposita comunicazione nei confronti del registro delle imprese competente per la sede, volta a dichiarare, tra l'altro, la data di inizio dell'attività dell'impresa (nel suo complesso) e l'attività prevalente dell'impresa (sempre nel suo complesso), secondo quanto previsto dalle istruzioni per la compilazione della modulistica registro imprese/Rea di cui alla circolare ministeriale n. 3668/C del 27/02/2014 (articolo ItaliaOggi del 30.12.2015).

APPALTI: Gare, il 10% in anticipo. La misura in vigore fino al 30.06.2016. MILLEPROROGHE/ Il decreto sarà pubblicato in Gazzetta il 31.
Prorogato fino a tutto giugno 2016 il regime di qualificazione agevolato per i progettisti, per le imprese di costruzioni e per i contraenti generali; anticipazione del 10% sull'importo del contratto fino al 30.06.2016.

Lo prevede il dl «mille proroghe» (che sarà pubblicato il 31 dicembre in Gazzetta Ufficiale) che contiene diversi rinvii relativi, fra gli altri, anche alle norme sulla qualificazione di progettisti e imprese di costruzioni che operano nel settore degli appalti pubblici.
Per quanto riguarda la qualificazione dei progettisti il decreto dite rivende sulla della disposizione (art. 253, comma 15-bis del codice dei contratti pubblici) che consente di qualificarsi nelle gare per servizi di ingegneria e architettura con i migliori cinque anni del decennio (per il requisito del fatturato quinquennale) e con i migliori tre anni del quinquennio (per il requisito del personale triennale).
La norma, introdotta nel 2010 quando fu chiara l'entità della riduzione del domanda pubblica e della crisi, già prorogata nel 2013, è quindi oggetto e di un nuovo rinvio così da consentire ai progettisti di continuare a utilizzare il regime agevolato. Nelle intenzioni del governo si dovrebbe trattare quasi di una proroga tecnica dal momento che, fra aprile e luglio 2016, dovrebbe essere completato il lavoro della commissione ministeriale che sta lavorando al decreto delegato di attuazione della legge delega di riforma del codice dei contratti pubblici di recepimento delle direttive europee sugli appalti e sulle concessioni.
Analogamente viene anche prorogato fino a fine giugno il regime agevolato di qualificazione per le imprese di costruzioni che prende come riferimento il decennio per la soddisfazione del requisito della cifra d'affari in lavori e per i cosiddetti lavori di punta.
Analogo discorso -e quindi analoga proroga al 30.06.2016- viene fatto per la qualificazione dei contraenti generali che, in relazione alle iscrizioni richieste o rinnovate entro fine giugno, potranno documentare i requisiti di idoneità tecnica e organizzativa con il possesso di attestazioni soa per importi illimitati, differenziati a seconda delle classifiche di iscrizioni. Il decreto prevede anche la proroga della disposizione che obbliga le stazioni appaltanti ad anticipare all'impresa che si è aggiudicata il lavoro fino al 10 per cento dell'importo contrattuale.
In particolare l'efficacia dell'articolo 8, comma 3-bis, del decreto legge 31.12.2014 viene posticipata dal 31.12.2015 al 30.06.2016. Anche in questo caso l'intento è quello di dare un minimo di tranquillità alle imprese che devono approvate il cantiere, dopo la consegna dei lavori (articolo ItaliaOggi del 29.12.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Unioni prorogate, ma con l'incentivo. Unioni di comuni prorogate, ma con l'incentivo.
È l'effetto combinato e un po' paradossale del decreto «milleproroghe» e della legge di Stabilità per il 2016.
Il primo provvedimento ha imbarcato l'ormai consueto rinvio degli obblighi di gestione associata delle funzioni fondamentali da parte dei piccoli comuni. È del 2010 che i mini enti dovrebbero aggregarsi per gestire il proprio core business, stipulando fra di loro delle convenzioni o, appunto, dando vita ad unioni di comuni.
Finora, però, sono poche le amministrazioni che hanno preso sul serio la faccenda, come dimostrato dai più recenti monitoraggi del Viminale e della Corte dei conti.
I giudici contabili, inoltre, hanno evidenziato come le forme associative spesso determinino un incremento delle spese, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe.
Colpa, secondo l'Anci, di una disciplina che, da un lato, è troppo rigida (nel senso che non tiene conto delle peculiarità dei diversi territori), dall'altro è poco puntuale nel definire i servizi da gestire in forma associata.
Da qui la richiesta, al di là dell'inevitabile proroga, di un restyling normativo che superi il mero riferimento alla soglie demografiche minime da raggiungere e si ponga nell'ottica dei bacini funzionali. Per questo, i sindaci preferiscono parlare di sospensione degli obblighi, in attesa di riscrivere le regole del gioco (probabilmente con un nuovo decreto «enti locali» da mettere in calendario entro la primavera).
Buone notizie, invece, per le amministrazioni che, superando la logica dei campanile, si sono già unite. A loro favore, la stabilità mette a disposizione una quota parte del fondo di solidarietà comunale pari a 30 milioni, mentre altri 30 andranno agli enti che buttando il cuore oltre l'ostacolo si sono addirittura fusi.
A favore di questi ultimi, inoltre, sarà raddoppiato il contributo straordinario che viene erogato dallo Stato per 10 anni e che è parametrato ai trasferimenti del 2010. Ciò nel tentativo di compensare al danno derivante dalla cancellazione dell'esenzione quadriennale dal Patto e dall'assoggettamento al nuovo pareggio di bilancio. Nessun vincolo, invece, per le unioni, che sotto questo profilo, quindi, risultano oggi più vantaggiose delle fusioni.
Infine, merita ricordare che sia le unioni che i comuni nati da fusione avranno le mani più libere sulla gestione del personale, potendo assumere il 100 per cento dei cessati nell'anno precedente. Ma anche qui c'è un paradosso: la norma di favore richiama gli enti non soggetti al Patto nel 2015 e quindi esclude tutte le unioni che verranno costituite dal prossimo 1° gennaio (articolo ItaliaOggi del 29.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Mud in G.U., l'esordio con la denuncia d'aprile. Mud pronti e via.
Sulla G.U. n. 300 di ieri è stato pubblicato il dpcm 21/12/2015 «Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l'anno 2016».
Il modello sarà utilizzato per le dichiarazioni da presentare, entro la data prevista dalla legge 25.01.1994, n. 70 e cioè entro il 30 aprile di ogni anno, con riferimento all'anno precedente e sino alla piena entrata in operatività del Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri).
Informazioni aggiuntive saranno rese disponibili sui siti sviluppoeconomico.gov.it, minambiente.it, isprambiente.gov.it, unioncamere.it, infocamere.it ed ecocerved.it (articolo ItaliaOggi del 29.12.2015).

PATRIMONIO: Edilizia, via ai controlli sui solai. Prorogata al 31/1 la scadenza per l'affidamento dei monitoraggi. Partono le verifiche su 7.304 scuole italiane. Giannini firma il decreto che sblocca 40 mln.
Partono i controlli sui solai e i controsoffitti di 7.304 scuole primarie, medie e superiori. Il ministro dell'istruzione Stefania Giannini ha firmato, il 10 dicembre, il decreto di approvazione delle graduatorie regionali degli istituti in cui saranno effettuati gli interventi previsti dalla Buona Scuola con uno stanziamento di 40 milioni di euro per il 2015.
Tuttavia, la spesa complessiva sarà inferiore alle previsioni: oltre 36 milioni di euro, per insufficienza di candidature in determinate regioni e/o province, si legge nel testo del decreto.
Così le risorse non assegnate saranno redistribuite attraverso scorrimento degli interventi presenti in graduatoria con un successivo decreto del Miur.
Esclusi, invece, dalle indagini diagnostiche sugli elementi strutturali e non strutturali degli edifici scolastici gli asili nido e le scuole materne di competenza degli enti locali così come le scuole paritarie. La legge 107, infatti, precisa che i monitoraggi riguarderanno i soli immobili adibiti a uso scolastico statale (commi 178 e 179). Il decreto, inoltre, proroga al 31 gennaio prossimo il termine inizialmente fissato per l'affidamento delle indagini diagnostiche.
«Si tratta», ricorda Giannini,
«di un'altra delle azioni strategiche del nostro Piano per l'edilizia scolastica» «per garantire maggiore sicurezza ai nostri ragazzi» e, in questo caso, prevenire crolli. In totale sono arrivate al ministero 13.584 candidature da parte degli enti locali, che hanno risposto alla procedura pubblica indetta lo scorso 7 agosto e avviata ad ottobre.
Alla data di scadenza, il 18 novembre, però erano arrivate al Miur 1.559 candidature. Si è allora considerato necessario, si precisa nel decreto, per garantire una più equa distribuzione territoriale , «ripartire le risorse sia a livello regionale che a livello provinciale, tenendo conto dei dati relativi al numero di edifici, alla popolazione scolastica e all'affollamento delle strutture contenuti nell'Anagrafe dell'edilizia scolastica, già utilizzati per l'erogazione delle risorse relative alla Programmazione unica nazionale 2015-2017 in materia di edilizia scolastica».
Il maggior numero di interventi, 1.127, è previsto in Lombardia, seguita dalla Toscana con 754 e dal Piemonte con 636, poco meno dei 617 in programma in Veneto. Saranno invece 580 in Campania, 510 in Sicilia, 296 in Calabria. In Puglia in arrivo 488 monitoraggi, tanti quanti nel Lazio. Mentre nella piccola Basilicata saranno ben 113, su un totale di 141 istituzioni scolastiche censite nell'anagrafe scuole del sito dell'Usr relativa all'anno scolastico 2013-14.
L'approvazione del decreto è un passo importante stimolato dalla richieste dei cittadini per Adriana Bizzari, coordinatrice nazionale Scuola di Cittadinanzattiva, che invita genitori e studenti a prendere visione dell'elenco degli interventi sul sito del Miur, a vigilare affinché le indagini siano realizzate nel minor tempo possibile per scongiurare altri crolli ed altre tragedie ed a segnalare eventuali ritardi o problemi (articolo ItaliaOggi del 29.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: LA LEGGE DI STABILITA' 2016/ Tetto a 3 mila euro per il contante. Dal 1° gennaio nuove parametri per pagamenti e transazioni. Fermo il limite per le p.a..
Dal 01.01.2016 il divieto di pagamenti e transazioni in contanti sale dai 1.000 ai 3.000 euro, mentre resta fermo il limite di 1.000 euro per le pubbliche amministrazioni.
Il nuovo limite si applicherà anche in relazione ai pagamenti delle locazioni di unità abitative e nel trasporto merci. Sono alcune delle novità previste dalla legge di stabilità in merito ai pagamenti in contanti.
Gli effetti delle modifiche all'art. 49. Con le modifiche apportate all'art. 49, comma 1, del dlgs 231/2007, il limite non raggiungibile per le transazioni in contanti (pagamento fatture, finanziamento fra soci e società, prelevamenti utili dei soci dalle società) regolate in unica soluzione, sale da 1.000 a 3.000 euro. Ne consegue che dal 1° gennaio tutte le operazioni fra privati (persone fisiche o persone giuridiche) regolate in contanti entro il limite di 2.999,99 euro saranno assolutamente lecite.
In merito al passato, tuttavia, in relazione alla circostanza che, sia le irregolarità sulle transazioni che le omesse comunicazioni, sono assoggettate a sanzioni amministrative e non penali (art. 58, commi 1 e 7-bis), in assenza di una disposizione normativa specifica deve ritenersi non applicabile il principio del favor rei, per pagamenti in contanti compresi fra i 1.000 e i 2.999,99 euro.
Il limite dei 3.000 euro varrà anche per le locazioni e trasporto merci. Le nuove disposizioni, peraltro, per espressa previsione normativa si applicano anche ai canoni di locazione di unità abitative e ai pagamenti dei corrispettivi per le prestazioni rese in adempimento dei contratti di trasporto di merci su strada.
Riguardo al primo, ossia l'art. 1, comma 50, legge 27/12/2013 n. 147, ricordiamo che obbligava i pagamenti, fatta eccezione per quelli di alloggi di edilizia residenziale pubblica, quale ne fosse l'importo, in modalità che escludevano l'uso del contante assicurandone la tracciabilità.
Tale norma era peraltro stata resa sostanzialmente inefficace dalla nota del Mef, prot. 10492 del 05/02/2014 con la quale si ritenevano «critiche» unicamente le movimentazioni di contante eccedenti la soglia fissata dalla legge (1.000 euro).
In merito al secondo, poi, l'art. 32-bis del dl 133/2014 (legge 164/2014) aveva stabilito il divieto, per tutti i soggetti della filiera dei trasporti, di pagare in contanti i corrispettivi di qualsiasi importo. Entrambi i settori saranno ora sottoposti alle ordinarie regole antiriciclaggio di cui all'art. 49 del dlgs 231/2007.
Il nuovo limite dei 3.000 euro non avrà alcun impatto sugli assegni. Questi ultimi potranno essere emessi privi di clausola di intrasferibilità esclusivamente per importi inferiori ai 1.000 euro.
Per gli assegni bancari e postali, quindi, in relazione alla mancata modificazione del comma 5 dell'art. 49 del dlgs 231/2007, permarrà l'obbligo di indicare il nome e la ragione sociale del beneficiario e la clausola di non trasferibilità a partire dai 1.000 euro.
Viene pertanto a essere scisso un limite, quello della trasferibilità dei contanti e della trasferibilità degli assegni, fino a oggi sempre univoco nella legislazione antiriciclaggio (si parte dai 20 milioni di lire della legge 197/1991). In relazione ai forti rischi di attività illecite e di evasione resta inoltre a mille euro il limite dei trasferimenti di contanti per i money transfer.
Operatori del terzo settore che utilizzano la legge 398/1991. Per una serie di operatori non profit (Associazioni sportive dilettantistiche iscritte al Coni, tutte le associazioni senza scopo di lucro e pro loco, le società sportive dilettantistiche in qualunque forma costituite (art. 90 legge 289/2002), le associazioni bandistiche e i cori amatoriali, le filodrammatiche, le associazioni di musica e danza popolare (art. 2, comma 31, legge n. 350 del 24/12/2003)), l'art. 1, comma 713, della legge 23/12/2014 n. 190 (legge di stabilità per il 2015) ha portato a 1.000 il limite (non raggiungibile) delle operazioni eseguibili in contanti.
A partire da tale soglia vige l'obbligo di operare le transazioni finanziarie con modalità «tracciabili» (bonifico, assegni, pos ecc.).
Detto obbligo di tracciabilità era stato introdotto con il comma 5 dell'art. 25 della legge n. 133/1999 riguardo i pagamenti (inizialmente se d'importo superiore a 516,46 euro) a favore di società e associazioni sportive dilettantistiche e successivamente esteso, a seguito della risoluzione dell'Agenzia delle entrate n. 102 del 19/11/2014 anche alle associazioni senza fini di lucro e alle associazioni pro-loco (oltre che alle associazioni bandistiche e cori amatoriali, filodrammatiche, di musica e danza popolare, legalmente costituite senza fini di lucro).
In proposito, è interessante ricordare che in questi casi l'inosservanza della disposizione sulla tracciabilità comportava la decadenza dalle agevolazioni della legge 16.12.1991, n. 398 ma anche l'applicazione di una sanzione pecuniaria (da 258,23 a 2.065,83 euro di cui all'art. 11 del dlgs 472/1997).
Tale decadenza dalle agevolazioni, interessava, a seguito della citata risoluzione 102/E, non solo i soggetti che in concreto avevano esercitato l'opzione per il regime forfettario ma anche coloro che fossero destinatari della normativa (a prescindere, quindi, dall'effettiva opzione).
Ora, a seguito della riforma della legge di stabilità 2016, tuttavia, le transazioni da 1.000 euro fino a 3.000 euro (escluse) non comporteranno più l'applicazione delle sanzioni antiriciclaggio.
In merito a dette sanzioni, comunque va precisato che:
- l'art. 19 del dlgs 158/2015 (riforma sanzioni tributarie) ha abrogato la parte dell'art. 25, comma 5, legge 133/1999 eliminando la decadenza dalla legge 398 in caso di omessa tracciabilità di importi superiori a 1.000 da parte di associazioni sportive dilettantistiche e ssd, confermando l'applicazione delle sole sanzioni di cui all'art. 11 dlgs 471/1997;
- l'art. 15 del dlgs 158/2015 al comma 1, lett. m), ha modificato il citato art. 11, punto 1, portando l'importo delle sanzioni a 250 (anziché 258) e a 2000 (anziché 2065);
- l'art. 1, c. 68, della legge di stabilità 2016 anticipa la decorrenza degli effetti del titolo II dlgs 158/2015; quindi sia dell'art. 15 (modifica importi sanzioni) sia dell'art. 19 (eliminazione decadenza 398) al 01.01.2016 anziché al 01.01.2017.
Pertanto l'art. 11 dlgs 471/1997 è in vigore nella «vecchia» versione sino al 31/12/2015 e nella «nuova» dall'01/01/2016 (secondo l'anticipo della decorrenza della legge di stabilità di un anno) con previsione delle nuove sanzioni di 250 e 2.000
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Obbligo di accettare le carte.
Non solo le carte di debito ma anche quelle di credito devono essere ordinariamente accettate in pagamento da parte dei soggetti che effettuano l'attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali. L'obbligo tuttavia può essere non applicato nei casi di oggettiva impossibilità tecnica. Sono queste le indicazioni integrative al quarto comma dell'art. 15 del dl 179/2012, conv. con legge 221/2012.
Resta tuttavia da chiarire quali possono essere le situazioni di impossibilità che giustificano tale disapplicazione della norma. Probabilmente si può pensare a situazioni di episodico non funzionamento della linea telefonica a cui siano collegati gli appositi apparecchi lettori di carte.
Inoltre, al fine di promuovere l'effettuazione di operazioni di pagamento basate su dette carte di debito o di credito, in particolare anche per importi contenuti, ossia anche di importi inferiori a 5 euro, entro il 1° febbraio prossimo, il ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il ministero dello sviluppo economico e sentita la Banca d'Italia, dovrà emanare un decreto che assicuri la corretta e integrale applicazione del regolamento Ue n. 751 del 29/04/2015 relativo alle commissioni interbancarie sulle operazioni di pagamento basate su carta.
Le previsioni del citato comma 4 dell'art. 15 del dl 179/2012, infine, dovranno essere applicate anche ai dispositivi di cui alla lett. f) del comma 1, dell'art. 7 del codice della strada (dlgs 285/1992). In pratica, anche nei cosiddetti «parchimetri», ossia gli apparecchi di controllo e pagamento della sosta delle auto, sarà sempre possibile pagare con carte di credito (articolo ItaliaOggi Sette del 28.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Siti inquinati, arriva il bonus. Dal 2 gennaio domande al Mise per il credito d'imposta. Fondi alle imprese che hanno sottoscritto accordi di programma per bonifiche e sicurezza.
Riconoscimento di un credito d'imposta per le imprese sottoscrittrici di accordi di programma nei siti inquinati di interesse nazionale. Le imprese che, avendo sottoscritto accordi di programma per la messa in sicurezza, la bonifica e la riconversione industriale dei siti inquinati di interesse nazionale, acquisteranno beni strumentali nuovi nel periodo d'imposta in corso al 31.12.2015 (articolo 4 del dl 145/2013 «Destinazione Italia»), potranno presentare domanda per ottenere il relativo credito d'imposta tra il 2 gennaio e il 31.12.2016.
Gli investimenti per i quali si richiederà il credito d'imposta potranno essere avviati (inizio dei lavori di costruzione relativi all'investimento, o primo impegno giuridicamente vincolante a ordinare attrezzature o qualsiasi altro impegno che renda irreversibile l'investimento) a partire dalla data di sottoscrizione o di adesione all'accordo di programma.
I beni dovranno essere pagati esclusivamente attraverso il sepa credit transfer e i relativi documenti di spesa dovranno riportare la dicitura: «Spesa di euro dichiarata ai fini della concessione del credito d'imposta previsto a valere sul dm 07.08.2014» e andranno conservati per cinque anni dalla fine del periodo d'imposta cui si riferiscono le spese.
Queste le istruzioni contenute nel decreto direttoriale MiSe 18.05.2015 (il cui comunicato relativo al decreto è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 119 del 25.05.2015) con il quale sono state indicate le modalità e i termini di presentazione delle istanze di concessione del credito d'imposta per le imprese sottoscrittrici di accordi di programma nei siti inquinati di interesse nazionale e stabilita, altresì, la procedura di prenotazione delle risorse finanziarie per la concessione del credito d'imposta.
Requisiti richiesti. Per beneficiare delle agevolazioni le imprese dovranno operare nell'ambito di unità produttive ubicate in siti Sin (siti inquinati di interesse nazionale) e aver sottoscritto accordi di programma volti a favorire la messa in sicurezza, la bonifica e la riconversione industriale dei siti inquinati di interesse nazionale.
Quindi le imprese dovranno aver acquistato, o acquistare, beni strumentali nuovi a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del dl 24.12.2013 e fino alla chiusura del periodo d'imposta in corso al 31.12.2015, come disposto dall'articolo 4 del dl n. 145/2013 («Destinazione Italia»).
Le predette unità produttive, oggetto dei programmi di investimento, dovranno essere indicate negli accordi di programma o, eventualmente, negli atti integrativi che attestano la successiva adesione agli stessi da parte delle imprese, in modo che ciascun programma di investimento da agevolare sarà riconducibile ad una sola unità produttiva.
Le imprese dovranno essere già costituite e iscritte al registro delle imprese precedentemente alla data di sottoscrizione degli accordi di programma. Qualora siano imprese estere, le stesse dovranno avere una personalità giuridica riconosciuta nello stato di residenza come risultante dall'omologo registro delle imprese, potendo tali soggetti dimostrare la disponibilità di almeno una unità produttiva sui territori Sin, alla data di presentazione dell'istanza di concessione dell'agevolazione.
Modalità e termini di presentazione delle istanze di concessione del credito d'imposta. A seguito della realizzazione degli investimenti, le imprese che avranno ricevuto comunicazione dell'avvenuta prenotazione del credito d'imposta, potranno presentare alla Dgiai del ministero dello sviluppo economico specifica istanza di concessione delle agevolazioni, La suddetta istanza dovrà essere presentata, all'indirizzo Pec dgiai.div06@pec.mise.gov.it, in formato «p7m» a seguito di sottoscrizione del titolare, del legale rappresentante o del procuratore speciale dell'impresa beneficiaria.
Nel caso di sottoscrizione da parte del procuratore speciale dovrà essere trasmessa copia della procura e del documento d'identità in corso di validità del soggetto che la rilascia. L'istanza dovrà essere corredata da apposita certificazione resa, utilizzando lo schema di cui all'allegato 3 a (domanda di concessione delle agevolazioni finanziarie), dal soggetto incaricato della revisione legale o dal presidente del collegio sindacale. Le imprese non soggette a revisione legale dei conti e prive di un collegio sindacale dovranno comunque avvalersi della certificazione di un revisore legale dei conti o di una società di revisione legale dei conti.
Il revisore o professionista responsabile della revisione, nell'assunzione dell'incarico, osserverà i principi di indipendenza in attesa della loro emanazione, dal codice etico dell'Ifac Nell'istanza di concessione delle agevolazioni l'impresa sarà tenuta a dichiarare le eventuali variazioni intervenute con riferimento alle informazioni già fornite ai fini dell'acquisizione della documentazione antimafia.
Nel caso fossero intervenute variazioni, le imprese presenteranno nuovamente la documentazione, inviando la medesima documentazione alla prefettura di competenza.
Il mancato utilizzo dei predetti schemi di cui agli allegati 3 a) (domanda di concessione delle agevolazioni finanziarie) e 3 b) (conti finanziari), la sottoscrizione di dichiarazioni incomplete e l'assenza, anche parziale, dei documenti e delle informazioni richieste costituiranno motivo di non ricevibilità della domanda e pertanto di inammissibilità all'agevolazione prevista.
Sarà fatto esplicito divieto di presentare una singola istanza di agevolazione per investimenti realizzati su più unità produttive, anche se individuate nel medesimo accordo di programma.
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Prenotazione in due fasi.
Le domande di accesso al credito d'imposta dovranno essere inviate al ministero dello sviluppo economico tramite posta elettronica certificata dell'impresa all'indirizzo dgpicpmi.div04@pec.mise.gov.it.
Gli atti dovranno essere sottoscritti con firma digitale dal titolare, dal legale rappresentante o dal procuratore speciale dell'impresa (allegando, in quest'ultimo caso, copia della procura e del documento di chi la rilascia).
Le imprese che richiederanno agevolazioni per oltre 150.000,00 euro dovranno trasmettere al MiSe anche le dichiarazioni in materia di informazioni antimafia, che dovranno essere sottoscritte dal legale rappresentante dell'impresa e dagli eventuali ulteriori soggetti dichiaranti.
Il credito d'imposta potrà essere fruito dopo aver ricevuto il decreto di concessione dell'agevolazione da parte della Dgiai (Direzione generale per l'incentivazione delle attività imprenditoriali), a seguito del quale le imprese devono inviare all'indirizzo pec dgiai.div06@pec.mise.gov.it, entro 60 giorni dalla chiusura di ciascun periodo d'imposta, una dichiarazione contenente le informazioni sul mantenimento del programma di investimento e/o dei beni per l'uso previsto nei Sin, sulla vigenza dell'impresa stessa e sull'assenza nei confronti della medesima di procedura concorsuale.
Il credito d'imposta potrà poi essere portato in compensazione nei versamenti da effettuare tramite modello F24 telematico. La procedura di prenotazione delle risorse finanziarie per la concessione del credito d'imposta, si articolerà in due fasi: la prima riferita all'assegnazione programmatica delle risorse per ciascun accordo di programma, la seconda relativa alla effettiva prenotazione di risorse finanziarie per ciascuna impresa e per singola unità produttiva (articolo ItaliaOggi Sette del 28.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIOScuole, 4 mesi in più per i lavori. Slitta ad aprile il termine per l’affidamento della messa in sicurezza degli edifici.
Consiglio dei ministri. Via libera del Governo al Milleproroghe con gli interventi su Taxi, emergenze e tetto agli stipendi.

Puntuale come il cenone di San Silvestro arriva anche per il 2016 il decreto legge «milleproroghe». All’esame ieri del Consiglio dei ministri con una settimana di anticipo, il Dl che è stato approvato dal Governo prevede l’ennesima infornata di differimenti e slittamenti di date e termini legati soprattutto alla mancata attuazione di decreti, norme e riforme. Ad esempio quella sulla “buona-scuola” che prevedeva l’aggiudicazione dei lavori per la messa in sicurezza degli edifici scolastici entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, ossia entro il 16 gennaio. Con il «milleproroghe», invece, questo termine slitta ora al 30.04.2016.
Ci sono poi appuntamenti ormai diventati fissi per il decreto di fine anno come quello con il Sistri, il sistema di tracciabilità dei rifiuti, o quello sull’affidamento del sistema di controllo della riscossione dei tributi locali a Equitalia che slitta ancora a metà anno 2016 (si veda l’articolo qui sotto).
Sugli appalti, fino al 30.06.2016, in deroga ai divieti di anticipazione del prezzo, può essere prevista la corresponsione in favore dell’appaltatore di un’anticipazione pari al 20% dell’importo contrattuale. Non mancano poi le proroghe sui collocamenti fuori ruolo dei Vigili del fuoco o quelli sugli avanzamenti di carriera delle forze di Polizia e Carabinieri.
Evergreen di fine anno anche su taxi e noleggio con conducente. Bisognerà aspettare ancora 12 mesi per il varo del decreto attuativo che impedisce le pratiche di esercizio abusivo. Provvedimento chiamato anche a definire gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi.
Vediamo in sintesi le principali scadenze posticipate in attesa della pubblicazione del decreto sulla «Gazzetta Ufficiale» di fine anno.
Università e scuola
Verso lo sblocco 2mila assunzioni di docenti universitari grazie alla proroga fino al 31.12.2016 dell’utilizzo degli organici non utilizzati dal 2010 al 2014.
In materia di edilizia scolastica, slitta al 31.12.2016 il termine entro il quale i Comuni, beneficiari dei finanziamenti del “decreto del Fare”, devono pagare le somme alle ditte aggiudicatarie dei lavori di riqualificazione e messa in sicurezza delle scuole.
La proroga trova giustificazione nel fatto che alcuni Comuni, appartenenti alle Regioni le cui graduatorie sono state inizialmente sospese da provvedimenti giurisdizionali, hanno potuto aggiudicare gli interventi solo entro il 28.02.2015, con conseguente ritardo sull’esecuzione dei lavori tale non consentire la chiusura dei lavori entro il prossimo dicembre 2015.
Sanità
Ancora un rinvio per la messa a punto del nuovo sistema di remunerazione a farmacisti e grossisti da parte del Ssn: i tempi per la riforma, inutilmente in discussione da due anni, slittano al 01.01.2017. Viene, inoltre, confermato il meccanismo di ripartizione dei premi per le regioni più attive nella gestione centralizzata degli acquisiti di beni e servizi.
Tetto agli stipendi
Si prolunga di un anno, fino al 31.12.2016, il tetto a compensi, gettoni e indennità corrisposti dalla Pa e dalle Autorithy ai vertici apicali degli organismi pubblici. Fino al 31.12.2016 gli emolumenti non potranno superare gli importi risultanti alla data del 30.04.2010 ridotti del 10 per cento.
Sistri
Fino al 31.12.2016 sarà ancora consentita la tenuta in modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati. Il Sistri in versione semplificata e con sanzioni ante riforma del 2010 sarà dunque operativo ancora per 12 mesi. Inoltre all’attuale società concessionaria del Sistri è garantito l’indennizzo dei costi di produzione attestati al 31.12.2016, previa una valutazione di congruità dell’Agenzia per l’Italia digitale.
Emergenze
C’è tempo fino al 30.09.2016 per la messa in esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili realizzati su fabbricati distrutti dal sisma dell’Emilia del 2012 per non essere tagliati fuori dagli incentivi al fotovoltaico.
Resta ancora in carica per tutto il 2016 il commissario straordinario per l’emergenza stradale conseguente all’alluvione in Sardegna del novembre 2013. Così come avrà un anno di tempo in più l’Unità tecnica amministrativa chiamata a gestire le attività di pagamento dei debiti certi, liquidi ed esigibili dell’emergenza rifiuti in Campania
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiccoli Comuni, stop alle alleanze «forzate». Enti locali. Rinvio di sei mesi per la riforma della riscossione.
Insieme alla tradizionale proroga natalizia per la riforma della riscossione, dal decreto approvato ieri in Consiglio dei ministri arriva per gli enti locali il rinvio di un anno degli obblighi di gestione associata di tutte le funzioni fondamentali nei Comuni fino a 5mila abitanti. Nelle intenzioni del Governo, entrambi gli interventi sono la premessa per una revisione organica di regole che finora non hanno funzionato e hanno prodotto più proroghe che risultati concreti.
Nel caso delle gestioni associate l’idea, condivisa in queste settimane da sindaci e governo, è quella di ripensare il meccanismo delle alleanze. L’obbligo per i piccoli Comuni di gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali in bacini di almeno 10mila abitanti si è scontrata con le tante differenze geografiche che caratterizzano il Paese, e l’ipotesi è di individuare meccanismi più flessibili, fondati su ambiti territoriali più che su parametri demografici.
Sulla riscossione, invece, il decreto stabilisce la solita proroga di sei mesi, durante i quali Equitalia continuerà a occuparsi dei tributi locali. Si tratta del settimo rinvio, che però ancora una volta non sembra aprire spazi sufficienti per un intervento che, oltre a ridefinire il panorama dei soggetti attivi nella raccolta dei tributi locali, dovrà rivedere anche gli strumenti della riscossione, a partire dall’ingiunzione.
Nei testi circolati finora non ha trovato spazio la proroga dei contratti a termine nelle Province e nelle Città metropolitane, che però potrebbe rientrare nella versione definitiva. In ogni caso, come l’anno scorso la tensione sul tema sta già salendo. A Milano, per esempio, i 42 precari della Città metropolitana si sono incatenati davanti alla sede di Corso Monforte, e si dicono pronti a proseguire la protesta a oltranza senza interruzioni a Natale e Capodanno.
Il problema nasce dal fatto che Province e Città metropolitane hanno il blocco totale delle assunzioni e dei rinnovi dei contratti per la riforma Delrio che le svuota di competenze e personale e che ancora è lontana dal traguardo dell’attuazione. Senza la conferma della proroga, quindi, i precari degli enti di area vasta dovrebbero lasciare il lavoro dal 1° gennaio.
Per il resto, il «milleproroghe» conferma i poteri sostitutivi dei prefetti in caso di mancata approvazione dei preventivi (al momento il termine è fissato al 31 marzo prossimo, stessa data in cui è previsto l’arrivo dei fabbisogni standard aggiornati) e il mancato adeguamento Istat degli affitti pagati dalla Pa: una norma, questa, che riduce la spesa corrente ma ha un effetto negativo anche sulle valutazioni degli immobili da dismettere
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2015).

APPALTII bandi di gara vanno ancora pubblicati su carta. Trasparenza. Dal 2017 informazione sarà sul web.
Il governo evita la schizofrenia legislativa in materia di appalti pubblici e inserisce nel «milleproroghe» una norma che rinvia al nuovo Codice degli appalti la definizione delle regole sulla pubblicazione dei bandi di gara, lasciando per un altro anno in vigore l’obbligo di pubblicazione sui quotidiani nazionali e locali (a seconda dell’importo a base d’asta).
Slitta, in sostanza, al 01.01.2017 il termine che era fissato al 01.01.2016 per il passaggio alla pubblicazione esclusivamente telematica dei bandi di gara.
Il nuovo termine viene indirettamente collegato dal «milleproroghe» al nuovo Codice degli appalti che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 18 aprile, termine di scadenza per il recepimento delle direttive europee 23, 24 e 25 del 2014.
La legge delega che darà il via al nuovo Codice avrebbe dovuto, per altro, essere approvata già a ottobre ma prima è slittata l’approvazione della Camera, effettivamente avvenuta solo a novembre, e ora anche il Senato non è riuscito a rispettare i tempi di fine anno nonostante l’impegno del relatore, Stefano Esposito, uno dei padri della legge.
A Palazzo Madama il Ddl dovrebbe essere approvato definitivamente a gennaio. Successivamente sarà il governo ad approvare il decreto legislativo attuativo della delega e a questo punto il rispetto del termine del 18 aprile non è affatto scontato, considerando che il decreto sarà sottoposto al doppio parere parlamentare rinforzato che prenderà almeno un paio di mesi di tempo, se non ci saranno intoppi nel merito.
?Per quanto riguarda gli obblighi di pubblicazione dei bandi, nella legge delega si prevede, in uno dei criteri di delega, che sia l’Autorità nazionale anticorruzione a creare un sistema telematico unico nazionale. Il rinvio del termine che fa cessare l’obbligo di pubblicazione sui quotidiani darà tempo all’Anac di implementare il sistema.
Ma la pubblicazione dei bandi anche sulla carta stampata per un altro anno non è la sola novità per il settore. Slitta di un anno il termine per garantire la tracciabilità delle vendite e delle rese di giornali e periodici. In questo modo è salvo il credito d’imposta riconosciuto a quanti favoriscono l’adeguamento tecnologico della rete di distribuzione e vendita della stampa quotidiana e periodica.
L’obbligatorietà della tracciabilità delle copie e delle rese era stata introdotta nel 2102 e sarebbe dovuta scattare dal 01.01.2013. Ma a oggi il nuovo codice a barre e gli strumenti informatici e telematici da utilizzare in rete sull’intera filiera della distribuzione di giornali e periodici non è ancora del tutto completata. Senza l’attuazione del processo di modernizzazione, necessario anche all’erogazione di servizi per la pubblica amministrazione, i soggetti interessati rischiano di non poter accedere al credito d’imposta riconosciuto a tutti gli operatori che procedono all’adeguamento delle tecnologie. L’utilizzo del codice a barre si intreccia anche con l’uso della moneta elettronica. Il credito d’imposta -esteso per gli anni 2015, 2016 e 2017- è riconosciuto nella misura del de minimis con un limite di risorse disponibili indicato in 10 milioni di euro.
Torna, infine, anche quest’anno la proroga di 12 mesi sul divieto di incroci proprietari che impedisce ai soggetti che esercitano l’attività televisiva in ambito nazionale su qualunque piattaforma, con ricavi superiori all’8% del Sic, e alle imprese del settore delle comunicazioni elettroniche che detengono una quota superiore al 40% dei ricavi di detto settore, di acquisire partecipazioni in imprese editrici di quotidiani
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2015).

VARIAuto, divieto di fumo in presenza di minori. Decreto tabacchi. Idem per le donne incinte.
Il Consiglio di ministri di ieri ha anche approvato lo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva 2014/40/Ue in materia di vendita dei prodotti di tabacco.
Il testo, all’articolo 24, dispone che -in modifica dell’articolo 51, comma 1, della legge 16.01.2003- il divieto di fumo circoscritto ai locali chiusi è esteso ai conducenti di autoveicoli, in sosta o in movimento, e ai passeggeri a bordo degli stessi in presenza di minori di 18 anni e di donne in stato di gravidanza.
Cambia anche l’articolo 25 del testo unico delle leggi sulla Protezione e assistenza della maternità e infanzia che, nella nuova formulazione, prescrive che «chiunque vende prodotti del tabacco o sigarette elettroniche, o contenitori di liquido di ricarica, con presenza di nicotina o prodotti del tabacco di nuova generazione, ha l’obbligo di chiedere all’acquirente l’esibizione di un documento di identità, tranne nei casi in cui la maggiore età dell’acquirente sia manifesta
».
Inoltre, se la vendita o la somministrazione al minorenne si verifica, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a euro 3mila euro e la sospensione per 15 giorni della licenza all’esercizio dell’attività.
Qualora il fatto si verifichi più di una volta, la sanzione amministrativa pecuniaria sale a mille-8mila euro con la revoca della licenza all’esercizio dell’attività.
Controlli anti-frode sono stati disposti per i distributori automatici dotati di un sistema automatico di rilevamento dell’età anagrafica dell’acquirente, che possono essere sottoposti all’atto dell’installazione a controlli effettuati dall’agenzia delle Dogane e dei monopoli e sottoposti a periodiche verifiche
 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2015).

APPALTIAppalti, agevolate le imprese «verdi». Possibile la riduzione del 30% o del 20% della cauzione necessaria all’offerta.
Ambiente. Le novità del disegno di legge sulla «green economy» approvato definitivamente due giorni fa dalla Camera.

Il testo del Ddl «Green economy» (Atto Camera n. 2093-B), approvato definitivamente il 22 dicembre dalla Camera aspetta solo la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale».
Tra i 79 articoli spiccano, per il loro valore strategico nei confronti delle imprese, quelli che incentivano, rendendoli obbligatori in tutto o in parte, gli “acquisti verdi” da parte della pubblica amministrazione (Gpp-Green public procurement). Si tratta degli articoli 16, 18 e 19. Su altro fronte, per un sano sviluppo del mercato della gestione dei rifiuti urbani, agisce l’articolo 29 che ascrive, ampliandole, al ministero dell'Ambiente le competenze del soppresso Osservatorio nazionale sui rifiuti, rendendolo così anche estremamente simile a organismo di regolazione.
Sotto il profilo degli “acquisti verdi”, l’articolo 16 interviene innanzitutto sulla qualificazione dell’offerta e poi sui criteri di aggiudicazione degli appalti. Sotto il primo profilo, modifica il Dlgs 163/2006 (Codice appalti pubblici, articoli 75 e 83) e prevede agevolazioni per le imprese che partecipano a un appalto pubblico per lavori, servizi e forniture registrate Emas o certificate Uni En Iso 14001. Queste, ad esempio, possono beneficiare di una riduzione (rispettivamente) del 30% e del 20% della cauzione necessaria all’offerta. Il criterio di aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa trova il suo limite nel concorrente criterio del possesso del marchio Ecolabel in misura pari o superiore al 30% del valore del contratto.
Con l’articolo 18 il testo affronta l’obbligatorietà del ricorso a materiali riciclati per gli approvvigionamenti pubblici. Questo perché gli acquisti pubblici, secondo le stime della Commissione Ue, incidono sul sistema economico europeo per circa 2 trilioni di euro/anno, il 19% del Pil annuale. In Italia, la spesa pubblica per beni e servizi ammonta a 50 miliardi di euro.
Quindi occorre trasformare la Pa facendola diventare un esempio per il consumo più consapevole: se la Pa riduce l’impatto ambientale di beni e servizi di cui necessita, trascina il mercato a orientarsi su prodotti e servizi a basso impatto ambientale. Il che induce la modifica delle strategie produttive delle imprese. Infatti, ora gli appalti verdi della Pa (legge 296/2007 e Dm 11.04.2008) diventano obbligatori in ordine a: lampade e moduli di illuminazione pubblica; attrezzature ufficio; servizi energetici per gli edifici.
I relativi criteri ambientali minimi (Cam) sono già stati definiti con appositi decreti. Per le seguenti categorie (anch’esse dotate di Cam), invece, gli appalti “verdi” dovranno essere banditi per almeno il 50% della fornitura: gestione rifiuti urbani e verde pubblico; toner; carta copia e carta grafica; ristorazione collettiva e derrate alimentari; pulizie; prodotti tessili e arredi per ufficio.
Ancora sui criteri di aggiudicazione, l’articolo 19 cambia gli articoli 7, 64 e 83 del Codice appalti. Pertanto, l’Osservatorio sui contratti pubblici deve monitorare l’applicazione dei Cam e il raggiungimento degli obiettivi; i bandi tipo devono contenere indicazioni per integrare i Cam e la valutazione dell’offerta guarderà anche caratteristiche ambientali e contenimento di consumi energetici e risorse ambientali di quanto offerto.
L’articolo 29 sostituisce il ministero dell’Ambiente all’Osservatorio nazionale sui rifiuti (articolo 206-bis del Codice ambientale, inattivo dal 25.07.2010). Quindi, ora il ministero, oltre ai tradizionali compiti pregressi, elabora parametri per individuare i “costi standard” del servizio di gestione dei rifiuti urbani e la definizione di un sistema tariffario equo e trasparente. Inoltre, elabora schemi tipo di contratti di servizio tra autorità d’ambito e affidatari del servizio integrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti pericolosi solo sul Sistri. Da gennaio via il cartaceo. Deroga per le centrali termiche. Il consiglio dei ministri approva il decreto Milleproroghe. Ecco tutte le misure.
Dal 1° gennaio il sistema di tracciabilità dei rifiuti diventa totalmente operativo, incluse le relative sanzioni per irregolarità nell'utilizzo del sistema, che potranno anche arrivare fino a maxi multe da 93 mila euro. Il 31.12.2015, infatti, cesserà il «doppio binario» per le imprese e gli enti obbligati a aderire al sistema di tracciabilità.
In sostanza, sarà l'ultimo giorno di utilizzo del sistema tradizionale cartaceo (formulari, registro di carico e scarico e modello unico di dichiarazione ambientale), che nell'ultimo anno ha affiancato il sistema di tracciabilità informatico. Ancora un anno di tempo, invece, per i grandi impianti di combustibili, che devono adeguarsi ai nuovi limiti di emissione: chi chiede una deroga entro fine 2015 avrà tempo fino a fine 2016 per adeguarsi.

A disporre questa proroga è il decreto milleproroghe approvato ieri in consiglio dei ministri. A dettare invece la scadenza del doppio binario Sistri, invece, era stato il decreto Milleproroghe dello scorso anno; più precisamente, l'articolo 9, comma 3, della legge 11/2015, che ha convertito il decreto legge n. 192/2014.
Così, dal prossimo 1° gennaio, i soggetti obbligati a utilizzare il Sistri (cioè le imprese e gli enti che producono rifiuti pericolosi e che hanno più di dieci dipendenti) non potranno più utilizzare i registri di carico/scarico cartacei e i vecchi formulari di identificazione dei rifiuti (per capirne di più si veda ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). Dalla stessa data scatteranno poi le sanzioni per irregolarità nell'utilizzo del sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti (articolo 260-bis, commi da 3 a 9, del dlgs. n. 152/2006).
Grandi impianti di combustione. Slitta invece al 01.01.2017 il rispetto dei nuovi limiti di emissione per tutti i grandi impianti di combustione. Sino a definitiva pronuncia dell'autorità competente in relazione all'istanza di deroga presentata da questi impianti, e comunque non oltre il 01.01.2017 (in precedenza fissate al 01.01.2016), tutte le autorizzazioni continueranno a costituire titolo all'esercizio dell'attività, ma solo a condizione che il gestore dell'impianto rispetti anche le condizioni aggiuntive indicate nelle istanze di deroga.
A prevederlo, come detto, è il decreto Milleproroghe approvato ieri in consiglio dei ministri. Il termine precedentemente previsto era il 01.01.2016 ma è prorogato a fine 2017 solo per i grandi impianti di combustione per cui sono vengono regolarmente presentate, entro il prossimo 31 dicembre, istanze di deroga. Attenzione, queste devono essere stilate ai sensi dei paragrafi 3.3 o 3.4 dell'allegato II, parte I, alla parte quinta del decreto legislativo 03.04.2006 n. 152 ovvero ai sensi dell'allegato II, parte II, alla parte quinta del dlgs n. 152/2006.
I valori più severi di emissioni inquinanti sono stabiliti per gli stabilimenti già esistenti che utilizzano biomasse. Per quelli nuovi, norme più stringenti vengono applicate anche alle sedi che utilizzano sostanze diverse dalle biomasse. In determinati casi si prevede anche che gli impianti possano comunque sforare i limiti stabiliti, al massimo fino al 2023, per un numero di ore pari o inferiore a 17.500 (articolo ItaliaOggi del 24.12.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProrogato l'associazionismo. Equitalia resta con i comuni. Per le gestioni associate delle funzioni nei mini enti tempo fino al 31/12/2016 in attesa del riordino.
In attesa di essere completamente ripensato sulla base di modelli di aggregazione spontanei e «dal basso», l'associazionismo comunale «forzoso» prende tempo. L'obbligo per i comuni fino a 5.000 abitanti (3.000 se montani) di gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali, in scadenza a fine anno e rimasto di fatto sulla carta, slitta al 31.12.2016. Nel frattempo bisognerà riscrivere completamente le regole, puntando sull'aggregazione tra comuni sulla base di «bacini omogenei».

Dal decreto legge «Milleproroghe» varato ieri dal consiglio dei ministri i piccoli comuni portano a casa un mero rinvio e niente più. Si attendeva, come promesso dal governo (da ultimo all'assemblea Anci di Torino) «un intervento di ampio respiro per realizzare processi aggregativi senza forzature».
Ma, persa l'occasione della legge di stabilità, non era certo il Milleproroghe la sede opportuna per interventi di natura ordinamentale che tuttavia il governo non dovrà tardare a far arrivare nel 2016 se vorrà mettere fine alla lunga serie di proroghe in materia. Una serie di rinvii che invece prosegue sul fronte della riscossione locale. Correva l'anno 2012 quando si decise l'uscita di scena di Equitalia dai tributi locali, un business considerato non più profittevole dal concessionario della riscossione.
Ma poi, tra problematiche interne alla società ora guidata dall'ad Ernesto Maria Ruffini e difficoltà legate alla mancata attuazione della delega fiscale, si è sempre consentito ai comuni di continuare ad avvalersi di Equitalia. Di proroga in proroga, di sei mesi in sei mesi, il rinvio al 30.06.2016 rappresenta il settimo slittamento.
Prorogato a tutto il 2016 il tetto, parametrato sul 2010, a compensi, gettoni e indennità corrisposte nella pubblica amministrazione, compresi cda, organi di indirizzo o controllo e autorità indipendenti. Prorogato al 31.12.2016 anche il termine per la p.a. per procedere alle assunzioni di personale a tempo indeterminato relative alle cessazioni verificatesi negli anni 2009-2012 (articolo ItaliaOggi del 24.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTIAppalti «verdi» per gli acquisti della Pa. Gli uffici devono rifornirsi con materiali riciclati - Bonus fiscale per le bonifiche da amianto.
Ambiente. Via libera definitivo della Camera al Ddl sulla green economy - Proroga a fine 2016 per la redazione del piano acque regionale.

Dopo un’attesa durata oltre un anno, la Camera ha approvato definitivamente il Ddl in materia ambientale (Atto Camera n. 2093-B) per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali. Un provvedimento “denso”, poiché i 79 articoli e gli 11 capi che lo compongono sono ricchi di disposizioni che, ad ampio raggio, incidono sui vari ambiti oggetto della tutela ambientale. Su tutte spiccano le norme che rendono obbligatorio per la Pa il ricorso ad appalti verdi (Gpp – Green public procurement).
Per la tutela delle matrici arrivano norme contro lo sversamento di idrocarburi in mare e i contratti di fiume; si aggiunge l’incremento dei fondi per le aree marine protette e la proroga al 31.12.2016 per la redazione del Piano tutela acque regionale. Norme specifiche riguardano il ripristino ambientale nei siti di interesse nazionale. Il profilo energetico è impegnato con gli impianti ibridi alimentati da rifiuti e impianti termici mentre registri di carico e scarico per i piccoli produttori, imprenditori agricoli e formulario, compostaggio aerobico arricchiscono le norme sulla gestione dei rifiuti. Tra le molte disposizioni, alcune appaiono particolarmente rilevanti:
- in caso di incidenti in mare con sversamento di idrocarburi, il proprietario del carico deve munirsi di assicurazione a copertura integrale dei rischi, anche potenziali;
per alcuni settori (per esempio lampade e moduli per l’illuminazione pubblica) diventa obbligatorio il Gpp per gli “acquisti verdi” della Pa; per altri l’obbligo si limita al 50% delle forniture. La norma interviene anche sul Codice appalti;
- viene aggiunto l’articolo 68-bis, al Codice ambientale (decreto legislativo 152/2006) per l’introduzione del contratto di fiume, il nuovo strumento volontario per la gestione del territorio;
le acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari sono assimilate alle acque reflue domestiche ai fini dello scarico in pubblica fognatura;
- il ministero dell’Ambiente ha un anno di tempo per stabilire i criteri che consentono ai Comuni la misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico;
- nei casi di eccezionale e urgente necessità di tutela della salute e dell’ambiente, le Regioni, diffidate dal ministero hanno 60 giorni di tempo (e non più un «congruo termine») per adottare le iniziative necessarie per garantire la corretta gestione dei rifiuti;
- con il nuovo articolo 306­bis del Codice ambientale entrano in vigore nuove regole per la determinazione delle misure per il risarcimento del danno ambientale e il ripristino ambientale dei Sin. È prevista, infatti, una proposta transattiva rimessa alla valutazione del ministero dell’Ambiente;
- arriva il credito d’imposta per i titolari di reddito d’impresa che nel 2016 daranno luogo a bonifiche di amianto su beni e strutture produttive in Italia (50% delle spese sostenute e investimenti non inferiori a 20.000 euro). Il ministero dell’Ambiente adotterà le disposizioni attuative;
- le imprese che partecipano ad appalti pubblici, registrate Emas o coertificate Uni En Iso 14001, godono di una riduzione, rispettivamente, del 30 e del 20% della cauzione. Questa scende del 20% anche per le imprese che hanno almeno il 50% dei beni o servizi oggetto del contratto con marchio Ecolabel;
- le competenze dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti (non operante dal 2010) passano al ministero dell’Ambiente che, avvalendosi di Ispra individua costi standard e sistemi tariffari nonché schemi tipo di contratto di servizio per i rifiuti urbani;
- per i rifiuti il cui trattamento non contribuisce al raggiungimento delle finalità previste dal decreto legislativo 36/2003 sulle discariche, l’Ispra entro 90 giorni dovrà approvare i criteri per collocare i rifiuti in discarica senza trattamento;
- le miscelazioni di rifiuti non vietate dall’articolo 187 del Codice dell’ambiente non devono essere autorizzate e, anche se effettuate da soggetti autorizzati «non possono essere sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle previste per legge»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARISigaretta per terra? Sanzione ad hoc. Il caso. Ma la multa potrà essere più bassa che in passato.
Il Ddl sull’ambiente lancia una norma con sanzione ad hoc per chi butta mozziconi di sigaretta e fazzoletti di carta. Ma riduce, di fatto, la sanzione applicabile.
Per la tutela del decoro urbano e limitare gli impatti negativi dati dalla dispersione incontrollata nell’ambiente dei rifiuti, infatti, l’articolo 40 punisce l’abbandono di mozziconi di sigaretta e di rifiuti di piccolissime dimensioni («quali anche scontrini, fazzoletti di carta e gomme da masticare») sul suolo, nelle acque e negli scarichi, con la sanzione amministrativa da 30 a 150 euro. La sanzione si raddoppia se la condotta riguarda mozziconi di prodotti da fumo.
Va detto, però, che l’articolo 255 del Codice dell’ambiente, senza distinguere tra rifiuti piccoli e grandi, già dal 2006 punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a 3.000 euro chiunque abbandoni o depositi rifiuti o li immetta in acque superficiali o sotterranee. Quindi, di fatto, la nuova legge introduce una sanzione su misura ma affievolita.
In ogni caso i Comuni dovranno installare nelle strade, nei parchi e nei luoghi di «alta aggregazione sociale» raccoglitori per la raccolta dei mozziconi
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2015).

VARISì ai contanti sotto 3 mila euro. Ma per assegni bancari e postali resta il limite a mille. LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Disco verde definitivo dal senato dopo l'ok alla fiducia.
A partire dal 01.01.2016 sarà legittimo eseguire pagamenti in contanti al di sotto del limite dei 3.000 euro. Resta fissato a 1.000 euro, invece, il limite per la Pubblica Amministrazione.
È l'effetto della modifica apportata all'art. 49 del dlgs 231/2007 dal comma 511 della legge di Stabilità che è stata approvata ieri, in via definitiva, dal Senato dopo il disco verde al voto di fiducia apposto dal governo. Gli assegni bancari e postali, di contro, resteranno, trasferibili solo al di sotto dei 1.000 euro.
Il nuovo limite dei 3.000
A partire dal 1° gennaio, dunque, torneranno legittimi i pagamenti in contanti di fatture, i finanziamenti soci e le distribuzioni degli utili fra società e soci per importi unitari al di sotto dei 3.000 euro. Ovviamente anche le singole rateizzazioni potranno essere effettuate entro detta soglia.
Sarà quindi, ad esempio, possibile pagare una fattura (Iva compresa) ad esempio di 7.320 euro (6.000 euro + Iva) in tre rate cadauna di euro 2.440. Da ciò deriva che le sanzioni previste dall'art. 58 (in particolare quelle del comma 1, pari ad un importo, per il trasgressore, dall'1 al 40%, salvo oblazione e per le mancate comunicazioni dal 3 al 30%, con minimo di 3.000 euro) saranno applicabili solo in relazione ai nuovi importi. Va segnalato che in relazione alla natura amministrativa delle sanzioni non sono previsti sconti per le violazioni anteriori al 01.01.2016.
Il limite dei 3.000 euro varrà anche per le locazioni e trasporto merci
Per espressa previsione normativa il nuovo limite dei 3.000 euro si applicherà anche in relazione ai canoni di locazione di unità abitative (ex art. 1, comma 50, legge 27/12/2013 n. 147) ed ai pagamenti dei corrispettivi per le prestazioni rese in adempimento dei contratti di trasporto di merci su strada (ex art. art. 32-bis del dl 133/2014 conv. con l. 11.11.2014 n. 164/2014).
Sale inoltre da 2.500 a 3 mila euro il limite per la negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta svolta dai «cambiavalute» (soggetti iscritti nella sezione prevista dall'art. 17-bis del dlgs 13.08.2010 n. 141).
Il limite per la clausola di intrasferibilità
Il limite dei 3 mila euro rileverà per le transazioni in contanti ma non per la trasferibilità degli assegni. Gli assegni bancari e postali, infatti, potranno continuare ad essere emessi privi di clausola di intrasferibilità esclusivamente per importi inferiori ai 1.000 euro. Ciò deriva dal fatto che, le nuove disposizioni non hanno apportato alcuna modificazione al comma 5 dell'art. 49 del dlgs 231/2007, dedicato alla trasferibilità degli assegni.
In pratica, per questi ultimi permarrà l'obbligo di indicare il nome e la ragione sociale del beneficiario e la clausola di non trasferibilità a partire dai 1.000 euro. Ciò significa che un limite da sempre univoco nella legislazione antiriciclaggio (si parte dai 20 milioni di lire della legge 197/1991) è ora scisso in due soglie distinte.
Dove permane il limite dei 1.000 euro
Ai sensi del comma 514-bis della legge di Stabilità, i pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni (operazioni di pagamento degli emolumenti a qualsiasi titolo) per importi superiori ai 1.000 euro dovranno avvenire necessariamente attraverso strumenti telematici.
Resta, inoltre, fermo il limite dei 1.000 euro per gli operatori del terzo settore che si avvalgono della legge 398/1991. Per detti soggetti, tuttavia, in relazione alla dissociazione dei limiti specifici della norma agevolativa e di quelli antiriciclaggio, dal 01.01.2016, all'indebito mancato rispetto delle norme specifiche si applicheranno solo le sanzioni all'uopo previste (dal 1° gennaio da 250 a 2000 euro) attenendo le sanzioni antiriciclaggio solo alla mancata osservanza del divieto di superamento della nuova soglia dei 3.000 euro (articolo ItaliaOggi del 23.12.2015).

VARIPagamenti elettronici a 360°. Sanzionabili i professionisti.
Pagamenti elettronici senza se e senza ma. Per commercianti e professionisti addio al limite dell'importo minimo dei 30 euro e in arrivo sanzioni pecuniarie ad hoc. Unica via di fuga ammessa sarà quella dell'oggettiva impossibilità tecnica che dovrà essere, comunque, dimostrata.

Questa una delle novità contenute nel ddl stabilità per il 2016 approvato, ieri, dal senato e che, mette nuovamente sotto i riflettori la questione relativa all'obbligo di accettazione di pagamenti elettronici da parte di commercianti e professionisti andando a coinvolgerli su piani differenti.
Per quanto concerne i primi, infatti, oltre all'aspetto sanzioni, l'impatto maggiore arriverà dall'eliminazione degli importi minimi. Gli esercizi commerciali, infatti, saranno tenuti ad accettare pagamenti sia con carte di credito sia con carte di debito anche per piccoli importi. Solo nel caso in cui tali esercizi riescano a dimostrare l'oggettiva impossibilità tecnica di accettare i pagamenti potranno essere tenuti esenti da sanzioni. Ed è proprio su questo ultimo punto che i professionisti potranno essere, invece, maggiormente coinvolti. Difficilmente, infatti, il problema dei micropagamenti potrà riguardare i titolari di partita Iva.
Per questi ultimi, invece, a essere più incisiva sarà la questione sanzioni pecuniarie, dato che, per la prima volta, l'obbligo di accettare il pagamento di qualsiasi tipo di importi tramite mezzo elettronico diventa a tutti gli effetti cogente. Il potenziale quantum pecuniario sarà stabilito con uno o più decreti del ministro dello sviluppo economico, di concerto con il ministero dell'economia e delle finanze, sentita la Banca d'Italia.
Dopo più di un anno di confronti sia tra il governo e le professioni, sia in sede parlamentare, lo spettro delle sanzioni si appresta, quindi, a divenire realtà. Questa volta, però, anche i prestatori di servizi di pagamento saranno chiamati a fare la loro parte. La norma, così come introdotta all'interno della legge di stabilità per il 2016, prevede, infatti, che tali soggetti non operino pratiche commerciali contrarie al regolamento Ue 751/2015 che pone un limite, variabile entro certe soglie a seconda delle tipologie di operazioni, alle commissioni (articolo ItaliaOggi del 23.12.2015).

VARICanone, l'esenzione si dichiara. Da documentare ogni anno la non detenzione della Tv. LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Dieci rate in bolletta. Prima applicazione da luglio.
La dichiarazione di non detenzione della televisione per non pagare il canone Rai di 100 euro, inserito nella bolletta elettrica, a partire da luglio 2016 (a regime da gennaio a ottobre), dovrà essere presentata ogni anno alla direzione provinciale I di Torino con le modalità definite da un provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate.
In sede di sottoscrizione dei nuovi contratti di fornitura elettrica sarà la società ad acquisire la dichiarazione del cliente in ordine alla residenza anagrafica. E sarà il cliente tenuto a comunicare ogni successiva variazione.

Sono queste alcune delle novità sulla riforma del pagamento del canone Rai in bolletta introdotta dalla legge di stabilità 2016 approvata ieri definitivamente dal senato.
Il nuovo canone Rai. L'importo sarà di 100 euro e i contribuenti lo ritroveranno in bolletta elettrica. Nella prima fattura successiva al 01.07.2016, dove saranno cumulativamente addebitate tutte le rate scadute. L'Autorità per l'energia elettrica ha già informato (si veda ItaliaOggi del 17/12/2016) che provvederà a modificare la bolletta. Gli utenti troveranno infatti, in bolletta, una distinta indicazione nella fattura. A regime il pagamento avviene in 10 rate mensili addebitate sulle fatture emesse dall'impresa elettrica. La scadenza del pagamento è successiva alla scadenza delle rate e queste ai fini dell'inserimento in fattura, s'intendono scadute il primo giorno di ciascuno dei mesi da gennaio a ottobre.
Per chi ha l'addebito sul conto corrente l'opzione si intende estesa anche al pagamento del canone televisivo anche per chi ha le autorizzazioni all'addebito già rilasciate alla data di entrata in vigore della legge di stabilità.
Niente trucchi per rinunciare al pagamento del canone. La legge di stabilità manda in soffitta la pratica del suggellamento. La facoltà cioè di presentare la denunzia di cessazione dell'abbonamento attraverso la copertura con fogli del televisore.
La norma ribadisce che restano ferme le disposizioni in tema di accertamento e riscossione coattiva.
Gli adempimenti delle società elettriche. Un decreto attuativo da adottare entro 45 giorni dall'entrata in vigore della legge di stabilità definirà i termini e le modalità per il riversamento all'erario e per la conseguenza dei ritardi sotto forma di interessi moratori dei canoni incassati dalle aziende di vendita dell'energia elettrica che non sono considerati sostituti di imposta.
Le società avranno venti giorni per riversare i canoni riscossi.
Per il mancato versamento e per la violazione dei canoni si applicano le sanzioni relative a Violazioni relative alla dichiarazione dell'imposta sul valore aggiunto e ai rimborsi (sanzione da un minimo di 300 euro) e dei Ritardati o omessi versamenti diretti e altre violazioni in materia di compensazione (sanzioni parametrate ai giorni di ritardo).
Scambio dati. L'Agenzia delle entrate metterà a disposizione delle imprese elettriche l'elenco dei soggetti esenti dal pagamento sia in base alle previsione di legge (pensionati con una certa soglia di reddito ) e l'elenco dei soggetti esenti che hanno presentato la dichiarazione.
Inoltre Agenzia, Autorità per l'energia, Acquirente unico e i comuni nonché anche soggetti privati a ciò autorizzati potranno scambiare e utilizzare i dati di famiglie anagrafiche, utenze per l'energia elettrica, soggetti tenuti al pagamento del canone nonché i soggetti esenti dal pagamento del canone (articolo ItaliaOggi del 23.12.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, personale in stallo. Ancora lunga la strada per la completa ricollocazione. LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Istituito presso il ministero dell'interno fondo da 100 mln.
Ancora lunga la strada per la completa ricollocazione dei dipendenti di province e città metropolitane in sovrannumero.

La legge di stabilità 2016 allo scopo di incentivare l'assunzione dei lavoratori ha istituito nello stato di previsione del ministero dell'interno, per l'anno 2016, un fondo con la dotazione di 100 milioni di euro, il cui scopo è concorrere alla corresponsione del trattamento economico del personale soprannumerario, nelle more del completamento del processo di riordino delle funzioni da parte delle regioni e del trasferimento definitivo del personale stesso.
Un successivo decreto del ministro dell'interno ripartirà il fondo tra le amministrazioni interessate in proporzione alle unità di personale dichiarato in soprannumero, e non ancora ricollocato, secondo le risultanze del monitoraggio attivato col dm 14/09/2015.
Sempre allo scopo di accelerare con la ricollocazione del personale soprannumerario, entro 30 giorni dalla vigenza della legge di stabilità un decreto del presidente del consiglio commissarierà le regioni che a tale data non abbiano riordinato le funzioni provinciali non fondamentali, in attuazione all'accordo tra stato e regioni dell'11.09.2014. Il commissariamento ha lo scopo di assicurare il completamento degli adempimenti necessari a rendere effettivo, entro il 30.06.2016, il trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie relative alle funzioni non fondamentali delle province e delle città metropolitane, in attuazione della riforma Delrio.
Il commissario, in assenza di leggi regionali di riordino e fatta salva la loro successiva adozione, provvederà ad attribuire alla regione commissariata le funzioni non fondamentali delle province e città metropolitane. Per il trasferimento del personale, il commissario opera secondo i criteri individuati ai sensi della legge n. 56 del 2014, nei limiti della capacità di assunzione e delle relative risorse finanziarie della regione ovvero della capacità di assunzione e delle relative risorse finanziarie dei comuni che insistono nel territorio della provincia o città metropolitana interessata, utilizzando la piattaforma di cui al decreto ministeriale del 14.09.2015.
Invece, per le regioni che hanno adottato in via definitiva la legge attuativa dell'accordo tra stato e regioni sancito in sede di Conferenza unificata l'11.09.2014 ma non hanno completato il trasferimento delle risorse, il commissario opera d'intesa con il presidente della regione, secondo le modalità previste dalla legge regionale.
Il disegno di legge di stabilità per il 2016, inoltre, intende accelerare il trasferimento del personale delle città metropolitane e delle province collocato in posizione utile nelle graduatorie redatte dal ministero della giustizia a seguito del bando di mobilità adottato con ricorso al fondo di cui all'articolo 30, comma 2.3, del decreto legislativo 30.03.2001, numero 165. Si prevede che i dipendenti interessati siano è inquadrati entro il 31.01.2016 nei ruoli del ministero della giustizia con assegnazione negli uffici giudiziari secondo le risultanze delle medesime graduatorie, prescindendo dal nulla osta dell'ente di provenienza.
Non solo: allo scopo di supportare il processo di digitalizzazione in corso presso gli uffici giudiziari e per dare compiuta attuazione al trasferimento al ministero della giustizia delle spese obbligatorie per il funzionamento degli uffici giudiziari, il disegno di legge di stabilità prevede che il ministero della giustizia acquisisca un nuovo contingente massimo di 1.000 unità di personale amministrativo proveniente dagli enti di area vasta, nel biennio 2016 e 2017, da inquadrare nel ruolo dell'amministrazione giudiziaria.
Il personale interessato sarà selezionato dalla graduatoria, in corso di validità delle mobilità attivate ai sensi dell'articolo 30, comma 2.3, del decreto legislativo numero 165 del 2001, oppure mediante il portale di cui al decreto del presidente del consiglio dei ministri 29.09.2014. Ma come extrema ratio, se entro 90 giorni il personale non sarà trasferito, la sua acquisizione sarà effettuata mediante procedure di mobilità volontaria semplificate prescindendo dall'assenso dell'amministrazione di appartenenza (articolo ItaliaOggi del 23.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAAmianto, rimozione finanziata. Stanziati più di 276 mln di euro per i progetti delle imprese. L'avviso pubblico Inail pubblicato in G.U. n. 296. Via alle domande da primavera.
Il bando ISI 2015 sovvenziona la rimozione dell'amianto dagli ambienti e luoghi di lavoro. Uno specifico asse di finanziamento, infatti, è dedicato ai progetti presentati dalle imprese per la bonifica da materiali contenenti amianto.

È quanto prevede, tra l'altro, l'avviso pubblico Inail pubblicato sulla G.U. n. 296 di ieri, relativo al bando ISI 2015 che stanzia oltre 276 milioni di euro a fondo perduto, 10 milioni in più dell'anno scorso.
I progetti di finanziamento andranno precaricati, online, sul sito Inail dal 1° marzo al 5 maggio; la presentazione vera e propria delle domande sarà possibile, invece, in data e orari che l'Inail comunicherà dal 19 maggio.
Il bando Isi 2015. Gli incentivi rientrano nelle attività previste dall'art. 11 del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008), che affidano all'Inail il compito di finanziare con proprie risorse progetti di investimento e di formazione sulla sicurezza sul lavoro, in particolare a favore delle piccole, medie e micro imprese.
Ieri è andato in Gazzetta Ufficiale il bando ISI 2015 che stanzia 276.269.986 euro (sesta tranche di complessivi 1,2 miliardi di euro). Novità del nuovo bando, come accennato, è la previsione di uno specifico asse di finanziamento dedicato ai progetti finalizzati alla rimozione di materiali contenenti amianto.
Progetti ammessi. Sono ammessi al contributivo di finanziamento:
1. progetti di investimento;
2. progetti di responsabilità sociale e per l'adozione di modelli organizzativi;
3. progetti di bonifica da materiali contenenti amianto. Si può presentare un solo progetto per una sola unità produttiva, per una sola tipologia tra quelle sopra indicate.
Il contributo. Il contributo, in conto capitale, è pari al 65% delle spese sostenute dall'impresa per realizzare il progetto, al netto di Iva. Il contributo massimo erogabile è di 130 mila euro, quello minimo di 5 mila euro. Alle imprese fino a 50 dipendenti che presentano progetti di adozione di modelli organizzativi e di responsabilità sociale non è fissato il limite minimo di contributo.
La procedura. I finanziamenti sono assegnati fino a esaurimento, secondo l'ordine cronologico di arrivo delle domande. Il contributo è erogato dopo verifica tecnico-amministrativa di realizzazione del progetto. I finanziamenti Isi sono cumulabili con benefici derivanti da interventi pubblici di garanzia sul credito (per esempio gestiti dal Fondo di garanzia delle pmi e da Ismea). Come per le passate edizioni, la procedura è organizzata in tre diversi step.
Primo step, pre-caricamento progetto. Dal 01.03.2015 fino alle ore 18 del 05.05.2016, nella sezione «servizi online» del sito Inail, le imprese registrate al sito troveranno a disposizione un'applicazione informatica per la compilazione della domanda, che consentirà di:
- effettuare simulazioni relative al progetto da presentare, verificando il raggiungimento del punteggio «soglia» di ammissibilità;
- salvare la domanda inserita.
Secondo step, codice identificativo. Dal 12.05.2016 le imprese che hanno raggiunto la soglia minima di ammissibilità e hanno salvato la domanda potranno accedere nuovamente alla procedura informatica ed effettuare il download del proprio codice identificativo che serve a individuarle in maniera univoca.
Terzo step, invio domanda (click-day). L'ultimo passaggio richiede alle imprese di inviare, online, la domanda, utilizzando il codice identificativo. La data e gli orari di apertura e chiusura dello sportello informatico per l'invio delle domande saranno pubblicati sul sito Inail dal 19.05.2015.
Ulteriori informazioni si possono recuperare sul sito internet dell'Inail oppure contattando il Contact Center al numero verde 803164 gratuito da rete fissa oppure al numero 06.164.164, a pagamento da telefono mobile (articolo ItaliaOggi del 22.12.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischio blocco per i «premi» al personale. Gli effetti possibili se entro il 31 dicembre non si costituisce il fondo e non si firma l’intesa.
Armonizzazione. Il principio contabile 4.2 non offre soluzioni sulla possibilità di traghettare nell’anno successivo le risorse per le voci variabili.

La mancata costituzione entro il 2015 del fondo per le risorse decentrate e la mancata stipula del contratto decentrato per la sua ripartizione fanno correre il rischio che le risorse non utilizzate non possano essere trasferite nel fondo dell’anno successivo.
È questo uno dei possibili effetti dell’entrata in vigore della armonizzazione del sistema contabile e del vincolo che le nuove regole introducono per lo spostamento di risorse da un esercizio a quello successivo, in particolare alla luce del requisito della esigibilità. In attesa dei chiarimenti che devono essere forniti, è quanto mai necessario che si superi la cattiva abitudine che si manifesta in molte amministrazioni e che va sotto il nome di “contrattazione tardiva” se non si vogliono sottrarre queste risorse all’incentivazione del personale.
Il dato contrattuale (articolo 17, comma 5, del contratto nazionale del 01.04.1999 e, per i dirigenti, articolo 26 del contratto nazionale del 23.12.1999) dice che le parti del fondo che non sono state «utilizzate o attribuite» nel corso di un anno vanno in aumento nel fondo dell’anno successivo.
L’Aran ha chiarito che, per il personale, le risorse che possono essere spostate all’anno successivo sono solamente quelle che provengono dalla parte stabile del fondo. La Ragioneria Generale dello Stato ha precisato che queste somme non vanno calcolate ai fini della determinazione del tetto del fondo e della decurtazione proporzionale alla diminuzione del personale in servizio.
La sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Lombardia, già con il parere n. 287/2010, ha espresso «forti dubbi sulla liceità dei contratti collettivi integrativi che ... siano conclusi dopo la scadenza del periodo di riferimento».
In questo quadro, l’entrata in vigore dell’armonizzazione dei sistemi contabili fa correre il rischio di rendere difficilmente utilizzabili le risorse del fondo di un anno che non siano state esattamente determinate con la sua costituzione tempestiva. Questo rischio vale in particolare per la parte variabile, che dipende dalle scelte delle amministrazioni: si tratta in particolare degli incrementi previsti dall’articolo 15, commi 2 e 5, del contratto nazionale del 01.04.1999 per il personale e dall’articolo 26, comma 3, del contratto nazionale del 23.12.1999 per i dirigenti. Il rischio si può estendere anche alla mancata definizione dell’intesa contrattuale con cui il fondo stesso viene ripartito.
Occorre evidenziare che il principio contabile 4.2 non dà al riguardo una soluzione certa. Il principio dice che sicuramente vengono spostate nell’anno successivo le risorse destinate all’erogazione delle quote di salario accessorio che non possono essere corrisposte nell’anno, come le indennità di risultato e la produttività in quanto legate agli esiti della valutazione. Ma non si pronuncia, quanto meno con chiarezza, sulla “contrattazione tardiva”, fenomeno che interessa un numero assai elevato di amministrazioni locali. Si chiarisce solo che «risultano definitivamente vincolate» le risorse del fondo a seguito della contrattazione decentrata con cui lo stesso è stato ripartito.
Il principio contabile sembra inoltre espressamente impedire che le risorse di parte variabile possano essere spese nell’anno successivo a carico del fondo dell’anno di riferimento in caso di mancata costituzione del fondo. Infatti, esso stabilisce che in questo caso solamente la «quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale» confluisca nel risultato di amministrazione vincolato.
In questo quadro, che al momento attuale è ancora assai incerto, appare necessario, a scanso di equivoci e di possibili sorprese negative, che le amministrazioni provvedano a costituire formalmente il fondo per la contrattazione decentrata e che le amministrazioni e i soggetti sindacali provvedano alla loro ripartizione tramite una specifica intesa contrattuale. Solo in questo modo si ha la certezza che le somme non spese e provenienti dalla parte stabile possano continuare ad essere destinate a incrementare il fondo del 2016
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.12.2015).

URBANISTICATempi lunghi per la legge quadro dello Stato.
Ha superato a fine ottobre il primo esame delle commissioni Agricoltura e Ambiente della Camera, riunite in sede referente, il disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo e sul riutilizzo di quello edificato (Atto Camera n. 2039) presentato dal governo Letta nel febbraio del 2014, abbinato ad altre proposte di legge sul tema presentate da diversi gruppi politici.
Secondo il sottosegretario ai Beni culturali, Ilaria Borletti Buitoni, «si tratta di una riforma indispensabile che dovrebbe in gennaio ricevere l’approvazione dalla Camera dei Deputati». Ma il testo dovrà ricominciare l’iter al Senato. Solo quando il Parlamento lo avrà approvato, le Regioni potranno adottare solo provvedimenti che prevedano una tutela delle aree inedificate maggiore di quanto non faccia la legge statale. Nel frattempo le autonomie sono libere di fissare proprie regole (e lo stanno facendo, si veda l’articolo a fianco).
Le fasi di attuazione
La legge statale costituirà una tappa fondamentale di avvicinamento al traguardo dello stop assoluto al consumo di suolo nel 2050 deciso dall’'Unione europea. Per avviarsi verso quest’obiettivo, il disegno di legge disegna una procedura complessa. Entro un anno dall’entrata in vigore della futura legge, il ministro dell’Agricoltura, di concerto con altri ministri, deve stabilire con decreto di quanto deve essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale, attraverso criteri, a loro volta definiti da Stato, Regioni e Comuni in Conferenza unificata. Se non si fissano questi indici, provvede il presidente del Consiglio.
L’operazione è delicata: i parametri da considerare sono elencati nella legge, ma il numero finale dei chilometri quadrati di suolo da sottrarre all’impermeabilizzazione cambia in base al peso attribuito a ognuno di essi; e potrebbe influire anche sulla ripartizione, affidata anch’essa alla Conferenza unificata, tra le Regioni del contenimento complessivo.
Ogni Regione, a sua volta, attribuisce gli obiettivi di consumo ai singoli Comuni del proprio territorio. Il risultato finale del meccanismo è incerto e nulla garantisce che i Comuni nei quali è stato maggiore il consumo di suolo in passato saranno anche quelli ai quali richiesto il maggiore contenimento del consumo futuro; e viceversa. Gli obiettivi di riduzione hanno un orizzonte quinquennale e bisognerà vedere se potranno essere corretti in corso d’opera.
In ogni caso, il consumo del suolo sarà permesso solo se le necessità di nuovi spazi non potranno essere soddisfatte riutilizzando o rigenerando le aree già urbanizzate. Per dare priorità al riuso del patrimonio esistente, le Regioni dovranno incentivare i Comuni a promuovere strategie per la rigenerazione urbana e definire i criteri per la realizzazione di un censimento degli edifici sfitti, inutilizzati o abbandonati. Se non lo faranno entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, un decreto del presidente del Consiglio detterà disposizioni uguali per tutti.
Uso limitato per gli oneri
Per convincere i sindaci a concorrere all’obiettivo del contenimento, viene ristretta la loro libertà di utilizzo degli oneri di urbanizzazione degli altri proventi derivanti dai titoli abilitativi edilizi. Con l’approvazione della nuova legge quelle risorse dovranno essere impiegate unicamente nella manutenzione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e negli interventi di tutela del territorio
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, tracciamento a rischio. Nuovo regime registri/formulari dall'1/1 salvo proroghe. Maggiori adempimenti e tempistica stretta per le imprese non obbligate al Sistri.
Salvo le già invocate proroghe dell'ultim'ora, dal 01.01.2016, parallelamente alla piena operatività del controllo telematico «Sistri», esordirà anche il rinnovato sistema di tracciamento tradizionale dei rifiuti, che dovrà essere osservato da chi, avendone facoltà, non adotta il sistema telematico.
In base al Dl 192/2014, con il nuovo anno acquisterà infatti efficacia, insieme all'applicabilità delle sanzioni per l'omesso tracciamento Sistri (si veda ItaliaOggi Sette del 07/12/2015) la versione degli articoli 190 e 193 del dlgs 152/2006 su registri di carico/scarico e formulari di trasporto, scritta dal dlgs 205/2010.
Il nuovo tracciamento tradizionale. La logica alla base del restyling, riconduce sotto registri e formulari tutto il flusso dei rifiuti non altrimenti tracciato mediante il Sistri, prevedendo anche una stretta sui tempi entro cui dare evidenza nelle storiche scritture ambientali di alcune attività.
In base alla «dormiente» versione del rinnovato articolo 190 del «Codice ambientale», dal 01.01.2016 saranno infatti esonerati dalla tenuta dei registri soltanto: Enti e imprese Sistri o che effettuano esclusivamente attività di raccolta/trasporto di propri rifiuti speciali non pericolosi dei quali sono produttori iniziali; limitatamente ai rifiuti non pericolosi, i centri di raccolta di rifiuti urbani ex articolo 183, dlgs 152/2006.
Saranno invece obbligati alla tenuta se, avendone facoltà, non aderiscono al Sistri: Enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi; produttori di rifiuti pericolosi non inquadrati in un'organizzazione di Ente/impresa; Enti/imprese produttori iniziali di speciali non pericolosi da lavorazioni industriali o artigianali, potabilizzazione e altri trattamenti delle acque; Enti/imprese di raccolta/trasporto rifiuti, preparazione al riutilizzo, recupero/smaltimento, compresi i nuovi produttori di rifiuti; operatori del trasporto intermodale di rifiuti speciali; intermediari e commercianti di rifiuti.
L'annotazione delle informazioni dovrà essere effettuata: per produzione iniziale di rifiuti, entro 10 giorni lavorativi, rispettivamente, da produzione e successivo scarico; nella preparazione rifiuti per riutilizzo, entro 10 gg. da presa in carico e scarico; per altri trattamenti, entro 2 gg. da presa in carico e dal termine delle attività; nell'intermediazione e commercio, entro 2 gg. da inizio operazioni e conclusione.
Regimi semplificati sono previsti per alcune categorie di soggetti, quali: imprenditori agricoli produttori iniziali di rifiuti pericolosi (che potranno adempiere tramite conservazione per tre anni di copia del formulario di trasporto, oppure scheda Sistri o documento di conferimento a circuito organizzato); produttori di rifiuti pericolosi diversi da Enti/imprese (obbligati alla conservazione cronologica delle copie schede Sistri rilasciate da trasportatore); centri di raccolta rifiuti urbani pericolosi (ammessi a effettuare registrazioni di carico/scarico contestualmente all'uscita dei rifiuti dagli impianti e in maniera cumulativa per ciascun codice Cer).
In base alla parallela «nuova» versione dell'articolo 193 del dlgs 152/2006, dal 01.01.2016 saranno invece obbligati alla tenuta del formulario Enti/imprese di raccolta/trasporto rifiuti non aderenti, avendone facoltà, al Sistri.
Le correlate novità Ue. La modulistica di riferimento per registri di carico/scarico e formulario di trasporto dei rifiuti resterà quella prevista dai decreti Minambiente 145 e 148 del 01.04.1998 (adottati in attuazione dello storico dlgs 22/1997, c.d. «Decreto Ronchi», e confermati dal Codice ambientale).
Tuttavia, le indicazioni sulle caratteristiche di pericolo dei rifiuti recate da tali decreti ministeriali devono intendersi dallo scorso 01.06.2015 superate dalla nuova classificazione stabilita dal regolamento Ue n. 1357/2014, dalla suddetta data direttamente applicabile sul territorio nazionale senza necessità di recepimento in virtù della sua natura self executing.
La dichiarazione Mud. A interessare nel 2016 sia la categoria degli operatori soggetti al Sistri, sia quelli tenuti al tracciamento tradizionale sarà l'appuntamento con l'annuale scadenza Mud.
Per i soggetti tenuti al tracciamento telematico e al contempo rientranti tra quelli tenuti (ex dlgs 152/2006, versione «ante dlgs 205/2010», e provvedimenti connessi) alla presentazione del «Modello unico di dichiarazione» ambientale l'obbligo deriva dal dl 192/2014, laddove si impone loro (nell'ambito del cd. «regime transitorio Sistri») di continuare a effettuare il tracciamento tradizionale dei rifiuti (quindi, Mud incluso) fino al 31.12.2015.
Tracciamento e produttore «giuridico» di rifiuti. Si ricorda che il dl 78/2015 (convertito in legge 125/2015) ha riformulato la definizione di produttore iniziale di rifiuti recata dal dlgs 152/2006, specificando che debba intendersi tale, oltre al soggetto la cui attività produce materialmente rifiuti, anche quello cui detta produzione sia «giuridicamente riferibile».
Come emerge anche dagli atti parlamentari sottesi alla riforma, tale novella appare essere volta a dare valenza normativa agli oneri di vigilanza e controllo cui committenti e appaltanti di lavori dai quali possono essere generati rifiuti sono tenuti nei confronti di soggetti affidatari e appaltatori al fine della gestione dei residui.
Tale posizione di garanzia (rilevante sul piano penale) non appare però potersi tradurre (stante anche l'impostazione «monosoggettiva» dei documenti di tracciamento, come sottolineato da autorevole dottrina) in una duplicazione di obblighi procedimentali, per cui la tenuta delle citate scritture ambientali, tradizionali quanto telematiche, non potrà di fatto che essere plausibilmente pretesa (anche per evitare distorsioni statistiche) da uno solo dei due produttori, e concretamente da quello «materiale», depositario di analitiche informazioni su qualità e quantità dei rifiuti da lui generati.
L'ipotesi «proroga». L'efficacia del nuovo regime di tracciamento tradizionale è, come accennato, legata alla piena operatività del Sistri prevista dal 01.01.2016, operatività che soffre tuttavia di criticità anche per il cambio in corso del gestore del Servizio (si veda ItaliaOggi Sette del 07/12/2015).
Già in sede di esame del ddl «Stabilità» era stato presentato alla Camera lo scorso 13.12.2015, senza però trovare poi accoglimento, un emendamento volto a rinviare di un anno l'applicabilità delle sanzioni per l'omesso tracciamento telematico (ma non di quelle per omessa iscrizione e pagamento del contributo) con parallela analoga proroga per l'incarico dell'attuale gestore del Sistema. Ciò non esclude, tuttavia, che un differimento possa arrivare con il decreto legge «mille proroghe» di fine anno.
Il tutto mentre appare essere in corso di predisposizione da parte del Minambiente un nuovo decreto su funzionamento del Sistri che sembra promettere (sostituendosi all'attuale dm 52/2011), oltre alla conferma del contributo, anche l'interconnessione con l'Albo gestori ambientali e uno snello aggiornamento delle procedure operative di utilizzo del sistema tramite successivi provvedimenti governativi non regolamentari (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

TRIBUTIEdificabilità condiziona le imposte locali. Solo i terreni edificabili sono soggetti alle imposte locali; quando, invece, l'edificabilità è teorica, sui terreni non dovrà essere versata alcuna imposta.
Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza n. 428/4/2015 emessa dalla Sez. IV della Commissione tributaria provinciale di Varese.
La pretesa fiscale nasce da quattro avvisi di accertamento con cui il comune di Lonate Pozzolo (Va) richiedeva l'Ici per due appezzamenti di terreno edificabili. Ritenendo la pretesa illegittima, i proprietari del fondo ricorrevano avverso tali atti e, rivolgendosi alla Commissione tributaria provinciale di Varese eccepivano l'inconsistenza della richiesta notificata; in particolare, palesavano che l'immobile era ricompreso in un area destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico attrezzato, che lo stesso era stato frazionato in seguito al passaggio della nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano e quindi l'edificabilità era solo teorica.
Costituendosi in giudizio, il comune riferiva che le aree interessate hanno natura edificabile con inserimento nel piano regolatore generale e potenzialità edificatoria (sia pure ridotta); conseguentemente devono essere assoggettate a imposta. Il contrasto nato sull'imposizione Ici delle aree edificabili nella cassazione, è stato risolto con l'intervento delle sezioni unite con la sentenza n. 25506 del 30.11.2006.
Con questa sentenza, le sezioni unite hanno stabilito che l'area deve essere ritenuta edificabile se è inserita in uno strumento urbanistico generale indipendentemente dall'approvazione e dall'adozione di strumenti urbanistici. Detta impostazione ha trovato conferma nella Legge n. 248 del 04.08.2006 (decreto Bersani). Nel caso trattato dai giudici provinciali di Varese, tuttavia, l'inedificabilità non è subordinata a conferme procedurali, bensì a una motivazione fattuale.
«Nel caso specifico» osservano i giudici provinciali «le aree interessate dall'accertamento derivano da un frazionamento a seguito della costruzione della nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano che lo ha spezzato in due parti tale da togliere ogni edificabilità. Un utilizzo edificatorio potrebbe scaturire solo dall'accorpamento con fondi limitrofi, e questa eventualità futura, potrà essere valutata al momento della sua realizzazione».
Il collegio prosegue affermando che l'edificabilità delle aree in questione risulta puramente teorica e conclude annullando gli avvisi di accertamento e condannando il comune resistente alle spese di giudizio, liquidate in via equitativa in 500,00.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Gli avvisi di accertamento impugnati scaturiscono dall'applicazione dell'Ici per gli anni 2009-2010-2011-2012 relativamente a due appezzamenti di terreno siti in derivanti dal frazionamento dell'11/10/2000 n. 113097, dell'originario mappale 483 a seguito costruzione della nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano da parte delle Ferrovie Nord Milano esercizio S.p.A..
I ricorrenti non hanno applicato l'Ici sui due terreni non ritenendoli edificabili. [omissis] Si costituisce nel giudizio il comune di ... sostenendo che le aree interessate hanno la natura di aree fabbricabili con destinazione urbanistica «F1 aree per attrezzature ricreative sportive, a verde pubblica, per istruzione di parcheggi pubblici» dalla data di adozione del Prg nel 1993.
In ordine alla pretesa di non ritenere edificabili i terreni a seguito del divieto di costruire ex artt. 49 e 50 dpr 753/1980, la richiesta non può essere accolta, in quanto il comparto deve essere inteso nel suo insieme e la parte rimanente oltre alla fascia di rispetto, per una larghezza di circa m. 40, può essere modificata, sfruttando il volume generato dall'intero comparto. Le aree in questione devono, pertanto essere assoggettate a Ici con relative sanzioni. [omissis]
Il ricorso è fondato e, pertanto, merita accoglimento. Per l'assoggettabilità a Ici non basta che i terreni siano qualificati come edificabili da uno strumento urbanistico generale, bensì occorre che siano concretamente edificabili. Nel caso in esame le aree interessate dagli avvisi di accertamento, derivanti dal frazionamento dell'11/10/2000 n. 113097, dell'originario mappale 483 a seguito costruzione della nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano che lo ha di fatto spezzato in due parti con i conseguenti vincoli che ne derivano, pur avendo natura di aree fabbricabili con destinazione urbanistica F1, non hanno consistenza tale da potersi considerare autonomamente edificabili. L'edificabilità può scaturire solo dall'accorpamento con fondi vicini della medesima zona, che è solo una eventualità futura che potrà essere valutata solo al momento della sua realizzazione.
In buona sostanza, quindi l'edificabilità delle aree in questione risulta puramente teorica, anche in considerazione del fatto che solo la nuova destinazione urbanistica del 2013 il Comune ha provveduto al riconoscimento di una volumetria di costruzione dello 0.40.
PQM
La Commissione accoglie il ricorso e annulla l'avviso di accertamento impugnato.
Condanna il Comune resistente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in via equitativa in euro 500,00 (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Assistenza disabili, diritti condizionati. La risposta del governo a un'interrogazione.
La legge 104/1992 tutela i diritti delle persone disabili, prevedendo alcune agevolazioni per i dipendenti che assistono una persona con handicap. Ma tale prerogativa non costituisce un diritto pieno e incondizionato, dovendo lo stesso essere bilanciato con le specifiche esigenze funzionali dell'Amministrazione di appartenenza. Insomma, diritti sì ma condizionati.

È questa, in sintesi la risposta 19.12.2015 che il sottosegretario di Stato, Daniele Bocci ha fornito all'onorevole Massimiliano Fedriga a seguito della INTERROGAZIONE 02.07.2015 A RISPOSTA SCRITTA 4/09653 dallo stesso rivolta al Ministero dell'interno e riguardante, appunto, le numerose istanze di mobilità presentate da dipendenti del Ministero dell'interno e rimaste inevase.
In merito alla questione posta, la risposta dell'11 novembre scorso ricorda che l'art. 33, comma 5, della legge 104/1992 prevede che il lavoratore che assiste i soggetti con handicap in situazione di gravità possa scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere.
Ma nel valutare le istanze presentate il Viminale, ha sottolineato il sottosegretario, deve tenere conto della necessità di garantire la funzionalità degli uffici, rispetto alla quale hanno inciso sfavorevolmente le recenti riduzioni degli organici disposte dal dl 95/2012.
Sulla questione specifica della richiesta di trasferimento da una sede all'altra dei dipendenti del Ministero dell'interno, peraltro, è intervenuto il Consiglio di stato che, con la sentenza 5113 depositata proprio il giorno prima della risposta all'interrogazione, ovvero il 10 novembre, ha affermato tutt'altro, respingendo un ricorso del Viminale.
In sostanza, pur non configurandosi il trasferimento ai sensi dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104, come un diritto assoluto del dipendente interessato, la terza Sezione del Consiglio di Stato, contrariamente al convincimento del dicastero, ha chiarito che l'inciso «ove possibile», contenuto nella disposizione sta a significare che, avuto riguardo alla qualifica rivestita dal pubblico dipendente, deve sussistere la disponibilità nella dotazione di organico della sede di destinazione del posto in ruolo per il proficuo utilizzo del dipendente che chiede il trasferimento (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAutorizzazioni, arriva il tetto dei 60 giorni. Conferenza servizi on-line e con silenzio-assenso - In caso di dissensi decide Palazzo Chigi in cinque mesi.
La nuova conferenza dei servizi regolata dalla riforma Madia si svolgerà perlopiù senza riunioni fisiche ma solo con l’invio per posta elettronica dei documenti necessari per esaminare un procedimento amministrativo che vede coinvolti più soggetti pubblici. E le decisioni finali scatteranno comunque entro 60 giorni, posto che si considererà come acquisito l’assenso delle amministrazioni che non si sono espresse.
Le riunioni “simultanee”, ovvero quelle in forma tradizionale, si potranno effettuare anche in via telematica ma saranno limitate solo ai casi di decisioni particolarmente complesse o in cui sono richieste rilevanti modifiche progettuali che impongono alle amministrazioni coinvolte una valutazione aggiuntiva. Anche in questi casi vale la regola dei 60 giorni: chi non si esprime in conferenza del servizi è come se desse l’assenso. E ancora: alla nuova conferenze dei servizi potrà partecipare un unico rappresentante, rispettivamente per le amministrazioni statali, uno per ogni regione e uno per ogni comune.

Eccola la semplificazione che apre, insieme con una serie di altri decreti delegati, l’attesissimo cantiere di attuazione della riforma della Pa, un disegno di legge delega, il n. 124 del 2015, che è arrivato in Gazzetta Ufficiale il 7 agosto scorso dopo un lungo iter parlamentare.
Il testo, che il Sole 24Ore è in grado d’anticipare, è pronto e dovrebbe essere esaminato nel Consiglio dei ministri pre-natalizio (al più tardi nel primo di gennaio) insieme con una serie di altri decreti attuativi che i tecnici di palazzo Vidoni stanno chiudendo in tandem con palazzo Chigi.
Oltre alla nuova conferenza dei servizi dovrebbero arrivare in Consiglio una decina di altri decreti: il riordino delle società partecipate e dei servizi pubblici locali, l’aggiornamento del Codice per l’amministrazione digitale (a gennaio partirà la sperimentazione del Pin unico per accedere a tutti i servizi della Pa) e la semplificazione delle regole sulla trasparenza. Dopo il primo via libera tutti i testi passeranno alle Camere per i pareri e il loro approdo finale in Gazzetta potrebbe arrivare entro il primo trimestre dell’anno prossimo.
La nuova conferenza dei servizi è prevista all’articolo 2 della legge di riforma e realizza una sorta di rivoluzione copernicana del vecchio modello introdotto con riforme degli anni Novanta (legge 241/1990) sul procedimento amministrativo. Si tratta di uno degli atti più attesi dal mondo dell’impresa vista l’indeterminatezza dei tempi che finora ha imperato sul funzionamento delle conferenze dei servizi in un Paese in cui vengono presentate oltre 75mila richieste per l’avvio di attività produttive non con procedura Scia (il dato è riferito al 2014 e riguarda il sistema Unioncamere e cinque delle venti Regioni) o dove (dato 2012, quindi in un periodo di profonda recessione) vengono richieste annualmente oltre 350mila autorizzazioni edili.
Contro le decisioni assunte da una conferenza dei servizi nel limite massimo di 10 giorni possono esprimere un dissenso le amministrazioni preposte a interessi sensibili (tutela ambiente, tutela paesaggistico-territoriale o storico-artistico, o della salute o della pubblica incolumità) e lo faranno presentando un’opposizione alla presidenza del Consiglio dove, se non riesce a comporre la questione proposta da un ministro competente entro 15 giorni, si delibera direttamente in un Consiglio dei ministri cui possono partecipare i presidenti delle Regioni o delle province autonome interessate. In quest’ultimo caso la durata massima di una conferenza dei servizi versione Madia potrebbe arrivare a cinque mesi prima della chiusura.
Il testo prevede un forte coordinamento con le discipline settoriali: testo unico edilizia, autorizzazioni ambientali e paesaggistiche nonché la regulation sugli sportelli unici per le attività produttive. Per aziende che dovessero fare una richiesta di autorizzazione complessa che prevede una valutazione di impatto ambientale, ad esempio, con il nuovo testo in vigore si potrà effettuare un’unica domanda complessiva, come già avviene in alcune best practices regionali da cui si è preso spunto per predisporre questa semplificazione: l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Piemonte
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer i licenziamenti illegittimi nella Pa c’è anche l’indennizzo. Articolo 18. Le sentenze dei tribunali del lavoro.
Ve la ricordate la storia delle centinaia di vigili urbani “assenteisti” del comune di Roma il 31 dicembre scorso? A quasi un anno di distanza non è arrivato ancora alcun licenziamento, ma solo una manciata di sanzioni conservative. Anche per i “furbetti del cartellino” del comune di Sanremo (che timbravano in mutande, o si facevano sostituire da un collega) i procedimenti disciplinari stentano a decollare e a produrre sanzioni.
Un paradosso, se si pensa al mondo privato, dove per simili illeciti disciplinari, sarebbero subito scattati provvedimenti.
Il punto è che nella Pa l’iter burocratico che porta al licenziamento è piuttosto complesso; e anche il dibattito su vecchio/nuovo articolo 18 è tutt’altro che sopito.
Il ministro Marianna Madia, si è detta contraria a estensioni «semplicistiche» del Jobs act alla Pa, e i tecnici di palazzo Vidoni, in sede di attuazione del nuovo Testo unico sul lavoro pubblico, stanno pensando a una norma interpretativa che escluda il pubblico impiego dalle tutele crescenti, di fatto confermando l’applicazione dell’articolo 18 ante Fornero, nella versione originaria dello Statuto (e cioè sempre reintegra in ogni ipotesi di invalidità del licenziamento anche per motivi puramente formali).
Si congelerebbe tutto, lasciando inoltre ai magistrati spazio per sole sentenze che cumulano reintegrazione e risarcimento. Anche in casi “eclatanti”. Come per esempio quella del “pompiere rapinatore”, raccontata dal giuslavorista Pietro Ichino nel suo ultimo libro Il lavoro ritrovato (maggio 2015), dove il tribunale del lavoro di Siena ha reintegrato un vigile del fuoco colto in flagranza mentre compiva una rapina a mano armata nei confronti di una banca con la motivazione che una “rapinetta” si può tollerare, per una volta sola, se a commetterla è un dipendente pubblico incensurato.
Ma la magistratura, in questi ultimi mesi, ha pronunciato sentenze di reintegra anche in casi di meri vizi nella procedura di licenziamento (tribunale di Teramo, ottobre 2015, n. 858) e, pure, in caso di “spoporzione” dell’atto di recesso (qui per il tribunale di Parma, maggio 2014, n. 177 la mancata copertura di un turno pomeridiano da parte di un dirigente medico, impossibilitato nel rispondere al cellulare perché bloccato dal nipote, non è stato considerato un fatto idoneo a far scattare validamente un licenziamento…).
La questione è sensibile per i licenziamenti disciplinari (il recesso “per motivi oggettivi” trova regolamentazione nella disciplina della mobilità da eccedenza, anche se la norma è praticamente inattuata da 14 anni).
In realtà, ricordano gli esperti, già oggi una giurisprudenza di merito apre alla sanzione monetaria in caso di recessi illegittimi. Ad esempio, una pronuncia del tribunale di Genova di marzo 2015 e un’altra del tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 02.04.2013 affermano che in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento per motivi procedurali non scatta la tutela reale, ma l’indennizzo.
«E questa -spiega Sandro Mainardi (università di Bologna)- potrebbe essere la strada da seguire nell’ambito della riforma Madia, che deve naturalmente cercare un punto di equilibrio tra la necessità di evitare lo spreco di risorse pubbliche e l’esigenza di tutelare il buon andamento della stessa amministrazione, impedendo che lavoratori gravemente inadempienti, o addirittura rei di illeciti penali, facciano rientro in amministrazione a seguito di licenziamenti annullati solo per vizi di procedura. La via, allora, potrebbe essere mantenere la tutela reintegratoria in caso di licenziamenti discriminatori e quando i fatti contestati siano insussistenti o meritevoli di sanzione solo conservativa; accedendo invece alla tutela solo indennitaria del dipendente laddove, sussistendo l’illecito e la sua gravità, il licenziamento presenti solo vizi formali o di procedura».
Del resto, «come dimostrano i casi di Roma e Sanremo -aggiunge Arturo Maresca (Sapienza, Roma)- il problema del potere disciplinare nel lavoro pubblico dipende da due fattori: la capacità-determinazione dei dirigenti nell’avvalersi di questo potere, e la difficoltà di districarsi e portare a termine correttamente la procedura. Come è possibile che in un’impresa privata si possa procedere in 5 giorni all’applicazione della sanzione disciplinare e nella Pa no?».
Il ministro Madia, quindi, renda davvero effettivi i procedimenti disciplinari. In assenza, mantenendo pure il vecchio articolo 18, il rischio è una generalizzata impunità per tutti i “travet
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOOneri concessori «liberi» e stop ai tagli alle Province. Enti locali. Gli effetti degli ultimi correttivi approvati in commissione Bilancio.
La possibilità di usare tutti gli oneri di urbanizzazione per le spese correnti è l’ultima novità per i Comuni spuntata dalla versione definitiva degli emendamenti alla manovra approvati in commissione Bilancio alla Camera.
Il voto in Aula (senza fiducia) a Montecitorio è previsto per sabato, e ieri la legge di stabilità 2016 ha incassato in conferenza unificata il parere positivo delle Autonomie. Un via libera, in realtà, con toni e colori diversi, più freddi da parte dei Governatori.
«Quello delle Regioni -spiega infatti Massimo Garavaglia, che tiene i conti della Lombardia ma è anche il coordinatore degli assessori al bilancio delle Regioni- è un parere positivo condizionato all’inserimento di alcuni emendamenti, ma poiché difficilmente verranno approvati, è anche un parere negativo; dipende da come lo si guarda».
Più acceso il verde utilizzato dagli amministratori locali, che con il presidente dell’Anci Piero Fassino giudicano la manovra «un buon passo avanti nel rapporto tra Stato e Comuni», aiutato anche dagli «ulteriori miglioramenti e integrazioni» arrivate sia al Senato sia alla Camera. «Anche sulle Province -aggiunge Fassino- ci sembra che sia stata data una soluzione positiva che nel testo originale erano fortemente penalizzate e che sulla base delle proposte avanzate dall’Anci e dall’Upi sono state modificate riducendo quindi l'impatto dei tagli». Naturalmente non tutte le questioni sono risolte, e rimangono temi importanti da affrontare dopo la legge di stabilità.
In sintesi: l’addio alla Tasi con il «rimborso integrale» da parte dello Stato è una soluzione positiva ma «transitoria», perché nel 2016 c’è da ricostruire l’autonomia fiscale dei sindaci, i correttivi ipotizzati alla stretta sul turn over non sono arrivati, gli arretrati sulle spese di giustizia («700 milioni di crediti che riguardano molte città», come rivendica Paolo Perrone, sindaco di Lecce e vicepresidente dell’Anci) sono ancora tutti lì e la «mini-sanatoria» riservata alle delibere approvate il 31 luglio non risolve i problemi di chi è arrivato dopo.
Accanto all’addio del Patto di stabilità, sostituito dal pareggio di bilancio che permette lo sblocco degli avanzi, e alla manovra Imu/Tasi neutra per i conti comunali, ad allungare l’elenco delle buone notizie è intervenuta da ultimo anche la commissione Bilancio del Senato. Per i Comuni, l’ultima novità arriva appunto sull’utilizzo degli oneri di urbanizzazione, che secondo le regole ordinarie (derogate da anni) dovrebbero coprire solo spese di investimento e per il 2016 e 2017 cambiano regime: accantonata la proroga rituale, che permetteva di dedicarne metà alle spese correnti in generale e un altro 25% alla manutenzione ordinaria, arriva una norma nuova: tutti gli oneri di urbanizzazione possono finanziare le manutenzioni di strade, verde, patrimonio comunale e spese di progettazione delle opere pubbliche.
Il dato chiave è nella “liberazione” totale di oneri e sanzioni collegate, anche perché l’esperienza insegna che i vincoli di destinazione successivi sono spesso lasciati alla buona volontà delle singole amministrazioni.
Sui conti provinciali, il lavorio è stato intenso e dopo le incertezze iniziali ha prodotto risultati importanti: oltre ai 150 milioni di alleggerimento dei tagli scritti nelle prime versioni della manovra, sono arrivati altri 95 milioni per scuole e strade, 100 milioni per le strade ex Anas, un nuovo stop ai mutui che vale 240 milioni, altri 40 dall’utilizzo degli avanzi ancora presenti e circa 40 per i disabili sensoriali della scuola. Risultato, i tagli 2016 previsti inizialmente sono stati nel complesso praticamente azzerati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO«Statali» verso quattro comparti. Pubblico impiego. Passi in avanti nella trattativa fra Aran e sindacati.
Quattro comparti sono meglio di tre, e su questo presupposto la trattativa fra Aran e sindacati sull’applicazione della riforma Brunetta, presupposto indispensabile per far ripartire i contratti nel pubblico impiego, fa un passo in avanti e punta a chiudere entro gennaio. Su tutta la partita, poi, continua ovviamente a pesare il nodo risorse, con i sindacati che nel nome dei rinnovi si dicono pronti «ad aprire il tavolo anche a Natale».
I due nodi sono intrecciati, perché «in occasione del primo rinnovo contrattuale», come recita la riforma Brunetta, bisogna ridurre a un massimo di quattro le dodici famiglie in cui è diviso oggi il pubblico impiego. L’architettura proposta ieri alle organizzazioni sindacali (come anticipato sul Sole 24 Ore del 15 dicembre) disegna una pubblico impiego articolato in scuola, sanità, enti territoriali e Pa statale.
È quest’ultimo il comparto più problematico, dal momento che riunirebbe una serie di realtà, dai ministeri alle agenzie fiscali fino agli enti pubblici, che oggi sono separate e viaggiano su livelli retributivi diversi. La prospettiva, in assenza di risorse che permettano di prevedere allineamenti in tempi brevi, sarebbe quella di cominciare a unificare le regole di base del rapporto di lavoro, rimandando il resto a tempi migliori.
In ogni caso, per risolvere il rebus potrebbe tornare utile l’articolazione in «sezioni», per raggruppare le realtà fra loro più omogenee all’interno dei comparti unici.
Anche così, però, rimangono due questioni da affrontare: la presidenza del Consiglio, poco più di 2mila persone che oggi danno vita a un comparto separato, e l’università, che fa parte dell’area della conoscenza e potrebbe confluire con la scuola dove però ci sono dinamiche specifiche.
In ogni caso, quello del pubblico impiego rimane un terreno minato. Oltre al problema delle risorse per i rinnovi, resta la questione ancora irrisolta degli integrativi illegittimi negli enti locali, stoppati dalla Ragioneria. Oggi a Roma i sindacati torneranno a protestare sotto il Campidoglio
 (articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2015).

APPALTIResponsabilità solidale per due anni dopo l'appalto.
La responsabilità solidale in materia contributiva dura due anni dalla cessazione dell'appalto.

Lo precisa il ministero del lavoro nell'interpello 15.12.2015 n. 29/2015, rispondendo a quesiti avanzati da Confindustria, Alleanza delle cooperative italiane e Associazione nazionale cooperative di produzione e lavoro.
Responsabilità solidale. La questione riguarda il regime di responsabilità solidale in materia contributiva. Poiché per un periodo di tempo il regime è stato disciplinato dall'art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 e contemporaneamente dall'art. 35, comma 28, del dl n. 223/2006 (convertito dalla legge n. 248/2006), è stato chiesto al ministero di chiarire come applicare il termine di decadenza di due anni previsto dalla prima norma, al fine d'individuare il periodo entro cui è possibile agire per il recupero dei contributi per responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore.
La seconda norma (art. 35), spiega il ministero, è stata vigente fino al 28.04.2012. Poi, è stata riformulata dal dl n. 16/2012 (convertito dalla legge n. 44/2012), che ha circoscritto il regime di responsabilità solidale alle sole ipotesi del «versamento all'erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell'ambito dell'appalto», escludendo dalla formulazione originaria la previsione inerente la responsabilità a titolo contributivo.
Decadenza dopo due anni. Dall'analisi delle norme, spiega il ministero, si evince che nel periodo in cui sono state vigenti contemporaneamente le citate disposizioni (art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 e art. 35, comma 28, del dl n. 223/2006), cioè fino al 27.04.2012, la prima, in quanto di carattere speciale, deve considerarsi prevalente in materia contributiva rispetto alla seconda.
Pertanto, ne consegue che, ai fini della applicabilità della responsabilità solidale in materia contributiva, occorre tener conto della specifica limitazione temporale prevista di due anni a partire dalla cessazione dell'appalto (articolo ItaliaOggi del 18.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDdl appalti. Clausole sociali a rischio.
Le norme del ddl delega sugli appalti relative all'obbligo di assorbimento del personale impiegato in un appalto da parte dell'impresa subentrante non sono in linea con la disciplina sulla concorrenza; ogni previsione in questa materia non può risolversi in obblighi e deve essere compatibile con la libera concorrenza e la libertà di impresa.

È quanto afferma l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (nota 11.12.2015 n. 72361 di prot.), seguendo a ruota il parere 10.12.2015 dell'Anac, anch'esso negativo, rispetto ad alcune norme dell'articolo 1, comma 1, (lettere ddd, fff, ggg) del disegno di legge delega (Atto Senato 1678-B), da oggi all'attenzione dell'Aula del senato per il varo definitivo.
Le disposizioni prevedono l'introduzione di criteri e modalità premiali di valutazione delle offerte nei confronti delle imprese che, in caso di aggiudicazione, si impegnino, per l'esecuzione dell'appalto, a utilizzare anche in parte manodopera o personale a livello locale ovvero in via prioritaria gli addetti già impiegati nello stesso appalto.
L'obiettivo della norma è la stabilizzazione occupazionale, ma su questo obiettivo il presidente della Commissione lavoro nel parere reso due settimane fa alla commissione lavori pubblici (di cui è stato relatore Pietro Ichino), aveva eccepito alcuni profili di incompatibilità con le regole europee e con i principi costituzionali, chiedendo anche sia all'Anac, sia all'Agcm un pronunciamento. Il parere dell'Authority presieduta da Giovanni Pitruzzella è critico verso le disposizioni del disegno di legge che ormai, però, non potrà essere più modificato, salvo sorprese.
Per l'Agcm esistono almeno tre «criticità»: diminuzione dei benefici del confronto competitivo tra imprese in sede di gara; scoraggiamento della partecipazione alla gara stessa; possibile danno per l'amministrazione perché ostacola l'introduzione di eventuali innovazioni nel processo produttivo non consentendo risparmi sul costo del lavoro fornito.
Per l'Antitrust,
«affinché la clausola sociale sia compatibile con i principi concorrenziali non deve tradursi in un obbligo ovvero in un vincolo assoluto per il progetto dell'impresa subentrante» (articolo ItaliaOggi del 18.12.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIGiunte con parità di genere. I due sessi devono essere rappresentati per almeno il 40%. La regola vale per tutti i comuni sopra i 3 mila abitanti. Deroghe solo in casi eccezionali.
I principi comunitari e costituzionali, volti a garantire l'eguaglianza tra i sessi nell'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, hanno trovato una disciplina normativa specifica nel nostro ordinamento mediante la previsione di disposizioni tese a garantire le pari opportunità nella composizione della giunta comunale.
La giunta comunale è nominata dal sindaco e composta da un numero di assessori fissato dallo statuto del comune, entro il tetto massimo previsto dalla legge.
Nei comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti l'incarico di assessore non può sommarsi all'incarico di consigliere, per cui l'interessato deve esprimere un'opzione. Nei comuni aventi popolazione inferiore a 15 mila abitanti gli statuti possono prevedere che vi siano assessori che non facciano parte del consiglio comunale. La scelta dei componenti della giunta rientra in un ambito di notevole discrezionalità politica da parte del sindaco, il quale è chiamato tuttavia ad osservare le norme ispirate al principio della parità di genere.
Il testo unico degli enti locali prevede che gli statuti comunali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna al fine di garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte (art. 6, c. 3, dlgs n. 267/2000) e che il sindaco nomini i componenti della giunta, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi (art. 46, c. 2, dlgs n. 267/2000).
Come si vede tale normativa richiede la garanzia della presenza di entrambi i sessi nella giunta comunale, ma non stabilisce alcuna percentuale minima. Queste disposizioni, a seguito della L. n. 56/2014 (cd legge Delrio), sono applicabili ora soltanto ai comuni con popolazione inferiore a 3 mila abitanti. L'art. 1, c. 137, della legge n. 56/2014 ha previsto infatti che «nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3 mila abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico».
La norma va intesa nel senso che, nel computo della percentuale, si deve tenere conto anche del sindaco, in quanto componente della giunta. All'indomani dell'entrata in vigore del citato art. 1, comma 137, della legge n. 56/2014, pertanto, tutti gli atti adottati nella vigenza di quest'ultimo trovano nella citata norma un ineludibile parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua interpretazione che leghi la concreta vigenza della norma alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine assessorili all'indomani delle elezioni.
Può quindi affermarsi che tutti gli atti di nomina delle giunte comunali dei comuni con popolazione superiore a 3 mila abitanti adottati successivamente alla data del 08.04.2014, giorno di entrata in vigore della legge n. 56/2014 (legge Delrio), debbono essere rispettosi della previsione di cui all'art. 1, comma 137. In situazioni eccezionali può verificarsi che, nonostante il sindaco abbia posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire l'applicazione delle norme sulle pari opportunità tra uomo e donna nella composizione della giunta comunale, non sia riuscito a raggiungere tale obiettivo e abbia dovuto nominare soltanto assessori di un unico sesso.
In tal caso, la giurisprudenza amministrativa ritiene legittimo il decreto di nomina della giunta che contenga la dimostrazione di una preventiva e necessaria attività istruttoria, volta ad acquisire la disponibilità allo svolgimento dell'attività assessorile da parte di persone di entrambi i sessi e un'adeguata motivazione della mancata applicazione del principio di pari opportunità.
Rimane da chiedersi se siano valide le deliberazioni di giunta adottate da un organo composto in violazione delle disposizioni in tema di pari opportunità. Sul punto vanno considerate due ipotesi. La prima si riferisce al caso in cui l'atto deliberativo sia stato adottato mentre è pendente un ricorso giurisdizionale avverso l'irregolare composizione dell'organo.
La questione è stata risolta dalla giurisprudenza amministrativa che si è espressa nel senso che l'organo in carica si presume validamente costituito sino al deposito della sentenza che ne accerta l'illegittima composizione. La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l'atto deliberativo sia stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non sia stata impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla validità degli atti adottati dalla giunta comunale in carica (articolo ItaliaOggi del 18.12.2015).

VARIL’usucapione conciliata non «libera». Corte di Appello di Reggio Calabria. L’accordo non è assimilabile alla sentenza di accertamento.
In materia di usucapione, l’accordo stipulato in mediazione –anche qualora fosse stato trascritto– non può essere assimilato alla sentenza di accertamento. L’accordo conciliativo infatti -anche dopo la riforma del 2013– non è opponibile ai terzi che vantano titoli precedentemente trascritti o iscritti.
Sono le conclusioni cui perviene la Corte di Appello di Reggio Calabria con la sentenza 12.11.2015 risolvendo un dubbio interpretativo che aveva agitato dottrina e giurisprudenza sin dall’entrata in vigore della mediazione quale condizione di procedibilità ex lege per le controversie relative alla usucapione.
Tali dubbi nella prima fase operativa della mediazione avevano riguardato per lo più la trascrivibilità di tali accordi conciliativi posto che non esisteva una norma specifica che lo consentisse. Dubbio poi risolto con la riforma della mediazione attuata con il decreto “del fare” che integrando l’articolo 2643 del Codice civile aveva inserito tra gli atti soggetti a trascrizione anche «gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato».
I giudici calabresi con la sentenza in esame chiariscono che l’introduzione di tale norma, pur avendo risolto il problema della trascrivibilità non può consentire di giungere ad una diversa soluzione interpretativa riguardo agli effetti che produce la sentenza di accertamento dell’usucapione rispetto ad un accordo conciliativo avente il medesimo oggetto.
Ed invero occorre rilevare che all’acquisto a titolo di usucapione accertato con sentenza (che è acquisto a titolo originario) non si applica il principio della continuità delle trascrizioni e la trascrizione della relativa sentenza ha valore di mera pubblicità notizia. Diversamente, invece, per gli accordi stipulati sia pur all’esito di una mediazione in materia di usucapione che sono da includersi tra gli atti ed i contratti elencati assoggettati alla trascrizione, per i quali gli effetti della pubblicità sono improntati al principio della continuità delle trascrizioni che sorregge il sistema della pubblicità con riferimento agli acquisti di natura derivativa-traslativa.
Pertanto, un accordo conciliativo non potrà avere effetti liberatori (usucapio libertatis) sul bene usucapito, non potendosi opporre ai terzi l’acquisto a titolo originario del bene e la retroattività degli effetti dell’usucapione; questo accordo attribuisce a colui che usucapisce un diritto che potrà far valere nei confronti dei terzi nei limiti dei diritti spettanti all’usucapito e nel rispetto delle regole sulla continuità delle trascrizioni.
Emerge, dunque, una profonda differenza tra gli effetti della pubblicità della sentenza che accerta l’usucapione e quelli della pubblicità di un “analogo” accordo conciliativo. La sentenza dei giudici d’appello induce ad avanzare seri dubbi circa la ragionevolezza e, quindi, in ordine alla costituzionalità, della norma che impone la mediazione quale condizione di procedibilità in materia di usucapione
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2015).

VARIDa gennaio canone in bolletta. Pagamento in 10 rate mensili, a luglio il check sull'evasione. Istruzioni in una delibera dell'Autorità dell'energia. Sconto ai clienti con addebito automatico
Dal 01.01.2016 «voce del canone di abbonamento Rai» in bolletta elettrica. I venditori da tale data dovranno esporre nelle bollette dei clienti domestici del settore elettrico dopo il totale risultante dalla bolletta, la voce canone di abbonamento Rai. Le rate del canone di abbonamento Rai, ai fini dell'inserimento in fattura, s'intenderanno scadute il primo giorno di ciascuno dei mesi da gennaio ad ottobre.
Per i titolari di utenza di fornitura di energia elettrica, il pagamento del canone avverrà in dieci rate mensili, esposte contestualmente alle fatture per la fornitura di energia elettrica aventi scadenza di pagamento successiva alla scadenza delle rate.

È con la deliberazione 11.12.2015 n. 610/2015/R/COM di prot. che l'autorità per l'energia quantifica l'entità di sconto della bolletta 2.0 e anche il canone di abbonamento Rai.
Canone Rai. Ulteriori esigenze di modifica della bolletta 2.0 potrebbero tempestivamente emergere dall'approvazione dei commi da 71 a 79 dell'articolo 1 del ddl stabilità 2016, come approvato in prima lettura dal senato e all'esame -al momento della pubblicazione l'11.12.2015 del provvedimento in commento- in seconda lettura della Camera.
In particolare il ddl stabilità 2016, relativamente al canone di abbonamento alla televisione per uso privato di cui al regio decreto-legge 21.02.1938, n. 246, convertito dalla legge 04.06.1938, n. 880 prevede, tra l'altro che la detenzione o l'utilizzo di un apparecchio si presumono nel caso in cui esista una utenza per la fornitura di energia elettrica nel luogo in cui un soggetto ha la sua residenza anagrafica. Gli stessi dovranno indicare nelle bollette contenenti la voce del canone abbonamento Rai i mesi cui si riferiscono le rate esposte in ciascuna bolletta.
L'importo delle rate del canone sarà oggetto di distinta indicazione nel contesto della fattura e non sarà imponibile ai fini fiscali. In sede di prima applicazione, avuto riguardo ai tempi tecnici necessari all'adeguamento dei sistemi di fatturazione, nella prima fattura successiva al 01.07.2016 saranno cumulativamente esposte tutte le rate del canone scadute.
Bolletta elettronica. Lo sconto per la bolletta elettronica verrà applicato a tutti i clienti serviti in regime di tutela che, al 01.01.2016, avranno già attivato una modalità di addebito automatico dell'importo fatturato e avranno già attiva la modalità di emissione della bolletta in formato elettronico nonché ai clienti che, successivamente a tale data, soddisferanno entrambi i suddetti requisiti.
Peraltro lo sconto dovrà essere riconosciuto in modo continuativo al cliente finale che ha i suddetti requisiti, anche qualora uno o entrambi i requisiti risultino non soddisfatti per motivi non dipendenti dalla volontà del medesimo cliente. In tutte le bollette sintetiche emesse in formato elettronico, nelle quali verrà applicato lo sconto l'esercente informerà il cliente che la voce spesa per la materia energia/gas naturale comprenderà l'applicazione dello sconto.
Come indicare lo sconto. In fase di prima applicazione delle nuove regole relative alla bolletta 2.0, l'esercente i regimi di tutela potrà indicare lo sconto anche successivamente alla prima bolletta emessa in formato elettronico, purché tale sconto verrà indicato entro e non oltre la sesta bolletta emessa successivamente all'01.01.2016 in caso di fatturazione con periodicità mensile ed entro e non oltre la quarta bolletta emessa successivamente all'01.01.2016, nel caso di fatturazione con periodicità diversa da quella mensile e sia comunque applicato con decorrenza dall'01.01.2016 (articolo ItaliaOggi del 17.12.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Interessi legali al minimo storico.
Scende al minimo storico il saggio degli interessi legali, fissato allo 0,2% dal 01.01.2016.

Ad annunciarlo è un decreto del ministro dell'economia, pubblicato sulla G.U. del 15 dicembre.
La vigente normativa (art. 2, comma 185, legge n. 662/1996) stabilisce infatti che il ministro può modificare la misura del saggio, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a 12 mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno. Ma Vediamo quali effetti concreti avrà la decisione sul fronte della previdenza.
L'art. 116, comma 15, della legge n. 388/2000 ha disciplinato l'ipotesi di riduzione delle sanzioni civili relativamente al mancato o ritardato versamento di contributi, alla misura prevista per gli interessi legali. Tale previsione è subordinata all'integrale pagamento dei contributi dovuti. In presenza di domanda di pagamento dilazionato, tale condizione si realizza a seguito dell'accoglimento della domanda stessa che richiede il rispetto dei requisiti di correntezza e regolarità dei versamenti dovuti.
La misura dello 0,2%, di cui al decreto in esame, si applica ai contributi con scadenza di pagamento a partire dal 01.01.2016. Per le esposizioni debitorie pendenti alla predetta data, tenuto conto delle variazioni della misura degli interessi legali intervenute nel tempo, il calcolo degli interessi dovuti dovrà essere effettuato secondo i tassi vigenti alle rispettive decorrenze.
Il provvedimento in esame produce effetti anche con riferimento alle somme poste in pagamento dall'Inps. In relazione a ciò la misura dell'interesse dello 0,2% si applica alle prestazioni pensionistiche in pagamento dal 01.01.2016 (articolo ItaliaOggi del 17.12.2015).

VARIBancomat e carte di credito per caffè e parcheggi. Cancellato il tetto a 30 euro. Nessun obbligo in caso di oggettiva impossibilità.
Via libera all'utilizzo di bancomat e carte di credito anche per pagare un caffè al bar o il giornale in edicola. La commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento al ddl stabilità (prima firma Boccadutri del Pd) che introduce l'obbligo per commercianti e professionisti di accettare la moneta elettronica anche per piccoli importi.

Viene cancellato il tetto dei 30 euro in vigore fino a oggi. La riformulazione della proposta di modifica approvata prevede tuttavia che questo obbligo non trova applicazione «nei casi di oggettiva impossibilità tecnica». L'emendamento prevede che il ministero dell'Economia debba emanare entro il 01.02.2016 un decreto che assicuri la corretta e integrale applicazione del Regolamento Ue sulle commissioni, al fine di promuove i pagamenti digitali anche per importi minimi, vale a dire al di sotto dei cinque euro.
Tale regolamento introduce una commissione fissa dello 0,2% per i bancomat e dello 0,3% per le carte di credito. Dal 01.07.2016 si potrà pagare con bancomat e carte di credito anche il parcheggio nelle strisce blu attraverso i parchimetri (articolo ItaliaOggi del 16.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAGli impianti fotovoltaici vanno smaltiti come Raee.
Fine vita fotovoltaico da smaltire come Raee. Per gli impianti entrati in esercizio a partire dal 01.07.2012 (impianti che beneficiano del IV e di tutti quelli che beneficiano del V conto energia) non sarà trattenuta alcuna quota ai soggetti responsabili degli in quanto il consorzio cui aderisce il produttore si fa già carico dei costi di smaltimento.

Queste le istruzioni contenute nella guida (14.12.2015) del Gse per la gestione e lo smaltimento dei pannelli fotovoltaici incentivati con la quale si forniscono ai soggetti interessati le informazioni necessarie alla certificazione del corretto adempimento degli obblighi imposti dalla normativa per lo smaltimento dei Raee fotovoltaici e il metodo di calcolo della quota che il Gse tratterà sulle tariffe incentivanti, a garanzia della totale gestione dei rifiuti derivanti da pannelli.
La somma trattenuta negli ultimi dieci anni di diritto all'incentivo è determinata sulla base dei costi medi di adesione ai consorzi previsti dal dm 05.05.2011 e dal dm 05.07.2012. L'obbligo di smaltimento permane anche alla scadenza del periodo di incentivazione. Ne deriva che il Gse, verificato l'avvenuto smaltimento, restituirà la quota trattenuta al soggetto che in quel momento è titolare dell'impianto.
Il Gse, dopo aver effettuato gli opportuni controlli sulla documentazione presentata dal soggetto responsabile, restituisce la quota trattenuta in forma cautelativa, comprensiva degli interessi maturati. Per gli impianti caratterizzati da pannelli fotovoltaici domestici la normativa vigente stabilisce che il soggetto responsabile del Raee fotovoltaico adempia ai propri obblighi avvalendosi del servizio gratuito fornito dai centri di raccolta.
Per gli impianti caratterizzati da pannelli fotovoltaici professionali il soggetto responsabile, per procedere alla corretta gestione dei rifiuti derivanti da pannelli fotovoltaici, deve rivolgersi agli operatori identificati dalla normativa vigente (articolo ItaliaOggi del 16.12.2015).

ENTI LOCALI - VARIVia all'anagrafe nazionale della popolazione residente.
Al via l'anagrafe nazionale della popolazione residente. Dal 14 dicembre è partita la fase di attuazione dell'anagrafe nazionale della popolazione residente per i primi due comuni pilota del progetto.

Le città di Cesena (97.131 abitanti) e Bagnacavallo (16.724 abitanti), dopo aver completato il processo di bonifica dei dati presenti fino ad oggi nelle singole anagrafiche comunali, hanno concluso e portato a termine il percorso di migrazione nella nuova anagrafe centrale.
La transizione proseguirà nei primi mesi del 2016 con il subentro degli altri 25 comuni che hanno partecipato alla fase di sperimentazione, per un totale di circa 6,5 milioni di cittadini coinvolti. Questo è quanto si legge nella nota del 14.12.2015 dell'Agenzia digitale per l'Italia sulla fase attuativa dell'anagrafe nazionale della popolazione residente.
Le città di Milano e Roma per via della notevole quantità di dati pur avendo partecipato alla fase di sperimentazione completeranno il subentro nella seconda metà del 2016. Sulla base di questa prima fase di attuazione proseguirà la diffusione per tutti gli altri comuni italiani grazie a un cronoprogramma che prevede il totale completamento del processo entro la fine del 2016.
L'anagrafe unica, una volta a regime, consentirà piena interoperabilità e standardizzazione dei dati anagrafici nazionali e permetterà il passaggio dalle oltre 8.000 banche dati anagrafiche dei comuni a un'unica banca dati centralizzata elevando l'accuratezza dei risultati ed evitando l'oneroso mantenimento delle banche dati proprietarie (articolo ItaliaOggi del 16.12.2015).

ENTI LOCALI - VARITagliando nel cruscotto. Rc auto / Nuove indicazioni dal Viminale.
Per non incorrere in discussioni e multe in caso di controllo stradale circa la regolare copertura assicurativa del veicolo meglio avere al seguito più carta possibile. Diversamente con le banche dati che non sono ancora completamente allineate e le compagnie che prorogano le coperture oltre al giorno di scadenza aumenta il rischio di incorrere in sanzioni e in impicci burocratici.

Lo ha evidenziato implicitamente il Ministero dell'Interno con la nota 10.12.2015 n. 300/A/8593/15/101/20/21/7 di prot..
La cessazione dell'obbligo di esposizione del contrassegno assicurativo, entrata in vigore il 19 ottobre scorso, ha avviato una serie di riflessioni operative tra le forze dell'ordine che hanno inevitabili ricadute anche sui comportamenti degli automobilisti.
Se da una parte l'utente stradale ha il beneficio di non dover più esporre sul parabrezza il contrassegno, dall'altro sono aumentati i rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni assolutamente indipendenti dalla volontà dell'automobilista. Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la regolarità della copertura assicurativa non sono ancora completamente aggiornate. Poi perché alcune compagnie consentono una estensione della copertura assicurativa per periodi di tempo superiori alle due settimane di rito.
Per cercare di rimettere un po' di ordine nel settore, l'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato una nuova istruzione operativa che innanzitutto specifica che per circolare in regola occorre sempre avere con sé il certificato di assicurazione da esibire alla polizia. Ma è anche consigliabile portarsi dietro l'attestazione di avvenuto pagamento del premio e copia del contratto, specifica il Viminale. Perché rispetto alle indicazioni del Ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
Se il certificato risulterà scaduto mentre il Ced indicherà attiva la copertura scatterà un invito formale a esibire il documento aggiornato. Viceversa se il Ced evidenzierà un dato negativo mentre la documentazione esibita sarà positiva, farà fede l'attestazione cartacea. Senza applicazione di alcuna sanzione o invito a esibire documenti ulteriori (articolo ItaliaOggi del 15.12.2015).

EDILIZIA PRIVATACase, timing al bonus energetico. La data di richiesta del titolo edilizio decide l'entità d'aiuto. Risposta a quesito Enea: l'incentivo al 35% tra il 2014 e il 2016, del 50% dal 2017.
Riconoscimento della detrazione fiscale del 35% in caso di ristrutturazione radicale di un immobile (installando tra l'altro un nuovo impianto termico a pompa di calore e dei pannelli solari termici) quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è presentata dal 01.01.2014 al 31.12.2016.
La richiesta di detrazione per un condominio può essere inoltrata dall'amministratore o da un tecnico abilitato indicando il numero di unità abitative oggetto dell'intervento ed il costo complessivamente sostenuto.

Questa alcune delle risposte fornite da Enea in merito agli incentivi fiscali per efficienza energetica degli immobili.
Ristrutturazioni rilevanti. Nel caso di edifici nuovi o edifici sottoposti a ristrutturazioni rilevanti, gli impianti di produzione di energia termica potranno ottenere una detrazione del 35% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è presentata dal primo gennaio 2014 al 31.12.2016 e del 50% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è effettuata dal 01.01.2017.
Per «ristrutturazioni rilevanti» si intendono gli edifici demoliti e ricostruiti e quelli con superficie utile di almeno 1.000 mq ristrutturati integralmente. Gli impianti alimentati da fonti rinnovabili accedono agli incentivi statali previsti per la promozione delle fonti rinnovabili, limitatamente alla quota eccedente quella necessaria per il rispetto dei medesimi obblighi. Per i medesimi impianti resta ferma la possibilità di accesso a fondi di garanzia e di rotazione.
In parole povere, dal 01.06.2012 si ritiene che nel caso di edifici sottoposti a ristrutturazioni rilevanti, il bonus del 55% sugli impianti di produzione di energia termica debba essere riconosciuto solamente per la parte eccedente quella obbligatoria per cui le fonti rinnovabili termiche devono coprire almeno il 20% dei consumi energetici stimati per acs, riscaldamento e raffrescamento.
Condominio. Nel caso di interventi che non comportano la sostituzione di impianto termico la richiesta di detrazione può essere inoltrata dall'amministratore o da un tecnico abilitato indicando il numero di unità abitative oggetto dell'intervento ed il costo complessivamente sostenuto. Se gli impianti sono autonomi occorre predisporre un allegato «A» e un allegato E per unità immobiliare.
In particolare, nell'allegato E da predisporre per ciascuna unità immobiliare si considererà la quota parte di intervento sia in termini dimensionali, sia in termini di spesa, sia in termini di risparmio energetico applicando i millesimi relativi all'intervento sostenuto.
Sul singolo appartamento se l'impianto termico esistente è centralizzato, consigliamo di predisporre un allegato «A» facendo riferimento, per l'involucro edilizio, al singolo appartamento e, per l'impianto di riscaldamento, a quello centralizzato, inoltre va predisposto l'allegato «E» per il singolo appartamento e se l'impianto è autonomo, occorre predisporre gli allegati «A» e «E» per il singolo appartamento (articolo ItaliaOggi del 15.12.2015).

APPALTIAppalti, sulla clausola sociale prevale l'efficienza.
Allunga il passo il disegno di legge che recepisce la normativa comunitaria in materia di appalti (disegno di legge
Atto Senato 1678-B, deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).
La scorsa settimana il provvedimento è stato esaminato dalle commissioni competenti del Senato e già nei prossimi giorni dovrebbe approdare in Aula. Significativo è stato il passaggio presso la Commissione lavoro di Palazzo Madama per quanto di sua competenza. In particolare, il ddl prevede l'introduzione di «clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato».
Il senatore Pietro Ichino, in qualità di relatore, ha sollevato qualche perplessità circa l'inserimento in legge della cosiddetta «clausola sociale» con riferimento agli appalti pubblici di servizi e ai call center. Su questo punto il presidente della commissione Maurizio Sacconi ha chiesto il parere di Anac (Anticorruzione) e Antitrust. Anac ha risposto e sostanzialmente ha dato ragione ai richiedenti affermando che il riassorbimento dei lavoratori deve essere compatibile con l'efficienza aziendale.
La Commissione lavoro del Senato, recependo il parere espresso dall'Autorità nazionale anticorruzione, ha invitato Parlamento, Governo e parti sociali a tener conto dei limiti nei quali la così detta clausola sociale è praticabile negli appalti di servizi. Secondo l'Autorità e la Commissione «il riassorbimento dei lavoratori deve essere armonizzabile con l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto.» Essa «non può alterare o forzare la valutazione dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento dell'impresa».
Prevale, insomma, la esigenza di garantire ai servizi in appalto una sempre maggiore efficienza che, nel caso dell'appaltante pubblico, significa un determinante contributo alla spending review (articolo ItaliaOggi del 15.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIABonus per la bonifica dei siti. Dal 2 gennaio via alle domande per il credito d'imposta. Per l'impresa che chiede incentivi per oltre 150 mila euro obbligo di informazioni antimafia.
Dal 02.01.2016 domande al ministero dello Sviluppo economico per ottenere il riconoscimento di un credito d'imposta per la bonifica dei siti inquinati. La domanda va inviata, in formato «p7m», tramite posta elettronica certificata dell'impresa, all'indirizzo dgpicpmi.div04@pec.mise.gov.it.
Gli atti devono essere sottoscritti con firma digitale dal titolare, dal legale rappresentante o dal procuratore speciale dell'impresa (allegando, in quest'ultimo caso, copia della procura e del documento di chi la rilascia). Le imprese che richiedono agevolazioni per oltre 150 mila euro devono trasmettere al ministero dello Sviluppo economico anche le dichiarazioni in materia di informazioni antimafia.

Questo è quanto stabilisce il decreto direttoriale 18.05.2015 (il cui comunicato relativo al decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 119 del 25.05.2015) con il quale vengono fissate le modalità e i termini di presentazione delle istanze di concessione del credito d'imposta per le imprese sottoscrittrici di accordi di programma nei siti inquinati di interesse nazionale e stabilite, altresì, la procedura di prenotazione delle risorse finanziarie per la concessione del credito d'imposta.
Le imprese che, avendo sottoscritto accordi di programma per la messa in sicurezza, la bonifica e la riconversione industriale dei siti inquinati di interesse nazionale (dm 07.08.2014), acquisiscono beni strumentali nuovi nel periodo d'imposta in corso al 31.12.2015 (articolo 4 del decreto legge 145/2013 – c.d. «Destinazione Italia»), possono presentare domanda per ottenere il relativo credito d'imposta tra il 2 gennaio e il 31.12.2016.
Requisiti richiesti. Per beneficiare delle agevolazioni le imprese devono operare nell'ambito di unità produttive ubicate in siti Sin (siti inquinati di interesse nazionale) e aver sottoscritto accordi di programma volti a favorire la messa in sicurezza, la bonifica e la riconversione industriale dei siti inquinati di interesse nazionale (dm 07.08.2014).
Quindi devono aver acquistato, o acquistare, beni strumentali nuovi a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del dl 24.12.2013 e fino alla chiusura del periodo d'imposta in corso al 31.12.2015, come disposto dall'articolo 4 del dl n. 145/2013 («Destinazione Italia»).
Gli investimenti per i quali si richiede il credito d'imposta possono essere avviati (inizio dei lavori di costruzione relativi all'investimento, o primo impegno giuridicamente vincolante a ordinare attrezzature o qualsiasi altro impegno che renda irreversibile l'investimento) a partire dalla data di sottoscrizione o di adesione all'accordo di programma.
I beni devono essere pagati esclusivamente attraverso il sepa credit transfer e i relativi documenti di spesa devono riportare la dicitura: «spesa di euro dichiarata ai fini della concessione del credito d'imposta previsto a valere sul dm 07.08.2014» ed essere conservati per cinque anni dalla fine del periodo d'imposta cui si riferiscono le spese (articolo ItaliaOggi del 12.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: RIFORMA PA/ Madia: il Jobs act non sarà applicato al pubblico impiego.
Le nuove regole sul contratto a tutele crescenti, con le modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori introdotte nel settore privato con il Jobs Act, «non saranno applicate nella Pa».

Lo ribadisce la ministra della Funzione pubblica, Marianna Madia, che apre alla sola possibilità di intervenire sulle norme che regolano i procedimenti disciplinari per renderli “effettivi”.
Per la titolare di palazzo Vidoni c’è una differenza sostanziale tra datore di lavoro pubblico e privato: quest’ultimo, ha spiegato, «lavora con risorse proprie, mentre lo Stato con risorse della collettività». E quindi, secondo Madia, «se un licenziamento nella Pa ha un vizio, la collettività vedrebbe allontanato in modo sbagliato un lavoratore pagandogli un’indennità con soldi pubblici. Quindi il danno sarebbe doppio». Di qui la scelta di lasciare il “vecchio” articolo 18 per i travet.
Tuttavia, ha aggiunto Madia, questa scelta «non significa non sanzionare chi fa male, tutt’altro. Per i dipendenti pubblici che fanno male ci saranno i procedimenti disciplinari. E nella delega è presente un criterio fondamentale per riuscire a garantire, una volta per tutte, esiti concreti e la conclusione dei procedimenti» (e quindi arrivare a una sanzione concreta).
Per ora, la delega Madia non è ancora stata attuata. Ma la ministra ha assicurato «entro Natale» l’arrivo di un primo pacchetto di provvedimenti attuativi, a partire dalla semplificazione delle conferenze dei servizi e dall’informatizzazione dell’Amministrazione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIMail a strascico ko. Stop a newsletter personalizzate. PRIVACY/ Lo afferma un provvedimento del garante.
Stop alle newsletter personalizzate, mandate senza il preventivo consenso degli interessati e usando una mailing compilata carpendo gusti e abitudini di chi naviga in rete. Magari si è comprato online il biglietto di un concerto di un certo genere musicale oppure lo si stava facendo, ma all'ultimo c'è stato un ripensamento; e poi si cominciano a ricevere newsletter con notizie di concerti di artisti dello stesso genere o simili. Questo è possibile grazie a software che analizzano la navigazione in rete e tracciano un profilo dei gusti e delle abitudini. Ma se è tecnicamente fattibile, non è detto che sia anche legale: anzi è illegittimo senza il consenso dell'interessato.

È quanto deciso dal garante privacy, con il provvedimento 18.11.2015 n. 605, con il quale ha vietato a una società di e-commerce l'illecito trattamento dei dati di oltre 300 mila persone.
La società, specializzata nella vendita online di biglietti per spettacoli teatrali, manifestazioni sportive, concerti e di prodotti anche di marchi celebri, non potrà più utilizzare i dati. Tra l'altro non aveva segnalato la sua attività con la notificazione al garante (articolo 37 del codice della privacy), non aveva fissato il termine massimo di conservazione dei dati, che cedeva anche ad altri operatori commerciali.
La società ora deve mettersi in regola e deve anche informare i soggetti, ai quali i dati sono stati già ceduti, che non possono utilizzarli senza aver prima acquisito il consenso degli interessati (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015).

APPALTIEsclusioni dalle gare, 180 giorni per sanzionare. Provvedimenti tardivi sono illegittimi.
Il mancato rispetto del termine dei 180 giorni per la conclusione del procedimento sanzionatorio da parte dell'Anac a carico di una impresa comporta l'illegittimità dell'annotazione nel casellario e il conseguente annullamento dell'atto.

Era avvenuto che una stazione appaltante aveva proceduto all'esclusione dalla gara di una impresa con relativa comunicazione all'Anac in quanto fattispecie prevista dal codice dei contratti: la comunicazione è stata effettuata dopo circa otto mesi, ben oltre la previsione nella delibera dell'allora Avcp n. 1/2008 ma su questo punto i giudici non sono intervenuti ritenendo che il ritardo «non incideva direttamente sulla legittimità del procedimento avviato dall'Autorità resistente in quanto la stessa delibera prevede conseguenze specifiche in caso di ritardi nelle relative segnalazioni da parte delle stazioni appaltanti».
Il punto rilevante riguarda il mancato rispetto del termine di 180 giorni previsto dall'art. 29 del regolamento unico del 26.02.2014 per la conclusione del procedimento sanzionatorio (conclusosi con la sospensione di un mese dalle gare): al netto dei periodi di sospensione risultava largamente superato il termine dei sei mesi.
Su questo punto la sentenza afferma che è illegittima l'annotazione nel casellario Anac in caso di mancato rispetto del termine di 180 giorni e ciò sebbene questo termine non sia espressamente previsto come perentorio. Il Tar ha precisato che «è comunque contraddittorio fissare nel regolamento unico del 26.02.2014 un termine di conclusione del procedimento sanzionatorio e, poi, non rispettare un autovincolo posto dalla stessa Autorità procedente (che peraltro va anche inteso come posto a garanzia dell'incolpato, in ragione della natura afflittiva della procedura)».
Peraltro, il termine di 180 giorni, notano i giudici, è di gran lunga superiore a quello ordinario di 30 giorni fissato dall'art. 2 della legge n. 241 del 1990, il che rende ancor meno giustificabile il suo mancato rispetto. Da qui l'annullamento del provvedimento, anche se la richiesta dei danni formulata dall'impresa, per la sua genericità, è stata respinta (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Termovalvole senza progetto. Lombardia. Una Dgr cambia le regole.
Sul riscaldamento in Lombardia si rischia la confusione continua.
All’origine c’è la delibera di Giunta X/4427 del 30/11/2015, intervenendo sull’installazione di sistemi di termoregolazione (i contabilizzatori di calore, obbligatori entro il 31.12.2016).
La norma, infatti, sembra intendere che, poiché questo tipo di intervento non può essere equiparato all’installazione o alla trasformazione o all’ampliamento di un impianto termico, non è necessario il progetto ai sensi dell’articolo 5 del Dm 37/2008. Questo orientamento, però, crea parecchi problemi.
Si pensi che l’articolo 26, comma 5, della legge 10/1991, considera l’installazione dei contabilizzatori quale «innovazione» ai sensi dell’articolo 1120 codice civile. Con questo termine si intendono quelle modifiche che comportino alterazione dell’entità sostanziale o il mutamento della originaria destinazione, in modo che le parti comuni presentino una diversa consistenza materiale (Cassazione civile, sentenze 12654/2006 e 15460/2002). Tale descrizione assorbe in se il concetto di trasformazione odi ampliamento.
Si consideri inoltre che l’impianto termico è composto dai sistemi di produzione (caldaia), distribuzione (pompe e tubazioni), regolazione (valvole termostatiche) ed emissione (radiatori) del calore. L’operazione di installazione, di fatto, prevede l’introduzione di un ulteriore sistema (la regolazione) prima inesistente e che va anche ad incidere sulla distribuzione.
A quanto riportato, si aggiunga che il progetto è espressamente previsto dalla legge 10/1991 (articoli 26, comma 3, e 28, comma 1), per cui l’impianto secondo i quali lo stesso deve essere realizzato per contenere al massimo, in relazione al progresso della tecnica, i consumi di energia termica ed elettrica e deve essere depositato in Comune, pena la sanzione amministrativa da euro 516 a 2.582. Il progetto richiesto dalla legge 10/1991 deve essere realizzato ai sensi del Dm 37/2008.
Insomma, sembra quindi assai incerto che una delibera di Giunta regionale possa derogare a una legge dello Stato italiano. Nel caso in cui ciò non fosse possibile e che sia errata l’interpretazione della Giunta Regionale, stante l’assenza del progetto e della conseguente dichiarazione di conformità che l’impresa installatrice deve rilasciare al termine dell’opera, si avrebbe un impianto non conforme alle disposizioni di Legge.
Lo stesso Dm 37/2008 prevede che in caso di rifacimento parziale di impianti, il progetto, la dichiarazione di conformità e l’attestazione di collaudo ove previsto, si riferiscono alla sola parte degli impianti oggetto dell’opera di rifacimento, ma tengono conto della sicurezza e funzionalità dell’intero impianto.
Una delle probabili conseguenze della delibera di Giunta (emessa a neanche un anno dalla scadenza del termine del 31.12.2016 previsto dal Dlgs 102/2014) potrà essere la revoca dell’incarico già affidato ai professionisti abilitati
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2015).

ENTI LOCALI - VARISemafori, niente telecamere fuori città. Anche gli impianti installati da vecchia data vanno presidiati da agenti.
Rilevatori automatici. Dal 2010 manca la direttiva dell’Interno per individuare i tratti extraurbani da monitorare.

Controlli automatici impossibili ai semafori sulle strade extraurbane: manca una direttiva ministeriale che li disciplini. Una mancanza che si protrae da molto tempo (oltre cinque anni), tanto da finire in un dimenticatoio che fa prevedere che il problema resterà a lungo irrisolto.
Una spia si è accesa casualmente il 18 novembre, quando il ministero delle Infrastrutture ha esteso l’omologazione di un rilevatore di velocità e di passaggio con il rosso prodotto dalla Velocar. Il decreto dirigenziale di estensione precisa che fuori città la funzione di controllo automatico ai semafori è attivabile solo sui tratti dove ciò è consentito. Una precisazione formalmente corretta, ma che ha stupito più di un addetto ai lavori: il vincolo imposto dal Codice della strada sulle strade extraurbane è rimasto sempre inapplicato.
Per capire perché, bisogna ricostruire le vicende di quando il vincolo fu imposto. Uno dei punti più pubblicizzati della riforma del Codice (legge 120/2010) fu l’ampliamento dei controlli automatici, aggiungendo all’articolo 201 (comma 1-bis) una serie di ulteriori infrazioni a quelle che già dal 2003 erano rilevabili «a distanza» (cioè da apparecchi fissi non presidiati da agenti). Per evitare una proliferazione incontrollata di rilevatori automatici, nel comma 1-quater fu aggiunto che tali strumenti «fuori dai centri abitati possono essere installati ed utilizzati solo sui tratti di strada individuati dai prefetti, secondo le direttive fornite dal ministero dell’Interno, sentito il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti». Venivano anche fissati i criteri di massima in base ai quali quei tratti andavano individuati: tasso d’incidentalità e condizioni «strutturali, plano-altimetriche e di traffico».
Tutto ciò è rimasto pura teoria: nessuna direttiva ministeriale è mai stata emanata. Né lo sarà mai, se la normativa non verrà cambiata. Il motivo che blocca tutto sta nell’elenco delle infrazioni che la legge 120/2010 ha aggiunto: il legislatore ha inserito anche violazioni che sarebbe velleitario controllare con apparecchi automatici. Basti pensare al numero dei passeggeri trasportati su moto e motorini, alla loro postura, al fatto che usino il casco. Oppure alla velocità non commisurata alle condizioni della strada, a prescindere dai limiti di velocità (chi e come potrebbe calcolare la soglia, valida per tutti, entro cui una velocità può ritenersi commisurata?).
L’oggettiva impossibilità di rilevare in automatico certe violazioni ha fatto sì che il ministero delle Infrastrutture non abbia omologato o approvato alcun apparecchio e che quello dell’Interno non abbia emanato la direttiva per i prefetti. Ma il comma 1-quater resta formalmente in vigore, per cui non c’è alcuna possibilità né di installare né di mettere in funzione un rilevatore automatico su una strada extraurbana. Nemmeno per quelle infrazioni che tecnicamente sarebbero rilevabili e per quelle sulle quali esistono già strumenti omologati o approvati.
Tra queste ultime c’è il passaggio col rosso, che infatti all’interno dei centri abitati è una delle violazioni più controllate (proprio perché molti incroci hanno sistemi automatici). Non sembra avere alcun rilievo il fatto che la limitazione ai tratti decisi dai prefetti sia stata introdotta solo nel 2010: anche gli impianti preesistenti dovrebbero essere disattivati o, al più, usati solo in presenza di agenti (fattispecie teorica, perché i controlli automatici servono anche a rimediare alle carenze di personale).
In teoria, questi impianti sono pochi: la maggior parte è sempre stata installata negli abitati. Ma spesso la situazione di fatto delle strade è talmente caotica che non si riesce a stabilire se un tratto sia classificato come urbano o no. Dunque si aprono nuovi fronti di contenzioso.
Si andrà avanti così fino a quando la materia verrà riordinata. Per ora l’unico spiraglio è nella riforma integrale del Codice della strada. Ma la legge delega segna il passo da due anni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGOIl congedo a ore esclude altri «riposi» nello stesso giorno. No al cumulo con ulteriori permessi genitoriali fatta eccezione per l’assistenza ai disabili.
Jobs act. Gli ultimi chiarimenti Inps sui sostegni alla famiglia.
Il congedo parentale a ore non può essere cumulato con altri permessi o riposi previsti dal Testo unico sulla maternità/paternità (Dlgs 151/2001), come i riposi orari per allattamento, anche se richiesti per bambini diversi. Può essere invece fruito insieme con i permessi disciplinati dalla legge 104/1992 per l’assistenza a persone disabili.
È uno dei chiarimenti forniti recentemente dall’Inps con il messaggio 03.11.2015 n. 6704 sul congedo parentale a ore, reso pienamente operativo dal decreto legislativo 80/2015, di attuazione del Jobs act.
Il messaggio Inps ha chiarito alcuni aspetti della gestione di questa particolare declinazione del congedo parentale previsto dall’articolo 32 del Dlgs 151/2001, in concomitanza con la fruizione degli altri permessi o riposi di legge.
La disciplina generale
Il congedo parentale è il “permesso” che spetta a ciascun genitore lavoratore, nei primi 12 anni di vita del bambino, fino a un periodo massimo di sei mesi di astensione dal lavoro (continuativo o frazionato). L’astensione complessiva di entrambi i genitori non può comunque eccedere i dieci mesi, salvo il caso in cui il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi: in questa ipotesi il limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è elevato a 11 mesi.
La possibilità di fruire del congedo anche a ore -prima dell’intervento operato dal Dlgs 80/2015– era stata raccolta solo da qualche contratto collettivo nazionale, e da alcuni contratti collettivi di secondo livello.
Era stata, infatti, la legge 228/2012 a introdurre questo istituto, in seguito al recepimento della direttiva 2010/18/Ue, fissando come presupposto applicativo la regolamentazione della materia da parte dagli accordi collettivi. Su questo punto, il ministero del Lavoro (interpello 25/2013) aveva chiarito come non ci fossero riserve di competenza tra i diversi livelli della contrattazione, per la gestione delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria.
Questa linea è stata recepita appieno dalla nuova formulazione dell’articolo 32, del Dlgs 151/2001: ora, però, il legislatore ha fatto ancora un passo avanti, poiché, in assenza di intese ad hoc, questa tipologia di congedo sarà fruibile secondo le regole di legge. Nella pratica, in caso di mancata disciplina da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria, ciascun genitore può scegliere in modo indifferente tra il godimento giornaliero e quello su base oraria.
La norma precisa anche che la frizione su base oraria è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel quale ha inizio il congedo parentale.
Preavviso di due giorni
L’unico onere del lavoratore, a parte quello di presentare la domanda all’Inps, è quello di dare un preavviso al datore di lavoro di almeno due giorni.
In questo ambito, è comunque auspicabile che le parti raggiungano intese collettive, per definire nel dettaglio i meccanismi di godimento del congedo in modalità oraria: queste ultime potranno stabilire regole differenti rispetto alla disciplina legale così come i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.
Sulla cumulabilità con altri riposi o permessi, la contrattazione collettiva può disporre regole diverse da quelle generali. Il nuovo Ccnl degli studi professionali, ad esempio, prevede la possibilità di cumulo del congedo parentale in modalità oraria con i permessi disciplinati dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Fuori dal calcolo dell’indennità premi e tredicesima. La gestione. I versamenti al lavoratore.
La domanda di congedo parentale, sia fruito in modalità giornaliera, sia in modalità oraria, deve essere presentata dal lavoratore all’Inps prima dell’inizio del congedo, o lo stesso giorno di inizio della fruizione: su questa regola non incidono i termini di preavviso per la richiesta da formulare al datore di lavoro (articolo 32, comma 3, del Dlgs 151/2001).
Infatti, a eccezione dei casi di oggettiva impossibilità, il genitore è tenuto a dare un preavviso al datore di lavoro di almeno cinque giorni, in caso di richiesta di congedo parentale mensile o giornaliero e non inferiore a due giorni in caso di congedo orario. Altrimenti, valgono le modalità dettate dai contratti collettivi.
Ma veniamo alle regole che deve seguire il datore di lavoro, quando riceve la domanda di congedo a ore: in particolare, deve tenere conto dei nuovi criteri di fruizione, di computo e di indennizzo dettati dalla circolare 18.08.2015 n. 152 dell'Inps.
Rispetto alle prassi già in uso (congedo a giorni o a mesi), l’introduzione della modalità oraria non modifica la durata del congedo parentale e, pertanto, rimangono invariati i limiti complessivi e individuali entro i quali i genitori lavoratori dipendenti possono assentarsi dal lavoro a questo titolo.
L’Inps ha precisato che, siccome i richiedenti possono beneficiare del congedo parentale nelle diverse modalità giornaliera, mensile o oraria, le giornate o mesi di congedo parentale possono alternarsi con giornate lavorative in cui il congedo è fruito a ore, sempre nel rispetto dei limiti eventualmente stabiliti dalla contrattazione collettiva.
Il datore di lavoro, pertanto, deve considerare che, se la richiesta del periodo di congedo parentale avviene su base oraria –in presenza, quindi, nella stessa giornata, sia di assenza oraria a titolo di congedo che di svolgimento di attività lavorativa– le domeniche ed eventualmente i sabati, in caso di settimana corta, non sono da considerare né ai fini del computo né ai fini dell’indennizzo.
Per il computo del congedo su base oraria, la contrattazione dovrebbe prevedere l’equiparazione di un monte ore alla singola giornata lavorativa: in assenza di tale previsione, il giorno di congedo si determina prendendo a riferimento l’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel quale ha inizio il permesso. In questo caso, il congedo orario è fruibile in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero.
L’introduzione della nuova modalità di fruizione non ha modificato le regole di indennizzo: il calcolo va effettuato su base giornaliera anche nel caso in cui la fruizione avvenga in modalità oraria. Il datore di lavoro, quindi, per conteggiare l’indennità a carico Inps deve prendere come riferimento la retribuzione media giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto e immediatamente precedente a quello nel quale ha avuto inizio il congedo parentale.
Nella base retributiva non va computato il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati al genitore richiedente.
Nel flusso delle denunce Uniemens il datore deve dare evidenza all’utilizzo da parte del lavoratore del congedo parentale in modalità oraria, con le codifiche indicate nella circolare Inps 152/2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2015).

EDILIZIA PRIVATADai vincoli nascosti un’insidia sugli edifici pubblici e privati. Nel perimetro tutti gli stabili con più di 70 anni. Immobili tutelati. Limitazioni non inserite nella pianificazione.
Non solo edifici storici e di pregio: i vincoli culturali possono gravare in modo automatico (e poco evidente) anche su immobili “ordinari”, semplicemente perché costruiti più di 70 anni fa e di proprietà, ad esempio, di una fondazione o di una Onlus. Dunque, anche sugli edifici privati (a determinate condizioni) possono scattare tutele rafforzate previste dal Codice dei beni culturali.
Il nostro ordinamento prevede una serie di vincoli che, a vario titolo, possono incidere sul diritto di proprietà, limitando o inibendo l’edificazione e lo svolgimento di lavorazioni edilizie.
Tra i più noti, si ricordano i vincoli di carattere paesaggistico, i vincoli culturali derivanti da dichiarazione espressa di interesse e i vincoli di carattere sovranazionale derivanti dall’inclusione di determinate aree o immobili nella lista del patrimonio dell’umanità (Unesco world heritage List). Altre limitazioni possono poi derivare dall’inclusione degli immobili all’interno delle cosiddette fasce di rispetto, ossia dalla contiguità del bene con determinate infrastrutture: aeroporti, strade, cimiteri o pozzi.
Ma mentre questi vincoli sono piuttosto semplici da individuare perché emergono dagli atti di pianificazione comunale e sovracomunale (piano regolatore generale, piani paesaggistici eccetera), negli altri casi, l’identificazione dello speciale regime di tutela di un immobile può non essere così semplice perché non è “mediata” da strumenti di pianificazione urbanistica, ma di fatto dettata in modo automatico. E dunque spesso «nascosto». Questo avviene appunto per i vincoli di tutela culturale.
Il Codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004) all’articolo 10 qualifica come beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, salvo che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili.
Dunque il Codice tutela tutti i beni mobili e immobili che abbiano una certa anzianità e, al tempo stesso, siano di proprietà di determinati soggetti. E attenzione: non si tratta solo di soggetti pubblici (Stato, Regioni, Comuni eccetera) ma anche di altri enti o istituti pubblici (quali le agenzie fiscali, l’Inps o le autorità portuali). E persino di soggetti privati, a condizione che siano realtà senza fine di lucro (fondazioni, onlus, associazioni). Tutti gli immobili oltre i 70 anni appartenenti a questa ampia gamma di soggetti sono vincolati.
Il vincolo però è temporaneo. I beni sono infatti tutelati, in via preventiva e cautelare, fino a quando non sia stata effettuata la verifica circa l’effettiva sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico da parte degli organi ministeriali, a seguito della quale l’interesse culturale del bene potrà essere o meno confermato.
Ma questa tacita classificazione incide largamente sulla circolazione di questi immobili e ha notevole rilevanza, anche per le dismissioni e valorizzazioni del patrimonio pubblico.
Il Codice prevede infatti che, sino all’esperimento della verifica di interesse culturale, questi beni siano inalienabili. Una volta terminata la verifica, si porranno invece due possibili scenari: se il bene è effettivamente riconosciuto come culturale, lo stesso potrà essere venduto, ma solamente previo rilascio di una autorizzazione ministeriale (e salvo che, in esito alla verifica, sia stato ritenuto inalienabile). Se, per contro, il bene non è riconosciuto come di interesse culturale, potrà essere liberamente alienato, secondo le procedure previste per i beni pubblici (gara e sdemanializzazione, se occorrente).
Il percorso per la dismissione e valorizzazione del patrimonio pubblico è quindi ricco di insidie, peraltro non lievi, dato che il Codice sanziona le alienazioni e gli atti giuridici compiuti contro i divieti o senza l’osservanza delle condizioni e modalità da esso prescritte, con la nullità.
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VINCOLO CULTURALE DI LEGGE
Immobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico e che siano opera di autore non vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni fa
Articolo 10, commi 1 e 5, Dlgs n. 42/2004

VINCOLO CULTURALE ESPRESSO
Riguarda i beni dichiarati di interesse culturale con vincolo espresso. Per gli immobili si tratta di:
- cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1 dell’articolo 10;
- cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante
Articolo 10, comma 3, Dlgs n. 42/2004

VINCOLO PAESAGGISTICO
Se dichiarate di notevole interesse:
- cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica;
- ville, giardini e parchi che si distinguono per la loro non comune bellezza;
- complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto estetico e tradizionale;
- bellezze panoramiche.
Sono comunque di interesse paesaggistico per legge i territori espressamente elencati all’articolo 142 del Dlgs 42/2004
Articoli 136 e 142 Dlgs 42/2004

VINCOLO UNESCO
Interessa il patrimonio culturale e quello naturale, come definiti nella Convenzione
Convenzione di Parigi del 16.11.1972

FASCIA DI RISPETTO STRADALE
Distanza dal confine stradale da rispettare nell’aprire canali, fossi o nell’eseguire qualsiasi escavazione, nonché nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni o negli ampliamenti
Codice della strada (Dlgs n. 285/1992) - Regolamento (Dpr n. 495/1992).

FASCIA DI RISPETTO AEROPORTUALE
Distanza dal perimetro dell’aeroporto da rispettare per la realizzazione di ostacoli
Rd n. 327/1942

FASCIA DI RISPETTO CIMITERIALE
Distanza da rispettare per costruire nuovi edifici intorno ai cimiteri
Rd n. 1265/1934 - Dpr n. 285/1990

FASCIA DI RISPETTO POZZI
Porzione di territorio da sottoporre a vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata
Dlgs n. 152/2006
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L’autorizzazione è necessaria per ogni intervento. Beni culturali. Il nulla osta della Soprintendenza.
Il Codice dei beni culturali subordina l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali all’autorizzazione del soprintendente.
Anche il mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali deve essere comunicato al soprintendente affinché lo stesso verifichi la compatibilità dell’uso con le finalità di conservazione e con il carattere storico-artistico del bene.
La realizzazione di un qualunque intervento edilizio su un bene vincolato presuppone, quindi, il positivo esperimento di un procedimento di valutazione da parte del soprintendente. La disciplina dettata dal Codice è piuttosto semplice: a seguito della presentazione del progetto, al soprintendente è assegnato un termine di 120 giorni per esprimere l’autorizzazione.
Questo termine può essere sospeso nel caso la soprintendenza chieda chiarimenti o altri elementi integrativi necessari per formare il proprio giudizio. La Soprintendenza ha altresì la facoltà di svolgere gli accertamenti di natura tecnica che ritenga necessari. Anche in questo caso il termine di 120 giorni viene sospeso.
Tenuto conto della rilevanza dei valori giuridici in discussione, il Codice non dispone che dall’eventuale silenzio dell’amministrazione possa conseguire un automatico effetto autorizzatorio.
Decorso infruttuosamente il termine, il richiedente può però diffidare la soprintendenza a provvedere e, se la stessa non dovesse azionarsi nemmeno nei 30 giorni successivi al ricevimento della diffida, può agire avanti al competente tribunale amministrativo, richiedendo l’accertamento dell’obbligo di provvedere.
L’autorizzazione resta ferma per cinque anni dal rilascio. Ma, se i lavori non iniziano entro questo termine, il soprintendente è legittimato a integrare il titolo con nuove prescrizioni o a variare quelle già impartite al fine di conformare il provvedimento alle nuove conoscenze eventualmente sopravvenute nel campo della conservazione.
La procedura di autorizzazione si inserisce nel contesto di cui all’articolo 5 del Dpr 380/2001 e, pertanto, è lo sportello unico per l’edilizia comunale che dovrebbe acquisire l’autorizzazione dalla soprintendenza, una volta ricevuta un’istanza di rilascio di titolo edilizio su un bene culturale.
Nel caso in cui sia lo sportello unico a richiedere l’autorizzazione alla Soprintendenza (e non, invece, nel caso in cui il privato si dovesse rivolgere direttamente all’amministrazione), peraltro, potrebbe risultare applicabile l’articolo 17-bis della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge di riforma della Pa (la n. 124/2015), in forza del quale l’eventuale silenzio della soprintendenza verrebbe qualificato come assenso al progetto, sebbene in merito possano sorgere perplessità.
 
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Prelazione pubblica anche dopo la vendita. Le cessioni. Subentro garantito.
In tempi di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico potrebbe sembrare incoerente, ma la vigente normativa garantisce allo Stato la facoltà di subentrare agli acquirenti dei beni culturali, comprandoli, in via di prelazione, allo stesso prezzo indicato nell’atto di vendita.
Gli articoli 59 e seguenti del Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42/2004), disciplinano in dettaglio la procedura speciale. La prelazione presuppone l’esistenza di un negozio traslativo del bene culturale, già perfezionato, efficace e, tuttavia, subordinato alla condizione sospensiva del mancato esercizio del diritto di prelazione.
Il procedimento ha inizio con la denuncia di avvenuta alienazione alla quale deve provvedere, entro trenta giorni dall’atto, l’alienante (o l’acquirente, in caso di trasferimento nell’ambito di procedure di vendita forzata o fallimentare o in forza di sentenza ovvero l’erede o il legatario, in caso di successione a causa di morte).
La denuncia è presentata al soprintendente del luogo dove si trovano i beni e deve contenere l’identificazione e sottoscrizione delle parti, con il relativo domicilio, l’identificazione dei beni, oltre a natura e condizioni dell’atto di trasferimento.
Il ministero può esercitare la prelazione entro 60 giorni dal ricevimento della denuncia, mediante provvedimento espresso da notificare all’alienante e all’acquirente.
La proprietà del bene passa allo Stato, che sarà tenuto a corrispondere all’alienante il medesimo prezzo stabilito nell’atto di compravendita, dalla data dell’ultima notifica.
L’esercizio della prelazione, ovviamente, caduca la vendita presupposta. Il Codice, peraltro, prevede che, in via subordinata e sussidiaria rispetto allo Stato, la prelazione possa essere esercitata anche da parte della regione e degli altri enti pubblici territoriali nel cui ambito si trova il bene. Una volta ricevuta la denuncia, il soprintendente ne deve difatti dare immediata comunicazione a questi soggetti.
Se interessati, regione e gli altri enti pubblici territoriali possono formulare al ministero una proposta motivata di prelazione, sostenuta da idonea copertura finanziaria, che indichi le finalità proposte per la valorizzazione culturale del bene.
Il ministero può dunque rinunciare all’esercizio della prelazione e trasferirne la facoltà all’ente interessato.
L’ente assume quindi il relativo impegno di spesa, adotta il provvedimento di prelazione e lo notifica ad alienante ed acquirente entro sessanta giorni dalla denuncia.
Anche in questo caso, la proprietà del bene passa all’ente che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima notifica.
Tale complesso di norme, seppur in questo periodo sia raramente attuato, completa la tutela dei beni culturali sotto il profilo della ingerenza pubblica nella libera circolazione degli stessi. Si tratta di uno strumento utile a garantire il conseguimento di rilevanti interessi pubblici, quali la conservazione e la fruizione collettiva dei beni che costituiscono l’imponente patrimonio culturale del nostro Paese
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIE-mail, il garante ha la meglio. Il protocollo del 2007 resiste alla riforma del Jobs Act. Una soluzione alla diatriba tra giudici penali civili sul controllo della posta elettronica.
Tira e molla sul controllo della mail box del dipendente: se i giudici penali sono di manica larga e lasciano aperta la porta al datore di lavoro, escludendo il reato di intercettazione abusiva della corrispondenza elettronica, i giudici civili sono più severi sulla utilizzazione delle informazioni raccolte dall'account di posta elettronica per motivare il licenziamento.
La terza via è quella del garante della privacy, che fin dal 2007 ha fissato il protocollo dell'uso della posta elettronica in azienda e dei controlli del datore di lavoro. Il protocollo resiste anche al Jobs Act, che ha semplificato le procedure di uso di strumenti di controllo indiretto, ma non ha abrogato i limiti posti dalla legislazione sulla protezione dei dati. Certo semplificare la possibilità di ricorrere ad apparecchi di controllo potrebbe aprire le porte a chi ne vuole abusare: ma per controlli illeciti si corre sempre il rischio di controlli e sanzioni, anche se a posteriori.
In effetti l'articolo 23 del decreto legislativo 151/2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 23.09.2015) ha riscritto l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e ha fissato seguenti principi: sono vietati strumenti di controllo mirato a distanza dei lavoratori. Secondo: sono ammessi impianto audiovisivi e dispositivi di controllo indiretto solo per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. Gli apparecchi di controllo indiretto per regola generale hanno bisogno di un consenso dei sindacati o di una autorizzazione del ministero del lavoro o in sede locale della Direzione territoriale del Lavoro. Terzo punto: fanno eccezione alla necessità della intesa sindacale/autorizzazione amministrativa gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
Il datore di lavoro, quindi, usa e può far usare, senza dovere concordare niente con nessuno, dispositivi di controllo indiretto se sono strumenti di lavoro. Quarto punto: le informazioni raccolte con strumenti e dispositivi di controllo indiretto sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (anche quelli disciplinari) a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto del codice della privacy (dlgs 196/2003).
Il risultato è che, essendo strumento di lavoro, l'introduzione della posta elettronica da parte del datore di lavoro non necessita di alcuna intesa sindacale/autorizzazione; il datore di lavoro può raccogliere informazioni dall'account di posta elettronica, ma può farlo solo previa informativa al lavoratore e rispettando le prescrizioni imposte dal provvedimento del 01.03.2007 del Garante della privacy.
Il provvedimento del garante è stato adottato ai sensi dell'articolo 154 del Codice della privacy e che sarà applicato dal garante stesso in eventuali decisioni su reclami presentati dai lavoratori; si noti ancora che l'inosservanza delle decisioni su reclami che impongono divieti o blocco dei trattamenti costituisce reato, punibile con la reclusione fino a due anni (articolo 170 Codice della privacy).
Pertanto per rispettare il nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori bisogna rispettare il provvedimento del 01.03.2007 del Garante della privacy. A meno che non si sostenga che l'uso delle informazioni ricavabili dalla posta elettronica sia stato completamente liberalizzato a ogni fine connesso con il rapporto di lavoro, dal momento che il Jobs Act richiama solo le norme del codice della privacy (d'altra parte cita solo il dlgs 196/2003): le linee guida del garante della privacy non hanno, infatti, rango formale di norma primaria.
Un'interpretazione di questo tipo appare troppo radicale e poco in linea con lo stesso codice della privacy, per lo meno rispetto ai principi dell'articolo 11 del dlgs 196/2003. Se, invece, il richiamo dell'ultimo comma del nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori significa richiamo anche del provvedimento 01.03.2007 del garante della privacy, allora il datore di lavoro deve applicare le seguenti prescrizioni e osservare i seguenti divieti: il datore di lavoro deve specificare con un disciplinare interno le modalità di utilizzo della posta elettronica, indicando chiaramente le modalità di uso degli strumenti messi a disposizione e se, in che misura e con quali modalità vengano effettuati controlli. Senza la policy aziendale, il lavoratore matura l'aspettativa di confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione. Il datore deve individuare preventivamente (anche per tipologie) a quali lavoratori è accordato l'utilizzo della posta elettronica.
Altre precauzioni concernono: la messa a disposizione di indirizzi di posta elettronica condivisi tra più lavoratori, eventualmente affiancandoli a quelli individuali; l'eventuale attribuzione al lavoratore di un diverso indirizzo destinato a uso privato; la messa a disposizione di funzionalità che consentano di inviare automaticamente, in caso di assenze programmate, messaggi di risposta che contengano le «coordinate» di altro soggetto o altre utili modalità di contatto dell'istituzione presso la quale opera il lavoratore assente; a possibilità di conoscere il contenuto dei messaggi di posta elettronica in caso di assenza improvvisa o prolungata e per improrogabili necessità legate all'attività lavorativa, a mezzo di un altro lavoratore delegato a verificare il contenuto di messaggi e a inoltrare al titolare del trattamento quelli ritenuti rilevanti per lo svolgimento dell'attività lavorativa. Di tale attività dovrebbe essere redatto apposito verbale e informato il lavoratore interessato alla prima occasione utile. I terzi che scambiano corrispondenza elettronica devono poter sapere che le risposte potranno essere conosciute nell'organizzazione di appartenenza del mittente.
Infine il datore di lavoro è soggetto a stringenti divieti: sono banditi sistemi hardware e software che mirano al controllo a distanza di lavoratori, svolti mediante. Per la posta elettronica sono vietate la lettura e la registrazione sistematica dei messaggi o dei relativi dati esteriori, al di là di quanto tecnicamente necessario per svolgere il servizio email (articolo ItaliaOggi Sette del 07.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Sistri cambia ancora pelle. In arrivo semplificazioni e una applicazione estesa. Lavori in corso, a un mese dall'entrata in vigore delle sanzioni per il tracciamento rifiuti.
Meno burocrazia informatica ma più rifiuti sottoposti al sistema di controllo telematico.

Queste le novità che, in base ai lavori istituzionali in corso, interesseranno il Sistri dal 2016.
A meno di un mese dalla data del 01.01.2016, termine iniziale della sanzionabilità (salvo proroghe dell'ultimo minuto) dell'omesso tracciamento telematico dei residui e dell'insediamento del nuovo gestore del sotteso servizio informatico, le ultime indicazioni sul futuro del sistema arrivano da due atti: lo schema di decreto legislativo di snellimento generale dell'ordinamento giuridico, trasmesso al Senato lo scorso 26.11.2015, che incide sul sistema regolamentare Sistri in ragione della «prossima entrata in vigore del nuovo sistema semplificato»; la risposta governativa fornita il precedente 19.11.2015 alla Commissione ambiente della Camera, nell'ambito di una interrogazione parlamentare e dalla quale emerge anche il prossimo allargamento del Sistri a ulteriori tipologie di rifiuti, dunque a nuovi soggetti della filiera.
Future semplificazioni burocratiche. Le indicazioni istituzionali in materia appaiono annunciare l'adozione del decreto ministeriale previsto dall'articolo 188-bis del dlgs 152/2006 e volto allo snellimento e ottimizzazione del Sistri. Semplificazioni che dovrebbero seguire, plausibilmente, le linee guida emerse dall'incontro del 15.04.2015 tra Minambiente, Consip spa (centrale di committenza nazionale per gli acquisti della p.a.) e i rappresentanti del Tavolo di concertazione e monitoraggio Sistri (ex articolo 11, dl 101/2013), le quali disegnano una razionalizzazione informatica fondata su soluzioni alternative alle attuali «chiavette usb» e «black box» (da sostituire, rispettivamente, con certificati virtuali ove necessario e tachigrafi digitali) e una rivisitazione «user friendly» dell'interfaccia telematica Sistri (con la possibilità di compilazione delle schede rifiuti in modalità off-line e la piena interattività con i software gestionali aziendali).
Previsto allargamento campo di applicazione. Alla base dell'annunciato ampliamento del Sistri appare essere l'articolo 188-ter del dlgs 152/2006, ove si prevede (comma 3) l'individuazione tramite Dm Ambiente di ulteriori categorie di soggetti cui è necessario estendere il Sistri.
Categorie da rintracciare, nel tenore dell'articolo 11 del dl 101/2013 (che ha introdotto la citata previsione nel Codice ambientale), «nell'ambito degli enti e delle imprese che effettuano il trattamento dei rifiuti, di cui agli articoli 23 e 35 della direttiva 2008/98/Ce», dunque tra i gestori di rifiuti anche non pericolosi. Ulteriori «indizi» sia della semplificazione che dell'allargamento del Sistri appaiono emergere dal citato dlgs in itinere sullo snellimento dell'ordinamento giuridico, laddove si prevede l'abrogazione del secondo periodo, comma 2, articolo 11 del dl 101/2013 che dispone l'adozione di un dm Ambiente disciplinante le modalità di applicazione «sperimentale» del sistema alla catena di raccolta, trasporto e trattamento professionali dei rifiuti urbani pericolosi.
Nuovo gestore del servizio. Come accennato, è previsto per nuovo anno, sulla base di quanto stabilito dal comma 9-bis dell'articolo 11 del citato dl 101/2013, il passaggio di consegne dal vecchio al nuovo gestore del sistema informatico statale che governa il Sistri.
E proprio l'individuazione del nuovo concessionario da parte della Consip alla luce della relativa gara europea in itinere dovrebbe inaugurare, come suggerito anche dal citato documento del 15.04.2015, la stagione delle semplificazioni; anche se sull'effettiva contestualità delle due novità, passaggio di consegne e semplificazioni, dubbi sono stati sollevati da diverse associazioni di settore (si veda ItaliaOggi del 26/11/2015).
Il contributo Sistri. Dagli ultimi passaggi istituzionali appare emergere anche la conferma dell'obbligatorietà del contributo posto dal dm 52/2011 a carico degli operatori per il funzionamento del Sistri.
Nella citata risposta governativa del 19.11.2015 alla sottesa interrogazione parlamentare viene infatti sottolineato come, salvo futuri ed eventuali interventi legislativi di compensazione ad hoc per alcune annualità pregresse, esso contributo in base all'attuale assetto normativo non ha comunque natura di corrispettivo per un servizio, per cui non ne può essere richiesto il rimborso in mancanza della prestazione cui si riferisce (affermazione, quest'ultima, in linea con quanto già espresso dal Minambiente nell'ambito dell'audizione 16.05.2012 presso la Commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti).
Lo stato dell'arte: soggetti obbligati. In base al vigente dlgs 152/2006 e provvedimenti satellite il Sistri è attualmente obbligatorio per i seguenti soggetti: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, purché non stocchino i propri rifiuti, dei soggetti esonerati dal dm Ambiente 24.04.2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi produttori che trattano o generano rifiuti pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi; comuni e imprese di trasporto di rifiuti urbani della Regione Campania.
Gli obblighi. Tali soggetti devono iscriversi al sistema: (ex dm 52/2011) prima di avviare le attività o al verificarsi dei presupposti che li sottopone alla disciplina; (ex dlgs 152/2006) in caso di produzione accidentale di rifiuti pericolosi, entro tre giorni lavorativi dall'accertamento di tale caratteristica.
Il tracciamento dei rifiuti impone invece, secondo tempistiche, modalità e strumentazione ex citato dm 52/2011 (tra cui chiavette usb e black box): comunicazione al server Sistri di quantità e qualità dei rifiuti prodotti, gestiti, oggetto di commercio; conservazione dei file generati dal sistema; trasporto dei rifiuti unitamente alla copia cartacea della scheda «Area Movimentazione Rifiuto» generata dal sistema; monitoraggio satellitare dei mezzi di trasporto rifiuti; videosorveglianza di discariche e impianti incenerimento.
Sanzioni per omesso contributo. Dallo scorso 01.04.2015 sono applicabili le sanzioni previste dai commi 1 e 2 dell'articolo 260-bis del dlgs 152/2006, che puniscono (a titolo amministrativo e con importi fino a 93 mila euro) l'omessa iscrizione al Sistri così come il mancato pagamento del contributo.
Sanzioni per omesso tracciamento. Dal 01.01.2016 scatterà invece, salvo proroghe, l'applicabilità delle sanzioni previste dai commi dal 3 al 9 dello stesso articolo 260-bis per la violazione delle citate regole operative di tracciamento rifiuti. Il 31.12.2015 scade infatti la vigenza del c.d. «regime transitorio del doppio binario» (previsto dal dl 192/2014) in virtù del quale i soggetti obbligati al Sistri devono continuare a effettuare anche il tradizionale tracciamento dei rifiuti con la parallela sanzionabilità, però, delle sole violazioni di quest'ultimo.
A una eventuale proroga dell'ultimo minuto potrebbe far tuttavia pensare quanto emerge dal resoconto stenografico della seduta del Senato 15.10.2015 n. 524, laddove si accenna alla possibile necessità di un «periodo di rodaggio» per la nuova configurazione Sistri che esordirà con l'atteso rinnovo della gestione del sistema (articolo ItaliaOggi Sette del 07.12.2015).

LAVORI PUBBLICILa Soa può non essere tricolore. Sarà eliminato l'obbligo di avere sede legale in Italia. LEGGE EUROPEA 2015/ Il cdm ha approvato il ddl. Sanata la procedura di infrazione.
Sarà eliminato l'obbligo per le società organismo di attestazione (Soa) di avere la sede legale in Italia.

È quanto prevede l' articolo 4 della bozza di disegno di legge europea per il 2015 (approvata dal consiglio dei ministri di ieri) relativo alla disciplina delle Società organismi di attestazione (Soa), norma che intende sanare la procedura di infrazione 2013/4212, giunta allo stadio di messa in mora, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia per aver imposto a tali società l'obbligo di avere la propria sede legale nel territorio della Repubblica.
La vicenda prende le mosse dal ricorso al Tar presentato da Ri.se. spa che aveva contestato la norma del dpr n. 207/2010 che impone che la sede legale delle Soa debba essere nel territorio italiano.
Il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso affermando che il dpr n. 207/2010 (il regolamento del codice dei contratti pubblici), nella parte in cui impone che la sede legale delle Soa deve essere nel territorio italiano, introduce una prescrizione ingiustificata, gravosa e in contrasto con i preminenti interessi della tutela della concorrenza.
I giudici romani avevano precisato anche che la disposizione regolamentare integra un'ipotesi di requisito discriminatorio ai fini dell'applicazione dei principi di stabilimento e libera prestazione dei servizi, in violazione della direttiva 2006/123/Ce.
La presidenza del consiglio impugnò al Consiglio di stato la pronuncia di primo grado e i giudici di palazzo Spada, pregiudizialmente chiesero alla Corte di giustizia di conoscere la compatibilità comunitaria della norma italiana. Il giudice europeo (causa pregiudiziale C-593/13) con pronuncia del 16.06.2015 ha successivamente stabilito che l'obbligo di sede legale sul territorio di uno stato membro contrasta con i principi del trattato sul funzionamento dell'Ue relativi alla libertà di stabilimento (articolo 49 trattato Ue) e alla libera prestazione di servizi (articolo 56 trattato Ue).
In particolare, la Corte ha stabilito che non è possibile applicare alle Soa l'articolo 51, primo comma, trattato Ue, il quale esclude dalle norme sulla libertà di stabilimento le attività in cui si faccia esercizio di pubblici poteri, e che l'articolo 14 della direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che «esso osta a una normativa di uno stato membro in forza della quale è imposto alle società aventi la qualità di organismi di attestazione di avere la loro sede legale nel territorio nazionale».
La disposizione contenuta nel disegno di legge risolve la questione modificando, quindi, l'articolo 64. comma 1, del dpr 05.10.2010, n. 207, al fine di prevedere per le Soa l'obbligo di avere in Italia una sede qualsiasi, anche solo operativa (articolo ItaliaOggi del 05.12.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Appalti, il ricorso ampliato moltiplica anche la tassa. Circolare. Il contributo unificato va pagato sui motivi aggiunti.
Resta a caro prezzo il peso del contributo unificato per i ricorsi amministrativi a Tar, Consiglio di Stato, Consiglio di giustizia amministrativa: lo sottolinea la circolare 23.10.2015 n. 20766 di prot. del Segretariato giustizia amministrativa.
Gli orientamenti suggeriti ai dirigenti delle segreterie giurisdizionali sono infatti di lasciare inalterati i criteri di valutazione posti da una precedente circolare (18.10.2011), che consentiva la moltiplicazione del carico fiscale per ogni motivo aggiunto al ricorso iniziale.
Poco spazio è quindi dato alla pronuncia della Corte di giustizia del 06.10.2015 (C-61/14), generata da un contenzioso su un appalto di servizi che risultava assoggettato a oltre 10.000 € di “tassa d’ingresso”. La Corte aveva escluso che possa ostacolare la concorrenza e l’accesso alla giustizia, in tema di appalti, l’obbligo di versare contributi iniziali fino a 9.000 euro, poiché la soglia invalicabile per il pagamento dei contributi di accesso alla giustizia va individuata nel 2% del valore dell’appalto. Ma se rimane elevato il contributo iniziale, la Corte stessa ha sottolineato che un contributo non può moltiplicarsi con il progredire del ricorso, man mano che si impugnino ulteriori fasi o atti, applicando il Tu 30.05.2002 n. 115 (sulle spese di giustizia).
La circolare dello scorso ottobre, richiamando i punti 71 e seguenti della sentenza C-61, conferma la possibilità di imporre un contributo supplementare per ogni atto autonomo rispetto al ricorso introduttivo del giudizio, quando si verifica una «considerevole» estensione dell’oggetto della controversia perché l’ampliamento del processo comporta un aggravio per il sistema giudiziario. Non ha quindi rilievo la circostanza che, impugnando l’esito di una gara, la finalità del ricorrente sia quella di ottenere un determinato appalto (il cosiddetto “bene della vita”), perché il contributo è ancorato al maggior peso nella gestione del processo.
Pagano il contributo i motivi aggiunti che hanno un oggetto effettivamente distinto da quello del ricorso introduttivo, che cioè comportano un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente. Si tratta, secondo la circolare della giustizia amministrativa, di condizioni alternative, perché scatta un nuovo pagamento sia nel caso di motivi aggiunti con un oggetto diverso e nuovo (rispetto al ricorso introduttivo) sia nel caso di mero ampliamento -sia pur considerevole- del medesimo oggetto della controversia.
Pertanto, ogni volta che, con i motivi aggiunti, si impugni un provvedimento ulteriore rispetto al primo si è in presenza di un distinto ed ulteriore “oggetto” del giudizio. Il considerevole ampliamento dell’oggetto non si verifica, invece, quando il ricorrente si limita a denunciare ulteriori illegittimità nei confronti di atti già al vaglio del giudice.
Di fatto, quindi, la circolare del 06.10.2015 conferma quella del 18.10.2011 e collega a ogni fase del giudizio il rischio di un aggravio fiscale. La responsabilità dell’esazione spetta alle segreterie degli organi giurisdizionali, mentre la giurisdizione sul punto è delle commissioni tributarie.
Queste ultime, tuttavia, avranno difficoltà a interpretare le liti dei giudici amministrativi, distillandone il contenuto per comprendere se i motivi aggiunti amplino o meno in modo considerevole l’oggetto del giudizio: oltretutto, sono spesso le stesse sentenze amministrative a chiarire se il contributo vada o meno pagato (Consiglio di Stato, 5128/2015), lasciando quindi poco spazio ai giudici tributari
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDdl appalti, clausole sociali contro il diritto comunitario.
Possibile violazione della concorrenza e del diritto comunitario per la nonna sulle clausole sociali del disegno di legge delega sugli appalti pubblici.
E' quanto paventato dalla commissione lavoro del senato che, nell'esame del disegno di legge delega sugli appalti pubblici (cui sono stati presentati diversi emendamenti in commissione lavori pubblici, ma non da parte dei relatori), ha chiesto all'Autorità nazionale anticorruzione e all'Autorità garante della concorrenza e del mercato un parere sulla norma prevista all'articolo 1, comma 1, lettera ddd) del disegno di legge.
La disposizione prevede, come criterio direttivo, di procedere alla valorizzazione delle esigenze sociali e di sostenibilità ambientale, mediante introduzione di criteri e modalità premiali di valutazione delle offerte nei confronti delle imprese che, in caso di aggiudicazione, si impegnino, per l'esecuzione dell'appalto, a utilizzare anche in parte manodopera o personale a livello locale ovvero in via prioritaria gli addetti già impiegati nello stesso appalto. L'obiettivo della norma è la stabilizzazione occupazionale, ma su questo obiettivo il presidente della Commissione lavoro (l'ex ministro Maurizio Sacconi) ha eccepito alcuni profili di incompatibilità con le regole europee.
L'eccezione che è stata fatta dalla Commissione è che il vincolo per l'assunzione di tutti i dipendenti del contratto di appalto in essere derivi dalla legge e non dal contratto collettivo nazionale. Ma anche i servizi tecnici del Senato hanno eccepito dubbi di compatibilità Ue. le direttive da un lato fanno riferimento a «criteri quali gli aspetti qualitativi, ambientali e/o sociali, connessi all'oggetto dell'appalto pubblico» (articolo 67, paragrafo 2, della direttiva n. 2412014); dall'altro («considerando» n. 97 della direttiva 24) si specifica che la condizione di un collegamento con l'oggetto dell'appalto esclude criteri e condizioni riguardanti la politica aziendale generale, che non può essere considerata un fattore che caratterizza il processo specifico di produzione o fornitura dei lavori, delle forniture o dei servizi oggetto dell'acquisto.
Le amministrazioni aggiudicatrici non dovrebbero pertanto avere la facoltà di imporre agli offerenti di attuare una determinata politica aziendale di responsabilità sociale o ambientale. E il criterio di delega potrebbe proprio su questo punto non reggere a censure di incompatibilità con il diritto europeo (articolo ItaliaOggi del 03.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, nuovi formulari. Per bandi e avvisi sopra la soglia comunitaria. Modelli opzionali da domani. Saranno obbligatori dal 18.04.2016.
Dal 2 dicembre le stazioni appaltanti potranno scegliere se usare i nuovi formulari Ue per la pubblicazione di bandi sopra la soglia comunitaria. L'utilizzo dei nuovi formulari sarà invece obbligatorio per gli Stati membri a decorrere dal 18.04.2016, termine ultimo per il recepimento delle nuove direttive Ue in materia di appalti e concessioni.
E con il regolamento Ue dell'11.11.2015 n. 1986 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 296/1 del 12.11.2015) che vengono stabiliti i nuovi modelli e formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore degli appalti pubblici sopra soglia comunitaria.
Il regolamento n. 1986 del 2015 entrerà in vigore il 02.12.2015 (20 giorni dalla pubblicazione della gazzetta ufficiale dell'Unione europea). Il precedente regolamento Ue n. 842/2011 è abrogato con effetto dal 18.04.2016.
In conformità alla disciplina generale in materia di efficacia degli atti normativi della comunità europea, tali formulari, in quanto contenuti in un regolamento comunitario, dovranno intendersi immediatamente applicabili nell'ordinamento italiano, senza che sia necessario alcun atto di recepimento da parte delle istituzioni nazionali.
Nuove soglie comunitarie.
Dal 01.01.2014 sono in vigore le nuove soglie comunitarie per gli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi stabilite con il regolamento (Ue) n. 1336/2013 della commissione del 13.12.2013 (pubblicato sulla gazzetta ufficiale dell'unione europea del 14.12.2013 - L 335/17) che modifica le direttive 2004/17/Ce, 2004/18/Ce e 2009/81/Ce del parlamento europeo e del consiglio riguardo alle soglie di applicazione in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti.
Le soglie comunitarie per gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture sono fissate dal 01.01.2014 a 5.186.000 euro per i lavori nei settori ordinari, speciali e nella difesa, a 207 mila euro per i servizi e le forniture nei settori ordinari, a 134 mila euro per i servizi e le forniture nei settori ordinari quando le gare sono bandite dalle amministrazioni statali e a 414 mila euro per i servizi e le forniture nei settori speciali (ad esempio servizi energetici, idrici o di trasporto) e nella difesa.
Quando l'importo degli appalti è uguale o supera le soglie sopra indicate , la gara deve essere aperta a tutti gli operatori europei. Perché ciò sia fattibile, bisogna pubblicare il bando sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea seguendo degli standard comuni.
Nuovi e vecchi formulari.
A partire dal 02.12.2015, le stazioni appaltanti potranno scegliere se utilizzare i vecchi formulari contenuti nel regolamento 842/2011 o iniziare a utilizzare quelli nuovi contenuti nel regolamenti n. 1986 /2015.
A partire da tale data le stazioni appaltanti potranno utilizzare i nuovi modelli per la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell'unione europea dei bandi e degli avvisi per le procedure d'appalto di lavori, forniture e servizi, concorsi di progettazione, per gli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti, dei servizi postali, della difesa e sicurezza e delle concessioni.
Dal 18.04.2016, invece, l'utilizzo dei nuovi modelli diverrà obbligatorio perché in linea con le nuove direttive europee sugli appalti pubblici (2014/23/Ue e 2014/25/15e) (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Non ha natura "precaria" il manufatto realizzato consiste in un corpo di fabbrica edificato con blocchetti di tufo con copertura di travi di legno e lamiera zincata, destinato a pollaio, perimetrato da una rete metallica di recinzione infissa in un cordolo anch’esso realizzato con blocchetti di tufo.
In materia edilizia, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve risultare dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
Nel caso di specie, il fatto che l’opera fosse adibita abitualmente al ricovero degli animali (pollaio) esclude, con tutta evidenza, la natura precaria della stessa ed il fatto che l’imputato fosse l’unico tra i comproprietari dell’immobile, ove insisteva il manufatto abusivo, ad utilizzarlo induce fondatamente a ritenere che egli fosse il committente dell’opera, stante la diretta utilizzazione della stessa da parte sua e l’assenza in zona degli altri comproprietari.

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1. Il ricorso è fondato, per quanto di ragione, sulla base del secondo motivo. Il primo motivo è invece infondato.
2. Secondo la Corte d’appello, dalla documentazione fotografica in atti e dalle deposizioni dei testi autori del sopralluogo effettuato in data 10.05.2011, il manufatto realizzato, in assenza del permesso di costruire, consiste in un corpo di fabbrica edificato con blocchetti di tufo con copertura di travi di legno e lamiera zincata, destinato a pollaio, perimetrato da una rete metallica di recinzione infissa in un cordolo anch’esso realizzato con blocchetti di tufo.
È stato pertanto escluso trattarsi di un’opera definibile come precaria in quanto non affatto destinata ad esigenze temporanee (non essendo tali quelle sottese a procurare agli animali di cortile un idoneo riparo) ma altresì realizzata con modalità e materiali non idonei ad essere sollecitamente eliminati e denotanti, per converso, la finalizzazione del manufatto ad esigenze non contingenti e limitate nel tempo.
Quanto alla attribuibilita all’imputato dell’opera in questione, è stato posto in evidenza che il teste D. abbia riferito che il ricorrente è l’unico dei comproprietari dell’azienda, cui il pollaio è annesso, ad occuparlo stabilmente in quanto tutti gli altri contitolari “non sono presenti sul territorio” a causa di una problematica attinente proprio al possesso della menzionata azienda che il prevenuto rivendica in via esclusiva.
3. Pertanto,
con logica ed adeguata motivazione, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto la non precarietà dell’opera e dunque la necessità che, per la sua realizzazione, fosse necessario il permesso di costruire in considerazione della natura dell’intervento realizzato e ha altrettanto correttamente attribuito il fatto di reato all’imputato essendo costui l’unica persona ad avere un rapporto permanente con i luoghi in cui l’abuso è stato realizzato e l’unica ad avervi interesse ad eseguirlo.
Nel pervenir a tali conclusioni la Corte lucana si è attenuta ai principi di diritto affermati da questa Corte secondo i quali,
in materia edilizia, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve risultare dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (Sez. 3, n. 37992 del 03/06/2004, Mandò, Rv. 229601).
Nel caso di specie, il fatto che l’opera fosse adibita abitualmente al ricovero degli animali (pollaio) esclude, con tutta evidenza, la natura precaria della stessa ed il fatto che l’imputato fosse l’unico tra i comproprietari dell’immobile, ove insisteva il manufatto abusivo, ad utilizzarlo induce fondatamente a ritenere che egli fosse il committente dell’opera, stante la diretta utilizzazione della stessa da parte sua e l’assenza in zona degli altri comproprietari.
4. Il secondo motivo è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
La giurisprudenza di questa Corte si è assestata nel senso di ritenere che
l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16.03.2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell’art. 609, comma secondo, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito (Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308).
Nel caso di specie, l’applicabilità dell’istituto per effetto dello ius superveniens è stata peraltro eccepita con il secondo motivo di ricorso e sussistono i presupposti affinché il giudice di merito verifichi, in concreto, se sussistono le condizioni per l’applicazione dell’invocata causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, posto che tale accertamento richiede apprezzamenti fattuali (nel caso in esame, anche se l’opera abusiva sia stata o meno rimossa) e che ogni valutazione al riguardo è preclusa in sede di legittimità.
Va tuttavia precisato che
nei reati permanenti, nei cui novero rientrano le contravvenzioni relative agli abusi edilizi, è preclusa, quando la permanenza non sia cessata, l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto a cagione della perdurante compressione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, per effetto della condotta delittuosa compiuta dall’autore del fatto di reato, non potendosi considerare tenue, secondo i criteri di cui all’art. 133, comma 1, cod. pen. e dei quali occorre tenere conto ai fini della (particolare) tenuità del fatto, un’offesa all’interesse penalmente tutelato che continua a protrarsi nel tempo.
Questa Corte ha tuttavia opportunamente precisato che
il reato permanente, non essendo riconducibile nell’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio ex art. 131-bis cod. pen., può essere oggetto di valutazione con riferimento all’”indice-criterio” della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quando più tardi sarà cessata la permanenza (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, non ancora mass.).
Quindi,
l’eliminazione dell’opera abusiva, attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della permanenza, può consentire, a condizioni esatte, l’applicazione della causa di non punibilità introdotta dall’art. 131-bis cod. pen..
5. Questa Corte ha già affermato che
la particolare tenuità del fatto costituisce una causa di non punibilità atipica (Sez. 3, n. 21014 del 07/05/2015, v. Fregolent, non mass.) per gli effetti negativi che produce per l’imputato (anzitutto la possibile rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi ed, ancora, l’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale) e la sua applicazione presuppone, tra l’altro, l’accertamento della responsabilità penale ossia l’accertamento dell’esistenza delitto e della sua attribuibilità all’imputato.
Ciò spiega la ragione per la quale
la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., sia perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, P.C. in proc. Sorbara, Rv. 263885).
Perciò,
la questione del concorso tra le due cause di estinzione del reato e non punibilità può porsi solo quando le stesse siano entrambe contemporaneamente applicabili “in partenza”, con la conseguenza che –quando, come nella specie, la Corte di cassazione, non essendosi verificata la causa estintiva della prescrizione del reato, annulli la sentenza con rinvio al giudice di merito per l’applicabilità o meno dell’art. 131-bis cod. pen. (e quindi al cospetto di un annullamento parziale avente ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell’esistenza del fatto-reato e della responsabilità dell’imputato)– nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale.
6. Siffatta conclusione è autorizzata dal fatto che
la “punibilità” –e dunque le cause che per immancabile previsione di legge ne certificano la mancanza (cosiddette “cause di non punibilità”)– non costituisce un elemento costitutivo del reato e l’assenza della punibilità non esclude la configurabilità dell’illecito penale, per la cui ontologica e giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, non anche l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di colui che lo ha commesso.
A questo proposito, sotto un primo profilo, è sufficiente considerare che, ex positivo iure, l’art. 129 cod. proc. pen., allo stesso modo del previgente art. 152 cod. proc. pen. 1930, non ha inserito –al di là dell’accenno (non vincolante per l’interprete) nella rubrica della disposizione alle “cause di non punibilità” (e, all’evidenza, in senso lato)– le altre ragioni di non punibilità, compreso il difetto dell’imputabilità, tra le cause di cui sia obbligatoria la immediata declaratoria (Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, cit., non mass. sul punto).
Tale silenzio non è stato ritenuto il frutto di una mera dimenticanza del legislatore, trovando al contrario radici profonde nei presupposti che giustificano il ricorso alle cause di proscioglimento nel merito, alle cause di estinzione del reato o alle cause d’improcedibilità codificate ed esulando invece dall’ambito operativo della fattispecie processuale le ipotesi in cui la causa di non punibilità possa essere dichiarata esclusivamente dopo l’accertamento del fatto di reato e della sua attribuibilità all’imputato, epilogo, questo, confermato, sia pure con riferimento all’imputabilità, dalla Corte costituzionale (sentenza del 10.02.1993, n. 41) secondo cui la suddetta declaratoria (di non punibilità per difetto d’imputabilità) postula il necessario accertamento della responsabilità in ordine al fatto-reato e della sua attribuibilità all’imputato.
Sotto altro profilo, è stato lucidamente chiarito, in dottrina, come alla punibilità possano essere attribuiti due significati: uno generico, con il quale si rappresenta che un determinato fatto in tanto è preveduto dalla legge come reato in quanto per esso è prevista, come ordinaria conseguenza per coloro che lo hanno commesso, l’applicazione d’una sanzione penale; l’altro, strettamente tecnico, secondo cui nella punibilità deve riconoscersi il complesso di tutti gli elementi richiesti dalle norme del diritto penale sostanziale per l’assoggettamento di una persona alla potestà punitiva dello Stato, pervenendosi alla conclusione che né dal primo punto di vista e né dall’altro la punibilità appare elemento costitutivo o carattere del reato: nel primo caso essa non è infatti che l’indicazione del carattere (o disvalore) criminoso di un determinato fatto i cui estremi costitutivi sono e restano la conformità al tipo, l’antigiuridicità e la colpevolezza; mentre nel secondo la punibilità si identifica con la ordinaria conseguenza del reato, con la potenzialità dell’applicazione della pena, vuoi nel suo momento giudiziale (cosiddetta punibilità in astratto), vuoi nel suo momento esecutivo (cosiddetta punibilità in concreto).
Ne consegue che il precetto penale, pur essendo riconoscibile solo per la previsione della sanzione criminale, tipicizza i fatti che sono configurati dalla legge come reato, rispetto al quale, quando se ne compia l’esame o l’analisi in concreto, la punibilità non appare come indefettibile elemento, posto che i due momenti della norma penale (precetto e sanzione) mostrano in pieno la loro rispettiva autonomia, al punto che l’inapplicabilità della sanzione non appare affatto come elemento decisivo per negare che un determinato interesse rientri nella sfera dei fatti penalmente rilevanti, allorquando l’ordinamento penale una tale rilevanza attribuisca tanto quando ammette l’esistenza di eventi o di condizioni che determinano l’applicabilità della sanzione, pur non facendo parte del fatto tipico (quali le cosiddette condizioni oggettive di punibilità), tanto quando contempla eventi o condizioni che, pur non escludendo il reato perché non attengono né al fatto tipico né alla sua antigiuridicità né alla colpevolezza, escludono tuttavia l’applicabilità della sola sanzione.
Una conferma di tale soluzione si coglie quando si consideri che, pur al cospetto di tali eventi e condizioni che escludono la punibilità, l’esistenza del reato non può negarsi, vuoi perché la causa di non punibilità è riferibile soltanto a un momento successivo a quello del perfezionamento di tutti gli estremi di esso (come nel caso della ritrattazione della falsa testimonianza), vuoi perché la esclusione della pena è rimessa al potere discrezionale del giudice (come nel caso della non punibilità dell’ingiuria per reciprocità delle offese).
Si tratta di un principio che questa Corte ha già affermato con riferimento alla causa di non punibilità prevista dall’art. 2, comma 1-bis D.L. 12.09.1983, n. 463, conv. in L. 11.11.1983, n. 638 a proposito del reato di omesso versamento delle ritenute d’imposta operate dal datore di lavoro allorquando è stato precisato (Sez. 3, n. 45451 del 18/07/2014, Cardaci, non mass. sul punto) come le cause, nel caso di specie sopravvenute, di non punibilità siano caratterizzate da situazioni o da fatti che derivano sempre da accadimenti posteriori alla commissione di un reato e tali accadimenti possono essere collegati ad un comportamento dell’agente di valore inverso rispetto alla condotta illecita tenuta (come, a titolo esemplificativo, nel caso di recesso dai delitti di cospirazione politica o di banda armata alle condizioni rispettivamente previste dagli artt. 308 e 309 cod. pen., nel caso di ritrattazione della falsa testimonianza) ovvero ad una manifestazione di volontà del soggetto passivo (come ad esempio nel caso previsto dall’art. 596 cod. pen., comma 3, n. 3, in relazione all’ultimo comma della medesima disposizione) oppure all’esercizio di un potere discrezionale del giudice (come avviene, ad esempio, nell’art. 599 cod. pen. che attribuisce al giudice il potere di non punire uno o entrambi gli offensori se le offese sono reciproche).
Perciò
nei casi in cui l’esenzione da pena dipende da comportamenti del reo successivi al fatto o è rimessa soltanto al potere discrezionale del giudice non si può negare che la valutazione compiuta dal legislatore nell’attribuire rilevanza alle cause di esenzione discrezionale da pena riguardino esclusivamente l’an o il quantum della punibilità e non anche gli elementi (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza) che reggono la struttura del reato, presupponendone pertanto l’accertamento e la sua attribuibilità all’autore, posto che la ragione dell’esenzione della pena riposa, di regola, su motivi di convenienza o di politica utilità della punizione che, come è stato precisato, tradizionalmente si vogliono vedere alla base delle cause di esclusione della sola punibilità sussumibili piuttosto in una fattispecie di “perdono” giudiziale che non di un accertamento dei presupposti del dovere di punire.
Va aggiunto come questa Corte, nella sua più autorevole composizione, abbia già affermato il principio secondo il quale
la punibilità non può essere considerata un elemento costitutivo del reato, osservando che il diritto positivo, prevedendo cause che escludono l’illiceità del fatto –c.d. cause di giustificazione– nonché cause scusanti che escludono la colpevolezza ma non l’illiceità del fatto (artt. 45, 46, cod. pen.) e cause di esclusione della punibilità in senso stretto –le quali hanno l’effetto di escludere la sola pena lasciando sussistere l’illiceità del fatto e la colpevolezza dello autore– non consente di ritenere che del reato sia sempre componente essenziale l’applicazione della pena comminata, evidenziando come emerga, dunque, un ruolo autonomo della punibilità rispetto al reato, sganciato dall’applicazione della sanzione tipica, punibilità che va, pertanto, esclusa dai suoi elementi costitutivi, anche se, di norma, alla commissione di un illecito penale e accertamento della colpevolezza segue l’applicazione della relativa sanzione (Sez. U, Sentenza n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, in motiv.).
Decisivo a questo proposito è lo scrutinio concernente la fattispecie riguardante la pacifica ammissibilità di un concorso punibile nel fatto commesso dal soggetto esentato dalla pena per la particolare tenuità del fatto. Se quest’ultimo non avesse realizzato il presupposto minimo della partecipazione criminosa, che è la realizzazione del fatto tipico, un concorso penale del terzo, per il quale sussista l’abitualità del comportamento delittuoso, assente invece nel concorrente, non si potrebbe in alcun modo concepire.
Invece la possibilità di un tale concorso deve essere, secondo i principi generali, pacificamente ammessa cosicché, come è stato rilevato, proprio nella prospettiva del reato plurisoggettivo è dato cogliere la peculiare fisionomia delle cause personali di non punibilità e la loro differenza dalle cause di esclusione del reato.
Ne consegue che il fatto non punibile non assume alcuna diversa rilevanza nel senso che non diviene lecito, ma resta reato, pur se non punibile.
Ciò spiega anche la ragione per la quale
la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non configura un’ipotesi di abolitio criminis sul rilievo, desumibile dal comb. disp. ex art. 2, comma 2, cod. pen. e art. 673 cod. proc. pen., che, qualora ricorrono i presupposti dell’istituto previsto dall’art. 131-bis cod. pen., il fatto è pur sempre qualificabile –e qualificato dalla legge– come “reato”, dovendosi ricordare, tra l’altro, che il nuovo art. 651-bis cod. proc. pen. attribuisce efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi alla sentenza dibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto anche “quanto all’accertamento (…) della sua illiceità penale (Sez. 3, n. 34932 del 24/06/2015, Elia, non mass. sul punto).
7.
La causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto si presta quindi a testare ulteriormente le conclusioni alle quali si è giunti in precedenza, convalidandole e confermando che essa presuppone l’integrazione del reato al completo di tutti i suoi elementi e, per l’effetto, l’accertamento della responsabilità e l’attribuibilità del fatto–reato all’autore, il quale rimane esentato, se la causa è applicata, solo dall’assoggettamento alla sanzione penale.
L’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto non esige, allora, un fatto conforme al tipo ma inoffensivo, anzi richiede la presenza di un fatto conforme al tipo ed offensivo, seppure in maniera esigua e tenue secondo i due “indici-criteri” della tenuità del fatto (la “tenuità dell’offesa” e la “non abitualità del comportamento”) in coincidenza necessaria con due ulteriori sotto-indici (o “indici-requisiti”) della tenuità dell’offesa, rappresentati dalle “modalità della condotta” e dalla “esiguità del danno o del pericolo”.
La valutazione in ordine alla sua applicabilità è affidata al potere discrezionale del giudice al quale, secondo il principio della discrezionalità guidata o vincolata per essere i parametri di riferimento normativamente previsti, è affidato il compito di riconoscerne la sussistenza nonostante l’accertata commissione del reato e l’attribuibilità di esso all’imputato.
Logico corollario di tale fisionomia della causa di non punibilità è costituito dagli effetti negativi che il reato commesso produce nonostante che, per ragioni di politica criminale, l’autore è esentato dalla pena: l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti “che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale” e la rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi secondo quanto disposto dall’art. 651-bis, cod. proc. pen. recante la disciplina dell’efficacia della sentenza di proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. nel giudizio civile o amministrativo di danno, con i conseguenti risvolti processuali, tra cui vanno segnalati i più importanti: l’opposizione, ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. che possono presentare la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa sulla richiesta di archiviazione del pubblico ministero per particolare tenuità del fatto, l’esclusione della causa di non punibilità dal novero di quelle codificate nell’art. 129 cod. proc. pen. e la previsione del meccanismo descritto nell’art. 469 cod. proc. pen. posto che la sentenza di non doversi procedere prevista dall’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen. presuppone che l’imputato e il pubblico ministero non si oppongano alla declaratoria di improcedibilità, essendo anche necessario consentire alla persona offesa di interloquire sulla questione della tenuità del fatto mediante notifica dell’avviso della fissazione dell’udienza in camera di consiglio, con espresso riferimento alla procedura ex art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, cit.).
Da tutto ciò consegue che l’annullamento con rinvio della sentenza di condanna per la verifica della sussistenza dell’art. 131-bis cod. pen., impedisce l’applicabilità nel giudizio di rinvio della causa di estinzione del reato per prescrizione e, fermo restando l’accertamento della responsabilità penale, la statuizione di condanna rimane sospesa al verificarsi di una condizione costituita dall’applicabilità o meno della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto.
Sul punto, va ricordato che questa Corte ha stabilito che, da un lato, non si può ritenere la punibilità elemento costitutivo del reato, come tale in grado di condizionarne il perfezionamento; dall’altro lato, vige il principio della formazione progressiva del giudicato, che si forma, in conseguenza del giudizio della Corte di cassazione di parziale annullamento dei capi della sentenza e dei punti della decisione impugnati, su quelle statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, quale quella relativa all’accertamento della responsabilità in merito al reato ascritto, che diventano non più suscettibili di ulteriore riesame. (Cass. Sez. 3, n. 15472 del 20/02/2004, cit., Rv. 228499; Sez. 2, n. 44949 del 17/10/2013, Abenavoli, Rv. 257314).
La configurabilità del giudicato progressivo comporta, infatti, che l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione della pena possono intervenire in momenti distinti posto che la punibilità non è elemento costitutivo del reato e dunque non è “extra ordinerà” la concezione di una definitività decisoria che, attenendo all’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto criminoso e ponendo fine all’iter processuale su tale parte, crei una barriera invalicabile all’applicazione di cause estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di annullamento ad opera della Cassazione, con la conseguenza che, se l’annullamento è parziale e non intacca le disposizioni della sentenza che attengono all’affermazione di responsabilità, la sentenza acquista “autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata” (art. 624 cod. proc. pen.) e tale connessione non sussiste quando venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla punibilità, sul rilievo che il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive sopravvenute all’annullamento parziale (Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640).
8. La sentenza impugnata va pertanto annullata per la verifica dell’applicazione al caso di specie della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, alla Corte di appello di Salerno, la quale si atterrà ai principi di diritto in precedenza affermati.
Nel resto, il ricorso va invece rigettato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.12.2015 n. 50215).

ENTI LOCALIPa, niente blocco assunzioni negli enti che pagano tardi. Corte costituzionale. Illegittima la sanzione che vieta il reclutamento.
Il blocco di assunzioni e rinnovi dei contratti nelle Pubbliche amministrazioni che si rivelano troppo lente nei pagamenti ai fornitori è incostituzionale.
Lo ha decretato la sentenza 22.12.2015 n. 272 della Consulta (presidente Criscuolo, relatore de Pretis), che in questo modo accoglie il ricorso proposto da Regione Veneto e nei fatti invita il legislatore a trovare una strada diversa per spingere gli enti pubblici a pagare in tempo.
A cadere sotto le forbici dei giudici costituzionali è l’articolo 41, comma 2, del decreto 66 del 2014 (quello sul bonus Irpef da 80 euro) che ha individuato nel blocco del personale l’argomento più convincente per spingere le amministrazioni a onorare i propri debiti commerciali. I tempi massimi, 90 giorni nel 2014 e 60 a partire da quest’anno, sono quelli rafforzati dalla legge europea dell’anno scorso che ha attuato le direttive Ue in materia: per dimostrarne il rispetto, una serie di regole impone poi alle amministrazioni di calcolare l’indicatore sulla «tempestività dei pagamenti», che misura il tempo medio della liquidazione delle fatture, di allegarlo ai bilanci e di pubblicarlo sul proprio sito istituzionale.
Si tratta dello stesso parametro utilizzato per la sanzione, per cui chi ha sforato i 90 giorni nel 2014 non ha potuto quest’anno assumere nessuno e nemmeno rinnovare i contratti in corso. La stessa sorte sarebbe toccata l’anno prossimo alle amministrazioni che quest’anno facessero passare mediamente più di 60 giorni dal ricevimento della fattura al pagamento.
Qui interviene però la sentenza depositata ieri dalla Consulta, che non cancella l’obbligo di calcolare e pubblicare l’indicatore ma le penalità sul reclutamento del personale.
A motivarne l’illegittimità è un complesso di fattori, riassumibile nella mancata «proporzionalità» delle sanzioni che le mette in conflitto anche con il principio del «buon andamento della Pubblica amministrazione» tutelato dall’articolo 97 della Costituzione. Il ragionamento seguito dalla sentenza è sistematico, e può tornare utile a Governo e Parlamento per evitare di riprodurre la tecnica della norma-manifesto destinata a cadere di fronte alle contestazioni di illegittimità.
Prima di tutto, in molte amministrazioni, a partire da quelle locali, a rallentare i pagamenti potrebbero essere cause esterne, per esempio il ritardo nell’erogazione di trasferimenti statali e i vincoli del Patto di stabilità. La prova arriva dallo stesso decreto 66, che all’articolo 44 ha provato a stabilire (con risultati alterni) che i trasferimenti vanno erogati entro 60 giorni dalla definizione delle loro regole.
Ma anche ammettendo che i tempi lunghi dei pagamenti nascano solo da inefficienze interne all’amministrazione ritardataria, aggiunge la Corte, la sanzione non colpisce nel segno, perché non va a colpirne le cause. Non solo: chi sfora di un giorno e impiega tempi biblici incappa nel blocco totale delle assunzioni, senza alcuna distinzione fra violazioni leggere e plateali.
Tutti questi argomenti potranno all’incostituzionalità della regola anche se, spiega la Corte, la previsione di sanzionare le attese medie troppo lunghe inflitte ai creditori non viola in sé l’autonomia delle Regioni e rientra nel «coordinamento della finanza pubblica», competenza statale che si manifesta non solo nei tagli alla spesa pubblica ma anche nella sua riorganizzazione. Per farlo, però, servono misure proporzionali.
Vale comunque la pena di ricordare che restano in campo tutte le altre sanzioni, che non si basano sul tempo medio impiegato per i pagamenti ma colpiscono i singoli ritardi. Quando si sforano le scadenze, infatti, scatta il tasso maggiorato dell’8%, partono in automatico gli interessi di mora, l’obbligo di risarcire il danno del creditore per le spese impiegate nel recupero. Sempre in vigore, infine, la nullità delle clausole «inique»
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2015).

ENTI LOCALILa p.a. lumaca può assumere. Illegittimo il blocco per chi paga in ritardo le imprese. La Corte costituzionale dà ragione al Veneto: sanzione sproporzionata e aleatoria.
Il blocco delle assunzioni per le regioni in ritardo con i tempi medi di pagamento è una misura incostituzionale. Una sanzione sproporzionata e inidonea a raggiungere i fini che persegue perché non costituisce un deterrente per le regioni. Al contrario, colpendo indiscriminatamente gli enti senza considerare i motivi per cui le imprese creditrici sono state pagate in ritardo, la norma finisce per essere del tutto aleatoria.

Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza 22.12.2015 n. 272 con cui ha dichiarato illegittimo l'art. 41, comma 2, del decreto legge n. 66/2014 (il cosiddetto decreto Irpef) che sanzionava con il blocco totale delle assunzioni a qualsiasi titolo le pubbliche amministrazioni, esclusi gli enti del Servizio sanitario nazionale, ma comprese le regioni, che registrano tempi medi di pagamento superiori a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015, rispetto a quanto previsto dal dlgs 231/2002, come modificato dal dlgs 192/2012.
Si tratta del decreto che ha dato attuazione alla direttiva europea sui ritardi di pagamento (2011/7/Ue) e che prevede, per tutte le transazioni commerciali, il termine di pagamento di 30 giorni dal ricevimento della fattura. Termine che, nelle transazioni in cui è debitore una pubblica amministrazione, e quando la natura del contratto lo giustifichi, può essere derogato, prevedendo una tempistica più lunga, previo accordo tra le parti da pattuire in modo espresso.
Rispetto alla tempistica prevista dal dlgs 192, il decreto Irpef riconosceva, dunque, alle p.a. termini aggiuntivi (90 giorni nel 2014 e 60 dal 2015), riferiti, come spiega la Consulta, «non al singolo rapporto, ma al complesso dei debiti commerciali dell'ente pubblico», prevedendo, a garanzia del loro rispetto, la sanzione del blocco delle assunzioni nell'anno successivo a quello della violazione.
Nella sentenza redatta dal giudice Daria de Pretis, la Corte ha accolto la questione di costituzionalità sollevata dalla regione Veneto, difesa dal prof. Luca Antonini. Ma questa volta, la ragione dell'incostituzionalità non è stata, come spesso accade in tema di autonomie, la compressione delle prerogative regionali, quanto piuttosto le modalità con cui la sanzione è stata disegnata dal governo Renzi con il decreto Irpef.
La norma, infatti, hanno osservato i giudici delle leggi, «ha di mira una finalità che legittimamente può essere perseguita dal legislatore statale anche nei rapporti con le regioni. La fissazione di un termine per il pagamento dei debiti commerciali delle p.a. e la previsione di una sanzione non rappresentano strumenti, in sé considerati, incompatibili con l'autonomia costituzionale delle regioni». E anche il divieto di assumere personale, dice la Corte, «può rientrare nell'ambito dei poteri del legislatore statale, ancorché investa un aspetto essenziale dell'autonomia organizzativa delle regioni e degli altri enti pubblici».
Cosa, allora, vizia l'art. 41, comma 2, al punto da determinarne l'illegittimità costituzionale? Per la Consulta, la norma del dl 66/2014, «là dove prevede che qualsiasi violazione dei tempi medi di pagamento da parte di un'amministrazione debitrice, a prescindere dall'entità dell'inadempimento e dalle sue cause, sia sanzionata con una misura a sua volta rigida e senza eccezioni come il blocco totale delle assunzioni, non supera il test di proporzionalità il quale richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi».
Il blocco delle assunzioni, disposto dal dl 66, colpisce indistintamente ogni violazione dei tempi medi di pagamento, anche se il ritardo è stato originato da cause legate a fattori non imputabili alle amministrazioni, come il mancato trasferimento di risorse da parte di altri soggetti (si pensi, per esempio, ai contributi erariali) o i vincoli del patto di stabilità.
«La mancata considerazione della causa del ritardo», lamenta la Consulta, rende questa misura del tutto aleatoria perché a nulla vale bloccare le assunzioni se poi la ragione del ritardo non è superabile «con un'attività rimessa alle scelte di azione e di organizzazione dell'ente».
Non resta, dunque, che ammettere, conclude la Corte, che «l'obiettivo perseguito potesse essere raggiunto con un sacrificio minore o, più precisamente, con un sacrificio opportunamente graduato degli interessi costituzionalmente protetti» (articolo ItaliaOggi del 23.12.2015).

APPALTI: Sull'accertamento del diritto alla revisione del prezzo di appalto.
La decisione di effettuare la revisione prezzi e la determinazione dei parametri da osservarsi a tal fine sono espressione di una sfera di valutazione discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato innanzi al giudice amministrativo nel termine decadenziale di legge, atteso che la posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo dopo che l'Amministrazione abbia riconosciuto la sua pretesa e si verta in materia del quantum del compenso revisionale.
Nel caso di specie, concernente l'accertamento del diritto alla revisione dei prezzi per la realizzazione di interventi finalizzati al risparmio energetico di un'Azienda ospedaliera, il rapporto negoziale fra le parti -quanto al riconoscimento di compensi revisionali- recava una clausola di chiaro contenuto negativo, così che la pretesa azionata in alcun modo poteva ricondursi a un diritto soggettivo perfetto tutelabile con azione di accertamento, ove il contratto rechi un'apposita clausola che preveda il puntuale obbligo dell'Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 18.12.2015 n. 5779 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

VARIRitardi p.a., stop al sequestro. Il mancato pagamento giustifica l'omissione dell'Iva. Cassazione: no alla misura preventiva verso imprenditore creditore dell'amministrazione.
Il sequestro preventivo dei beni dell'imprenditore, basato su omessi versamenti Iva, è illegittimo se la causa di detti inadempimenti risiede nel ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione.
Spetta in ogni caso al giudice adito valutare, nel merito, la fondatezza della censura mossa dal ricorrente, che non può essere liquidata con una motivazione del tutto apparente.

Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza 17.12.2015 n. 1725 della Corte di Cassazione, Sez. III penale.
Il caso riguarda l'originaria impugnazione di un provvedimento di sequestro preventivo di beni, in relazione all'omesso versamento dell'Iva per l'anno 2011.
Il tribunale di Pescara rigettava la richiesta di riesame del provvedimento, con un ordinanza impugnata dal contribuente in Cassazione. In particolare, il ricorrente palesava che la società aveva operato nel settore delle pubbliche amministrazioni, avendo perciò sofferto dei cronici ritardi nei tempi di pagamento delle relative fatture; contestualmente, si andava accumulando una pesante situazione debitoria nei confronti dell'erario per omessi versamenti delle varie imposte.
In altre parole, la crisi di liquidità che aveva dato luogo all'inadempimento contestato non poteva considerarsi imputabile alla società, atteso che la stessa trovava la propria fonte nel ritardato pagamento di ingenti crediti vantati nei confronti della p.a..
Le argomentazioni hanno convinto la Corte di cassazione a rinviare la causa al tribunale di Pescara per una nuova decisione di merito, poiché la precedente ordinanza resa dal tribunale non aveva fornito una risposta concreta a tali, determinanti profili.
D'altronde, ricordano gli ermellini, in tema di omesso versamento di Iva è noto l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il contribuente è esente da responsabilità, per insussistenza del profilo soggettivo del reato, «laddove risulti che il soggetto obbligato al pagamento abbia adottato tutte le iniziative per corrispondere al pagamento e che la crisi di liquidità non sia allo stesso imputabile»; esimente di non imputabilità che, dunque, può ben risiedere nel ritardato adempimento delle proprie obbligazioni da parte di enti pubblici.
La stessa giurisprudenza di legittimità, si legge ancora nella sentenza in commento, «ha sottolineato la necessità che venga esaminata la sussistenza dell'elemento psicologico del reato, costituito dal dolo della condotta omissiva tipizzata, che non può che esigere quale presupposto l'esistenza concreta della possibilità di adempiere al pagamento».
Se il pagamento dell'Iva, per concludere, è reso impossibile dal mancato pagamento dei crediti vantati nei confronti della p.a. (circostanza da dimostrare adeguatamente), viene a mancare il succitato elemento psicologico del reato e risulta inibito, per converso, anche il relativo sequestro preventivo sui beni dell'imprenditore (articolo ItaliaOggi del 18.12.2015).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia e rifiuti, sanzioni multiple. Corte costituzionale. Non vale il cumulo giuridico: è nella discrezionalità del legislatore prevedere diversi regimi.
Nuovi introiti per i Comuni e sanzioni dissuasive per gli abusi edilizi: queste sono le prevedibili conseguenze della ordinanza 17.12.2015 n. 270 della Corte Costituzionale, in tema di cumulo di sanzioni amministrative.
La questione esaminata riguardava otto sanzioni per altrettanti formulari per trasporto rifiuti speciali, privi di dati sulle quantità trasportate. Se, invece di sanzioni ambientali, si fosse trattato di illeciti previdenziali o assistenziali la sanzione sarebbe stata unica, ed appunto ciò ha fatto sorgere il dubbio di legittimità costituzionale circa la legge (689 del 1981, art. 8) che allevia le sanzioni in materia previdenziale.
Le norme, secondo il giudice delle leggi, sono comunque legittime, perché rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere diversi regimi sanzionatori. Vi è quindi un regime per il cumulo di sanzioni penali (cumulo giuridico: più illeciti sono sanzionati con la pena prevista per la violazione più grave, articolo 81 Codice penale), diverso dal regime degli illeciti previdenziali (si applica la sanzione amministrativa più grave, aumentata fino al triplo: articolo 8 comma due legge 681/1989) e diverso altresì per tutte le altre sanzioni amministrative (una sanzione per ogni violazione). Con questa stessa logica, del resto, un prolungato divieto di sosta (illecito amministrativo) è sanzionato più volte.
La sentenza del 17 dicembre dissuade quindi da comportamenti reiterati, e avrà l’effetto di agevolare l’applicazione delle nuove sanzioni amministrative in materia edilizia, previste dall’articolo 31, comma 4-bis, del Dpr 380 del 2001 (Testo unico edilizia), come modificato dall’articolo 17 del Dl 133 /2014. Dal novembre del 2014, i Comuni devono irrogare una sanzione pecuniaria (compresa tra 2000 e 20.000 euro) a chi abbia realizzato interventi senza permesso di costruire e non abbia demolito l’abuso. La sanzione è dovuta indipendentemente dall’epoca dell’intervento e, se le Regioni lo decideranno con specifica legge, sarà periodicamente reiterabile.
Ciò significa che ogni anno (o anche ogni semestre) il Comune verificherà se l’ordine di demolizione dell’abuso edilizio sia stato eseguito, riscuotendo, in mancanza, la predetta sanzione amministrativa pecuniaria. In tal modo la sentenza della Corte costituzionale sul cumulo delle sanzioni per comportamenti plurimi, genererà delle rendite continuative per i Comuni, che ogni anno potranno esigere una nuova sanzione. Non conta l’epoca dell’abuso (Cassazione 49331/2015, Sole del 16 dicembre), né un passaggio di proprietà: finché l’opera abusiva non è ridotta in pristino, la sanzione pecuniaria andrà pagata
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOSe l’imprenditore rischia la chiusura scatta la concussione. Gare truccate da ufficiali. Non è induzione indebita.
Concussione e non induzione indebita per il pubblico ufficiale che chiede soldi in cambio di un appalto a un imprenditore che cede per evitare la chiusura dell’azienda.

La Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la sentenza 14.12.2015 n. 49275, sceglie la via del rigore nel punire gli ufficiali che avevano messo in piedi un sistema di gare truccate all’interno di una cittadella militare, che poteva essere “espugnata” solo con le tangenti. Uno schema collaudato basato sulla doppia busta: una contente l’offerta dell’impresa e un’altra lasciata in bianco per mettere, se necessario, una cifra più vantaggiosa rispetto a quella scritta nella prima busta.
La Suprema corte punisce per il reato più grave di concussione, la cui pena massima è di 12 anni, rispetto all’induzione indebita che ha un tetto di tre anni di reclusione.
Entrambe le figure di reato sono state ridisegnate dalla legge 190 del 2012. L’induzione indebita si contraddistingue per persuasione, suggestione inganno e pressione morale, dotati però di un minor potere nel condizionare la libertà di autodeterminazione del destinatario. In questo caso il “prescelto” per l’induzione ha dalla sua un maggior margine di manovra nel decidere se prestare il consenso alla richiesta illegittima e concludere l’”affare” con la prospettiva di ottenere un tornaconto personale, ipotesi che giustifica una sanzione a suo carico.
Diverso lo scenario della concussione in cui il gioco si fa più duro da parte del pubblico agente che, per costringere, usa la violenza e minaccia un danno illecito. In questo caso il concusso si trova a un bivio, con una libertà limitata: senza alcun vantaggio per sé deve scegliere tra subire un danno ingiusto o evitarlo con un pagamento in denaro o un’altra utilità non dovuta.
Gli imputati “rivendicavano” il diritto a essere puniti per il reato più lieve di induzione indebita. Gli imprenditori, secondo la difesa, erano di casa nella cittadella militare e si trovavano a loro agio nel muoversi fra le mura “fortificate” di un sistema in virtù del quale la gara si vinceva con la tangente grazie al trucco della doppia busta.
Secondo la ricostruzione dei ricorrenti erano gli stessi imprenditori a rivolgersi a loro per aggiudicarsi gli appalti in esclusiva, aderendo immediatamente alle richieste. Una confidenza con i pubblici ufficiali in contrasto con l’ipotesi della sopraffazione tipica del reato contestato.
La Suprema corte, consapevole di muoversi in un terreno scivoloso nel quale le azioni dei protagonisti possono essere ambigue, ricorda che i giudici devono sempre basarsi sul fatto «cogliendo da quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta».
Nel caso esaminato ha pesato il timore degli imprenditori di perdere l’azienda. La Cassazione sceglie la concussione e non l’induzione perché le persone offese erano state messe con le spalle al muro: la conseguenza inevitabile di un rifiuto era l’esclusione da qualsiasi lavoro. L’imprenditore che si ribellava sapeva di rischiare la chiusura della sua l’attività. Certo una minaccia non blanda
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2015).
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MASSIMA
3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Questa Corte ha recentemente chiarito che
nel delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater cod. pen., introdotto dalla L. n. 190 del 2012, la condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante -rispetto all'abuso costrittivo tipico del delitto di concussione di cui all'art. 317 cod. pen., come modificato dalla predetta l. n. 190- della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. 6, Sentenza n. 32594 del 14/05/2015, Rv. 264424, Nigro).
A queste conclusioni si é del resto pervenuti in applicazione di principi espressi in materia dalle Sezioni Unite di questa Corte, che hanno definitivamente puntualizzato che
sussiste continuità normativa fra la concussione per induzione di cui al previgente art. 317 cod. pen. ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all'art. 319-quater cod. pen., introdotto dalla L. n. 190 del 2012, considerato che la pur prevista punibilità, in quest'ultimo, del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell'abuso induttivo, fermo restando, per i fatti pregressi, l'applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma (Sez. U, Sentenza n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258473, Maldera).
In questa fondamentale sentenza si é anche spiegato che
il delitto di concussione, di cui all'art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno "contra ius" da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest'ultimo non si risolva in un'induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, Sentenza n. 12228 del 24/10/2013 Ud. (dep. 14/03/2014) Rv. 258470, Maldera).
In motivazione, la Corte ha altresì precisato che, nei casi ambigui, l'indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all'esito di un'approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, cogliendo di quest'ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta.
Questi principi risultano correttamente applicati nella sentenza impugnata.

VARI: Patente, reato dichiarare fischi per fiaschi ai vigili.
Chi vuole evitare di perdere punti patente fornendo generalità di persone compiacenti che non erano effettivamente alla guida deve verificare bene quello che scrive nel modulo da inviare alla polizia stradale. E soprattutto non contraddirsi o entrare in conflitto con i presta punti. Diversamente si corre il rischio concreto di incorrere nel reato di sostituzione di persona.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 11.12.2015 n. 49121.
Un conducente invitato formalmente dalla polizia locale a comunicare i dati dell'effettivo conducente in relazione ad alcune multe per eccesso di velocità ha fornito generalità di soggetti stranieri che sono poi risultati assolutamente estranei alle infrazioni stradali contestate.
Per questo motivo il temerario trasgressore è stato denunciato dai vigili e condannato per il reato di sostituzione di persona previsto e punito dall'art. 494 c.p. La Cassazione ha confermato questa severa interpretazione.
Attestare falsamente alla polizia stradale che alla guida di un veicolo immortalato dall'autovelox vi era un cittadino straniero rappresenta certamente un reato. Nell'attribuire a terzi la responsabilità dell'infrazione l'imputato ha infatti tentato di sottrarsi alla decurtazione di punti patente o alla sanzione pecuniaria alternativa.
In pratica meglio tacere e collezionare un multa ulteriore che dichiarare falsi autisti alla guida facilmente individuabili dalle forze dell'ordine (articolo ItaliaOggi Sette del 28.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti non pericolosi, ok al trasporto degli ambulanti.
L'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formavano oggetto del suo commercio. Presupposto necessario, pertanto, è che i rifiuti in oggetto non siano pericolosi.

Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 11.12.2015 n. 48952.
L'attività di trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata da soggetti abilitati allo svolgimento dell'attività in forma ambulante, non prevede l'iscrizione all'albo dei gestori dei rifiuti, con conseguente esclusione della configurabilità del reato d'illecito trasporto, purché sussistano alcune condizioni: in primo luogo, tale attività deve essere effettuata previo conseguimento del titolo abilitativo attraverso l'iscrizione alla camera di commercio e i successivi adempimenti amministrativi.
In secondo luogo, si richiede che il soggetto che la esercita tratti solo rifiuti che formano oggetto del suo commercio, con la conseguenza che deve essere oggetto di adeguata verifica il settore merceologico entro il quale il commerciante è abilitato a operare, così come la riconducibilità del rifiuto trasportato all'attività autorizzata.
In pratica, la deroga prevista dall'articolo 266, 2° comma, dlgs 152/2006 opera se ricorrono due condizioni: che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio dell'attività commerciale in forma ambulante e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Senza le condizioni indicate, l'attività condotta in mancanza delle autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni ambientali previste dallo stesso dlgs 152/2006, integra il reato di «gestione di rifiuti non autorizzata» (articolo 256, comma 1, dlgs 152/2006) purché posta in essere da soggetto titolare d'impresa (articolo ItaliaOggi del 24.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi.
L'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formavano oggetto del suo commercio; presupposto necessario, pertanto, è che i rifiuti in oggetto non siano pericolosi.
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5. Da quanto precede, infine, deriva la palese infondatezza del ricorso anche nella parte relativa alla necessità dell'iscrizione nell'albo nazionale dei gestori ambientali; questione che -come correttamente afferma la Corte, in uno con il primo Giudice- non ha ragion d'essere a fronte di rifiuti pericolosi, di certo non commercializzabili in forza dell'autorizzazione di cui il Co. è in possesso.
Ed invero, ed anche a prescindere dalla richiamata applicabilità al caso di specie della sola L. n. 210 del 2008, questa Corte ha più volte affermato -come ricorda lo stesso ricorrente- che
l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formavano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 20249 del 07/04/2009, Pizzimenti, Rv. 243627; conf. Sez. 3, n. 39774 del 02/05/2013, Calvaruso e altro, Rv. 257590); presupposto necessario, pertanto, è che i rifiuti in oggetto non siano pericolosi, a differenza di quanto accertato nel caso di specie con motivazione immune da censure anche sotto questo profilo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.12.2015 n. 48952 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATATar Lombardia. Farmacia, sì alle insegne agli incroci.
L'insegna di una farmacia assume una valenza informativa in favore dell'utenza e ciò giustifica la collocazione dell'insegna, nel punto di congiunzione di due strade, con la finalità di consentire a coloro che ignorino l'esatta collocazione della farmacia, di individuarne la sede.

È quanto sostiene il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 09.12.2015 n. 2600.
Il fatto in sintesi: una società presentava ricorso al Tar per la concessione di un'autorizzazione rilasciata dal comune ad una farmacia per l'esposizione di un'insegna verde bifacciale luminosa su palo di m 0,80 x 0,80, avente forma di croce, da posizionarsi nell'intersezione tra due vie, in adiacenza all'edificio di proprietà della ricorrente.
Secondo la difesa comunale e della società, l'insegna non avrebbe le caratteristiche di cui all'art. 47, dpr n. 495/1992, non essendo finalizzata a contraddistinguere la sede della farmacia, né collocata in prossimità della stessa, quanto invece ad una distanza di circa 100 m, avendo pertanto una finalità pubblicitaria, come peraltro dimostrato dalla presenza di un'ulteriore insegna, invece posta sulla facciata della farmacia (articolo ItaliaOggi del 17.12.2015).
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MASSIMA
II) Quanto al merito, secondo la difesa comunale e della Società Cl., l’insegna di che trattasi non avrebbe le caratteristiche di cui all’art 47 D.P.R. n. 495/1992, non essendo finalizzata a contraddistinguere la sede della farmacia, né collocata in prossimità della stessa, quanto invece ad una distanza di circa 100 m, avendo pertanto una finalità pubblicitaria, come peraltro dimostrato dalla presenza di un’ulteriore insegna, invece posta sulla facciata della Farmacia, la quale, effettivamente, sarebbe un’insegna di esercizio di cui al citato art. 47, diversamente da quella di cui al presente giudizio, come detto, invece riconducibile ad un impianto pubblicitario.
III) In via preliminare, il Collegio da atto che l’art. 51, c. 4, del Regolamento attuativo del Codice della Strada (D.P.R. 16.12.1992 n. 495) prevede che, nei centri abitati, il posizionamento di cartelli pubblicitari ed insegne debba avvenire ad almeno 30 metri dalle intersezioni, salvo che le stesse non rientrino nella nozione di “insegna di esercizio” di cui all’art. 47, c. 1, del medesimo D.P.R., la quale, a sua volta, consiste in una “scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce, o nelle pertinenza accessorie della stessa”.
La questione posta a fondamento di entrambi i giudizi, sostanzialmente, verte quindi sulla qualificazione dell’impianto di che trattasi in termini di “insegna di esercizio”, atteso che, in caso positivo, la stessa non violerebbe la vista distanza minima dall’intersezione prevista dalla norma precitata e dalla disciplina del Piano Comunale richiamato nella revoca impugnata, che sarebbe al contrario superata, ove non si ritenesse possibile seguire tale interpretazione.
IV)
Ritiene il Collegio che la lettura congiunta del citato art. 47 con la normativa dettata in materia di servizio farmaceutico imponga un’interpretazione estensiva della citata nozione di “pertinenza accessoria” del luogo in cui l’insegna viene collocata rispetto alla sede dell’attività, dovendosi pertanto ritenere che l’insegna della Farmacia sia effettivamente ricompresa in tale ambito spaziale.
Infatti, in base all’art. 9, c. 2, L.R. 03.04.2000 n. 21, “le farmacie di turno hanno l'obbligo, nelle ore serali e notturne, di tenere accesa un’insegna luminosa, della misura fino ad un metro quadrato per facciata, preferibilmente a forma di croce di colore verde che ne faciliti l'individuazione”, da cui si desume l’esistenza di un obbligo di legge di rendere visibili detti esercizi, ciò che giustifica la collocazione dell’insegna di che trattasi, come detto, nel punto di congiunzione di due strade, con la finalità di consentire a coloro che ignorino l’esatta collocazione della farmacia, di individuarne la sede.
Quanto precede evidenzia altresì l’insussistenza della natura pubblicitaria di tale insegna, che assume invece una valenza informativa in favore dell’utenza, così come dimostra l’irrilevanza, ai fini del presente giudizio, della collocazione di un’ulteriore insegna in prossimità dell’entrata della farmacia, atteso che la stessa è evidentemente visibile solo da coloro che vi transitano di fronte, e non invece dagli utenti che percorrono le vie adiacenti.
Né, in contrario, depone il precedente giurisprudenziale invocato dalla Società Cl., peraltro condiviso dal Collegio, in base al quale “
non costituisce insegna di esercizio, necessaria soltanto ai fini della normale attività aziendale, ma vero e proprio impianto pubblicitario, in grado di svolgere funzione promozionale dell'attività imprenditoriale e conseguentemente soggetto all'autorizzazione all'esposizione dei mezzi pubblicitari, il cartello che non sia collocato in prossimità dell'accesso all'impresa ma in altro luogo” (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 12.2.2008 n. 316), atteso che in tale fattispecie l'insegna, oltre a non essere soggetta alle peculiarità che connotano l’individuazione di un esercizio farmaceutico, era inoltre collocata “ad alcuni chilometri dalla sede della società pubblicizzata, trattandosi pertanto di fattispecie non comparabile a quella per cui è causa.

APPALTI: La determinazione di mancato invito ad un operatore economico a partecipare ad una gara può essere individuata anche in precedenti comportamenti negativi del medesimo operatore.
Ai sensi dell'articolo 2 del D.Lgs. 12.04.2006, n.163, l'affidamento e l'esecuzione dei servizi e forniture deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di efficacia, tempestività e correttezza.
In applicazione del citato principio generale, "sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento degli appalti di lavori, servizi e forniture e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che gestisce la gara, o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante".
Ciò premesso, se è vero che la citata norma prevede che l'esclusione venga disposta "secondo motivata valutazione della stazione appaltante", è altresì indubitabile che l'esistenza in tal senso di una valutazione discrezionale dell'amministrazione debba essere verificata avuto riguardo alla peculiarità della vicenda oggetto di causa, la quale si caratterizza per la circostanza che l'operatore non invitato era parte del pregresso rapporto contrattuale inerente lo svolgimento del medesimo servizio oggetto di nuovo affidamento.
In tale situazione, dunque, non può farsi esclusivo riferimento, ai fini dell'accertamento della concreta esistenza di una determinazione di non invito e della sua motivazione, agli atti specificamente inerenti la singola procedura concorsuale, ma occorre estendere l'indagine anche a quelli che hanno caratterizzato il rapporto contrattuale in scadenza. Sicché la determinazione di mancato invito e le sue ragioni possono essere individuate anche in atti precedenti nei quali la pubblica amministrazione abbia in anticipo chiaramente palesato la propria volontà di non affidare il servizio per il futuro a tale operatore economico.
Tale valutazione, invero, ove esistente, esprime già le ragioni della "motivata valutazione" e va a costituire, nella nuova procedura, l'atto di mancato invito ovvero ad integrare, quanto a supporto motivazionale, l'atto implicito di mancato invito che, in assenza di espressa determinazione provvedimentale, voglia individuarsi nel nuovo procedimento di affidamento del servizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2015 n. 5564 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza penale della ristrutturazione di un rudere.
Integra il reato di cui all'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 2001 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o, come nella specie, con permesso di costruire illecito o rilasciato in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come nella specie vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
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3. Si tratta di una motivazione che non si presta, sia con riferimento al primo che al secondo motivo di gravame (i quali pertanto possono essere congiuntamente esaminati), ad essere censurata per violazione di legge, avendo il tribunale cautelare fatto buon uso dei principi più volte affermati da questa Corte secondo i quali
integra il reato di cui all'art. 44, lett. c), d.p.r. n. 380 2001 la ricostruzione di un "rudere" senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o, come nella specie, con permesso di costruire illecito o rilasciato in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come nella specie vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa, l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552).
Anche il riferimento al mancato completamento del manufatto abusivo, per indicare la presenza del periculum in mora, è in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui
l'esigenza di impedire la prosecuzione dei lavori di edificazione di un immobile abusivo ancora in corso è, di per sé, condizione sufficiente per disporne e mantenerne il sequestro preventivo, indipendentemente dalla natura ed entità degli interventi da eseguire per ultimarlo (ex multis, Sez. 3, n. 38216 del 28/09/2011, P.M. in proc. Mastrantonio, Rv. 251302) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48232 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trasformazione di un balcone o di una terrazza in veranda.
La trasformazione di un balcone o di una terrazza, anche di modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001.
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3. Ciò precisato, le prime due doglianze -che, essendo tra loro connesse, possono essere esaminate congiuntamente- sono infondate.
La Corte palermitana si è infatti attenuta, nello scrutinio del caso di specie, al principio più volte affermato da questa Corte secondo il quale
la trasformazione di un balcone o di una terrazza, anche di modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 15/01/2014, Summa, Rv. 258295; Sez. 3, n. 3160 del 28/11/2002, dep. 23/01/2003, Macaluso, Rv. 223295; Sez. 3, n. 45588 del 28/10/2004, P.M. in proc. D'Aurelio, Rv. 230419; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda, Rv. 237532; Sez. 3, n. 3879 del 13/01/2000, Spaventi, Rv. 216221).
Pertanto
la trasformazione, come nella specie, di un terrazzino in veranda, mediante collocazione di una struttura in alluminio, vetri e copertura in materiale coibentato, con conseguente creazione di un ambiente diviso in due da una tramezzatura in cartongesso e contiguo ad un appartamento già esistente con rimozione degli infissi dalla loro originaria collocazione, non ha natura precaria né costituisce, come hanno correttamente ritenuto i giudici del merito, intervento di manutenzione straordinaria o di restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire (o, nella regione Sicilia, a concessione edilizia).
Va ricordato che, nel caso in esame, non si era in presenza della mera chiusura di un balcone bensì dello sfruttamento, a fini abitativi, di una parte consistente del terrazzo dell'ultimo piano dell'immobile e, dunque, della costituzione di una vera e propria nuova opera dotata anche di una copertura autonoma che aveva modificato la originaria copertura dell'intero edificio, come attestato dalle fotografie allegate al verbale di sopralluogo che documentavano come la realizzazione della "
veranda" non fosse stata eseguita mediante la chiusura del balcone in quanto, per realizzare il manufatto, era stato necessario modificare anche il tetto del fabbricato ed inoltre le opere avevano prodotto un aumento della superficie abitabile dell'appartamento dell'imputato, il cui aumento volumetrico, seppure inferiore al 20% del volume dell'edificio principale, non rileva, in presenza di un'opera comunque qualificabile come nuova costruzione, ai fini dell'esonero dall'obbligo di richiedere il titolo abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48221 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione ai lavori eseguiti su manufatti originariamente abusivi che non siano stati sanati, né condonati (ed anche se illegittimamente sanati o condonati), sono configurabili le fattispecie di illecito previste dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nello loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente.
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Nondimeno i primi due motivi di gravame non hanno alcun fondamento e tanto anche sotto altro e concorrente profilo.
Se anche, come sostiene il ricorrente attraverso uno dei profili della doglianza, egli ha eseguito lavori in relazione ad una preesistente veranda, anch'essa abusiva, l'illecito edilizio deve comunque ritenersi ampiamente sussistente, avendo questa Corte reiteratamente affermato il principio secondo il quale,
in relazione ai lavori eseguiti su manufatti originariamente abusivi che non siano stati sanati, né condonati (ed anche se illegittimamente sanati o condonati), sono configurabili le fattispecie di illecito previste dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in quanto gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nello loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano, Rv. 234472; Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2008, dep. 19/01/2009, P.M. in proc. Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014, Stewart ed altro Rv. 259665; Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014 Rossignoli ed altri, Rv. 261330) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48221 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVIContributo unificato una volta. Se i nuovi ricorsi non ampliano l'oggetto del giudizio. Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha accolto la domanda di esenzione.
Nel caso di ricorso per motivi aggiunti che non amplia l'oggetto del giudizio vi è esenzione dal pagamento del contributo unificato.

Questo è quanto ha sancito il TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, con la sentenza 03.12.2015 n. 2840.
Nel caso in esame, in una controversia avente a oggetto una procedura aperta per l'aggiudicazione del «Servizio di gestione asili nido e micro nido» nel comune di Siracusa, il ricorrente aveva richiesto di non pagare il contributo unificato per il ricorso per motivi aggiunti, alla luce della decisione della Corte di giustizia dell'Unione europea, V, 06.10.2015 in C-61/14.
Tale sentenza, infatti, dopo aver affermato come la legge italiana, nel prevedere contributi multipli in caso di ricorsi contro la medesima aggiudicazione, non contrasti col diritto comunitario, evidenzia come spetti al giudice nazionale accertare se gli oggetti dei ricorsi «non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell'oggetto della controversia già pendente», e, nel caso, di «dispensare l'amministrato dall'obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi».
Il giudice europeo, quindi, con questa pronuncia non si è limitato a salvare la normativa di diritto interno sottoposta al proprio esame, ma ha anche demandato, con un considerevole ampliamento dei poteri decisori, al giudice amministrativo la gestione del «rimedio» di giustizia, nell'esercizio della propria giurisdizione esclusiva a norma del numero 1) della lettera e) dell'art. 133 c.p.a., «se accerta che tali oggetti (ovvero: quello del ricorso principale e del ricorso per motivi aggiunti e/o del ricorso incidentale successivamente presentato e/o presentati) non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell'oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l'amministrato dall'obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi».
Alla luce di queste considerazioni, i giudici amministrativi catanesi accolgono la domanda di esenzione: dopo aver rilevato che nel caso in esame i motivi aggiunti non hanno ampliato l'oggetto della controversia, ma si sono limitati a ribadire le medesime censure riferite, per altro per illegittimità derivata, all'intervenuta aggiudicazione definitiva, ritengono applicabile il principio recentemente affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).
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MASSIMA
Va, infine, esaminata l’ultima questione posta da parte ricorrente in ordine alla richiesta di esenzione del contributo unificato per il ricorso per motivi aggiunti, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, V, 06.10.2015 in C-61/14, che ha affermato che la legge italiana che prevede contributi multipli in caso di ricorsi avverso la medesima aggiudicazione non contrasta col diritto comunitario, ma anche che spetta al giudice nazionale accertare se gli oggetti dei ricorsi “non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente”, e, nel caso, di “dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi”.
Come premesso, nel caso in esame, il ricorso per motivi aggiunti non amplia l’oggetto della controversia, limitandosi a ribadire le medesime censure riferite, per altro per illegittimità derivata, all’intervenuta aggiudicazione definitiva.
Consegue l’accoglimento della domanda.

ESPROPRIAZIONEEsproprio con permuta limitato. Strumento applicabile solo per interventi di riabilitazione urbana.
Tar Puglia. Bocciato lo scambio forzoso di un terreno nel caso di un Consorzio che voleva inglobare un’area.

Più difficile imporre permute di terreni per attuare progetti di interesse generale: lo sottolinea il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con sentenza 03.12.2015 n. 1590, relativa al caso di un Consorzio che aveva necessità di inglobare una piccola area.
Il proprietario di un lotto (208 metri quadrati), era stato espropriato ricevendo come indennizzo un’area, in permuta, di 733 metri quadrati. Ciò perché il Comune, superando il meccanismo normale di indennizzo in moneta (articolo 36 Testo unico 327/2001, pagamento del valore venale), aveva applicato una norma speciale che consente permute di immobili.
L’ente locale, infatti, su richiesta di altri proprietari consorziati che intendevano realizzare un ampio piano urbanistico, aveva applicato l’articolo 27 della legge 166 del 2001, che consente alla maggioranza assoluta (catastalmente determinata) dei proprietari, di espropriare le aree dei consorziati in disaccordo, ricorrendo a permute per gli indennizzi.
La decisione del Tribunale
Su ricorso dell’espropriato, il Tar ha adottato un’interpretazione restrittiva della norma sulle permute, ritenendola applicabile solo nel caso dei piani di «riabilitazione urbana». Secondo i giudici, solo quando si tende alla riqualificazione di immobili ed attrezzature, al miglioramento dell’accessibilità e mobilità urbana, riordinando reti di trasporto e infrastrutture (Legge 166/2001) è possibile imporre le permute, mentre negli altri casi chi perde l’area ha diritto a un corrispettivo in denaro.
Nel caso esaminato in Puglia, si discuteva di un piano di lottizzazione e quindi si era al di fuori del regime della legge 166 sulla riabilitazione urbana. Esclusa la permuta, rimangono, tuttavia, strade diverse dal pagamento in danaro: ad esempio è possibile stipulare un accordo a norma della legge 241/1990, modificando destinazioni e volumetrie (articolo 5 Dpr 447/1998, per le iniziative produttive), oppure fruire di meccanismi di densificazione urbana (articolo 17, comma 4-bis, Testo unico Edilizia, introdotto dal decreto legge 133/2014) o contributi al Comune in cambio del maggior valore dovuto a varianti.
La perequazione
In sede di pianificazione generale, può operare poi il principio della perequazione, modificando gli indici di edificabilità per trovare spazio e risorse economiche utili all’esecuzione di interventi pubblici (Consiglio di Stato 4545/2010, sul Piano regolatore generale di Roma).
Prende piede quindi una “moneta parallela” per gli scambi in materia urbanistica, con accordi agevolati da una sorta di “proibizionismo” iniziato nel 2011, quando il legislatore ha fortemente scoraggiato gli acquisti immobiliari delle pubbliche amministrazioni (articolo 12, comma 1-quater, decreto legge 98/2011).
Permute consensuali
Se gli acquisti sono possibili solo in caso di “assoluta convenienza” (codificati nel decreto ministeriale 14.02.2014), è la stessa Corte dei conti (Sezione Toscana, delibera 125/2013; Liguria, delibera 9/2013) a suggerire il ricorso a figure parallele di scambio, comprese le permute. Figure, queste ultime, che il Tar Bari vuole sempre, tuttavia, consensuali, senza quindi la possibilità di imporre d’autorità uno scambio di beni.
    (articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2015).

TRIBUTITassa rifiuti, tariffe da motivare. Vanno indicati costi di esercizio precedente, stime, gettito. Il Tar Emilia-Romagna in deroga al principio di esclusione per delibere e regolamenti.
La delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio dell'anno precedente, le stime dell'anno di competenza, il gettito della tassa e le ragioni dell'eventuale aumento dei costi e delle tariffe. Vanno quindi esplicitate con chiarezza tutte le risultanze istruttorie e le ragioni delle decisioni dell'ente.
Si tratta di una deroga al principio generale che esclude la motivazione per tutti gli atti a contenuto generale, vale a dire delibere e regolamenti. Inoltre, non è possibile applicare agli alberghi tariffe notevolmente più elevate rispetto alle civili abitazioni, senza distinguere se al loro interno hanno o meno anche l'attività di ristorazione.

Lo ha affermato il TAR Emilia Romagna-Bologna - Sez. II, con la sentenza 02.12.2015 n. 1056.
Per il Tar, nella delibera con la quale si determinano le tariffe relative alla tassa rifiuti, il comune «deve esplicitare con chiarezza tutte le risultanze istruttorie, fornendo motivazione dettagliata delle ragioni delle proprie decisioni».
Devono essere indicati, dunque, il costo di esercizio dell'anno precedente e il relativo gettito, nonché il costo preventivato per l'anno di competenza e il quantum dell'aumento degli oneri per la raccolta e lo smaltimento rifiuti svolto dal gestore del servizio.
Secondo il giudice amministrativo, le regole sulle delibere Tarsu rappresentano un'eccezione rispetto al principio che esclude dall'obbligo di motivazione tutti gli atti a contenuto generale. Sulla questione, però, la Cassazione ha preso una posizione diversa. In effetti, i giudici di legittimità (sentenza 22804/2006) hanno escluso questo adempimento per gli atti generali, come previsto dall'articolo 3 della legge 241/1990.
Mentre sulla necessità di motivare le delibere tariffarie non c'è un'uniformità di vedute neppure nella giurisprudenza amministrativa. Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce (II), con la sentenza 1238/2013, ha stabilito che il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu.
L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire i costi del servizio. Il Consiglio di stato (sentenza 5616/2010), invece, ha sostenuto che il comune deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu. E non può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio.
Anche con la sentenza 504/2015 ha ribadito che l'amministrazione comunale deve indicare nella delibera le ragioni che hanno comportato l'aumento delle tariffe della tassa rifiuti, con l'obbiettivo di coprire integralmente i costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività produttive. Quindi, può prevedere tariffe più elevate per le utenze non domestiche.
Tariffe alberghi. A proposito di utenze non domestiche non trova pace la questione relativa alla tassazione delle attività alberghiere. Con la pronuncia in esame, il giudice amministrativo ha sostenuto che il comune di Riccione avrebbe dovuto indicare nella delibera, «sulla base di dati statistici rilevati a seguito di studi specifici e oggettivamente riscontrabili», i motivi per cui ha ritenuto di applicare agli esercizi alberghieri una tariffa maggiore rispetto a quella applicata alle abitazioni civili.
Sebbene, in linea di principio, appare giustificato un regime di tassazione più elevato per gli alberghi con servizio di ristorazione, poiché un'attività di questo tipo può determinare una «produzione quantitativamente e qualitativamente significativa di rifiuti, non appare corretto laddove non prevede alcuna distinzione, nell'ambito degli alberghi, fra le aree destinate esclusivamente a camere e quelle destinate alla ristorazione».
In realtà, però, la Corte di cassazione (sentenza 12769/2015) anche di recente ha ribadito che le amministrazioni locali hanno il potere di fissare tariffe più elevate per gli alberghi rispetto a quelle delle abitazioni. E non ha mai operato una distinzione tra alberghi con o senza ristorazione. A giudizio della Cassazione (sentenza 302/2010) la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto a una civile abitazione costituisce un dato di comune esperienza.
In effetti, l'articolo 68 del decreto legislativo 507/1993 non imponeva ai comuni di inserire gli immobili adibiti ad attività alberghiere nella stessa categoria di quelli utilizzati come abitazioni, poiché non manifestano la stessa potenzialità di produzione di rifiuti. Del resto, non sono inseriti nella stessa categoria neppure per la Tari. Così come gli enti non sono tenuti a concedere riduzioni tariffarie per le attività alberghiere e di ristorazione se sono stagionali.
Del resto, eventuali benefici fiscali devono essere espressamente previsti da una norma di legge che disciplini la tassa rifiuti o da una norma regolamentare. I comuni erano tenuti a emanare per la Tarsu un regolamento che doveva contenere non solo la classificazione delle categorie ed eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso. Nel regolamento vanno individuate le fattispecie agevolative, con le relative condizioni, le modalità di richiesta e le eventuali cause di decadenza.
Sono invece totalmente esclusi dal prelievo i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno. Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti per la natura delle loro superfici rientrano quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

VARI: Mediatore pagato da ciascuna delle parti.
Il mediatore avrà diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, nel caso in cui l'affare si concluda per effetto del suo intervento e per «conclusione dell'affare» dovrà intendersi il compimento di un'operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti, di un atto cioè in virtù del quale sia costituito un vincolo che dia diritto di agire per l'adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno.

È quanto affermato dai giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 30.11.2015 n. 24399.
I giudici di piazza Cavour nella sentenza in commento hanno altresì evidenziato come anche la stipulazione di un contratto preliminare sarà sufficiente a far sorgere tale diritto, «sempre che si tratti di contratto definitivo o preliminare validamente concluso e rivestito dei prescritti requisiti e quindi di forma scritta ove richiesta ad substantiam (art. 1350 e 1351 cc.)».
Nel caso, poi, in cui il contratto concluso per effetto dell'intervento del mediatore sia sottoposto a condizione dovrà trovare applicazione la disciplina di cui all'art. 1757, comma 1 e 2 cc, rispettivamente a seconda che tale condizione sia sospensiva (nella quale ipotesi il diritto alla provvigione sorge nel momento in cui si verifica la condizione) o risolutiva (nel qual caso il diritto alla provvigione non viene meno col verificarsi della condizione). Sarà, pertanto, opportuno da un lato accertare l'esistenza di un contratto preliminare tra le parti stipulato con l'ausilio del mediatore, dall'altro, qualificare come condizione risolutiva una determinata clausola del contratto preliminare.
Il thema decidendum sul quale gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi aveva ad oggetto una società immobiliare, che con citazione interponeva appello avverso la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannata essa appellante al pagamento in favore di Tizio di una determinata somma di denaro a titolo di restituzione del compenso corrisposto per l'intermediazione immobiliare in relazione all'acquisto di un appartamento che non si era perfezionato per la mancanza concessione del mutuo cui la stipula del contratto definitivo era stata condizionata (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl magazzino non può usare la canna fumaria. Impianti. Per la Cassazione occorre il legame di accessorietà dell’unità immobiliare.
Il ripristino dell’impianto di riscaldamento centralizzato non può essere rivendicato dalle unità immobiliari che per loro conformazione non sono servite da tale impianto.
La Corte di Cassazione, con sentenza 27.11.2015 n. 24296, ha affermato che il proprietario di un magazzino non servito dall’impianto di riscaldamento centralizzato, per ragioni di conformazione dell’edificio, non può legittimamente vantare un diritto di condominio sull’impianto medesimo, perché questo non è legato all’unità immobiliare da una relazione di accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio), ossia da un collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all’uso o al servizio della medesima.
In sostanza, un condòmino agiva in giudizio chiedendo che fosse dichiarata la nullità della delibera con la quale l’assemblea condominiale aveva disposto la demolizione della parte finale della canna fumaria e la sua chiusura, con ciò pregiudicando il suo diritto all’utilizzo di tale impianto. In realtà, il condòmino la usava dal 1993 come canna fumaria del camino posto in un locale al piano terra di sua proprietà. Ma quella canna era stata abbandonata sin dal 1985, per effetto della trasformazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato in autonomo. Il condominio aveva poi deciso la demolizione a causa del pericolo di crollo.
La Corte di cassazione, confermando la decisione del giudice distrettuale, ha evidenziato che il collegamento è stato operato tra la canna fumaria e il camino posto nel locale magazzino al piano terra di proprietà del ricorrente, sicché è irrilevante che all’interno dello stabile la parte istante fosse proprietaria di un’altra unità immobiliare.
Infatti, la relazione di accessorietà, che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio, va considerata su base reale, in relazione a ciascun piano o porzione di piano in proprietà esclusiva, senza che a tal fine abbia rilievo il vincolo pertinenziale creato dal singolo condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva proprietà all’interno dello stesso edificio condominiale. Il presupposto per l’attribuzione della proprietà comune in favore di tutti i compartecipi viene meno se le cose, gli impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell’edificio.
Rispetto all’impianto di riscaldamento centralizzato, il proprietario del magazzino non può dunque rivendicare la natura condominiale del bene
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.12.2015).
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MASSIMA
Va in primo luogo osservato che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, non ha rilievo la titolarità, in capo al Do., anche di un appartamento (al quinto piano) nell'ambito dello stesso fabbricato condominiale, perché nella specie la controversia attiene all'utilizzo della canna fumaria per il tramite del collegamento operato con il camino posto nel locale magazzino al piano terra di proprietà del medesimo Do..
E la relazione di accessorietà, che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio, va considerata, su base reale, in relazione a ciascun piano o porzione di piano in proprietà esclusiva, senza che a tal fine abbia rilievo il vincolo pertinenziale creato dal singolo condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva proprietà all'interno dello stesso edificio condominiale.
Occorre prendere le mosse dagli accertamenti compiuti dalla Corte d'appello:
(a) il locale magazzino di cui il ricorrente è proprietario e a tutela del quale ha agito per vedersi riconosciuto il diritto all'utilizzo della canna fumaria non era servito dall'impianto termico centralizzato quando questo era in esercizio;
(b) il Do. ha realizzato all'interno del locale un caminetto che ha provveduto a collegare alla canna fumaria.
Ritiene il Collegio, in conformità della propria giurisprudenza (Cass., Sez. II, 07.06.2000, n. 7730), che
il proprietario dell'unità immobiliare (nella specie, magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio, non sia servita dall'impianto di riscaldamento centralizzato, non può legittimamente vantare un diritto di condominio sull'impianto medesimo, perché questo non è legato alla detta unità immobiliari da una relazione di accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio), e cioè da un collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all'uso o al servizio della medesima.
Il presupposto per l'attribuzione della proprietà comune in favore  di tutti i compartecipi viene meno, difatti, se le cose, gli impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l'esistenza o per l'uso (ovvero siano destinati all'uso o al servizio) di alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell'edificio.
Correttamente, pertanto, la Corte d'appello ha escluso che l'utilizzazione della canna fumaria, per lo scarico dei fumi dal camino realizzato nel magazzino a piano terra, rientrasse in un'ipotesi di uso frazionato della cosa comune, non essendo l'impianto termico e la canna fumaria, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, a servizio di quel locale. Cade anche la premessa della censura di violazione degli artt. 1120 e 1136 cod. civ., prospettata sul presupposto di una condominialità rispetto a quel bene che invece non sussiste.

PUBBLICO IMPIEGO: No alla sottoposizione a dirigenti amministrativi.
È illegittimo il regolamento di un comune che subordina l'Avvocatura civica a un dirigente amministrativo peraltro non iscritto alla sezione speciale dell'albo degli avvocati.

Lo ha sancito il TAR Veneto, Sez. II con la sentenza 27.11.2015 n. 1274.
Il comune di Vicenza aveva modificato il regolamento dell'ordinamento degli uffici e dei servizi collocando l'Avvocatura civica all'interno degli uffici di staff del sindaco, sottoponendolo alla direzione del dirigente amministrativo del «settore risorse umane, segreteria generale e organizzazione».
Tale deliberazione era stata impugnata dall'avvocato dell'ente che, in qualità di funzionario inquadrato con la qualifica D3/D6 «Avvocato», prestava la propria attività professionale come responsabile dell'Avvocatura civica, lamentando il mancato riconoscimento di autonomia.
Il Tar Veneto accoglie il ricorso. Le avvocature degli enti pubblici, infatti, devono essere costituite in un apposito ufficio dotato di adeguata stabilità ed autonomia organizzativa, nonché distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa al quale devono essere preposti avvocati addetti in via esclusiva alle cause e agli affari legali con esclusione dello svolgimento di «attività di gestione».
Secondo i giudici amministrativi tali regole «costituiscono l'applicazione ai professionisti legali degli enti pubblici, che sono soggetti agli obblighi deontologici e alla vigilanza degli ordini forensi di appartenenza, dei principi che caratterizzano la professione legale, la quale deve essere svolta senza condizionamenti che potrebbero comprometterne l'indipendenza».
Non può che essere ritenuta illegittima, quindi, una delibera comunale nel caso in cui risulti che l'Avvocatura civica è struttura subordinata ad un dirigente amministrativo, peraltro non iscritto alla sezione speciale dell'albo degli avvocati (articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015).
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MASSIMA
Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto per le assorbenti censure di violazione dell’art. 23 della legge 31.12.2012, n. 247, contenute nel primo dei motivi aggiunti.
Il Comune sostiene che l’assetto organizzativo nel quale ha inserito l’Avvocatura civica rientra nell’ambito della sua discrezionalità, perché gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici devono godere di specifiche garanzie di autonomia ed indipendenza per la parte tecnica di loro competenza, ma possono essere funzionalmente dipendenti da settori amministrativi, e sostiene altresì che i molteplici atti, quali gli ordini di missione, le comunicazioni di servizio, la corrispondenza intercorsa tra altre strutture dell’Ente e il direttore delle ricorse umane per questioni legali pertinenti all’attività propria dell’Avvocatura civica depositati in giudizio dalla ricorrente, non denotano la mancanza di autonomia dell’Avvocatura, e possono tutt’al più rappresentare degli atti di microganizzazione eventualmente censurabili unicamente avanti al giudice del lavoro.
Le tesi del Comune non sono condivisibili e non tengono conto delle più recenti modifiche apportate in materia dall’art. 23 della legge 31.12.2012, n. 247.
In realtà
già in base all’art. 3 R.D.L. 27.11.1933 n. 1578, erano stati enucleati dalla giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense, competente ad esprimersi avverso le decisioni dei Consigli dell’Ordine e, in grado definitivo, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, una serie di principi secondo i quali le avvocature degli enti pubblici devono essere costituite in un apposito ufficio dotato di adeguata stabilità ed autonomia organizzativa nonché distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa al quale devono essere preposti avvocati addetti in via esclusiva alle cause e agli affari legali con esclusione dello svolgimento di “attività di gestione (cfr. Cassazione civile, Sez. Un. 18.04.2002 n. 5559; id. 25.11.2008, n. 28049; id. 19.10.1998 n. 10367; id. 19.10.1998, n. 10367; Cass. Sez. Un. 10.05.1993 n. 5331).
Tali regole costituiscono l’applicazione ai professionisti legali degli enti pubblici, che sono soggetti agli obblighi deontologici e alla vigilanza degli ordini forensi di appartenenza, dei principi che caratterizzano la professione legale che deve essere svolta senza condizionamenti che potrebbero comprometterne l’indipendenza.
L’art. 23 della legge 31.12.2012, n. 247, nel dettare la nuova disciplina dell’ordinamento forense, ha chiarito e meglio delineato i requisiti di tale autonomia precisando che deve essere garantita anche sul piano organizzativo.
Ha infatti previsto che
agli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici deve essere assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, e che la responsabilità dell'ufficio deve essere affidata “ad un avvocato iscritto nell'elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i principi della legge professionale”.
Nel caso di specie poiché l’Avvocatura civica non è stata organizzata come una struttura autonoma ma come una struttura subordinata ad un dirigente amministrativo peraltro non iscritto alla sezione speciale dell’albo degli avvocati, tali requisiti non sono rispettati, e viene meno quella netta separazione dall’apparato amministrativo richiesta dalla normativa sopra richiamata (ex pluribus cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 16.02.2015 n. 486; Tar Basilicata, Sez. I, 08.07.2013, n. 405; Tar Sardegna, Sez. II, 14.01.2008 n. 7).
Peraltro la quantità e la tipologia di atti depositati in giudizio dalla ricorrente (ordini di missione, comunicazioni di servizio, corrispondenza intercorsa tra altre strutture dell’Ente e il dirigente amministrativo per questioni legali pertinenti all’attività propria dell’Avvocatura civica: cfr. docc. da 3 a 11 allegati al ricorso), e il parere predisposto dal Segretario generale e dal direttore del settore risorse umane per la redazione della deliberazione impugnata con il ricorso introduttivo (cfr. doc. 2 allegato alle difese del Comune di Vicenza nel quale si afferma che l’Avvocato deve riferire ad un dirigente per quanto riguarda l’assegnazione degli affari, che spetta al dirigente amministrativo la scelta di un avvocato esterno e la liquidazione di diritti, e che l’Avvocato deve sottostare alle indicazioni strategiche del dirigente sulla gestione della lite), sono chiaramente sintomatici dell’esistenza di sistematiche interferenze nell’attività svolta dall’Avvocatura civica e dell’inidoneità dell’assetto organizzativo previsto dalla deliberazione impugnata ad assicurare la necessaria autonomia e distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa.
In definitiva deve essere dichiarata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso introduttivo, mentre devono essere accolte le censure, che hanno carattere assorbente, di cui al primo dei motivi aggiunti, con conseguente annullamento, nei limiti di interesse della ricorrente, della deliberazione di Giunta comunale n. 132 del 04.07.2014.
Tenuto conto della non univocità degli orientamenti giurisprudenziali riferiti alla normativa antecedente alla legge 31.12.2012, n. 247, le spese di giudizio possono essere integralmente compensate.

PUBBLICO IMPIEGO: Anche nel pubblico la reintegra è un’eccezione. Licenziamenti. Dopo la Cassazione.
La sentenza 25.11.2015 n. 24157 della Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha riportato al centro del dibattito politico la questione relativa all’applicabilità nei confronti dei dipendenti pubblici delle due riforme (legge Fornero del 2012 e Jobs act del 2015) che hanno ristretto in maniera significativa l’applicazione della reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Il dibattito sull’opportunità politica si intreccia con una questione tecnica importante, anzi decisiva, ma ancora irrisolta: le norme della legge Fornero e delle tutele crescenti oggi si applicano oppure no ai dipendenti pubblici?
La sentenza della Cassazione (si veda «Il Sole 24 Ore» del 1° dicembre) dà una risposta diretta alla domanda solo per quanto riguarda la legge Fornero, ma mette in campo un ragionamento che, se fosse applicato alle tutele crescenti, porterebbe, molto probabilmente, a confermarne l’applicabilità anche ai lavoratori pubblici.
La Suprema corte, infatti, chiamata a valutare l’estensione ai dipendenti pubblici della riforma dell’articolo 18 approvata nel 2012, ha evidenziato che non esiste, nella legge Fornero, una norma che consente di escludere l’applicabilità del principio, contenuto nell’articolo 51 del testo unico sul pubblico impiego, che assoggetta lavoratori pubblici e privati allo stesso regime sanzionatorio in materia di licenziamenti.
La sentenza, invece, non si occupa delle tutele crescenti. Si potrebbe, quindi, sostenere che il Dlgs 23/2015, non abrogando formalmente il vecchio articolo 18 (che tuttavia viene abbandonato di fatto, per i nuovi assunti), non avrebbe cambiato il regime sanzionatorio applicabile ai dipendenti pubblici, che sarebbero quindi soggetti alla legge Fornero (come ha deciso la Cassazione) ma non all’ultima riforma.
Sarebbe una lettura difficilmente compatibile con il ragionamento contenuto nella sentenza 24157/2015, in quanto mancherebbe sempre un pezzo importante: non c’è traccia, nel Jobs act, di una norma che limita (per i nuovi assunti) al solo settore privato l’applicazione delle tutele crescenti.
Ma anche volendo escludere l’applicabilità del Jobs act per i nuovi assunti, non si può fare a meno di prendere atto che il principio affermato dalla Cassazione introduce una rivoluzione copernicana anche nel lavoro pubblico, dove entra a pieno titolo il sistema della legge Fornero, incentrato sulla tutela indennitaria (e non sulla reintegrazione).
La politica può e deve continuare a discutere se sia opportuno oppure no applicare regimi diversi in tema di licenziamento tra il settore pubblico e quello privato: ma la scelta deve essere fatta tramite norme chiare e trasparenti.
In questo senso, le dichiarazioni dei giorni scorsi del ministro Madia sono un segnale importante: dopo aver negato per mesi l’esistenza del problema, il ministro ha annunciato che ci sarà un chiarimento interpretativo nella riforma del lavoro pubblico in corso di completamento.
Sarebbe un passaggio importante: una scelta politica così rilevante non può essere consegnata alle aule giudiziarie ma deve essere formalizzata in regole chiare, a prova di contenzioso
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Articolo 18 e Pa, Madia annuncia un intervento.
Dopo la sentenza della Cassazione. La ministra: la riforma non si applica automaticamente agli statali. Ma il sottosegretario all’Economia Zanetti: errore tecnico e politico sostenere ancora l’inapplicabilità.
«Per il pubblico impiego la riforma dell’articolo 18 non vale, perché c’è una differenza sostanziale rispetto al privato, rappresentata dal tipo di datore di lavoro: il datore privato ragiona con risorse sue, quello pubblico ragiona con risorse della collettività. Nel Testo unico sul pubblico impiego chiariremo anche questo aspetto in modo esplicito».
Il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia interviene direttamente nel dibattito riaperto dalla Corte di Cassazione - Sez. lavoro, che nella sentenza 25.11.2015 n. 24157
(su cui si veda Il Sole-24 Ore di ieri) si è pronunciata per l’estensione automatica dell’articolo 18 agli uffici pubblici perché prevista dal testo unico attuale (articolo 51 del Dlgs 165/2011).
E la discussione ritorna negli stessi termini che l’aveva animata anche all’interno del Governo ai tempi dei decreti attuativi del Jobs Act quando, come ricorda il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, «qualcuno tentò di inserire un comma per escludere esplicitamente dalle nuove regole i dipendenti pubblici, ma il comma fu tolto. In questo quadro, chi sostiene ancora l’inapplicabilità della riforma commette un grave errore tecnico, e secondo noi anche un errore politico perché il Jobs Act serve proprio a cancellare la vecchia separazione fra chi era tutelato troppo e chi lo era troppo poco».
Simile è l’impostazione seguita da Pietro Ichino, il giuslavorista e senatore del Pd che sul tema propone da tempo l’abbattimento dei confini fra pubblico e privato: «Le riforme dell’articolo 18 -spiega- si applicano anche al pubblico impiego perché una norma speciale di esclusione non c’è. Certo, il governo può sempre ripensarci, anche se non se ne vede la ragione dal momento che le tutele crescenti sarebbero la soluzione ideale per la stabilizzazione dei molti precari che hanno maturato anni di servizio nelle Pa. In ogni caso non può farlo nei decreti attuativi della riforma della Pa, perché la delega non ha una riga sulla disciplina del recesso. Quello che va fatto, e che la delega consente, è definire le opportune procedure interne del licenziamento disciplinare e di quello per motivo oggettivo, che ne assicurino la dovuta ponderazione imparziale, ma al tempo stesso lo rendano effettivamente praticabile».
Anche di questo aspetto parla la Cassazione che, in linea con la Corte d’appello di Palermo, ha ritenuto nullo il licenziamento perché tutta la procedura è stata portata avanti da un solo componente dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, che è invece un organo collegiale.
Per i giudici di legittimità, in pratica, l’applicazione delle riforme dell’articolo 18 (la sentenza discute della prima riforma, quella introdotta con la legge Fornero del 2012, perché riguarda un licenziamento di tre anni fa) «è innegabile» per «l’inequivocabile tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001», cioè del Testo unico del pubblico impiego in base al quale lo Statuto dei lavoratori con le «successive modifiche e integrazioni si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Ma questa estensione, che per la Cassazione avviene «a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione», cioè senza che lo debba prevedere una regola esplicita, deve ovviamente fare i conti con le regole del procedimento disciplinare, la cui violazione può cancellare il licenziamento a prescindere dall’articolo 18.
Proprio su questo punto chiedono di intervenire gli stessi fautori della “riforma per tutti”. «Bisogna prendere atto della sentenza -sostiene Zanetti- smettendo di cercare di difendere l’indifendibile, e introdurre le norme procedurali necessarie per dare operatività concreta al principio con regole che garantiscano un ufficio disciplinare davvero terzo rispetto al dirigente che chiede il licenziamento e al dipendente che lo subisce»
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGONuovo articolo 18 anche nella Pa. La Cassazione: applicabile il rito Fornero - Spazio per estendere le tutele crescenti.
Lavoro. I giudici di legittimità riaprono il confronto sull’estensione alla pubblica amministrazione delle regole sui licenziamenti.
Le riforme dell’articolo 18 si applicano in automatico anche al pubblico impiego “contrattualizzato”, cioè a tutti i dipendenti statali e locali tranne professori, magistrati e militari, perché il parallelismo con il lavoro privato è previsto in modo esplicito dal Testo unico del pubblico impiego.
A fissare il principio in via ufficiale è la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, nella sentenza 25.11.2015 n. 24157, intervenendo così su un tema da tempo al centro di un dibattito che ha scaldato politici e giuristi, e orientato (soprattutto fra i primi) nella sua maggioranza per il mantenimento del vecchio articolo 18 negli uffici pubblici.
I giudici si occupano del licenziamento in cui è incappato il dirigente di un consorzio siciliano nell’agosto del 2012 (licenziamento che peraltro la Cassazione giudica illegittimo, d’accordo con la Corte d’appello di Palermo, ma per ragioni procedurali), e quindi si riferiscono alle novità intervenute quell’anno con la riforma Fornero, che nel licenziamento economico («per giustificato motivo oggettivo») aveva in pratica limitato il reintegro ai casi in cui i giudici avessero individuato la «manifesta insussistenza» delle ragioni alla base dello stop al rapporto di lavoro.
Nel frattempo, però, sono arrivati anche il Jobs Act e i suoi decreti attuativi, che hanno introdotto il sistema delle «tutele crescenti» per gli assunti a tempo indeterminato dal 07.03.2014, e la questione è analoga.
Per capire portata e conseguenze della sentenza della Cassazione occorre dare uno sguardo al contesto in cui è maturata. Tutto nasce da un consorzio pubblico siciliano, che nell’agosto del 2012 ha licenziato un proprio dirigente; il licenziamento è caduto in giudizio, perché tutta la partita è stata condotta da un solo componente dell’ufficio procedimenti disciplinari che è invece un organo collegiale.
La Cassazione conferma questa ragione di nullità, ma affronta anche l’altra questione sollevata dal Consorzio, che ha chiesto ai giudici di pronunciarsi sull’applicazione del nuovo articolo 18 agli statali e, in caso di risposta negativa, di interessare la Corte costituzionale sulla disparità di trattamento fra lavoro pubblico e privato.
La Cassazione non ritiene di dover interessare la Consulta, perché si pronuncia direttamente per l’entrata delle riforme dell’articolo 18 anche negli uffici pubblici. Alla base di questa decisione, spiega la sentenza, c’è «l’inequivocabile tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001», cioè del testo unico del pubblico impiego, in base al quale lo Statuto dei lavoratori, con le sue «successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Su questo presupposto, per la Cassazione «è innegabile che il nuovo testo dell’articolo 18» riguardi anche gli statali, anche «a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione» previste dalla riforma.
L’estensione, insomma, è automatica, e si porterebbe con sé anche il meccanismo delle «tutele crescenti» introdotto nel 2015, di cui la Cassazione non parla perché chiamata a pronunciarsi su una vicenda di tre anni prima. Anche il decreto attuativo del Jobs Act (decreto legislativo 23/2015) ha modificato la portata dell’articolo 18, prevedendo le tutele crescenti «per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri» assunti a tempo indeterminato dopo la sua entrata in vigore, anche in caso di conversione di contratto a termine.
Quando parla del «campo di applicazione», il decreto non fa il minimo cenno a una distinzione fra lavoro pubblico e privato, ma questo si spiega con la convinzione, espressa a suo tempo da molti esponenti del Governo dopo un dibattito acceso anche all’interno della maggioranza, che il Jobs Act riguardasse solo il mondo privato.
La Cassazione, però, riapre di fatto la questione, e impone di rivedere il coordinamento delle regole anche per dare più certezze a dipendenti e operatori. In cantiere ci sono i decreti attuativi della riforma Madia, che potrebbero rappresentare la prima occasione per dare una risposta definitiva a un interrogativo su cui le opinioni sono ancora diversificate anche all’interno della maggioranza
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIGestori tlc tassati. Imu/Ici sui ripetitori di telefonia. La Cassazione sulla classificazione degli immobili.
I ripetitori di telefonia mobile di cui sono titolari i vari gestori telefonici (Vodafone, Telecom) sono soggetti al pagamento dell'Ici, e anche dell'Imu, in quanto infissi al suolo in maniera stabile e, quindi, sono da considerare a tutti gli effetti dei fabbricati. Vanno, infatti, inquadrati catastalmente nella categoria «D» e non nella categoria «E», come immobili esenti.

Lo ha affermato la
Corte di Cassazione -Sez. V civile- con la sentenza 25.11.2015 n. 24026.
Secondo la Cassazione, i ripetitori di telefonia mobile devono essere classificati nella categoria «D», «in quanto trattasi di struttura stabilmente infissa al suolo, recintata, all'interno della quale è stato installato, su platea di calcestruzzo, un traliccio cui sono state fissate le antenne».
Questi immobili devono essere accatastati come previsto dall'articolo 4 del rdl 652/1939. Tra l'altro, precisano i giudici, la classificazione catastale nella categoria «D» è prevista dalla circolare dell'Agenzia del territorio n. 4/2006, che non fa riferimento solo alle centrali eoliche, ma vale anche per i «ripetitori e impianti similari».
Nello specifico, la circolare pone in rilievo che: «Rilevante importanza hanno assunto nel tempo anche le costruzioni tese a ospitare impianti industriali mirati alla trasmissione o all'amplificazione dei segnali destinati alla trasmissione (via cavo o etere)... la categoria da attribuire agli immobili che le ospitano è da individuare nel gruppo D... Tra le diverse tipologie dei manufatti in esame ha registrato negli ultimi anni una significativa diffusione sul territorio quella destinata a ospitare gli impianti per la diffusione della telefonia mobile...».
La classificazione catastale. L'articolo 4 del rdl 652/39, richiamato nella pronuncia in esame, definisce immobili urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque materiale costruiti, stabilmente assicurati al suolo. I ripetitori di telefonia mobile, come gli impianti eolici, sono degli opifici e devono essere iscritti in catasto nella categoria D/1.
L'Agenzia del territorio ha precisato la categoria catastale che deve essere attribuita a questi impianti e ha fornito i chiarimenti necessari sulla disciplina che deve essere osservata dagli uffici provinciali per determinare la rendita. La qualificazione della tipologia di immobili e la relativa rendita assumono rilevanza ai fini fiscali.
Il provvedimento catastale costituisce il parametro di riferimento per la determinazione dell'Ici e dell'Imu. Per quanto concerne gli impianti eolici, l'Agenzia ha affermato che rilevano le finalità cui sono destinati questi immobili e il fatto che Stato, Regioni e Unione europea ne incentivino la costruzione. Il classamento è indipendente «da ogni vincolo amministrativo o legislativo non dettante disposizioni in materia di catasto».
Al riguardo, vanno invece richiamate le norme (rdl 652/1939, dpr 1142/1949, dm 28/1998) che forniscono la nozione di unità immobiliare urbana e di rendita catastale. Sono considerate unità immobiliari le costruzioni ancorate o fisse al suolo, di qualunque materiale costituite, nonché gli edifici sospesi o galleggianti, stabilmente assicurati al suolo, purché risultino verificate le condizioni funzionali e reddituali. La stessa natura hanno i manufatti prefabbricati, anche se solo appoggiati al suolo, qualora gli stessi siano stabili nel tempo e presentino autonomia funzionale e reddituale.
L'obbligo di accatastamento è stato ribadito dall'art. 1-quinquies del decreto legge 44/2005, convertito nella legge 88/2005, di interpretazione autentica del citato articolo 4, il quale ha stabilito che i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso. Strutture e impianti, che sono tra di loro connessi e unificati da un nesso funzionale in vista della destinazione a una determinata utilizzazione produttiva, rientrano nel novero degli «opifici» e devono essere classificati catastalmente nella categoria D.
Nella stessa categoria catastale rientrano anche le centrali elettriche. Non a caso l'Agenzia del territorio, con la risoluzione 3/2008, ha chiarito che «le centrali elettriche a pannelli fotovoltaici devono essere accertate nella categoria «D/1 - opifici» e che nella determinazione della relativa rendita catastale devono essere inclusi i pannelli fotovoltaici, in analogia con la prassi, ormai consolidata, adottata in merito alle turbine delle centrali elettriche».
Anche la giurisprudenza ha sostenuto che questi impianti siano soggetti a imposizione (Corte di cassazione, sentenze 13319/2006 e 4030/2012; commissione tributaria regionale del Lazio, sezione XX, sentenza 48/2004; Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione XXVII, sentenza 214/2008).
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Gruppo D, conti fino ad accatastamento.
Nella disciplina Ici e Imu è previsto che per i fabbricati iscritti in catasto il valore dell'immobile si ottiene facendo riferimento all'ammontare delle rendite, vigenti al 1° gennaio dell'anno di imposizione.
Per i fabbricati interamente posseduti da imprese, classificabili nel gruppo catastale D, distintamente contabilizzati, qualora gli stessi siano sforniti di rendita catastale, la base imponibile Ici è costituita dai costi di acquisizione e incrementativi contabilizzati, ai quali vanno applicati dei coefficienti stabiliti annualmente con decreto del Ministro delle finanze.
Il valore dell'immobile, così determinato, può essere utilizzato fino alla fine dell'anno d'imposta nel corso del quale viene attribuita la rendita catastale oppure viene annotata al catasto la rendita proposta, con l'osservanza della procedura prevista nel decreto del ministro delle Finanze 701/1994.
Il valore, ai fini dell'applicazione dell'Ici e dell'Imu, è determinato sulla base delle scritture contabili fino a quando viene presentata istanza di accatastamento. Solo dall'anno successivo alla presentazione della suddetta istanza, il valore del fabbricato deve essere determinato non più con riguardo ai costi contabilizzati bensì in base al valore catastale. Pertanto l'imprenditore, proprietario del fabbricato di categoria D, è tenuto ad applicare il regime del valore contabile fino alla richiesta di accatastamento.
Naturalmente, il Comune ha il potere-dovere di accertare l'impresa titolare dei fabbricati iscritti nella categoria «D», per i quali non è stato pagato il tributo, determinando il quantum dovuto in base alle regole sopra citate, previste dall'articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 504/1992 (articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015).

URBANISTICA: Le disposizioni di cui all'art. 31, commi 49-bis e ter l. n. 448/1998 incontrano il limite della locale pianificazione urbanistica la quale può riservare talune quote obbligatorie di superficie o di volume per la realizzazione di edilizia residenziale pubblica.
La ratio legis delle disposizioni di cui all'art. 31, commi 49-bis e ter, della l. 23.12.1998, n. 448 corrisponde "ad una politica del diritto volta a garantire il diritto alla casa, facilitando l'acquisizione di alloggi a prezzi contenuti (grazie al concorso del contributo pubblico), ai ceti meno abbienti: e non certo quella di consentire successive operazioni speculative di rivendita a prezzo di mercato".
Pertanto, nel caso di specie, risulta legittimo il diniego motivato con riferimento alla finalità di mantenere la percentuale minima di superficie e volume di alloggi che lo strumento urbanistico riserva all'edilizia residenziale pubblica relativamente al piano attuativo per il quale è stata stipulata la convenzione (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.11.2015 n. 1243 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La procura alla lite non obbliga al compenso.
Non per forza chi ha rilasciato la procura alla lite ha l'obbligo di corrispondere il compenso professionale all'avvocato, ma anche colui il quale ha affidato al legale il mandato di patrocinio può corrispondere il compenso.

È quanto affermato dai giudici della I Sez. civile della Corte di Cassazione con le sentenza 18.11.2015 n. 23626.
Qualora il mandato di patrocinio sia stato richiesto e si sia svolto nell'interesse di un terzo, si instaurerebbe in tale ipotesi, collateralmente al rapporto con la parte che abbia rilasciato la procura ad «ad litem», un altro distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente verrebbe assunta non dal patrocinato, ma da colui il quale ha richiesto per lui l'opera professionale.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a esprimersi su un caso in cui un avvocato ricorreva per Cassazione, formulando due motivi contro il decreto del Tribunale con il quale era stato rigettato il suo reclamo avverso il decreto di diniego di liquidazione di compenso emesso dal giudice delegato al concordato preventivo con cessione dei beni di una Spa in liquidazione.
Secondo il tribunale non era «in discussione l'utilità per la procedura dell'opera professionale prestata dall'avvocato in quel processo (come espressamente evidenziato dal liquidatore giudiziale nelle note dirette al giudice delegato), ma solo se, in assenza di incarico formalmente conferito a tale professionista dal liquidatore giudiziale in riferimento a processo cui la procedura è rimasta estranea, il procedimento di liquidazione giudiziale del compenso a tale professionista (la cui misura non venne espressamente pattuita)» fosse quello di cui all'art. 25, n. 7), l. fall..
A tale quesito andava data risposta negativa in quanto, il liquidatore giudiziale rimase estraneo al processo medesimo; pertanto il giudice delegato non aveva il potere di liquidare il compenso a professionista non nominato da tale organo della procedura per l'opera prestata in processo in cui questa era rimasta estranea (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGOAvvocati dipendenti a forfait. Conta il contratto di lavoro, non il singolo mandato. Cassazione: necessaria la forma scritta, non surrogabile da singoli atti di esecuzione.
Per l'avvocato dipendente di un ente pubblico non sarà rilevante il singolo contratto di mandato professionale, ma il contratto di lavoro parasubordinato da cui traggono origine le singole delibere di incarico ed il conseguente rilascio delle procure alle liti.
E sarà necessaria la forma scritta del contratto di lavoro parasubordinato con l'ente, e tale forma non potrà essere surrogata da quella dei singoli atti di esecuzione.

È quanto affermato dai giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 17.11.2015 n. 23511.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì evidenziato come il patrocinio legale non possa ritenersi compreso nel rapporto di pubblico impiego tra l'ente territoriale e il professionista nel caso in cui questi non sia inquadrato nel ruolo legale, ma nel ruolo amministrativo.
Inoltre, in tema di forma scritta ad substantiam dei contratti della p.a., il requisito risulta essere soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con il rilascio al difensore della procura ai sensi dell'art. 83 cod. proc. civ., atteso che l'esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, mediante l'incontro di volontà fra le parti, l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo cosi possibile l'identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell'Autorità tutoria (anche in ossequio a un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale: Cassazione, sezione II, 05.05.2004, n. 8500; Cassazione, sezione VI-3, 16.02.2012, n. 2266).
Pertanto si renderà necessaria la forma scritta del contratto di lavoro para-subordinato con l'ente pubblico, avente ad oggetto la prestazione di servizi, da parte del dipendente dell'ente stesso con funzioni amministrative, di assistenza e rappresenta in giudizio; forma che non potrà essere surrogata da quella dei singoli atti di esecuzione, consistenti nel conferimento, di volta in volta, delle procure alle liti.
La questione sottoposta all'attenzione degli Ermellini prendeva le mosse da un avvocato che aveva convenuto in giudizio un ente pubblico, ed asseriva di aver ricevuto dall'ente stesso diversi mandati con i quali gli erano stati conferiti altrettanti incarichi per l'espletamento di attività professionale di assistenza e rappresentanza giudiziale.
L'ente osservava che l'avvocato era inserito nell'ambito dell'organizzazione pubblicistica dello stesso, poiché aveva prestato l'attività lavorativa di cui in causa all'interno del servizio legale, alle dirette dipendenze del responsabile dell'Ufficio, pertanto il rapporto doveva essere qualificato come di pubblico impiego (articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOk, la spesa è giusta. Mediazione: corretti i costi su chi ne fruisce. Il Consiglio di stato scrive un'altra pagina sugli strumenti alternativi.
Le spese di avvio del procedimento di mediazione, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario, vanno qualificate come onere economico imposto per l'accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie. Ne discende, quindi, la coerenza e ragionevolezza della scelta di scaricare i relativi costi non sulla collettività generalmente intesa, ma sull'utenza che effettivamente si avvarrà di detto servizio.

Il Consiglio di Stato -Sez. IV- con la sentenza 17.11.2015 n. 5230 ha scritto un'altra pagina della mediazione civile e commerciale.
Ricordiamo che il Tar, con la pronuncia oggetto del provvedimento in esame, ebbe modo di esprimersi, tra l'altro, su quattro fondamentali punti della normativa in tema di mediazione: Obbligatorietà della mediazione post dl 69/2013; Formazione degli Avvocati; Spese di avvio del procedimento di mediazione; Imparzialità e indipendenza dei mediatori.
Il tema delle spese di avvio della mediazione aveva lasciato perplessi sin dal momento in cui il legislatore del 2013 inserì il c.d. primo incontro gratuito.
Il Tar Lazio, sul punto, fu tranciante laddove affermò che l'art. 16, commi 2 e 9, del dm 180/2010 si poneva in contrasto con la gratuità del primo incontro del procedimento di conciliazione, previsto dalla legge laddove le parti non dichiarino la loro disponibilità ad aderire al tentativo.
Il Consiglio di stato, intervenuto anche sul lessico confuso della normativa, precisa, quindi, che l'uso del termine «compenso» nel comma 5-ter dell'art. 17 del dlgs 04.03.2010, n. 28 (introdotto dalla «novella» del 2013), è «infelice», non trovando detta terminologia riscontro in alcuna altra parte della normativa primaria e secondaria in tema di mediazione.
Altro punto importante toccato dalla pronuncia in esame riguarda la formazione degli avvocati.
Il Tar Lazio nella propria pronuncia aveva annullato il comma 3, lettera b), dell'art. 4 del dm n. 180/2010, nella parte in cui obbligava anche gli avvocati a seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione.
Al riguardo il Consiglio di stato, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha precisato che sussiste in ogni caso un onere di formazione per gli Avvocati, quand'anche siano mediatori di diritto a seguito della riforma del 2013 in quanto permane l'esigenza di assicurare che il rischio di «incisione» sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un'adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento.
La sentenza del Consiglio di stato se da un lato consente di chiudere il dibattito su alcuni punti difficili della mediazione, dall'altro lascia scoperti molti nodi che il Ministero dovrà ben presto affrontare a cominciare da quello della formazione degli avvocati nel rapporto tra la normativa primaria di derivazione statale e quella di dettaglio emanata dal Cnf ai sensi della legge professionale.
Ricordiamo, poi, che già da tempo sono aperti fronti importanti su altri temi della mediazione.
Ci riferiamo al tema dell'incompatibilità tra l'attività di mediatore e l'esercizio della professione forense.
Da tempo il coordinamento della Conciliazione forense e l'Unam (Unione nazionale avvocati mediatori) richiedono opportuni interventi chiarificatori e/o di modifica da parte del ministero e, la sentenza in esame, potrebbe agevolare un intervento del dicastero.
Da precisare, infine, che con il provvedimento in esame sono state definitivamente rigettate tutte le questioni di legittimità costituzionali sollevate sulla mediazione (articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, tutelato l’interesse dei vicini. Consiglio di Stato. I confinanti sono sempre legittimati a ricorrere per impugnare il permesso violato senza necessità di provare un danno specifico.
La demolizione, con ripristino della legittimità edilizia, costituisce la sanzione normale e prioritaria, di carattere vincolato, nei confronti degli abusi edilizi, pertanto il proprietario di un immobile confinante è sempre legittimato a ricorrere per impugnare il permesso edilizio violato, senza necessità di provare un danno specifico, essendo titolare di un interesse legittimo al rispetto del corretto assetto urbanistico e ambientale.
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.11.2015 n. 5226, ha ribadito la legittimazione processuale dei proprietari confinanti nei procedimenti riguardanti i permessi di costruire assentiti nella medesima zona, non solo a impugnarne la legittimità o regolarità, ma altresì nel caso in cui la concreta realizzazione dell’opera possa sfociare in un abuso edilizio, sollecitando l’amministrazione competente ad adottare la sanzione della demolizione e dell’acquisizione dell’area.
Il caso deciso dai giudici amministrativi trae origine dalla contestazione di un abuso edilizio, da parte dell’ufficio tecnico e dalla polizia municipale di un Comune lombardo, per la realizzazione di lavori in parziale difformità dal titolo edilizio concesso per la ristrutturazione di un fabbricato e il recupero del sottotetto a fini abitativi, a fronte del quale l’ente locale ha adottato due ordinanze di demolizione successive, la prima totale, la seconda parziale, con applicazione della sanzione pecuniaria.
Verso le due le ordinanze sono stati depositati opposti ricorsi, poi riuniti, davanti al Tar della Lombardia, da parte dei proprietari dell’immobile, verso quella di demolizione totale, nonché da parte del proprietario di un fabbricato contiguo in qualità di controinteressato, all’esito dei quali il tribunale amministrativo regionale ha statuito respingendo il primo e accogliendo il secondo.
I giudici di Palazzo Spada, nel confermare la legittimità della sentenza di primo grado, hanno ribadito come, pur essendo l’amministrazione comunale titolare del potere amministrativo di reprimere gli illeciti urbanistici, i proprietari di immobili confinanti o limitrofi con quelli interessati da un permesso di costruzione sono titolari di un interesse legittimo oppositivo, tutelato dall’ordinamento, a fronte di titoli edilizi incidenti sul proprio diritto di proprietà, modificando le condizioni dell’area, nonché l’assetto edilizio, urbanistico e ambientale della zona, senza necessità, ai fini della legittimazione processuale, di provare di aver subito un danno specifico, in quanto il danno verso la collettività è insito nella violazione stessa.
Come nel caso deciso, non solo spetta la legittimazione a impugnare il permesso di costruire riconosciuta a coloro che presentano uno stabile collegamento, bensì il terzo confinante ha un interesse attivo processuale, a che l’amministrazione disponga correttamente del potere di repressione degli illeciti urbanistici, giungendo fino alla completa eliminazione del fabbricato abusivo che lede il proprio interesse al corretto assetto urbanistico ed ambientale dei luoghi, oltre all’acquisizione dell’area al patrimonio dell’ente.
Inoltre, prosegue il ragionamento della decisione in esame, statuito che il confinante ricorre per la tutela del proprio specifico interesse di proprietario nella medesima area in cui sono stati compiuti gli abusi, non per l’interesse generale al rispetto della legalità, la sanzione della demolizione costituisce la conseguenza principale e normale, quindi di carattere vincolato, all’accertamento dell’abuso edilizio, senza necessità che l’ente locale fornisca giustificazione in base una particolare motivazione.
Al contrario, sottolinea il Collegio sancendo l’illegittimità della seconda ordinanza comunale che ha sostituito l’ingiunzione di demolizione totale delle opere con quella di demolizione parziale, con aggiunta della sanzione pecuniaria, è quando l’amministrazione adotta una misura sanzionatoria diversa, rispetto al pieno ripristino dell’ordine edilizio violato, a fronte dell’accertamento dell’abuso, che si richiede l’espletamento di un’istruttoria idonea e approfondita, sostenuta da una motivazione congrua
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.12.2015).
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MASSIMA
2. Come detto in narrativa, sono state impugnate in primo grado -da diverse parti, espressione di posizioni sostanziali e processuali divergenti- due ordinanze di demolizione (l’una totale, l’altra parziale, con applicazione della sanzione pecuniaria) adottate dal Comune di Borno per opere realizzate in difformità dal permesso di costruire.
3. La società interveniente ha formulato due eccezioni preliminari, che il Collegio ritiene entrambe infondate.
3.1 Quanto all’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo n. 135/2007, in linea di principio,
i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione sono sempre legittimati a impugnare i titoli edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono modificare l'assetto edilizio, urbanistico e ambientale della zona. Né è necessaria la prova di un danno specifico, perché il danno a tutti i membri di quella collettività è insito nella violazione edilizia (da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, ove riferimenti ulteriori).

ENTI LOCALI - VARISale gioco, comuni con le mani legate.
Non può essere il comune a chiudere le sale per le scommesse sportive troppo vicine a obiettivi sensibili come chiese, scuole e impianti sportivi, se la regione nella lotta contro la ludopatia ha bloccato soltanto le slot machine con vincita immediata. E ciò perché l'ente locale può intervenire di sua iniziativa con le prescrizioni degli strumenti urbanistici soltanto di fronte a particolari problemi locali o se non ha provveduto il legislatore nazionale o regionale. Pesano dunque i divieti in materia del dl Balduzzi.

È quanto emerge dalla sentenza 17.11.2015 n. 2411, del TAR Lombardia-Milano, Sez. I, che ha accolto il ricorso di un esercente e annullato l'articolo 13, comma 7, del nuovo regolamento edilizio del comune di Milano, approvato con la delibera numero 26 del 02.10.2014.
La propensione al gioco d'azzardo patologico è un disturbo del comportamento assimilabile alla dipendenza da droga, puntualizzano i giudici. Ma il punto è che in Lombardia la regione ha già effettuato la sua scelta politica vietando solamente le macchinette mangiasoldi. Il comune dando l'off limits anche alle sale scommesse finisce per usurpare poteri normativi già esercitati.
E apre la strada a decisioni diverse sul territorio regionale a seconda delle varie amministrazioni locali, laddove invece il legislatore nazionale e regionale hanno già esercitato la loro potestà di regolare le questioni del gioco, per quanto in modo non organico e definitivo. No a invasioni di campo, quindi (articolo ItaliaOggi del 30.12.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl disabile ha diritto al «prolungamento» dell’ascensore. Condominio. Tribunale di Milano.
Un milanese ultraottantenne, residente al quinto piano, vince in tribunale la causa contro il condominio che gli bocciava la richiesta di far arrivare fino al suo piano, a proprie spese, l’ascensore che aveva capolinea solo al quarto. Il prolungamento è invece un suo pieno diritto secondo il Tribunale di Milano (XIII sezione civile, giudice monocratico Giacomo Rota), che gli ha dato ragione con la sentenza 12.11.2015 n. 12791.
Il contenzioso prende le mosse dalla proposta dell’anziano condòmino di innalzare il vano dell’impianto di un ulteriore piano, fino al suo alloggio, il tutto a sue spese. E correda la richiesta con pareri tecnici e progetto.
Infine (maggio 2014) si arriva all’assemblea, che boccia il prolungamento perché i lavori potrebbero ledere il decoro del palazzo (di notevole pregio architettonico) e la stabilità e sicurezza dell’immobile. La delibera è quindi impugnata in Tribunale.
Entrano in scena l’articolo 1120 del Codice civile, che riguarda le innovazioni vietate (legittimabili solo all’unanimità), e il 1102, che autorizza gli interventi che il singolo può realizzare a sue spese, purché non alterino la destinazione della cosa comune e non impediscano agli altri un pari uso.
Il giudice monocratico ha chiarito che il singolo non ha bisogno di chiedere autorizzazioni all’assemblea per realizzare innovazioni che rimangano nei binari di entrambi gli articoli: nei limiti di legge, è un inalienabile diritto soggettivo, salvo eventuali circostanziati limiti precisati nel regolamento contrattuale.
In ogni caso, spetta ai dissenzienti dimostrare, in concreto, i motivi che ostano all’innovazione. Ma l’assemblea, osserva il giudice, ha respinto la proposta senza fornire l’onere della prova dell’asserito rischio per la stabilità. E ha sostenuto che i lavori avrebbero impedito l’uso dell’ascensore per un po’ di tempo: un problema, dato il grave stato di salute di alcuni condomini. Ma la circostanza è stata ritenuta dal giudice ininfluente per valutare la legittimità del diniego, e ha accertato il diritto del condòmino a fare i lavori, condannando il condominio alle spese di giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2015).

VARI: Autisti trasgressori seriali. Conducente a piedi.
L'autista che viene ripetutamente sanzionato dalla polizia con decurtazione di punteggio rischia la revisione obbligatoria della patente di guida. Ma per tornare sui banchi di scuola occorre subire almeno tre decurtazioni significative in un anno.

Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 11.11.2015 n. 1194.
Un conducente è stato sanzionato varie volte dalla polizia, nel corso dello stesso anno, per aver omesso di indossare la cintura di sicurezza, aver guidato a una velocità pericolosa e aver effettuato manovre pericolose in autostrada.
Complessivamente il temerario trasgressore ha collezionato in pochi mesi penalizzazioni per oltre 20 punti. Contro il conseguente provvedimento di revisione della patente per negligenza recidiva l'interessato ha proposto ricorso al Tar ma senza successo. L'articolo 126-bis, al comma 6, prevede che alla perdita totale del punteggio, il titolare della patente deve sottoporsi all'esame di idoneità tecnica di cui all'articolo 128.
Al medesimo esame deve sottoporsi il titolare della patente che, dopo la notifica della prima violazione che comporti una perdita di almeno cinque punti, commetta altre due violazioni non contestuali, nell'arco di 12 mesi dalla data della prima violazione, che comportino ciascuna la decurtazione di almeno cinque punti.
Correttamente, dunque, la motorizzazione ha disposto la revisione della patente all'autista particolarmente trasgressivo (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA: No ai negozi fatti in case.
Non possono essere trasformati in abitazioni i locali commerciali che si affacciano sulla strada. In quanto è vietato il cambio di destinazione d'uso dei locali prospicienti su aree pubbliche atto a scongiurare la desertificazione dei locali commerciali.

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. IV- con la sentenza 09.11.2015 n. 5084 in merito alla trasformazione di negozi in abitazioni civili.
Il fatto in sintesi: il proprietario di un negozio e del cortile antistante, situati al pianoterra di un edificio, aveva richiesto il permesso di costruire per il cambio di destinazione d'uso da commerciale a residenziale. Il comune negava l'autorizzazione perché il piano urbanistico comunale vietava i cambi di destinazione d'uso dei locali prospicienti su aree pubbliche. Il proprietario aveva quindi fatto ricorso sostenendo che il cortile, anche se confinante con la strada pubblica, era privato e costituiva una pertinenza del suo locale.
Il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di stato bocciavano entrambi il ricorso sostenendo che il cortile non rappresenta una corte interna dell'edificio, ma la porzione di stacco tra il fabbricato e la strada pubblica. Consisteva, secondo i giudici, in uno strumento per agevolare l'ingresso del pubblico nel negozio, quindi era a loro avviso gravato da una servitù per l'uso pubblico. Infatti veniva utilizzato per uso collettivo dell'intera area e non certo un uso limitato in via di fatto, quale mera pertinenza o quale parte comune dell'edificio o, più in generale, ai soli proprietari e a coloro che avessero avuto occasione d'accedere al fabbricato stesso per esigenze connesse alla loro vita privata.
Anche se il negozio si affacciava sul cortile, questo non creava una divisione rispetto alla strada. Si poteva ritenere, hanno concluso i giudici, che il locale si affacciasse direttamente sulla strada pubblica. Per questi motivi la domanda per il cambio di destinazione d'uso è stata respinta (articolo ItaliaOggi del 24.12.2015).
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MASSIMA
L’odierno appellante chiese al Comune di Finale Ligure (SV) il cambio di destinazione d’uso (da commerciale a residenziale) con opere per un negozio posto al p.t. d’un fabbricato colà ubicato e ricadente in zona ACR 4 del vigente PUC, ma la richiesta fu respinta in base al divieto stabilito per detta zona per le ristrutturazioni, altrimenti ammesse, che comportassero la «… destinazione a residenza dei locali a piano terreno prospicienti su aree o spazi pubblici…», donde il presente contenzioso.
L’appello non è meritevole d’accoglimento, per le considerazioni di cui appresso, pur se alcune precisazioni preliminari appaiono, ad avviso del Collegio, assai opportune.
Anzitutto, non è controversa tra le parti la natura privata del negozio e dell’antistante (a quanto consta, senza evidenti soluzioni di continuità) cortile, né che solo quest’ultimo prospetti in modo diretto su una via pubblica.
In secondo luogo, neppure sembra che tal cortile non fosse servito, fintanto che l’ormai dismesso esercizio commerciale rimase ubicato nel vano negozio, al comodo accesso di chiunque a questo.
In tal caso, pare al Collegio che vi fosse un uso collettivo dell’intera area e non certo un uso limitato in via di fatto, quale mera pertinenza o quale parte comune dell’edificio o, più in generale, ai soli proprietari ed a coloro che avessero avuto occasione d’accedere al fabbricato stesso per esigenze connesse alla loro vita privata. È materialmente vero che il predetto cortile, il quale NON è corte interna dell’edificio ov’è sito il negozio, fosse la porzione di stacco tra il fabbricato e la pubblica via e che così fu considerato dall’impugnato diniego, ma anche che fosse «… comunque… di uso pubblico essendo evidentemente stata realizzata per favorire l’accesso al pubblico al negozio o ai negozi occupanti il piano terreno…».
Sicché tal dato, che in sé sarebbe forse stato irrilevante, non lo è in realtà in quanto, per la sua funzione, poté esser adoperato da chiunque, senza restrizioni, per accedere al negozio, sì da determinarne un uso collettivo libero. Quest’ultimo, ovviamente, è un asservimento di area privata che non può esser confuso con quello delle strade private soggette alla servitù di passaggio propriamente detta, perché essa ha il solo scopo di garantire la circolazione, ma che serve a garantire il libero accesso dalla strada pubblica al negozio.
Infine, ed al di là di quanto l’impugnato diniego affermò (ad avviso del Collegio correttamente), la questione della prospicienza, che l’appellante contesta al TAR quale argomento estraneo all’oggetto del contendere, non è soltanto uno degli elementi considerati dalle norme urbanistiche di zona ACR 4 per la regolazione dei predetti cambi di destinazione d’uso. Essa fu introdotta pure da lui, quando precisò di non incorrere nel divieto del PUC, giacché, a suo dire, il suo negozio non era prospiciente sulla pubblica via.
Invece, una volta verificato l’uso pubblico (come fece il Comune nel negare all’appellante il permesso di costruire), la prospicienza non solo non è estranea alla lite in esame, ma è argomento tanto centrale che l’appellante ne affronta il significato e la funzione per contestare sia il diniego, sia la sentenza appellata.
Ciò posto, mentre vanno confermati tutti gli argomenti usati dal TAR adoperati per respingere la pretesa attorea, se ne deve correggere quella frase (pag. 4 della sentenza) nella quale detto cortile non è gravato da servitù di passo d’uso pubblico. Tal dato è ben lungi dall’esser pacifico tra le parti, tant’è che costituisce, come s’è visto, la ragione dell’impugnato diniego. Appunto per questo il Comune, contrariamente a quanto dice l’appellante (pag. 7), non ebbe bisogno di smentire alcunché, all’uopo bastando il contenuto del relativo provvedimento.
Fermo, quindi, questo dato, rettamente poi il TAR precisa sia l’elemento fisico della prospicienza del negozio su un’area o spazio pubblico pur nella presenza del predetto cortile, sia il significato di tal concetto alla luce delle norme di zona recate dal PUC.
Invero, da un lato, è innegabile che detto negozio sia “prospiciente”, perché s’affaccia, guarda e prospetta sulla pubblica via senza alcuna barriera materiale interposta che escluda o limiti tutte o alcune di tali attività, sì da consentire al proprietario di guardare ed affacciarsi comodamente sulla strada e di vederla senza usare strumenti artificiali ed in tutte le direzioni che la linea d’orizzonte consente (arg. ex Cass., II, 17.01.2002 n. 480).
Dall’altro lato e checché ne dica il ricorrente,
affaccio e prospetto non sono sinonimi di adiacenza, tant’è che, a seconda della conformazione fisica della veduta, la prospectio e l’inspectio si possono protendere al di là del fondo attiguo (o adiacente, che dir si voglia) e spaziare oltre, negli ovvi limiti della comodità della persona normale e senza l’ausilio di strumenti anomali. È appena da soggiungere che tali attività vanno accertate con riferimento al fondo dal quale la veduta si esercita e non già al fondo oggetto della veduta stessa, tant’è che per quest’ultimo si deve intendere una qualunque parte, anche minima o marginale, ma che possa esser guardata comodamente e con agevole (o non disagevole) affaccio (arg. ex Cass., II, 23.11.1987 n. 8626).
Alla luce di tali strumenti ermeneutici sul concetto di prospicienza, è facile al Collegio confutare il paradossale (e, dunque, inutile) argomento attoreo secondo il quale, per far scattare il divieto de quo, basterebbe una visione purchessia, anche da assai lontano, della strada pubblica.
Per la stessa ragione, non può esser condivisa l’interpretazione attorea che si discosta dalla
lettura finalistica della norma di divieto.
Infatti, non solo essa non si limita a leggere la prospicienza dei locali terranei alle aree e spazi pubblici come possibilità di mera visione, da qualunque distanza, di questi da quelli, ma la intende piuttosto, e di ciò dà atto il TAR, come uno strumento di governo del territorio atto a scongiurare la desertificazione dei locali commerciali, fenomeno assai diffuso nella località Varigotti, invece utili in un’area a forte vocazione turistica.
Inoltre, la norma urbanistica è ben chiara tanto nel porre il divieto, quanto nell’orientare le scelte edificatorie ammesse fuori dal campo residenziale, per raggiungere la finalità predetta. Sicché l’“auspicio” del recupero dei piani terranei, trasformati a suo tempo in abitazione, non è che la facoltà accordata, in pratica senza soverchie condizioni, per le ristrutturazioni con cambio
(sarebbe meglio dire: con ripristino) d’uso non residenziale.

CONDOMINIOIngiurie dal verbale, è diffamazione. Condanna se la divulgazione non è riservata solo agli interessati. Codice penale. Dopo l’assemblea le frasi erano state citate in una lettera inviata a tutti i condòmini.
Attenzione a non riportare frasi ingiuriose nelle lettere inviate ai condomini, anche se riproducono fedelmente ciò che è stato trascritto nel verbale di assemblea. Tale divulgazione, infatti, non inerisce al diritto – dovere di informare i condomini sull’andamento dell’assemblea ma implica il reato di diffamazione (articolo 595 Codice penale).

Così si è espressa la Corte di Cassazione (Sez. V penale, sentenza 03.11.2015 n. 44387) che ha confermato la condanna dell’amministratore, per il citato reato, per aver inviato una lettera a tutti i condomini in cui riportava le frasi ingiuriose espresse, nel corso di un’assemblea, da un geometra contro due condomini dicendogli che «non capivano niente ed erano malfattori, gentaglia e delinquenti» (uno dei due condòmini offeso era il presidente dell’assemblea che aveva contestato il bilancio predisposto dall’amministratore che si era, successivamente, dimesso).
L’amministratore, a sua difesa, richiamava a giustificazione l’articolo 51 Codice penale («esercizio di un diritto o adempimento di un dovere»), per cui egli aveva il diritto–dovere di informare i condomini sulle vicende relative all’assemblea e su tutte le vicende in generale.
Sosteneva che la lettera non era finalizzata a offendere la reputazione dei due condomini –in quanto era indirizzata ai soli diretti interessati– e che le espressioni non erano a lui imputabili (essendosi limitato a riportarle).
Non sono stati dello stesso avviso i giudici di legittimità i quali hanno ritenuto che in ordine all’articolo 51 Codice penale «la libertà di riferire i fatti, ed anzi, il dovere quale amministratore di informare i condomini (...) doveva accordarsi con l’interesse della persona offesa a che non venisse amplificata l’espressione ingiuriosa asseritamente pronunciata da un terzo ai suoi danni» non sussistendo alcun interesse generale dei condòmini a conoscere le espressioni ingiuriose pronunciate durante l’assemblea.
In pratica l’unico interesse effettivo che andava divulgato a tutti poteva essere quello di far conoscere le dichiarazioni del geometra non avendo utilità alcuna, per i condomini, apprendere l’esistenza di offese nei confronti di alcuni di essi.
Nei fatti, la Cassazione ha ribadito che tale divulgazione (accertata dalle lettere inviate a tutti i condomini e non spedite solo ai due soggetti interessati e contenenti anche una serie di ulteriori comunicazioni di interesse condominiale) faceva comodo all’amministratore perché costituiva un canale di trasmissione con il quale le ingiurie potevano diffondersi il più possibile allo scopo di offendere la reputazione dei due condomini.
Non è la prima volta che un giudice nel valutare il comportamento dell’amministratore ha configurato il reato di diffamazione quando, per esempio, affigge nell’atrio del condominio i nomi dei condomini morosi. Il comportamento divulgativo ha trovato rilievo anche sotto il profilo della violazione del diritto alla privacy.
La disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, prescrive che il trattamento dei dati personali deve avvenire nell’osservanza dei principi di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti.
La Cassazione, nella fattispecie in esame, ha applicato tali principi della proporzionalità delle condotte in funzione dello scopo da perseguire (divulgare i fatti a scopo informativo e non divulgare le offese non pertinenti allo scopo informativo)
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.12.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIProcura sottoscritta Diffida ratificata. Una recente decisione del Tar della Sardegna.
La sottoscrizione della procura, rilasciata con facoltà di rappresentare e difendere in ogni stato e grado del procedimento anche di mediazione, implica la ratifica della diffida ad adempiere e dell'istanza di accesso, atti negoziali propedeutici alla difesa, compiuti in nome e per conto della parte dal difensore.

A ribadirlo sono stati i giudici della II Sez. del TAR Sardegna con la sentenza 30.10.2015 n. 1090.
I giudici amministrativi isolani hanno osservato, poi, che la nozione normativa di documento amministrativo passibile di accesso -testualmente delineata dall'art. 22, lett. d), della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dalla legge 11.02.2005, n. 15- comprende «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi a uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale»: la norma è, pertanto, chiarissima nell'estendere la disciplina sull'accesso anche ad atti di natura privatistica, purché detenuti da una pubblica amministrazione per l'esercizio delle sue funzioni istituzionali.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di riservatezza di terzi, ove sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna un documento amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere altrimenti soddisfatta: di conseguenza, in capo al coniuge separato sussiste, nei confronti dell'Agenzia delle entrate, il diritto di accesso alle dichiarazioni dei redditi del convivente «more uxorio» dell'altro coniuge.
Tale istanza di accesso documentale, infatti, essendo rivolta a dimostrare la capacità di reddito del convivente del coniuge separato, è funzionale ad esonerare il richiedente dall'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento. Né il diritto di accesso viene meno per aver il medesimo richiedente sollecitato il giudice civile ad acquisire le dichiarazioni dei redditi in questione, atteso che l'art. 210 c.p.c. prevede la facoltà dell'ordine istruttorio e non anche la sua obbligatorietà (articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).
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MASSIMA
Si osserva, in primo luogo, che
la nozione normativa di documento amministrativo passibile di accesso -testualmente delineata dall’art. 22, lett. d), della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dalla legge 11.02.2005, n. 15- comprende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”: la norma è, pertanto, chiarissima nell’estendere la disciplina sull’accesso anche ad atti di natura privatistica, purché detenuti da una pubblica amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni istituzionali, il che è esattamente quanto si verifica per i documenti oggetto del presente giudizio.
Né la richiesta del ricorrente trova ostacolo nel diritto alla riservatezza dei titolari dei dati richiesti, non trattandosi di dati “sensibili” o “supersensibili” e risultando senz’altro soddisfatto il “presupposto di prevalenza” dell’accesso sulla riservatezza di cui all’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990, secondo cui “
Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”; difatti è evidente la necessità del ricorrente di conoscere preventivamente la situazione reddituale dei controinteressati, così da poter valutare causa cognita l’opportunità di contestare la decisione assunta dal Tribunale di Sassari di attribuire loro un assegno di mantenimento a suo carico; a conferma di tali assunti si richiama Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.09.2012, n. 5047, secondo cui “Il diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di riservatezza di terzi, ove sia esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e concerna un documento amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere altrimenti soddisfatta: di conseguenza, in capo al coniuge separato sussiste, nei confronti dell'Agenzia delle entrate, il diritto di accesso alle dichiarazioni dei redditi del convivente "more uxorio" dell'altro coniuge.
Tale istanza di accesso documentale, infatti, essendo rivolta a dimostrare la capacità di reddito del convivente del coniuge separato, è funzionale ad esonerare il richiedente dall'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento. Né il diritto di accesso viene meno per aver il medesimo richiedente sollecitato il giudice civile ad acquisire le dichiarazioni dei redditi in questione, atteso che l'art. 210 c.p.c. prevede la facoltà dell'ordine istruttorio e non anche la sua obbligatorietà
”.

TRIBUTIIl gestore telefonico paga la Tosap solo se è titolare della rete. Tributi locali. I criteri per tassa e canone d’occupazione.
I gestori dei servizi di telecomunicazione non devono pagare la Tosap per le occupazioni realizzate con cavi e condutture qualora si limitino a utilizzare gli impianti di rete messi a disposizione da terzi.
L’affermazione è della Ctp di Lecco (presidente e relatore Nese), nella sentenza 30.10.2015 n. 360/1/2015, che si pone in contrasto con la prassi amministrativa.
La questione è di una certa rilevanza per Comuni e gestori e riguarda le modalità di applicazione della tassa di occupazione di suolo pubblico o del canone sostitutivo di essa (Cosap). Per entrambi i prelievi, la norma di riferimento è l’articolo 63, comma 2, lettera f), Dlgs 446/1997. In forza di questa disposizione, le aziende che erogano servizi pubblici a rete (telecomunicazioni ma anche energia elettrica, gas eccetera) devono versare la Tosap sulla base del numero degli utenti serviti. Ciò al fine di evitare il complesso calcolo della superficie di sottosuolo o di soprassuolo pubblico occupata.
La norma era stata in realtà pensata in un contesto economico e tecnologico in cui ciascun gestore realizzava i cavi e le condutture da esso stesso utilizzati al fine della erogazione del servizio. Nel corso del tempo, la situazione però è notevolmente cambiata. Accade oggi infatti che gli impianti siano utilizzati sia dai gestori che li hanno costruiti sia da altri, ma potrebbe anche accadere che gli impianti siano posti in opera da un soggetto che li concede in uso a terzi, senza utilizzarli affatto. In queste situazioni sorge il problema della individuazione del o dei soggetti debitori del tributo.
Nella circolare 1/DF del 2009, il ministero delle Finanze ha affrontato la questione della tassazione delle aziende di erogazione dei servizi a rete. Con riferimento al caso appena descritto, le Finanze hanno osservato che, al fine di non vanificare la portata della norma, l’unica soluzione corretta appariva l’assoggettamento a imposizione di tutte le aziende che utilizzano nel contempo a qualunque titolo le medesime infrastrutture, ciascuna di esse con riguardo al numero degli utenti serviti.
Di diverso avviso è stata invece la Ctp di Lecco. Secondo i giudici lombardi la Tosap è dovuta solo dal titolare dell’atto di concessione o di autorizzazione, con l’effetto che il tributo trova applicazione solo nei confronti del soggetto che, avendo realizzato gli impianti di distribuzione dei servizi, risultava essere il titolare degli stessi. Nel caso di specie, poiché la società ricorrente utilizzava le reti di terzi, l’accertamento del Comune è stato annullato.
Peraltro, sarà interessante attendere il responso della giurisprudenza di vertice. Da un lato, è evidente che chi fruisce dell’impianto può non averne la titolarità giuridica. Dall’altro, sotto il profilo squisitamente fattuale, recependo la tesi della Ctp sarebbe facile eludere l’obbligo di pagamento: sarebbe sufficiente, infatti, far realizzare da un soggetto terzo i cavi e le condutture di trasmissione, il quale li affitta, ad esempio, a due operatori con migliaia di utenti, per applicare una tassazione conteggiata su due utenti
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.12.2015).

TRIBUTIIci, delibera allegata d'obbligo.
L'avviso di accertamento Ici fondato sulle determinazioni di valore contenute in una delibera comunale, è illegittimo e immotivato se la delibera in questione non viene allegata all'atto notificato al contribuente. Ciò in ragione dell'obbligo, sancito dall'articolo 7 della legge n. 212/200, di allegazione degli atti richiamati in motivazione. D'altronde, non spetta al contribuente l'artificiosa ricostruzione delle ragioni fondanti la pretesa e dei relativi calcoli, attraverso la ricerca di atti che, pur nella sfera di conoscibilità, non gli siano mai stati notificati direttamente.

Sono gli interessanti principi che si leggono nella sentenza 12.10.2015 n. 773/02/15 della Ctp di Frosinone (presidente e relatore Costantino Ferrara).
Con ricorso proposto all'attenzione del collegio frusinate, una contribuente impugnava l'avviso di accertamento emesso dall'ente comunale per il recupero dell'Ici su un'area fabbricabile. I valori per determinare la pretesa derivavano da una deliberazione del consiglio comunale richiamata nell'atto.
Nel ricorso veniva contestata la carenza di motivazione dell'accertamento, anche sotto il profilo della mancata allegazione degli atti richiamati, in ossequio a quanto stabilito dall'articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, secondo cui: «Se nella motivazione si fa riferimento a un altro atto, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama».
Proprio la mancata allegazione della delibera comunale ha indotto la Ctp ad annullare l'atto, rilevando la carenza di motivazione. In siffatto modo, infatti, il contribuente non è messo nella condizione di conoscere (e contestare) immediatamente «gli elementi specifici a sostegno dell'attribuzione del valore venale degli immobili, i parametri di riferimento e l'esposizione dei calcoli effettuati per dimostrare i risultati ottenuti».
Interessante anche l'ulteriore ragionamento che si legge nella sentenza, secondo cui «
non compete al contribuente la ricostruzione dei conteggi attraverso operazioni interpretative», né tantomeno è onere dello stesso andare alla ricerca di atti in cui si rinvengano le fondamenta della pretesa impositiva (come nel caso di specie la delibera comunale).
La sentenza della Ctp è conforme al pensiero della Cassazione espresso, in un caso analogo, nella pronuncia n. 20535/2010, ove si legge che incombe sull'amministrazione «l'onere di allegazione degli atti richiamati ove gli stessi non siano conosciuti né ricevuti dal contribuente e salvo che l'avviso non ne riproduca il contenuto essenziale».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] ... Con atto depositato presso la segreteria di questa Commissione in data 21/05/2015, la sig.ra ... suddetta ha avanzato ricorso con istanza di pubblica udienza, contro il Comune di Frosinone, avverso l'avviso bonario di accertamento n. 33 per parziale versamento dell'Ici sull'area fabbricabile, di proprietà della ricorrente, distinta in Catasto al foglio 38, particella 83 e a numero 2 immobili di proprietà della ricorrente distinti in catasto al foglio 46, particella 620 sub 3 e 4. L'ente impositore richiede il pagamento dell'imposta Ici, sanzioni e Interessi per l'anno 2010 per un totale di euro 2.579,00.
Il ricorrente eccepisce l'illegittimità nonché nullità dell'avviso di accertamento impugnato perché privo di motivazione.
Si costituisce in giudizio il comune di Frosinone in persona del dott. ... funzionario responsabile del settore Gestione Risorse – Servizio Tributi e Contenzioso Tributario, contestualmente con la dott.ssa ... impugnando e contestando in toto ogni avversa affermazione, deduzione e richiesta poiché infondata in fatto e in diritto e chiedendo il rigetto della spiegata opposizione.
Motivi del ricorso
La Commissione esaminati gli atti del ricorso rileva che, effettivamente dall'avviso di accertamento non si comprende l'iter logico giuridico seguito dal comune di Frosinone, poiché non risultano indicati gli elementi specifici a sostegno dell'attribuzione del valore venale degli immobili come tutti gli elementi e i parametri di riferimento e l'esposizione dei calcoli effettuati per dimostrare i risultati ottenuti.
L'amministrazione comunale aveva l'obbligo di allegare gli atti posti a fondamento degli accertamenti, la deliberazione del consiglio comunale n. 40 dell'01/07/2010, quale atto richiamato nell'accertamento come impone l'art. 7 della legge 212/2000.
La Commissione rileva, altresì, che non compete al contribuente la ricostruzione dei conteggi attraverso difficili operazioni interpretative così, come statuito anche dalla Corte di cassazione con la sentenza 18415/2005.
Pertanto il ricorso va accolto e le spese vano compensate in quanto ricorrono giusti motivi (articolo ItaliaOggi Sette del 07.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Il frazionamento è ristrutturazione. Consiglio di Stato. La cessione sconta il valore aggiunto al 10% anziché al 22%.
Il decreto legge 133/2014 “Sblocca cantieri”, che ha ampliato la categoria edilizia della “manutenzione straordinaria” non deve essere applicato agli interventi di frazionamento/accorpamento realizzati prima del 12.11.2014.
Ad affermarlo è il Consiglio di Stato, che con la sentenza 21.09.2015 n. 4381 indirettamente risolve anche un’annosa questione ai fini Iva, legata alla cessione di immobili oggetto di frazionamento o accorpamento.
Dal 12.11.2014, infatti, ci si interrogava se nelle cessioni di immobili oggetto di frazionamento o accorpamento realizzate prima di questa data, il soggetto passivo dovesse fatturare comunque con aliquota ordinaria del 22 per cento prevista per unità immobiliari oggetto di interventi di manutenzione straordinaria, oppure la cessione dovesse avvenire con aliquota ridotta del 10 per cento, in quanto i frazionamenti e accorpamenti fino al 12.11.2014 erano considerati interventi di ristrutturazione edilizia. Mentre dal 12.11.2014, non era più chiaro se fossero «ristrutturazione edilizia» o «manutenzione straordinaria».
La decisione del Consiglio di Stato ha chiarito che «integrano gli estremi della ristrutturazione edilizia gli accorpamenti e i frazionamenti delle unità immobiliari e gli interventi che alterino l'originaria consistenza fisica dell'immobile con l’inserimento di nuovi impianti e la modifica di distribuzione di volumi».
Questo significa che l’impresa che cede le unità immobiliari accorpate o frazionate ha lo status di impresa ristrutturatrice e quindi, se l’operazione di cessione è soggetta ad Iva, si applicherà sempre l’aliquota del 10 per cento, o del 4 per cento nel caso in cui l’acquirente dichiari nell’atto di acquisto di possedere i requisiti prima casa
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2015).
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MASSIMA
Il terzo e quarto motivo di appello contengono censure che riguardano le questioni di merito della controversia.
Con il primo dei suddetti mezzi parte appellante rileva la erroneità delle sentenza nella parte in cui ha statuito che nella specie con la variante de qua sarebbero state autorizzate opere di ristrutturazione.
Al contrario, secondo il Comune di Putignano, siamo in presenza di consentiti lavori di manutenzione straordinaria con l’inserimento di volumi tecnici (impianto di ascensore) e frazionamento e accorpamento di unità immobiliari.
In ogni caso si renderebbe senz’altro applicabile la normativa di recente introdotta con il D.L. n. 133/2014 convertito dalla legge n. 164/2014 che ha ampliato la fattispecie della manutenzione straordinaria con inclusione del tipo di opere qui autorizzate
La fondatezza o meno delle critiche al riguardo svolte da parte appellante impone che si vada ad indagare in ordine alla concreta ed effettiva portata dei lavori assentiti ed in base a dati rilevabili dalla documentazione tecnico-amministrativa esistente si deve a dare atto che l’intervento edilizio autorizzato con la variante de qua prevede:
- l’inserimento di un vano ascensore in posizione diversa da quella inizialmente prevista con foratura delle volte a botte dell’edificio sia pure in misura ridotta;
- l’aumento dell’altezza dei vani depositi siti in terrazzo;
- modifica delle unità abitative al secondo piano con trasformazione di una singola unità in due appartamenti.
Ora
avuto riguardo alla natura e consistenza delle opere sopra descritte appare veramente difficile ipotizzare che nella specie si configurano lavori edilizi riconducibili alla nozione di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, tipologia edilizia che per il vero si addice ad altri interventi, certamente meno invasivi di quelli autorizzati con il provvedimento di che trattasi.
Invero
integrano gli estremi della ristrutturazione edilizia gli accorpamenti e i frazionamenti delle unità immobiliari e gli interventi che alterino l’originaria consistenza fisica dell’immobile con l’inserimento di nuovi impianti e la modifica di distribuzione di volumi (esattamente come avvenuto nel caso de quo) mentre la manutenzione straordinaria e il risanamento conservativo presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie (Cons. Stato Sez. V n. 5775/2002).
Le opere de quibus comportano quelle modifiche strutturali che impediscono di farle annoverare nella tipologia della manutenzione straordinaria e con la concessione in variante è stato autorizzato un intervento “nuovo“ e diverso, non consentito dalla normativa urbanistica vigente.
Parte ricorrente invoca l’applicabilità della categoria di manutenzione straordinaria (modificativa dell’art. 3 del dpr n. 38072001) come configurata dalla normativa recentemente introdotta dal legislatore con la legge n. 164/2014, ma è evidente che
la verifica di legittimità va effettuata con riferimento alla disciplina vigente al momento del rilascio del titolo edilizio secondo il noto principio del tempus regit actum (fatti salvi ovviamente gli eventuali ulteriori provvedimenti da assumersi, se ed in quanto possibile, da parte del Comune, compatibilmente s’intende con le altre normative di tutela pure nella specie da osservarsi e sempreché il tutto sia possibile con riferimento alla vigente disciplina urbanistica locale).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti ma non mediatori. La p.a. può negare la possibilità di avere l'incarico. Secondo il Consiglio di stato si tratta di decisione che rientra nella discrezionalità.
Negare al dipendente pubblico la possibilità di assumere l'incarico di mediatore civile non può ritenersi una decisione illegittima trattandosi di scelta rimessa alla discrezionalità dell'amministrazione.

Lo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 04.08.2015 n. 3843.
Nel caso concreto, un graduato (assistente capo) della polizia ha chiesto di essere autorizzato allo svolgimento dell'attività di «mediatore civile».
L'amministrazione di appartenenza ha rigettato l'istanza, ritenendo l'attività di conciliatore incompatibile con il servizio pubblico ricoperto.
Il dipendente ha, dunque, adito il tribunale amministrativo regionale al fine di ottenere l'annullamento del diniego. Tra vari argomenti, il ricorrente ha sottolineato l'assenza di profili di incompatibilità tra l'attività di mediatore e quella assunta alle dipendenze della p.a. nonché, in ogni caso, il carattere saltuario e non continuativo dell'impiego «in aggiunta».
Il Tar, nel dar seguito alle ragioni del lavoratore, ha accolto la domanda annullando il provvedimento impugnato. Secondo il tribunale, infatti, l'assunzione -formale e astratta- della qualifica di «mediatore civile» non incorre in alcuna incompatibilità; non comporta, di per sé, alcuna interferenza con il servizio; e non pone problemi di opportunità.
Nondimeno -hanno spiegato i giudici di primo grado- eventuali criticità possono derivare in virtù delle peculiarità della singola controversia da mediare, motivo per cui è necessario che il giudizio autorizzatorio dell'amministrazione operi «case by case». In altri termini, l'eventuale stato di incompatibilità non scatterebbe in automatico con la mera assunzione della qualifica di mediatore, bensì con l'accettazione di un incarico riferito a una determinata lite.
Di tutt'altra opinione si è mostrato il consiglio di stato, adito con ricorso in appello. Secondo il supremo consesso, infatti, la decisione sul se autorizzare o meno l'incarico di mediatore è rimessa alla piena discrezionalità dell'amministrazione di appartenenza. La rappresentazione offerta dal Tar, invero, non è coerente con il corredo normativo che regola l'attività del mediatore, i.e. la legge delega (cfr. art. 60, legge n. 69/2009), il decreto delegato (dlgs n. 28/2010) e il relativo regolamento attuativo (dm n. 180/2010).
La mediazione -hanno spiegato i giudici capitolini- «deve essere svolta da appositi organismi “professionali e indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione del servizio di conciliazione” avvalendosi di personale dotato di una specifica formazione e retribuito».
È vero che l'art. 6, comma 4, del regolamento apre alla possibilità che le funzioni di mediatore siano svolte da pubblici dipendenti. Tuttavia l'assunzione, in concreto, di siffatto ruolo non può discendere da una generalizzata autorizzazione legislativa, l'amministrazione di appartenenza dovendo intercedere tramite valutazioni che tengano conto della mission istituzionale e delle caratteristiche organizzative sue proprie.
In conclusione, secondo Palazzo Spada, non si può giudicare illegittima la posizione assunta dall'amministrazione che ritenga opportuno non autorizzare i propri agenti e funzionari ad assumere la qualità di mediatore. Trattasi, beninteso, di valutazioni discrezionali rispetto alle quali -così conclude la sentenza- «la stessa amministrazione potrebbe in futuro decidere diversamente» (articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO: Cassonetti solo in cortile se c’è il «porta a porta». Raccolta rifiuti. Tar Piemonte.
I cassonetti vanno messi nei cortili condominiali nel caso di raccolta di rifiuti “porta a porta”.
Il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 10.07.2015 n. 1169 ha ritenuto che i condòmini sono tenuti a posizionare i cassonetti della raccolta differenziata all’interno dei cortili quando in ambito cittadino siano attuati i sistemi di raccolta differenziata “porta a porta”.
Il condominio ricorrente aveva impugnato l’atto con cui il gestore del servizio pubblico di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani del Comune di Torino, aveva imposto al condominio di procedere alla collocazione dei cassonetti della raccolta differenziata all’interno del cortile condominiale, con l’obbligo di esporli sulla pubblica via nelle aree e nei giorni stabiliti dal gestore. A parere del condominio l’internalizzazione dei rifiuti non costituirebbe un principio di carattere generale, e in ogni caso ne consentirebbe la derogabilità in presenza di specifici presupposti .
Il Tar non ha condiviso l’argomentazione, ritenendo che il regolamento comunale di gestione dei rifiuti urbani prevedesse la collocazione dei cassonetti sul suolo pubblico salvo che non fossero attuati in ambito cittadino sistemi di raccolta differenziata “porta a porta”, nel qual caso scatterebbe il diverso principio secondo cui i proprietari privati hanno l’obbligo di posizionare i cassonetti della raccolta differenziata all’interno degli spazi pertinenziali di proprietà e di esporli su suolo pubblico nei giorni e nelle ore di raccolta stabiliti dal gestore del servizio pubblico.
Pertanto, avendo il Comune di Torino introdotto già da tempo il sistema di raccolta differenziata “porta a porta” in ambito cittadino, estendendolo gradualmente nel corso del tempo alle diverse zone cittadine, il principio generale applicabile risultava quello della collocazione dei cassonetti all’interno degli spazi pertinenziali di proprietà privata.
Il Tar, pur riconoscendo che la circolare del presidente della giunta regionale n. 3 del 25.07.2005 ammetteva delle deroghe nel caso in cui l’internalizzazione dei cassonetti poteva costituire intralcio o ostacolo al passaggio nelle stesse pertinenze dei fabbricati o dare luogo a problemi igienici, ha ritenuto che nel caso di specie il gestore non aveva imposto al condominio una precisa collocazione dei cassonetti, ma i suoi dipendenti si erano limitati ad individuare quella collocazione come la più confacente.
In altre parole, il contenuto dell’imposizione del gestore era limitato all’obbligo del condominio di collocare i cassonetti all’interno del cortile condominiale. Restava in facoltà del condominio proporre al gestore una diversa collocazione dei cassonetti all’interno del cortile condominiale che arrecasse minor pregiudizio alle ragioni dei condomini e che nel contempo fosse tecnicamente attuabile senza pregiudizio per l’efficace gestione del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani.
La circostanza poi che l’internalizzazione dei cassonetti avrebbe sottratto dei posti già adibiti a parcheggio, a parere del Tribunale era irrilevante, trattandosi di meri interessi privati destinati a recedere a fronte dell’interesse pubblico alla corretta realizzazione del sistema di raccolta dei rifiuti “porta a porta
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2015).

EDILIZIA PRIVATADisabili, servoscala da motivare.
La persona diversamente abile ha bisogno di una piattaforma elevatrice nell'androne del palazzo per poter entrare e uscire liberamente di casa. Ma il Comune boccia il permesso di costruire perché il progetto non rispetta la larghezza minima prevista dai regolamenti per le rampe di scale e le porte di ascensore.
L'ente locale esclude una deroga al regolamento edilizio e di igiene limitandosi a osservare che l'interessato ben può far installare un servoscala, che non ha bisogno di autorizzazioni da parte dell'amministrazione. E invece no: perché se il dirigente dello sportello unico area territorio indica l'alternativa del montascale deve pure motivare spiegando come e perché sia una soluzione praticabile per il disabile, il quale invece chiede a gran voce la piattaforma.

È quanto emerge dalla
della sentenza 03.07.2015 n. 1541 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II.
Astratto e concreto
Annullato il rigetto del permesso di costruire. È vero: ai regolamenti comunali si può derogare soltanto quando non ci sono alternative praticabili. Ma il cittadino aziona un diritto che ha rilevanza costituzionale: l'eliminazione delle barriere architettoniche per poter svolgere una normale vita di relazione. Non basta che alla piattaforma elevatrice esista l'alternativa astratta del servoscala, il quale non ha invece bisogno di essere autorizzato neppure dal condominio se a spese del privato: è necessario coinvolgere l'interessato nell'istruttoria del procedimento per verificare se il montascale nel caso specifico possa davvero rispondere alle esigenze del disabile (articolo ItaliaOggi del 18.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl bar rumoroso deve chiudere prima. Schiamazzi. Per il Tar di Bolzano legittimo il provvedimento che dispone l’anticipo.
Se il bar che tiene aperto, senza riposo settimanale, fino alle prime ore del mattino, disturba i condòmini del caseggiato e quelli degli edifici vicini, è pienamente legittimo il provvedimento del sindaco che, per preservare la pubblica quiete, dispone l’anticipazione dell’orario di chiusura serale, compromettendo in parte i profitti del gestore del locale.
È quanto affermato dal TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano nella sentenza 11.06.2015 n. 193.
La pronuncia si presenta di notevole interesse, perché relativa a una situazione di fatto sempre più diffusa nelle città dove si moltiplicano i pubblici esercizi che somministrano alimenti e bevande fino all’orario serale di chiusura fissato ben oltre la mezzanotte.
In questi locali è evidente che i numerosi avventori che affollano l’esercizio e spesso stazionano anche all’esterno degli stessi, provochino una situazione di schiamazzi e rumorosità diffusa, tale da pregiudicare il riposo delle persone che abitano nelle immediate vicinanze.
Nel caso esaminato dal Tar, un bar aperto sino alle prime ore del mattino (e senza riposo settimanale), a causa del forte rumore di musica proveniente dal locale (che lasciava porte e finestre spalancate) e del comportamento dei clienti (che gettavano rifiuti nelle vicinanze, danneggiavano beni privati e pubblici, ostruivano gli accessi ai caseggiati con parcheggi “selvaggi”), suscitava le proteste degli abitanti del caseggiato in cui si trovava il locale e di numerosi residenti della zona.
I comportamenti molesti proseguivano anche dopo l’orario di chiusura, richiedendo il frequente intervento della polizia municipale e dei carabinieri.
Per quanto sopra il Sindaco, per preservare la pubblica quiete, l’ordine e la sicurezza, disponeva l’anticipazione dell’orario di chiusura serale del locale alle ore 22.00, con effetto immediato.
Al titolare del locale non rimaneva che ricorre al Tar di Bolzano contestando l’inesistenza dei presupposti necessari per giustificare il provvedimento e le inevitabili conseguenze economiche per la riduzione forzata dell’attività.
Tutte questi motivi di ricorso, però, venivano respinti dal Tar Bolzano che condivideva pienamente la decisione adottata dal Sindaco: le molteplici e ripetute lamentele formulate dagli abitanti della zona costituiscono un’evidente prova dei disagi arrecati dal locale in questione, soprattutto se la fondatezza di quelle doglianze risulta riscontrata ed avvalorata dalle relazioni di servizio dell’autorità di pubblica sicurezza, dalle quali si ricava l’esigenza di tutela del diritto alla quiete e alla sicurezza.
Di conseguenza, come sottolineano gli stessi giudici amministrativi, il sacrificio imposto al gestore di anticipare l’orario di chiusura risulta pienamente adeguato e proporzionato agli interessi generali da tutelare (salute e sicurezza delle persone) che devono ritenersi comunque prevalenti su quelli puramente economici di quanti costituiscano la causa diretta o indiretta del disturbo o su quelli dei clienti, tenuti a rispettare elementari regole di convivenza civile
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.12.2015).

EDILIZIA PRIVATANo al placet sui gazebo.
Per installare gazebo sui terrazzi non è necessario chiedere autorizzazioni. L'utilizzo delle coperture come terrazze non comporta un cambio della loro destinazione d'uso, ma è necessario rispettare determinati accorgimenti.

È quanto sostiene il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la
sentenza 21.01.2015 n. 177.
Le coperture orizzontali degli edifici in città, in cui dette coperture non richiedono protezioni con tegole o strutture spioventi, vengono normalmente utilizzate come terrazze –cioè come spazi architettonici aperti e agibili, per quanto accessori ad appartamenti sottostanti– con regole private che ne disciplinano l'eventuale uso comune dei condomini (specie, almeno in passato, come stenditoi condominiali).
Ne consegue che non vi è alcun mutamento di destinazione d'uso quando, come nella specie, una di queste coperture venga utilizzata quale terrazza, utilizzabile nei modi e con i titoli abilitativi, previsti per tali porzioni immobiliari (articolo ItaliaOggi del 12.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sì al gazebo e all’arredo sul terrazzo. Modifiche «libere» ai locali tecnici e che non rappresentano volumi. Consiglio di Stato. Senza speciali permessi possibili interventi per consentire l’utilizzo nel tempo libero.
Nuove possibilità di utilizzo dei terrazzi, valorizzandoli anche per usi temporanei: lo consente la sentenza 21.01.2015 n. 177 del Consiglio di Stato - Sez. VI, relativa al centro storico di Roma.
Il caso deciso riguarda una nota casa di moda, che aveva collocato sette gazebi su un terrazzo piano, diventato luogo di ricevimenti. Il dissenso del Comune è stato annullato, qualificando minimo il peso dell’intervento.
Molti altri terrazzi, centrali e panoramici, possono ora essere utilizzati, e non più solo per antenne televisive; chi ha stenditoi coperti o locali per serbatoi idrici, può attrezzarli per altre finalità di servizio, ed anche chi ha solo lastrici, cioè superfici piani, può pensare ad usi –anche temporanei- con opportuni arredi ed accorgimenti.
Ad esempio, si possono modificare l’ascensore e l’ultima rampa di scale, partendo dal presupposto che il terrazzo già esiste e che quindi ne muta solo l’utilizzo temporaneo. Locali tecnici e strutture che non rappresentano volumi, sono, infatti, consentiti e agevolati da norme urbanistiche (articolo 6 Dpr 380/2001 modificato nel 2012 e nel 2014), che eliminano la necessità di ottenere di permessi (espressi o taciti). Gli elementi di arredo, così come quelli ludici per il tempo libero, ad esempio una vasca con idromassaggio, sono infatti sempre consentiti (se vi sono solai con adeguati requisiti statici).
Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato vi erano stati appunto il rifacimento del vano di “fine corsa” dell’ascensore e la copertura di una scala esterna mediante pannelli amovibili; la stessa scala era stata modificata, allargandola fino a 120 centimetri. Tutto ciò è stato ritenuto consentito con mera dichiarazione di inizio lavori (oggi, Cia) partendo dal presupposto che queste modifiche non generano una diversa qualificazione dell’area, da mero lastrico solare a terrazza, quando vi siano caratteristiche costruttive tali da rendere la superficie idonea al «sostegno e sosta di persone».
Nel caso specifico, con una perizia era stata dimostrata un’elevata capacità portante del solaio, con un carico variabile da 350 a 500 kg al metro quadrato, corrispondente a “folla compatta”. Inoltre, vi erano già parapetti. Problemi di utilizzazione dell’ultimo livello degli edifici possono invece sorgere da parte dei sottostanti condomini, qualora il bene risulti comune e a tutti accessibile; se invece il terrazzo è usato unicamente dal proprietario dell’ultimo piano, che vi ha accesso esclusivo (consentito una tantum a terzi, per gestire le antenne), può sostenersi che la proprietà sia esclusiva.
In ogni caso, la parziale trasformazione di un sottotetto a falde inclinate (volume tecnico di proprietà esclusiva), in terrazza di piccole dimensioni, è agevolato dall’orientamento della Cassazione (1737/2005), purché si garantiscano isolamento e coibentazione. Ciò perché il Codice civile impone di preservare la destinazione dei beni, intendendola tuttavia in senso complessivo e quindi ammettendo modifiche parziali della falda.
Per i terrazzi nei centri storici e su beni tutelati possono sorgere problemi per vincoli ambientali, se le strutture necessarie all’utilizzo dell’area risultino permanenti e di impatto. Diversamente, per piccole modifiche, si applica l’autorizzazione semplificata ambientale (Dpr 139/2010), mentre per quelle di maggior peso sono poi possibili autorizzazioni ambientali provvisorie (party, settimane promozionali).
Un dissenso rilevante, che può impedire l’impiego del terrazzo, può infine venire da proprietari di zone adiacenti, che possono lamentarsi per servitù di veduta (dall’alto) sulle loro proprietà: basta tuttavia la preesistenza di un parapetto per far presumere il precedente utilizzo effettivo del terrazzo, tenendo presente che la servitù non si aggrava se aumenta il numero delle persone che ne fruiscono. Ciò avviene solo se muta la stabile utilizzazione del terrazzo, ad esempio da uso privato a pubblico esercizio
 (articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2015).

AGGIORNAMENTO AL 21.12.2015

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Incentivo alla progettazione interna per opere di manutenzione straordinaria:
la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deferisce alla Sezione delle Autonomie ovvero alle Sezioni riunite il
quesito relativo alla possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna sospende la pronuncia e sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione circa la decisione di deferire alla Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite la questione oggetto della richiesta di parere in esame relativa alla possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
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Il Comune di Coriano (RN) ha rivolto alla Sezione una richiesta di parere con la quale intende conoscere se, in relazione a quanto previsto dall’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, introdotto dal decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito in legge 11.08.2014, n. 114, sia possibile riconoscere l’incentivo di progettazione alle attività qualificabili come manutentive, sia
straordinarie che ordinarie, susseguenti ad una preventiva attività di progettazione.
...
1. Il quesito proposto consiste nello stabilire se la disciplina prevista nell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice degli appalti pubblici), in materia di cd. ‘compenso incentivante’ possa essere applicata anche in relazione ad attività manutentive, sia straordinarie sia ordinarie, susseguenti ad una preventiva attività di progettazione.
1.1. Preliminarmente la Sezione rileva che la materia de qua, originariamente disciplinata dall’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 è stata oggetto di recenti e rilevanti modifiche. L’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 ha abrogato i commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice degli appalti, e l’articolo 13-bis, aggiunto in sede di conversione in legge, ha inserito, nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione per gli appalti e le concessioni di lavori"), i commi da 7-bis a 7-quinquies.
Per la disamina di tali modifiche si rinvia al
parere 19.09.2014 n. 183 di questa Sezione (punto n. 4 della parte in diritto). Sinteticamente si rammenta che, a decorrere dal 19.08.2014 (data di entrata in vigore delle modifiche introdotte in sede di conversione del citato decreto-legge), è stata prevista una nuova disciplina in materia di incentivi spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni per le attività di progettazione. Tra le novità più importanti messe in evidenza nella citata deliberazione, si ricordano la esclusiva riconducibilità della disciplina dell’incentivo alla progettazione alla sola realizzazione di opere pubbliche e non ad attività di pianificazione territoriale, l’esclusione della possibilità di riconoscere tale emolumento al personale con qualifica dirigenziale.
Il comma 7-bis demanda ad un apposito regolamento dell’ente la determinazione della percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da destinare agli incentivi per la progettazione e l’innovazione.
Le risorse così determinate possono essere destinate per l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; il restante 20 per cento è destinato all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione di banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all’ammodernamento e all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006 demanda alla predetta fonte regolamentare di ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
1.2.
In relazione al riconoscimento dell’incentivo alla progettazione per gli interventi di manutenzione, giova rilevare che l’orientamento formatosi in sede di attività consultiva da parte delle Sezioni regionali di controllo ante novella del 2014 (Sez. Toscana parere 19.03.2013 n. 15 e parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Lombardia parere 06.03.2013 n. 72, Sez. Liguria parere 10.05.2013 n. 24), era stato nel senso di riconoscere il predetto emolumento solo per le attività di manutenzione straordinaria, purché si fosse resa necessaria un’attività di progettazione; viceversa, l’incentivo era escluso nelle ipotesi di interventi qualificabili come attività di manutenzione ordinaria.
Nella nuova formulazione del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. 163/2006 le attività di manutenzione sono espressamente escluse.
Sull’interpretazione di tale disposizione non vi è uniformità di indirizzo da parte delle Sezioni regionali di controllo che si sono sinora pronunciate.

Secondo un orientamento (cfr. Sez. Lombardia parere 28.10.2015 n. 351 e Sez. Marche parere 17.12.2014 n. 1414)
l’incentivo alla progettazione può essere riconosciuto per le attività di manutenzione straordinaria, purché si sia resa necessaria una preventiva attività di progettazione. Le argomentazioni sulle quali tale orientamento si fonda sono rappresentate dalla opportunità di coniugare l’interpretazione letterale della disposizione in parola con un’interpretazione sistematica che tenga conto anche di altre disposizioni legislative, seppur dettate ad altri fini.
Si richiamano, in particolare, l’articolo 3, comma 1, lett. b), DPR 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico in materia di edilizia) che definisce le attività di manutenzione straordinaria; l’articolo 3, commi 7 e 8, del d.lgs. 163/2006 che include nell’ambito degli appalti pubblici di lavori anche “le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione di opere”; l’articolo 3, comma 18, lett. a) e b), della legge 24 dicembre 2003, n. 350 che equipara gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli come spese di investimento per le quali è consentito il ricorso all’indebitamento (cfr. Sez. Marche, parere 17.12.2014 n. 141, richiamata da Sez. Lombardia parere 28.10.2015 n. 351).
Secondo il contrapposto orientamento (cfr. Sez. Toscana parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria, parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione regionale di controllo ritiene di aderire-
l’interpretazione letterale della norma porta a sostenere che ogni tipologia di attività manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione, non possa essere remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Le argomentazioni sulle quali tale orientamento si fonda sono rappresentate dalla utilizzazione dei “comuni canoni ermeneutici sanciti dall’articolo 12 delle preleggi che impone all’interprete di privilegiare, tra le possibili interpretazioni, quella più conforme alla lettera della norma”, che espressamente esclude dall’incentivo le “attività manutentive”. 

Anche la ratio legis ed un’interpretazione sistematica conducono ad escludere la possibilità di corrispondere l’incentivo per le attività di manutenzione in quanto il richiamo operato alla legge 350/2003 non sarebbe pertinente in quanto rispondente alla diversa ratio di tutelare “il patrimonio immobiliare degli enti pubblici al fine di evitare che gli enti dilapidino il proprio patrimonio per fronteggiare impellenti esigenze di cassa” (Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71). Viceversa, la ratio della normativa in tema di incentivi alla progettazione è quella di “valorizzare al massimo le competenze e professionalità tecniche possedute dal personale dipendente degli enti pubblici e ad evitare nel contempo di ricorrere, per le attività di progettazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche, a personalità esterne con conseguente aggravio di costi (Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71).
A tali argomentazioni, che questa Sezione regionale condivide pienamente poiché tengono conto del dato letterale della norma che, in quanto norma derogatoria, non può che essere considerata norma di stretta interpretazione, va aggiunta anche la considerazione che nel disegno di legge delega al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE in materia di concessioni e di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Atto Senato 1678-B, attualmente in Commissione al Senato) è contenuto un criterio di delega (lettera “rr” del testo in discussione al Senato) nel quale si prevede di destinare il compenso incentivante (sempre fissato nell’importo del 2 per cento dell’importo posto a base di gara) non più per la remunerazione delle fasi della progettazione, quanto piuttosto per le fasi “della programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento ai profili dei tempi e dei costi”.
Pur trattandosi di una norma non ancora in vigore, ritiene la Sezione che da essa possa trarsi un ulteriore elemento mediante il quale rafforzare l’interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 che espressamente esclude dall’incentivo qualsiasi attività di manutenzione, senza far distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.

La Sezione, preso atto della difformità di orientamenti tra diverse Sezioni regionali di controllo, ritiene di dover investire della questione il Presidente della Corte dei conti ai fini della valutazione della rimessione alle Sezioni Riunite o alla Sezione delle autonomie.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna
sospende la pronuncia e sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione circa la decisione di deferire alla Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174 la questione oggetto della richiesta di parere in esame relativa alla possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114 (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.12.2015 n. 156).

INCENTIVO PROGETTAZIONELa Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna sospende la pronuncia in relazione al quesito indicato sub 1 nella parte motiva e, limitatamente al suddetto quesito, sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione circa la decisione di deferire alla Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite il suddetto quesito relativo alla possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
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la Sezione, contrariamente a quanto rappresentato dall’Ente nella richiesta di parere, non ravvisa il contrasto di interpretazioni tra la Sezione Lombardia e la Sezione Marche, nonché rispetto all’orientamento espresso dall’ANAC.
Su tale aspetto della disciplina in esame
l’orientamento della Sezioni di regionali di controllo che sinora si sono espresse è univoco nel senso di ritenere che -trattandosi di una disposizione di carattere derogatorio rispetto alla disciplina generale sul trattamento economico del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni (cfr. art. 24 d.lgs. 165/2001) non suscettibile, pertanto, di interpretazione analogica e/o estensiva- l’incentivo in parola possa essere corrisposto solo alle figure professionali tassativamente indicate dal legislatore.
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La disciplina introdotta dal d.l. 90/2014 in materia di riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione, proprio in quanto non costituisce norma di interpretazione autentica, non può essere applicata in via retroattiva.
Da tale principio consegue che la corresponsione del compenso incentivante per fasi finali di opere pubbliche iniziate nel vigore della vecchia disciplina contenuta nell’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 e nei relativi regolamenti degli enti deve avvenire secondo i criteri ed i parametri ivi previsti.

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Il Comune di Ferrara ha rivolto alla Sezione tre quesiti in tema di fondo per la progettazione e l’innovazione di cui all’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Con il primo quesito l’Ente chiede
se le opere di manutenzione sono completamente escluse dal riparto del predetto fondo, oppure se è possibile distinguere tra attività di manutenzione ordinaria, escluse dall’incentivo, e progetti per lavori di manutenzione straordinaria, che, differenziandosi dai primi per natura dei lavori e complessità, richiedono un’attività progettuale specialistica, e se, in quest’ultimo caso possano essere incentivati.
Con il secondo quesito l’Ente intende sapere se tra i beneficiari del fondo, oltre alle categorie di personale indicate nell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, possa essere incluso anche il personale dei ruoli amministrativo e/o contabile.
Infine, con il terzo quesito l’Ente chiede di conoscere se per la prosecuzione e ultimazione di attività iniziate precedentemente alla data del 19/08/2014 (data di entrata in vigore della nuova disciplina in tema di compenso incentivante) si dovrà applicare il regolamento vigente all’epoca del progetto o dovrà essere applicato un nuovo regolamento, che andrà a modificare il quadro economico, per la suddivisione dell’incentivo in 80% + 20% e di conseguenza anche gli importi dei singoli beneficiari.
...
1. Con il primo quesito il Comune di Ferrara chiede se il cd. compenso incentivante previsto dal novellato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006 possa essere corrisposto per le attività di manutenzione straordinaria, che, a differenza di quelle di manutenzione ordinaria, per le quali l’incentivo andrebbe certamente escluso, in ragione della natura dei lavori e della loro complessità, richiedono un’attività progettuale specialistica tale da giustificare la corresponsione del compenso.
1.1. Preliminarmente la Sezione rileva che la materia de qua, originariamente disciplinata dall’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 (codice degli appalti pubblici), è stata oggetto di recenti e rilevanti modifiche. L’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 ha abrogato i commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice degli appalti, e l’articolo 13-bis, aggiunto in sede di conversione in legge, ha inserito, nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione per gli appalti e le concessioni di lavori"), i commi da 7-bis a 7-quinquies.
Per la disamina di tali modifiche si rinvia al
parere 19.09.2014 n. 183 di questa Sezione (punto n. 4 della parte in diritto). Sinteticamente si rammenta che, a decorrere dal 19.08.2014 (data di entrata in vigore delle modifiche introdotte in sede di conversione del citato decreto-legge), è stata prevista una nuova disciplina in materia di incentivi spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni per le attività di progettazione.
Tra le novità più importanti messe in evidenza nella citata deliberazione, si ricordano la esclusiva riconducibilità della disciplina dell’incentivo alla progettazione alla sola realizzazione di opere pubbliche e non ad attività di pianificazione territoriale, l’esclusione della possibilità di riconoscere tale emolumento al personale con qualifica dirigenziale.
Il comma 7-bis demanda ad un apposito regolamento dell’ente la determinazione della percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da destinare agli incentivi per la progettazione e l’innovazione.
Le risorse così determinate possono essere destinate per l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; il restante 20 per cento è destinato all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione di banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all’ammodernamento e all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006 demanda alla predetta fonte regolamentare di ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
1.2.
In relazione al riconoscimento dell’incentivo alla progettazione per gli interventi di manutenzione, giova rilevare che l’orientamento formatosi in sede di attività consultiva da parte delle Sezioni regionali di controllo ante novella del 2014 (Sez. Toscana parere 19.03.2013 n. 15 e parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Lombardia parere 06.03.2013 n. 72, Sez. Liguria parere 10.05.2013 n. 24), era stato nel senso di riconoscere il predetto emolumento solo per le attività di manutenzione straordinaria, purché si fosse resa necessaria un’attività di progettazione; viceversa, l’incentivo era escluso nelle ipotesi di interventi qualificabili come attività di manutenzione ordinaria.
Nella nuova formulazione del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. 163/2006 le attività di manutenzione sono espressamente escluse.
Sull’interpretazione di tale disposizione non vi è uniformità di indirizzo da parte delle Sezioni regionali di controllo che si sono sinora pronunciate.

Secondo un orientamento (cfr. Sez. Lombardia parere 28.10.2015 n. 351 e Sez. Marche parere 17.12.2014 n. 141)
l’incentivo alla progettazione può essere riconosciuto per le attività di manutenzione straordinaria, purché si sia resa necessaria una preventiva attività di progettazione. Le argomentazioni sulle quali tale orientamento si fonda sono rappresentate dalla opportunità di coniugare l’interpretazione letterale della disposizione in parola con un’interpretazione sistematica che tenga conto anche di altre disposizioni legislative, seppur dettate ad altri fini.
Si richiamano, in particolare, l’articolo 3, comma 1, lett. b), DPR 06.06.2001, n. 380 (Testo unico in materia di edilizia) che definisce le attività di manutenzione straordinaria; l’articolo 3, commi 7 e 8, del d.lgs. n. 163/2006 che include nell’ambito degli appalti pubblici di lavori anche “le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione di opere”; l’articolo 3, comma 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 che equipara gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli come spese di investimento per le quali è consentito il ricorso all’indebitamento (cfr. Sez. Marche, parere 17.12.2014 n. 141, richiamata da Sez. Lombardia parere 28.10.2015 n. 351).
Secondo il contrapposto orientamento (cfr. Sez. Toscana parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria, parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione regionale di controllo ritiene di aderire-
l’interpretazione letterale della norma porta a sostenere che ogni tipologia di attività manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione, non possa essere remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Le argomentazioni sulle quali tale orientamento si fonda sono rappresentate dalla utilizzazione dei “comuni canoni ermeneutici sanciti dall’articolo 12 delle preleggi che impone all’interprete di privilegiare, tra le possibili interpretazioni, quella più conforme alla lettera della norma”, che espressamente esclude dall’incentivo le “attività manutentive”.
Anche la ratio legis ed un’interpretazione sistematica conducono ad escludere la possibilità di corrispondere l’incentivo per le attività di manutenzione: il richiamo operato alla legge 350/2003 non sarebbe pertinente in quanto rispondente alla diversa ratio di tutelare “il patrimonio immobiliare degli enti pubblici al fine di evitare che gli enti dilapidino il proprio patrimonio per fronteggiare impellenti esigenze di cassa (Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71). Viceversa, la ratio della normativa in tema di incentivi alla progettazione è quella di “valorizzare al massimo le competenze e professionalità tecniche possedute dal personale dipendente degli enti pubblici e ad evitare nel contempo di ricorrere, per le attività di progettazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche, a personalità esterne con conseguente aggravio di costi (Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71).
A tali argomentazioni, che questa Sezione regionale condivide pienamente poiché tengono conto del dato letterale della norma che, in quanto norma derogatoria, non può che essere considerata norma di stretta interpretazione, va aggiunta anche la considerazione che nel disegno di legge delega al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE in materia di concessioni e di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (Atto Senato 1678-B, attualmente in Commissione al Senato) è contenuto un criterio di delega (lettera “rr” del testo in discussione al Senato) nel quale si prevede di destinare il compenso incentivante (sempre fissato nell’importo del 2 per cento dell’importo posto a base di gara) non più per la remunerazione delle fasi della progettazione, quanto piuttosto per le fasi “della programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento ai profili dei tempi e dei costi”.
Pur trattandosi di una norma non ancora in vigore, ritiene la Sezione che da essa possa trarsi un ulteriore elemento mediante il quale rafforzare l’interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 che espressamente esclude dall’incentivo qualsiasi attività di manutenzione, senza far distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.

La Sezione, preso atto della difformità di orientamenti tra diverse Sezioni regionali di controllo, ritiene di dover investire della questione il Presidente della Corte dei conti ai fini della valutazione della rimessione alle Sezioni Riunite o alla Sezione delle autonomie.
2. Con il secondo quesito il Comune di Ferrara chiede di conoscere se il compenso incentivante possa essere riconosciuto, oltre al personale del ruolo tecnico elencato nel comma 7-ter (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori), anche al personale dei ruoli amministrativo e/o contabile.
Sul punto
la Sezione, contrariamente a quanto rappresentato dall’Ente nella richiesta di parere, non ravvisa il contrasto di interpretazioni tra la Sezione Lombardia (parere 26.03.2014 n. 135) e la Sezione Marche (parere 17.12.2014 n. 141), nonché rispetto all’orientamento espresso dall’ANAC nel parere sulla normativa del 27.05.2015 - rif. AG 41/2015/AC.
Su tale aspetto della disciplina in esame
l’orientamento della Sezioni di regionali di controllo che sinora si sono espresse è univoco nel senso di ritenere che -trattandosi di una disposizione di carattere derogatorio rispetto alla disciplina generale sul trattamento economico del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni (cfr. art. 24 d.lgs. 165/2001) non suscettibile, pertanto, di interpretazione analogica e/o estensiva- l’incentivo in parola possa essere corrisposto solo alle figure professionali tassativamente indicate dal legislatore.
3. Con il terzo ed ultimo quesito l’Ente chiede di conoscere se per la prosecuzione e ultimazione di attività iniziate precedentemente alla data del 19/08/2014 (data di entrata in vigore della nuova legge) si dovrà applicare il regolamento vigente all’epoca del progetto o dovrà essere applicato il nuovo regolamento, che andrà a modificare il quadro economico, per la suddivisione dell’incentivo in 80% e 20% e di conseguenza anche gli importi dei singoli beneficiari.
Ai fini della soluzione del quesito in esame, che riguarda una questione di diritto intertemporale, la Sezione ritiene di poter richiamare l’orientamento espresso dalla Sezione delle autonomie nella deliberazione 24.03.2015 n. 11. Nella suddetta delibera è stato affermato il principio secondo il quale
la disciplina introdotta dal d.l. 90/2014 in materia di riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione, proprio in quanto non costituisce norma di interpretazione autentica, non può essere applicata in via retroattiva.
Da tale principio consegue che la corresponsione del compenso incentivante per fasi finali di opere pubbliche iniziate nel vigore della vecchia disciplina contenuta nell’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 e nei relativi regolamenti degli enti deve avvenire secondo i criteri ed i parametri ivi previsti.

P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna:
-
sospende la pronuncia in relazione al quesito indicato sub 1 nella parte motiva e, limitatamente al suddetto quesito, sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione circa la decisione di deferire alla Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174 il suddetto quesito relativo alla possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114;
- rende il parere nei termini di cui in motivazione per i quesiti sub 2 e 3;
- dispone che la presente deliberazione venga trasmessa, a cura della Segreteria all’Ufficio di Presidenza della Corte dei conti, al Presidente del Consiglio delle autonomie locali della Regione Emilia-Romagna e al Comune di Ferrara e che l’originale della presente pronuncia resti depositato presso la predetta Segreteria (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.12.2015 n. 155).

 

Ed altre pronunce, ancora, sull'incentivo alla progettazione interna:

INCENTIVO PROGETTAZIONELa legge individua alcune regole generali per la ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto regolamentare interno alla singola amministrazione, assunto previa contrattazione decentrata.
I parametri a cui il regolamento interno deve conformarsi sono stati a più riprese ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte e cioè:
-
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi);
-
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
-
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione;
-
devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
---------------
L'istituto dell“incentivo alla progettazione”, costituendo eccezione al principio di onnicomprensività della retribuzione, finalizzato ad incentivare il ricorso alle professionalità interne dell’Ente (oltre che deroga alla riserva di contrattazione collettiva in materia determinazione del corrispettivo delle prestazione dei dipendenti), è considerato di stretta interpretazione e, di conseguenza, insuscettibile di applicazione analogica
.
Proprio in relazione a siffatta connotazione di disciplina,
le Sezioni regionali di controllo hanno espressamente escluso la riconoscibilità, per il futuro, dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione.
In questo senso si è espressa, da ultimo, la Sezione controllo Veneto che è giunta a conclusioni che questa Sezione condivide: “
in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva) (………) A seguito dei nuovi principi contenuti nel citato d.l. 90/2014, l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della norma -la quale, come si evince dalla formulazione della norma, espressamente prevede che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”- fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione”.
Alla luce dei principi sopra richiamati,
le “attività manutentive” escluse dall’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione comprendono anche le attività di manutenzione straordinaria.
---------------
In ordine alla questione se
, in caso di affidamento all’esterno dell’attività di progettazione, sia riconoscibile o meno al Responsabile Unico del Procedimento il relativo incentivo, la stessa è stata affrontata, da ultimo, dalla Sezione controllo Lombardia che, dopo aver ribadito la natura eccezionale della disciplina in esame, ha ricordato come, per orientamento costante delle Sezioni di controllo ed ai sensi del nuovo comma 7-ter dell’art. 93, l’attribuzione dell’incentivo afferisce alle sole attività concretamente affidate ed espletate, con confluenza in economia delle quote parti del fondo incentivante corrispondenti agli incarichi affidati all’esterno.
Le previsioni appena richiamate costituiscono, infatti, una declinazione, nello specifico settore considerato, del principio sancito in via generale dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
Da qui il precipitato per cui
la normativa vigente non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di tutta l’attività progettuale, purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
La gradazione proporzionale dell’entità degli incentivi, entro il limite generale posto dal legislatore, è rimessa all’autonomia regolamentare del singolo ente che dovrà essere conforme ai criteri di logicità, congruenza e ragionevolezza.
Sotto tale profilo è stato osservato che “
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”. Ciò in quanto l’incentivo alla progettazione costituisce, come già osservato, una deroga legislativa al principio di onnicomprensività della retribuzione.
Dalle coordinate ermeneutiche appena ricordate si desume, pertanto, che
l’erogazione dell’incentivo in questione a favore del RUP (soggetto rientrante nell’elencazione tassativa dell’art. 93) è subordinata al previo positivo accertamento dell’attività concretamente svolta, oltre che all’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo.
In caso di affidamento all’esterno di prestazioni, tuttavia, è compito del responsabile del procedimento, sotto la propria responsabilità, accertare e certificare la sussistenza dei presupposti dell’esternalizzazione enunciati dall’art. 90, co. 6, d.lgs. 163/2006 (carenza in organico di personale tecnico, difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, lavori di speciale complessità o rilevanza architettonica o ambientale, necessità di predisporre progetti integrali che richiedono l’apporto di particolari competenze).
Il ricorso all’esterno per le prestazioni in argomento, quindi, può avvenire solo nelle ipotesi tassativamente indicate, previa valutazione -per ciascuna di esse- dell’impossibilità di utilizzare le professionalità interne (art. 7, co. 6, d.lgs. 165/2001). Si tratta di presupposti dei quali il responsabile deve analiticamente dare conto nella propria certificazione, la cui motivazione dovrà essere particolarmente pregnante in caso di esternalizzazione dell’intera attività di progettazione.
In questo senso si è espressa la Sezione delle Autonomie che ha osservato come “
Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego".
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Il Sindaco del Comune di Racale (LE) chiede alla Sezione un parere in merito alla disciplina degli incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 d.lgs. 163/06, alla luce delle modifiche introdotte dagli artt. 13 e 13-bis d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014.
In particolare, il Sindaco formula i seguenti quesiti:
1) se le “attività manutentive escluse ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione ricomprendano non solo la manutenzione ordinaria, ma anche gli interventi di manutenzione straordinaria che comportino la redazione di un apposito progetto;
2) se, “in caso di affidamento all’esterno dell’attività di progettazione, sia riconoscibile o meno al Responsabile Unico del Procedimento il relativo incentivo.
...
Passando al merito della richiesta, l’Ente formula due quesiti vertenti sulla nuova disciplina del fondo per la progettazione e l’innovazione, scaturita dalle modifiche apportate nel corpo del c.d. codice dei contratti pubblici dal d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014. Il decreto citato, in particolare, ha abrogato (art. 13) i commi 5 e 6 dell’art. 92 d.lgs. 163/2006 ed ha introdotto quattro nuovi commi (art. 13-bis) nel testo dell’art. 93 del medesimo decreto legislativo (commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies).
I commi da ultimo citati, in particolare, delineano i nuovi tratti della materia, la quale, tuttavia, non vede stravolta la propria essenza di fondo rispetto alla disciplina previgente (su cui si richiamano i principi espressi da questa Sezione con parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114; si ricordano anche Sez. controllo Lombardia parere 06.03.2013 n. 72, parere 28.05.2014 n. 188,
parere 01.10.2014 n. 246 e parere 13.11.2014 n. 300; Sez. controllo Liguria parere 10.05.2013 n. 24, parere 24.10.2014 n. 60, parere 16.12.2014 n. 73 e parere 22.12.2014 n. 75; Sez. controllo Piemonte parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana parere 13.11.2012 n. 293, parere 19.03.2013 n. 15 e parere 12.11.2014 n. 237), prevedendo quanto segue: “7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento e all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente articolo
".
La legge, quindi, individua alcune regole generali per la ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto regolamentare interno alla singola amministrazione, assunto previa contrattazione decentrata.
I parametri a cui il regolamento interno deve conformarsi sono stati a più riprese ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte (Sezione controllo Lombardia
parere 01.10.2014 n. 246, Sezione controllo Piemonte parere 20.01.2015 n. 17, si richiama anche, con riferimento ai presupposti e limiti di erogabilità, Sezione controllo Campania parere 23.02.2015 n. 20):
-
erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi);
-
puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza;
-
devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione;
-
devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Premesso quanto sopra, la soluzione al quesito n. 1 avanzato dal Comune istante si fonda, da un lato, sul dato letterale della nuova disciplina (che, contrariamente al previgente art. 92, co. 5, espressamente esclude “le attività manutentive” dal riparto delle risorse del fondo), e, dall’altro lato, sul carattere eccezionale e derogatorio che da sempre è stato riconosciuto al c.d. “incentivo alla progettazione”.
Tale istituto, infatti, costituendo eccezione al principio di onnicomprensività della retribuzione, finalizzato ad incentivare il ricorso alle professionalità interne dell’Ente (oltre che deroga alla riserva di contrattazione collettiva in materia determinazione del corrispettivo delle prestazione dei dipendenti), è considerato di stretta interpretazione e, di conseguenza, insuscettibile di applicazione analogica (Sezione controllo Puglia
parere 18.07.2014 n. 133, Sezione controllo Campania parere 23.02.2015 n. 20, Sezione controllo Lombardia parere 01.10.2014 n. 246, Sezione controllo Umbria parere 14.05.2015 n. 71, Sezione controllo Veneto parere 09.09.2015 n. 393).
Proprio in relazione a siffatta connotazione di disciplina,
le Sezioni regionali di controllo hanno espressamente escluso la riconoscibilità, per il futuro, dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (ex multis, Sezione Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300 e parere 01.10.2014 n. 246; Sez. Toscana, parere 12.11.2014 n. 237; Sez. Emilia Romagna, parere 19.09.2014 n. 183; Sez. Liguria parere 24.10.2014 n. 60, Sezione controllo Umbria parere 14.05.2015 n. 71).
In questo senso si è espressa, da ultimo, la Sezione controllo Veneto che, con il già citato parere 09.09.2015 n. 393, è giunta a conclusioni che questa Sezione condivide: “
in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva) (………) A seguito dei nuovi principi contenuti nel citato d.l. 90/2014, l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della norma -la quale, come si evince dalla formulazione della norma, espressamente prevede che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”- fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità dell’incentivo di progettazione all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione”.
Alla luce dei principi sopra richiamati,
le “attività manutentive” escluse dall’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione comprendono anche le attività di manutenzione straordinaria.
Passando al quesito n. 2, il Comune chiede se, in caso di affidamento all’esterno dell’attività di progettazione, sia riconoscibile o meno al Responsabile Unico del Procedimento il relativo incentivo.
La questione è stata affrontata, da ultimo, dalla Sezione controllo Lombardia (
parere 01.10.2014 n. 247), che, dopo aver ribadito la natura eccezionale della disciplina in esame, ha ricordato come, per orientamento costante delle Sezioni di controllo ed ai sensi del nuovo comma 7-ter dell’art. 93, l’attribuzione dell’incentivo afferisce alle sole attività concretamente affidate ed espletate, con confluenza in economia delle quote parti del fondo incentivante corrispondenti agli incarichi affidati all’esterno (Sezione controllo Lombardia parere 01.10.2014 n. 247, nello stesso senso Sezione controllo Piemonte parere 02.10.2014 n. 197).
Le previsioni appena richiamate costituiscono, infatti, una declinazione, nello specifico settore considerato, del principio sancito in via generale dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”.
Da qui il precipitato per cui
la normativa vigente non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di tutta l’attività progettuale, purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
La gradazione proporzionale dell’entità degli incentivi, entro il limite generale posto dal legislatore, è rimessa all’autonomia regolamentare del singolo ente che dovrà essere conforme ai criteri di logicità, congruenza e ragionevolezza.
Sotto tale profilo è stato osservato che “
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni” (Sezione controllo Lombardia
parere 01.10.2014 n. 247). Ciò in quanto l’incentivo alla progettazione costituisce, come già osservato, una deroga legislativa al principio di onnicomprensività della retribuzione.
Dalle coordinate ermeneutiche appena ricordate si desume, pertanto, che
l’erogazione dell’incentivo in questione a favore del RUP (soggetto rientrante nell’elencazione tassativa dell’art. 93) è subordinata al previo positivo accertamento dell’attività concretamente svolta, oltre che all’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo.
In caso di affidamento all’esterno di prestazioni, tuttavia, è compito del responsabile del procedimento, sotto la propria responsabilità, accertare e certificare la sussistenza dei presupposti dell’esternalizzazione enunciati dall’art. 90, co. 6, d.lgs. 163/2006 (carenza in organico di personale tecnico, difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori o di svolgere le funzioni di istituto, lavori di speciale complessità o rilevanza architettonica o ambientale, necessità di predisporre progetti integrali che richiedono l’apporto di particolari competenze).
Il ricorso all’esterno per le prestazioni in argomento, quindi, può avvenire solo nelle ipotesi tassativamente indicate, previa valutazione -per ciascuna di esse- dell’impossibilità di utilizzare le professionalità interne (art. 7, co. 6, d.lgs. 165/2001). Si tratta di presupposti dei quali il responsabile deve analiticamente dare conto nella propria certificazione, la cui motivazione dovrà essere particolarmente pregnante in caso di esternalizzazione dell’intera attività di progettazione.
In questo senso si è espressa la Sezione delle Autonomie che, con
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha osservato come “Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego" (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 02.12.2015 n. 233).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli incentivi possono (per attività espletate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 90 del 2014) essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti collegato direttamente ed in modo immediato alla progettazione di un’opera pubblica.
In precedenti pareri resi in materia, ha negato, di conseguenza, la configurabilità dell’incentivo per la redazione del Piano di governo del territorio o delle relative varianti, così come dei Piani integrati di intervento.
Ai fini del riconoscimento degli incentivi di cui all’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, per le attività conclusesi prima della riforma, si richiede che la redazione dello strumento urbanistico abbia comportato l’espletamento di attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente richieste dalla predisposizione di un generico atto di pianificazione e che si estrinsechino nella puntuale progettazione di un’opera pubblica.

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Il Sindaco del Comune di Laveno Mombello (VA) ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’erogazione dei c.d. incentivi alla progettazione e pianificazione a favore del personale dipendente.
Premette che, con deliberazione di Consiglio n. 15 del 17.05.2010, il Comune disponeva che il Piano di governo del territorio, adottato dalla precedente amministrazione (con delibera di Consiglio comunale n. 5 dell'08.02.2010), non venisse depositato e pubblicato nei termini di cui all’art. 13, comma 4, della legge regionale n. 12/2005, essendo intenzione dell'amministrazione neo eletta di procedere all'avvio di un riesame dei suoi contenuti, da concludersi entro 150 giorni dall’esecutività della summenzionata deliberazione, con nuova adozione, nel rispetto dei termini previsti dalla legge regionale del 31.03.2011.
A tal fine, con deliberazione di Giunta comunale n. 85 del 07.06.2010, come modificata con atto n. 90 del 21.06.2010, veniva istituito un apposito Ufficio di piano, e relativo gruppo di lavoro, per la redazione del nuovo Piano.
Con deliberazione della Giunta comunale n. 102 dell'08.07.2010, veniva deliberava una variazione di bilancio per stanziare, tra l'altro, la somma di “€ 23.000,00 a favore del personale interno (incluso oneri riflessi ed Irap a carico Ente) che saranno distribuite nel rispetto del regolamento di cui all’art. 92, comma 5, DLgs 163/2006 e la delibera GC 183 del 26.07.2004 (con oggetto "Approvazione del regolamento per la disciplina degli incentivi di cui all'art. 18, legge 109/1994 e successive modifiche ed integrazioni”) e secondo l'art. 12, comma 3, secondo l'allegato prospetto, previa adozione di determina di impegno da parte del responsabile del servizio".
Con determinazione n. 745 del 09.07.2010 del Responsabile del settore urbanistica-edilizia privata-demanio sono stati conferiti gli incarichi ai dipendenti del settore, impegnando le relative somme. Le prestazioni relative alla redazione del nuovo Piano sono state regolarmente svolte dai dipendenti incaricati, al di fuori del normale orario di servizio, ed il Piano è stato approvato con deliberazione di Consiglio comunale n. 32 dei 22.07.2013 (e risulta vigente dal 26.02.2014).
Il Responsabile del settore urbanistica, incaricato di posizione organizzativa (il Comune di Laveno Mombello è privo di dirigenza), nella sua qualità di responsabile del procedimento, ed i dipendenti del gruppo di lavoro hanno chiesto la liquidazione delle somme impegnate a loro favore.
L’istanza ricorda anche come l'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114, abbia, tra l'altro, abrogato i commi 5 e 6 dell'art. 92 del decreto legislativo n. 163/2006. Inoltre, che le Sezioni regionali di controllo e la Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti hanno recentemente precisato il corretto significato da attribuire alla locuzione "atto di pianificazione, comunque denominato", inserita nel testo dell'abrogato art. 92, comma 6, del d.lgs. 163/2006. In particolare, l'atto di pianificazione deve necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche, e non la mera pianificazione territoriale.
Sulla base di quanto premesso, il Comune chiede se sia legittimo precedere alla liquidazione delle somme, aventi connotazione di compenso ai sensi dell’abrogato art. 18 della legge n. 109/1994, impegnate a favore del Responsabile del settore urbanistica e dei dipendenti del gruppo di lavoro, anche in ragione delle norme che disciplinavano la materia nel momento di adozione degli atti sopra richiamati e dell'incertezza interpretativa delle suddette.
...
Conviene preliminarmente ricordare che l’art. 13 del decreto legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114, ha abrogato l’art. 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici), recante la disciplina relativa agli incentivi spettanti a dipendenti delle amministrazioni aggiudicatrici per le attività di progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede di conversione, e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato una nuova disciplina in materia, confluita nell’art. 93 del d.lgs. n. 163 del 2006, c.d. codice dei contratti pubblici, ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate attività secondo i modi e criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata applicativa della disciplina precedente. Si registra, in particolare, per quanto di specifico interesse ai fini del presente parere, la definitiva soppressione degli incentivi per la redazione di atti pianificazione la cui disciplina non è stata riproposta nelle nuove disposizioni di legge le quali, viceversa, limitano la remunerazione alle sole attività di progettazione propriamente detta.
Si deve, tuttavia, ritenere, come confermato dai pareri resi in materia dalle sezioni di controllo di questa Corte, che i dipendenti che abbiano realizzato attività di pianificazione conclusesi prima dell’entrata in vigore della riforma sopra accennata, mantengano il diritto agli incentivi maturato nel rispetto della precedente disciplina normative.
Premessa l’esposizione sintetica del quadro normativo, che, peraltro, il Comune istante mostra di conoscere (anche nelle sue interpretazioni giurisprudenziali), l’esame del merito del quesito proposto richiede di richiamare la corretta interpretazione del previgente art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici, ove si disponeva che “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Si tratta di chiarire, in particolare, la natura delle attività riconducibili alla nozione di “atto di pianificazione comunque denominato” agli effetti del riconoscimento al personale interno dell’ente dei compensi “incentivanti” ivi previsti.
Questa Sezione, nei diversi pareri forniti in materia (da ultimo nella deliberazione n. 33/2015/PAR), ha sempre ritenuto di circoscrivere tale nozione ai soli atti di pianificazione che siano strettamente connessi alla progettazione di opere pubbliche, escludendo la possibilità di corrispondere gli incentivi per la redazione di atti di pianificazione di carattere generale, privi dei predetti requisiti e rientranti, come tali, nelle ordinarie mansioni richieste al personale dipendente (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 06.03.2012 n. 57, parere 30.05.2012 n. 259,
parere 23.10.2012 n. 440, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 10.02.2014 n. 62). Si rinvia, per i dettagli motivazionali, nonché per i profili di diritto intertemporale, ai precedenti sopra citati.
Il predetto orientamento è stato, peraltro, condiviso dalla maggioranza delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti (tra le varie: Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 19.03.2013 n. 15; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290).
Infine,
la Sezione delle Autonomie, con pronuncia di orientamento generale, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha aderito all’orientamento maggioritario, che riconosce di palmare evidenza il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici, reputando l’ambito applicativo della disposizione di legge, apparentemente ampio ed indefinito, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici.
La Sezione non può che ribadire il proprio precedente e consolidato orientamento, secondo cui
gli incentivi possono (per attività espletate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 90 del 2014) essere corrisposti solo per remunerare la redazione di un atto di pianificazione che, oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti dell’ente, risulti collegato direttamente ed in modo immediato alla progettazione di un’opera pubblica.
In precedenti pareri resi in materia, ha negato, di conseguenza, la configurabilità dell’incentivo per la redazione del Piano di governo del territorio o delle relative varianti, così come dei Piani integrati di intervento (parere 24.10.2012 n. 452).
Ai fini del riconoscimento degli incentivi di cui all’art. 92, comma 6, del codice dei contratti, per le attività conclusesi prima della riforma, si richiede che la redazione dello strumento urbanistico abbia comportato l’espletamento di attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente richieste dalla predisposizione di un generico atto di pianificazione e che si estrinsechino nella puntuale progettazione di un’opera pubblica (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 16.11.2015 n. 417).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia di edifici crollati o demoliti.
Con gli interventi modificativi apportati dal d.l. 69/2013 (noto anche come «decreto del fare»), si è notevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
Considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio.
Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che
detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento dovrà essere effettuato con il massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente.
Tale principio è condiviso dal Collegio, il quale intende darvi continuità, con l'ulteriore precisazione che
l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.

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1. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente rilevato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che, sulla base del contenuto della sentenza impugnata e del ricorso, unici atti ai quali, come è noto, questa Corte ha accesso, emerge che, durante l'espletamento del proprio servizio, personale del Corpo Forestale dello Stato si imbatteva in un manufatto in corso di realizzazione sulla base di un permesso di costruire (n. 42/2010) avente ad oggetto il «ripristino parziale e la ristrutturazione di un antichissimo fabbricato rurale, privo di copertura» e relativo a «lavori edili riferibili ad una preesistente costruzione, già in parte diruta e poi integralmente demolita».
Le opere realizzate risultavano eseguite in totale difformità dal titolo abilitativo, in quanto era stato realizzato un vano da adibire a servizio igienico.
Per la parte in difformità era stato poi rilasciato un permesso di costruire in sanatoria (n. 4/2012) in considerazione della possibilità di ampliamento, fino al 10% per motivi igienico-sanitari, prevista dai vigenti strumenti urbanistici.
Il Tribunale rilevava la illegittimità del titolo autorizzatorio del 2010, stante l'inesistenza di un preesistente manufatto da ristrutturare, perché quasi interamente crollato, del quale non potevano determinarsi la volumetria e la sagoma originarie, escludendo, conseguentemente, la possibilità della ristrutturazione di un rudere. Conseguentemente, rilevava anche l'inefficacia del permesso in sanatoria, in quanto destinato a sanare l'ampliamento di un immobile abusivo.
La tesi della legittimità del permesso di costruire n. 42/2010 era invece sostenuta dagli imputati, nell'appello, sulla base del fatto che quell'atto aveva ad oggetto due distinte fasi: una di ripristino e ricostruzione delle parti mancanti del manufatto e l'altra di ristrutturazione dello stesso.
La Corte territoriale, nel confutare le censure mosse dagli appellanti, ha negato la possibilità della ristrutturazione di un rudere e negato, altresì, la possibilità di applicare, nella fattispecie, l'art. 3 d.P.R. 380/2001 come modificato nel 2013.
2. Ritiene il Collegio che le conclusioni cui sono pervenuti i giudici del gravame siano corrette.
Occorre, in primo luogo, precisare che il reato contestato è stato posto in essere nel 2011, prima, dunque, delle modifiche legislative richiamate dai ricorrenti, così come la decisione del primo giudice, è stata emessa, come ricordato, nel 2012, con la conseguenza che il Tribunale non poteva che tener conto dell'art. 3 d.P.R. 380/2001 così come all'epoca formulato e della giurisprudenza formatasi sul tema, che escludeva la possibilità di ristrutturazione dei ruderi.
Con riferimento all'originario concetto di ristrutturazione risultava, infatti, di tutta evidenza che esso, così come individuato dalla normativa previgente, presupponeva la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare provvisto di murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Conseguentemente, era stata sempre esclusa la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/01/2007, Meli e altro, Rv. 236338; Sez. 3, n. 20776 del 13/01/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.). Si riteneva, infatti, che la mancanza dei suddetti elementi strutturali, rendesse impossibile qualsiasi valutazione circa l'esistenza e la consistenza dell'edifico da consolidare.
Con gli interventi modificativi apportati dal più volte citato d.l. 69/2013 (noto anche come «decreto del fare»), si è notevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
L'articolo 3, comma primo, lettera d), del D.P.R. 380/2001, nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente
».
3. A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte, richiamata anche dai ricorrenti, ha avuto modo di precisare che,
considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che
detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento dovrà essere effettuato con il massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto, non massimata).
4. Tale principio è condiviso dal Collegio, il quale intende darvi continuità, con l'ulteriore precisazione che
l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
5. Ciò posto, va rilevato che, nel caso in esame, correttamente i giudici del merito hanno stigmatizzato la singolarità del procedimento autorizzatorio che ha riguardato l'intervento edilizio realizzato dai ricorrenti laddove, in presenza di un manufatto ormai in condizioni di rudere, si è, con unico provvedimento, autorizzato il ripristino e, successivamente, la ristrutturazione.
Si tratta di un'operazione che non sembra trovare altra giustificazione, almeno sulla base di quanto emerge dalla sentenza e dal ricorso, se non quella di rendere possibile, sull'edificio ormai in rovina, un'attività allora non consentita per le ragioni che la Corte territoriale e, prima ancora, il Tribunale, hanno, come si è detto, correttamente individuato.
6. La sentenza impugnata risulta parimenti corretta laddove esclude l'applicabilità, nella fattispecie, delle disposizioni che i ricorrenti assumono violate.
Osservano infatti i giudici del gravame che risulta impossibile, sulla base della mera disamina della documentazione fotografica in atti, individuare in maniera attendibile le caratteristiche originarie del manufatto.
Tale assunto non viene minimamente intaccato dalle diverse considerazioni dei ricorrenti, i quali ritengono possibile la dimostrazione della originaria consistenza del manufatto sulla base della testimonianza resa dal tecnico comunale nel corso del dibattimento e parzialmente riprodotta in ricorso.
Si tratta, invero, come risulta dalla mera lettura dei brani riportati, di mere valutazioni soggettive e mere ipotesi, la cui irrilevanza è stata correttamente ritenuta dai giudici del merito.
li motivo di ricorso appena esaminato risulta, pertanto, infondato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da www.lexambiente.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: normativa regionale - approvate:
* delibera regionale circa l’esercizio degli impianti termici per la stagione invernale 2015-2016;
* ulteriore delibera di semplificazione di alcune misure in materia di impianti termici (ANCE di Bergamo, circolare 11.12.2015 n. 233).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: normativa regionale - approvata delibera regionale di proroga dei requisiti prestazionali relativi ai serramenti (ANCE di Bergamo, circolare 11.12.2015 n. 232).

CONSIGLIERI COMUNALI: Oggetto: Fruizione permessi amministratori locali ex art. 79, D.L.gs. 267/2000 - Aspettativa (ANCI Veneto, nota 20.11.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: G.U. 18.12.2015 n. 294 "Concessione in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, decreto 06.10.2015).

APPALTI SERVIZI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 16.12.2015, "Approvazione strumenti attuativi del programma regionale di gestione dei rifiuti – Linee guida per la costruzione di un capitolato per l’affidamento dei servizi di igiene urbana" (deliberazione G.R. 10.12.2015 n. 4544).

VARI: G.U. 15.12.2015 n. 291 "Modifica del saggio di interesse legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 11.12.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 11.12.2015 n. 288 "Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare" (Legge 01.12.2015 n. 194).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2015, "Adozione delle misure di conservazione relative a 154 siti Rete Natura 2000, ai sensi del d.p.r. 357/1997 e s.m.i. e del d.m. 184/2007 e s.m.i. e proposta di integrazione della rete ecologica regionale per la connessione ecologica tra i siti Natura 2000 lombardi" (deliberazione 30.11.2015 n. 4429).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2015, "Introduzione di misure di semplificazione in materia di impianti termici ad integrazione delle disposizioni approvate con d.g.r. 3965 del 31.07.2015" (deliberazione 30.11.2015 n. 4427).

CORTE DEI CONTI

PATRIMONIO: A decorrere dall’01.07.2014, la riduzione nella misura del 15 per cento dei canoni di locazione corrisposti per i contratti di locazione passiva stipulati dalle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, è insuscettibile di applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie analoghe (dato il carattere eccezionale della norma), sicché -inevitabilmente- è preclusa che una previsione normativa formulata per un contratto di locazione trovi applicazione per la fattispecie -non sovrapponibile- di un rapporto di concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili, attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di interessi pubblici.
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Il Sindaco del Comune di Reggio nell’Emilia ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere con la quale intende conoscere se l’art. 3, comma 4 (richiamato dal successivo comma 7) del d.l. n. 95/2012, convertito dalla l. n. 135/2012 e s.m.i., che prevede, a decorrere dall’01.07.2014, la riduzione nella misura del 15 per cento dei canoni di locazione corrisposti per i contratti di locazione passiva stipulati dalle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, trovi applicazione anche nell’ipotesi in cui il comune abbia dato in concessione e non in locazione un determinato immobile ad altro ente pubblico.
...
In via preliminare, occorre operare una breve ricognizione del quadro normativo di riferimento.
Il richiamato art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n.135, come successivamente modificato dall’art. 24, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, statuisce che “Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali … i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. … La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. …”.
Il successivo comma 7 del medesimo articolo puntualizza, altresì, che “Fermo restando quanto previsto dal comma 10, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 si applicano altresì alle altre amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in quanto compatibili. …”.
Il problema esegetico che si pone, alla luce del richiamato contesto fattuale e normativo, è duplice.
In primo luogo, sotto il profilo soggettivo, afferisce l’applicabilità della summenzionata previsione normativa quando le parti del rapporto di concessione siano due pubbliche amministrazioni. In secondo luogo, sotto il profilo oggettivo, riguarda l’applicabilità in sé della prescrizione, prevista nell’ambito dei rapporti di locazioni, anche ai rapporti di concessione di beni pubblici.
Sotto il primo profilo, in sé assorbente rispetto al quesito posto,
la disposizione del novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012 non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva, in tal senso, l’interpretazione finalistica e financo letterale della normativa richiamata avente, peraltro, natura di norma eccezionale e, come tale insuscettibile di applicazione “oltre i casi e i tempi” in essa considerati (cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale). Si osserva, infatti che la statuizione oggetto di disamina è applicabile, prima di ogni ulteriore considerazione, quando realizzi la finalità richiamata nel testo di legge di “contenimento della spesa pubblica”.
All’evidenza,
tale finalità non si realizza qualora il rapporto concessorio, cui sarebbe eventualmente da applicare la riduzione automatica del canone nella misura del 15 per cento, intervenga tra due pubbliche amministrazioni. Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15 per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito.
Sotto il secondo profilo dell’ambito oggettivo, poi,
presenta non pochi profili di criticità l’applicazione di una norma di carattere eccezionale, prevista per l’ipotesi di contratti di locazione, a una concessioni di beni.
Preliminarmente, non è revocabile in dubbio e si ribadisce il carattere di norma eccezionale della previsione citata, appunto di eccezione alla regola generale, principio cardine dell’ordinamento, per cui le parti del rapporto negoziale (nella fattispecie locativo) sono vincolate nei termini contrattualmente previsti.
Ne consegue, pertanto, che
l’insuscettibilità dell’applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie analoghe, della norma di carattere eccezionale, inevitabilmente preclude che una previsione normativa formulata per un contratto di locazione trovi applicazione per la fattispecie non sovrapponibile di un rapporto di concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili, attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di interessi pubblici (cfr. C.S.U. del 26.06.2003, n. 10157) (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.12.2015 n. 157).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIn assenza di spesa storica nei due periodi considerati dalla norma (2009 o media del triennio 2007-2009), gli enti non possono che considerarsi obbligati ad assumere comportamenti gestionali volti alla eliminazione delle tipologie di spese contemplate dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010, salve le eccezioni di legge e salvi i margini di flessibilità individuati da deliberazione SS.RR. 11/2012.
Sicché,
nessuna deroga, salvo quelle espressamente previste dalla legge, è possibile, ma soltanto adattamenti (es. possibilità di considerare le varie voci di spesa come un unico coacervo, ampliando le possibilità di azione dell’ente), al ricorrere dei presupposti e delle condizioni indicate dalle Sezioni Riunite nella deliberazione n. 11/2012/CONTR a cui si rinvia.

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Il Sindaco del Comune di Novoli (LE) chiede alla Sezione un parere sui limiti di spesa in materia di incarichi esterni.
In particolare, il Sindaco riferisce che:
- l’ente è attualmente privo della figura dirigenziale di responsabile del settore affari generali (che comprende numerosi servizi, quali i servizi sociali, i servizi demografici, il personale, la cultura, la pubblica istruzione ed il contenzioso);
- nelle more dell’espletamento di un concorso, tale figura risulta indispensabile per garantire i servizi sopra indicati;
- non vi sono altre figure apicali all’interno dell’ente in grado di ricoprire detto ruolo, attesa la carenza di personale;
- il Comune non ha effettuato alcuna assunzione di personale qualificabile come assunzione c.d. flessibile nell’anno 2009, né nel triennio 2007-2009, per cui non dispone di alcun tetto di spesa per le assunzioni flessibili.
Premesso quanto sopra, il Sindaco chiede se “per la copertura di figure ritenute indispensabili, in assenza di altre professionalità idonee all’interno dell’ente, si possa ricorrere al conferimento di incarichi esterni per funzioni dirigenziali ex art. 110 Tuel, comma 1 o 2, o in altra forma flessibile, anche andando in deroga al limite della spesa flessibile 2009 e del triennio 2007-2009.
...
Passando al merito della richiesta, il quesito formulato dall’Ente afferisce alla possibilità di derogare al limite di spesa per le assunzioni a tempo determinato, previsto dall’art. 9, co. 28, d.l. 78/2010, in caso di incarichi esterni, conferiti ai sensi dell’art. 110 Tuel e finalizzati all’espletamento di servizi essenziali.
L’orientamento tradizionale espresso sul punto dalle Sezioni di controllo, collocandosi nel solco dei principi sanciti dalla Sezione delle Autonomie con deliberazione 12/SEZAUT/2012/INPR del 12.06.2012, ha ritenuto che il limite di spesa sopra richiamato non si applicasse agli “incarichi a contratto nella dotazione organica dirigenziale conferibili ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL”, mentre vi rimanevano assoggettate tutte le altre posizioni in organico ricopribili mediante incarichi a contratto ovvero posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche di alta specializzazione (Sezione controllo Puglia deliberazioni n. 147/PAR/2013, 168/PAR/2013, n. 125/PAR/2013 e n. 42/PAR/2014 e Sezione controllo Piemonte, deliberazione n. 147/2014/PAR).
Ciò in quanto l’art. 19, comma 6-quater, dlgs. 165/2001, contenente la disciplina degli incarichi dirigenziali ex art. 110, comma 1, Tuel, era ritenuta norma assunzionale speciale e parzialmente derogatoria rispetto al regime vigente, con la conseguenza che “gli incarichi conferibili (contingente) con contratto a tempo determinato in applicazione delle percentuali individuate dal riscritto comma 6-quater dell’articolo 19, del d.lgs. 165/2001, riguardano solo ed esclusivamente le funzioni dirigenziali” e che ”a detti incarichi non si applica la disciplina assunzionale vincolistica prevista dall’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010” (Sezione delle Autonomie con deliberazione 12/SEZAUT/2012/INPR).
La disciplina degli incarichi in esame è stata da ultimo modificata dall’art. 11 d.l. n. 90/2014, convertito dalla legge n. 114/2014, che, da un lato, ha sostituito in toto il contenuto dell’art. 19, co. 6-quater, d.lgs. 165/2001 (comma 2 dell’art. 11 cit.), eliminando le previsioni relative agli enti locali ed introducendone altre inerenti agli enti di ricerca, e, dall’altro lato, ha modificato l’art. 110 Tuel (comma 1 dell’art. 11), concentrando nella suddetta disposizione la disciplina inerente alle tipologie contrattuali in esame.
La citata modifica normativa ha prodotto il duplice effetto di cancellare il regime assunzionale speciale dettato dall’art. 19, comma 6-quater, e di ricondurre, conseguentemente, anche gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 110, comma 1, Tuel nel perimetro applicativo del limite di spesa per il lavoro flessibile.
Quanto sopra trova conferma nei principi espressi sul punto sia dalla Sezione delle Autonomie -che, con deliberazione n. 13/SEZAUT/2015/INPR del 31.03.2015 (“Linee guida e relativi questionari per gli organi di revisione economico finanziaria degli enti locali per l’attuazione dell’articolo 1, commi 166 e seguenti, della legge 23.12.2005, n. 266. Rendiconto della gestione 2014”), a seguito dell’avvenuta abrogazione dell’art. 19, co. 6-quater, ha espressamente assoggettato i contratti in esame al limite di spesa per il lavoro flessibile previsto dall’art. 9, co 28, d.l. 78/2010-, sia dalle Sezioni regionali di controllo (cfr. Sezione controllo Lazio, deliberazione n. 221/2014/PAR, Sezione controllo Toscana, parere 20.10.2015 n. 447, Sezione controllo Calabria deliberazione n. 169/PAR/2012, Sezione controllo Puglia deliberazioni n. 219/PAR/2015 e 223/PAR/2015.).
D’altra parte,
gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 110, comma 1, Tuel, non rientrando nel genus dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, non possono che configurarsi come rapporti a tempo determinato e, in quanto tali, rimangono assoggettati al limite di cui all’art. 9, co. 28, d.l. 78/2010 che “pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale e, precisamente, a quello costituito da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo indeterminato (Corte Cost. n. 173/2012).
Una volta ricondotti i contratti de quibus nell’ambito della previsione dell’art. 9, co. 28, d.l. 78/2010, rimane da affrontare l’ulteriore aspetto inerente alla corretta individuazione dell’ambito di applicazione della richiamata disciplina, anche a seguito delle modifiche introdotte con d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014.
Sul punto, la Sezione delle Autonomie n. 2/SEZAUT/2015/QMIG ha sancito che l’espressione “Le limitazioni previste dal presente comma non si applicano agli enti locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296”, introdotta dall’art. 11, comma 4-bis, d.l. 90/2014, “ha il chiaro significato di porre un tetto alla spesa del personale derivante dai contratti flessibili, stabilendo un limite più elevato (100 per cento) rispetto a quello di cui all’art. 9, comma 28, primo periodo, del d.l. n. 78/2010 (50 per cento)”.
Per gli enti “virtuosi”, pertanto, il limite viene elevato fino al 100% della spesa sostenuta per le medesime finalità per l’anno 2009. Si tratta di un limite massimo a cui rimangono assoggettate anche le voci di spesa per le quali, già prima dell’addenda di cui al d.l. 90/2014, il tetto del 50% poteva essere superato (l'esercizio delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale nonché per le spese sostenute per lo svolgimento di attività sociali).
Non essendo state introdotte ulteriori fattispecie derogatorie ad opera del legislatore,
devono ritenersi validi gli approdi interpretativi cui è pervenuta giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo, secondo cui “in assenza di spesa storica nei due periodi considerati dalla norma (2009 o media del triennio 2007-2009), gli enti non potranno che considerarsi obbligati ad assumere comportamenti gestionali volti alla eliminazione delle tipologie di spese contemplate dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010, salve le eccezioni di legge (cfr. SRC Campania n. 213/2014; Sez. Autonomie n. 21/2014/QMIG, sia pure incidenter; SRC Lombardia n. 215/2014/PAR) e salvi i margini di flessibilità individuati da SS.RR. 11/2012 (Sezione regionale Campania n. 245/2014/PAR, Sezione controllo Puglia n. 65/PAR/2015).
Per le ragioni sopra esposte,
nessuna deroga, salvo quelle espressamente previste dalla legge, è possibile, ma soltanto adattamenti (es. possibilità di considerare le varie voci di spesa come un unico coacervo, ampliando le possibilità di azione dell’ente), al ricorrere dei presupposti e delle condizioni indicate dalle Sezioni Riunite nella deliberazione n. 11/2012/CONTR a cui si rinvia (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 10.12.2015 n. 237).

URBANISTICA: Le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale della quota dovuta a titolo di contributo di urbanizzazione sono quelle opere pubbliche, asservite alle edificazioni private, che il costruttore può chiedere di realizzare e che il Comune ha la facoltà di accettare o respingere la proposta dell’operatore (comma 2 dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, che ha sostituito l’art. 11 della L. 28.01.1977 n. 10).
La decisione di effettuare lo scomputo ed ogni altra questione viene disciplinata in una convenzione, che precede il rilascio del permesso a costruire o della D.I.A. e
“emerge dalla normativa urbanistica che il privato attuatore del piano e/o titolare del permesso di costruire, debitore del versamento degli oneri di urbanizzazione, possa liberarsi mediante l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione".
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La convenzione con la quale si autorizza e si disciplina lo scomputo determina una sorta di novazione dell’obbligazione originaria a carico del titolare del permesso di costruire”, conseguentemente il costruttore non è più tenuto al pagamento degli oneri, bensì alla realizzazione di un’opera di urbanizzazione.
Orbene,
se dopo la stipula della convenzione che prevede l’esecuzione di opere di urbanizzazione anziché il pagamento di oneri, il soggetto titolare del permesso a costruire non può decidere unilateralmente di non realizzare le opere che si era impegnato a realizzare e versare gli oneri originariamente previsti. Ove intenda procedere in questo senso deve rivolgere specifica richiesta all’Amministrazione che deve decidere se accedere o meno alla stessa in relazione agli interessi della collettività, tenuto anche conto della circostanza che, al momento della stipula della convenzione, l’ente aveva ritenuto più vantaggioso che il privato procedesse direttamente alla realizzazione delle opere anziché versare gli oneri.
Tuttavia,
se a seguito di una valutazione ulteriore, anche in base ad esigenze sopravvenute, risulta maggiormente favorevole per l’ente pubblico ricevere l’importo relativo agli oneri anziché attendere la realizzazione diretta delle opere da parte del costruttore, la convenzione originaria può essere modificata seguendo la stessa procedura ed adottando la medesima forma dell’atto originario.
In questo modo si verrebbe a novare, per la seconda volta, il contenuto dell’obbligazione del privato che non risulta più tenuto ad eseguire le opere di urbanizzazione ma a versare l’importo relativo agli oneri di urbanizzazione, nei tempi e secondo le modalità che devono essere precisati nella nuova convenzione.
Al riguardo occorre sottolineare, però, che
il Comune deve valutare criticamente la richiesta proveniente dall'impresa costruttrice e la proposta di variazione potrà essere accettata unicamente se ritenuta conforme agli interessi della collettività, tenendo nel dovuto conto il disposto dell'art. 12, co. 2, del d.p.r. n. 380 del 2001 dal quale si evince la stretta ed imprescindibile correlazione fra intervento edilizio ed opere di urbanizzazione che, quindi, devono essere realizzate, a cura del Comune, contestualmente all'intervento edilizio.
A seguito della modifica della convenzione originaria il privato costruttore risulta tenuto ad effettuare il versamento degli oneri entro la data stabilita nel nuovo disciplinare.
Parallelamente, il Comune vanta un diritto di credito ad ottenere il versamento della somma concordata entro la data stabilita nella convenzione.
Si tratta di un comune diritto di credito, soggetto alla disciplina del codice civile e, come ogni altro diritto di questo genere, suscettibile di cessione a terzi.
La cessione del credito è un contratto mediante il quale il creditore, nel caso di specie il Comune, trasferisce ad un altro soggetto il proprio diritto di credito (art. 1260 cod. civ.), purché il trasferimento non sia vietato dalla legge (art. 1261 cod. civ.).
La cessione può essere pro soluto o pro solvendo a seconda che l’estinzione dell’obbligazione originaria sia collegata o meno alla riscossione del credito ceduto (art. 1267 cod. civ.).

Ove le parti modifichino la convenzione urbanistica originaria e prevedano l’obbligo da parte del costruttore di versare un importo predeterminato al Comune entro una data prestabilita, l’ente pubblico può cedere, ovviamente a titolo oneroso, il credito ad un terzo soggetto ed incassare e contabilizzare l’importo stabilito, anche prima della data stabilita nella convenzione.
Tuttavia, al fine di evitare che si tratti di una manovra elusiva, diretta ad aggirare divieti di legge o a violare norme imperative quali quelle relative al patto di stabilità, l’operazione di cessione del credito deve essere reale ed effettiva e comportare, per il Comune, l’incasso, senza riserve, del credito derivante dalla convenzione. Deve trattarsi, quindi, di una cessione pro soluto che addossi al cessionario ogni rischio, anche di insolvenza, in ordine al credito originario.

Val la pena rilevare, da ultimo, che
la scelta del cessionario del credito deve avvenire per il tramite di una procedura ad evidenza pubblica.
Infatti, sia in relazione ai principi della contabilità pubblica che alla disciplina dei contratti pubblici, la scelta del contraente non può essere discrezionale ma deve avvenire nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento che devono informare l'attività dell'Amministrazione pubblica.

A questo proposito,
se in base alla normativa sui contratti pubblici, la cessione del credito può rientrare nella previsione dell'art. 19, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 163 del 2006, il cessionario dovrà comunque essere scelto “nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità” facendo precedere l'individuazione del contraente da una procedura di gara, sia pure ristretta.
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Il Sindaco del Comune di Arese (MI) ha posto alla Sezione un quesito in ordine all'applicazione di alcuni aspetti della disciplina relativa all’applicazione del Patto di stabilità interno per il 2009, con particolare riferimento alle entrate che possono essere conteggiate ai fini del calcolo dei saldi di riferimento.
In particolare, domanda se può cedere a terzi il credito vantato nei confronti di una società che, dopo aver stipulato una convenzione edilizia con la quale si era impegnata ad effettuare opere di urbanizzazione in sostituzione del pagamento di oneri, avrebbe deciso di non più effettuare le opere, ma di versare l’importo relativo agli oneri entro il 30.06.2010 e se può incassare il corrispettivo della cessione entro il 31.12.2009, conteggiandolo fra le entrate di competenza dell’esercizio 2009.
Al fine di chiarire ambito e portata del quesito, il richiedente ha messo in luce, sia con l’originaria richiesta di parere che con l’integrazione successiva del 16.11.2009, che a seguito della stipula di una convenzione urbanistica una società che intendeva attuare un intervento edilizio si era impegnata, in un primo tempo, a realizzare opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione per il complessivo importo di euro 2.500.000.
A causa di alcuni non meglio precisati ritardi e “problemi connessi alla società”, le opere non sarebbero state realizzate e la società interessata avrebbe proposto al Comune di versare l’importo relativo alle opere scomputate, pari a 2.500.000 di euro, entro il 30.06.2010.
Ritenendo di accettare la proposta e, pertanto acconsentendo a “novare il rapporto giuridico in essere e sostituire l’esecuzione delle opere a scomputo con il pagamento della somma corrispondente a titolo di oneri di urbanizzazione” il Sindaco di Arese si domanda se sia possibile “ricevere il pagamento di tale somma, entro il 31/12/2010, da un soggetto terzo che si sostituisce alla società debitrice”, la quale, successivamente, “estinguerà il suo debito pagando al soggetto terzo quanto pattuito entro il 30/06/2009”.
Questo risultato potrebbe essere raggiunto, secondo il richiedente, stipulando un “contratto di cessione di credito che, estinguendo l’obbligazione contrattuale della società obbligata, ai sensi dell’articolo 1198 del codice civile, consentisse di incamerare al bilancio dell’ente, entro il 31/12/2009, le somme oggetto dell’originaria obbligazione”.
In questo modo l’ente incasserebbe entro il 31 dicembre un importo pari ad euro 2.500.000, necessario per riportare il saldo finanziario dell’ente ad un importo tale da permettere di “rientrare nei parametri” di rispetto del Patto di stabilità interno.
...
Il richiedente, come si è visto, ha posto alla Sezione un quesito complesso in ordine all'interpretazione ed applicazione di alcuni aspetti della disciplina dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione e delle ricadute in ordine ai vincoli di finanza pubblica che rientrano nella disciplina del Patto di stabilità interno.
Sostanzialmente, il Comune di Arese vuole appurare se, ad avviso della Sezione, la cessione a terzi di un credito vantato nei confronti di un’impresa che dopo essersi impegnata ad effettuare opere di urbanizzazione ha deciso, in accordo con l’ente pubblico, di non eseguire le opere ma di versare l’importo relativo agli oneri, sia un’entrata idonea a garantire il rispetto dei saldi relativi al Patto di stabilità.
Al fine di rispondere al quesito, è necessario verificare, sia pure brevemente e sinteticamente, da un lato, se l’originaria obbligazione di effettuare opere di urbanizzazione in sostituzione del pagamento degli oneri possa essere modificata prevedendo il pagamento di una somma di denaro e, dall’altro, se l’ente pubblico possa cedere il relativo credito.
   1) In via preliminare è opportuno ribadire che
gli enti territoriali che concorrono a costituire la Repubblica sono tenuti ad osservare il Patto di stabilità interno, così come disciplinato dalle leggi finanziarie statali.
L'osservanza dei vincoli di spesa o finanziari imposti all'interno di questa disciplina deve essere stabilita sin dall’individuazione degli interventi contenuti nel bilancio preventivo, anche se l’effettivo scostamento è accertabile solo al termine dell’esercizio, come questa Sezione ha avuto modo di precisare sin dalla delibera n. 10 del 13.10.2006 (da ultimo, sul punto:
parere 22.01.2009 n. 2).
Questa Sezione ha messo in luce in numerose occasioni che la disciplina del Patto di stabilità interno è stata caratterizzata, sin dall’origine, da una forte instabilità poiché quasi ogni anno le regole che gli enti sono tenuti ad applicare vengono modificate o integrate, al fine di rispondere, a seconda dei casi, ad esigenze strutturali o anche soltanto contingenti.
Al contrario, una disciplina, quale quella del “Patto”, che pone rigidi limiti all'autonomia operativa degli enti territoriali non solo dovrebbe essere concordata fra lo Stato e gli stessi destinatari ma, soprattutto, dovrebbe essere caratterizzata da una elevata stabilità al fine di permettere ai Comuni ed alle Province di programmare adeguatamente i loro interventi, sia in relazione alle attività ordinarie che a quelle di realizzazione di opere pubbliche che richiedono, ovviamente, la possibilità di operare in un contesto temporale che oltrepassa l'ordinaria gestione annuale (sul punto, da ultimo: parere n. 26, in data 10.02.2009).
Le questioni inerenti il rispetto del Patto di stabilità si sono ulteriormente complicate a seguito della reintroduzione, con la manovra finanziaria per il 2009, di specifiche limitazioni amministrative o sanzioni a carico degli enti che non rispettano le previsioni del Patto, i quali, nell'esercizio successivo, subiscono una riduzione dei contributi ordinari dovuti dal Ministero dell'Interno (art. 2, co. 41, l. n. 203 del 2008), non possono né procedere all'assunzione di nuovo personale né ricorrere all'indebitamento per finanziare i nuovi investimenti e non debbono assumere impegni per spese correnti in misura non superiore a quella minima effettuata nell'ultimo triennio (art. 76, del d.l. 25.06.2008, n. 112, conv. in l. 06.08.2008, n. 133). Inoltre, sono tenuti a ridurre del 30% le indennità di funzione e i gettoni di presenza degli amministratori rispetto a quelli in vigore alla data del 30.06.2008.
Diviene, quindi, ancora più importante verificare se ed a quali condizioni sia possibile operare al fine di addivenire al rispetto della disciplina relativa al Patto.
   2) La prima questione da prendere in esame riguarda la convenzione urbanistica conclusa dal Comune con un’impresa privata e, in particolare, quali siano gli obblighi e diritti delle parti in ordine alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo.
Le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale della quota dovuta a titolo di contributo di urbanizzazione sono quelle opere pubbliche, asservite alle edificazioni private, che il costruttore può chiedere di realizzare e che il Comune ha la facoltà di accettare o respingere la proposta dell’operatore (comma 2 dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, che ha sostituito l’art. 11 della L. 28.01.1977 n. 10).
La decisione di effettuare lo scomputo ed ogni altra questione viene disciplinata in una convenzione, che precede il rilascio del permesso a costruire o della D.I.A. e, come osservato dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, emerge dalla normativa urbanistica che il privato attuatore del piano e/o titolare del permesso di costruire, debitore del versamento degli oneri di urbanizzazione, possa liberarsi mediante l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione (determinazione 16.07.2009 n. 7).
Sempre l’Autorità ha messo in luce che
la convenzione con la quale si autorizza e si disciplina lo scomputo determina una sorta di novazione dell’obbligazione originaria a carico del titolare del permesso di costruire”, e che, conseguentemente, il costruttore non è più tenuto al pagamento degli oneri, bensì alla realizzazione di un’opera di urbanizzazione.
Orbene,
se dopo la stipula della convenzione che prevede l’esecuzione di opere di urbanizzazione anziché il pagamento di oneri, il soggetto titolare del permesso a costruire non può decidere unilateralmente di non realizzare le opere che si era impegnato a realizzare e versare gli oneri originariamente previsti. Ove intenda procedere in questo senso deve rivolgere specifica richiesta all’Amministrazione che deve decidere se accedere o meno alla stessa in relazione agli interessi della collettività, tenuto anche conto della circostanza che, al momento della stipula della convenzione, l’ente aveva ritenuto più vantaggioso che il privato procedesse direttamente alla realizzazione delle opere anziché versare gli oneri.
Tuttavia,
se a seguito di una valutazione ulteriore, anche in base ad esigenze sopravvenute, risulta maggiormente favorevole per l’ente pubblico ricevere l’importo relativo agli oneri anziché attendere la realizzazione diretta delle opere da parte del costruttore, la convenzione originaria può essere modificata seguendo la stessa procedura ed adottando la medesima forma dell’atto originario.
In questo modo si verrebbe a novare, per la seconda volta, il contenuto dell’obbligazione del privato che non risulta più tenuto ad eseguire le opere di urbanizzazione ma a versare l’importo relativo agli oneri di urbanizzazione, nei tempi e secondo le modalità che devono essere precisati nella nuova convenzione.
Al riguardo occorre sottolineare, però, che
il Comune deve valutare criticamente la richiesta proveniente dall'impresa costruttrice e la proposta di variazione potrà essere accettata unicamente se ritenuta conforme agli interessi della collettività, tenendo nel dovuto conto il disposto dell'art. 12, co. 2, del d.p.r. n. 380 del 2001 dal quale si evince la stretta ed imprescindibile correlazione fra intervento edilizio ed opere di urbanizzazione che, quindi, devono essere realizzate, a cura del Comune, contestualmente all'intervento edilizio.
   3)
A seguito della modifica della convenzione originaria il privato costruttore risulta tenuto ad effettuare il versamento degli oneri entro la data stabilita nel nuovo disciplinare.
Parallelamente, il Comune vanta un diritto di credito ad ottenere il versamento della somma concordata entro la data stabilita nella convenzione.
Si tratta di un comune diritto di credito, soggetto alla disciplina del codice civile e, come ogni altro diritto di questo genere, suscettibile di cessione a terzi.
La cessione del credito è un contratto mediante il quale il creditore, nel caso di specie il Comune, trasferisce ad un altro soggetto il proprio diritto di credito (art. 1260 cod. civ.), purché il trasferimento non sia vietato dalla legge (art. 1261 cod. civ.).
La cessione può essere pro soluto o pro solvendo a seconda che l’estinzione dell’obbligazione originaria sia collegata o meno alla riscossione del credito ceduto (art. 1267 cod. civ.).

   4)
Ove le parti modifichino la convenzione urbanistica originaria e prevedano l’obbligo da parte del costruttore di versare un importo predeterminato al Comune entro una data prestabilita, l’ente pubblico può cedere, ovviamente a titolo oneroso, il credito ad un terzo soggetto ed incassare e contabilizzare l’importo stabilito, anche prima della data stabilita nella convenzione.
Tuttavia, al fine di evitare che si tratti di una manovra elusiva, diretta ad aggirare divieti di legge o a violare norme imperative quali quelle relative al patto di stabilità, l’operazione di cessione del credito deve essere reale ed effettiva e comportare, per il Comune, l’incasso, senza riserve, del credito derivante dalla convenzione. Deve trattarsi, quindi, di una cessione pro soluto che addossi al cessionario ogni rischio, anche di insolvenza, in ordine al credito originario.

Val la pena rilevare, da ultimo, che
la scelta del cessionario del credito deve avvenire per il tramite di una procedura ad evidenza pubblica.
Infatti, sia in relazione ai principi della contabilità pubblica che alla disciplina dei contratti pubblici, la scelta del contraente non può essere discrezionale ma deve avvenire nel rispetto dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento che devono informare l'attività dell'Amministrazione pubblica.

A questo proposito,
se in base alla normativa sui contratti pubblici, la cessione del credito può rientrare nella previsione dell'art. 19, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 163 del 2006, il cessionario dovrà comunque essere scelto “nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità” facendo precedere l'individuazione del contraente da una procedura di gara, sia pure ristretta (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 19.11.2009 n. 1044).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. Dati relativi a personale dipendente distaccato presso altro soggetto.
Per effetto della legge 190/2012 è stato introdotto nel nostro ordinamento un sistema organico di prevenzione della corruzione che prevede l'obbligo, da parte delle pubbliche amministrazioni, di predisporre un Piano triennale per la prevenzione della corruzione (PTPC) al cui interno si colloca anche il Programma triennale per la trasparenza e l'integrità (PTTI).
Si ritiene che l'Azienda che ha distaccato ad altro soggetto il personale dipendente debba comunque compilare il PTPC, innanzitutto perché si tratta di adempimento di legge che non prevede eccezioni per questi casi, in secondo luogo perché il documento si compone di diverse parti, alcune delle quali non riguardano direttamente il personale e infine perché l'istituto del distacco non fa cessare, né sospende, il rapporto alle dipendenze dell'Azienda, nonostante la prestazione lavorativa sia svolta temporaneamente a favore di altri.

L'Azienda pubblica di Servizi alla Persona ha recentemente appaltato l'intera gestione della casa di riposo ad una società consortile, assegnandole in distacco tutto il personale dipendente. In considerazione di un tanto, l'Azienda chiede un parere sulla necessità o meno di procedere alla stesura del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione (PTPC) e del Programma Triennale per la Trasparenza e l'Integrità (PTTI) e, in caso affermativo, come possano essere articolati questi documenti in relazione all'assenza di personale direttamente gestito.
La legge 06.11.2012, n. 190
[1], ha definito gli indirizzi generali e gli strumenti volti a introdurre, nel nostro ordinamento, un sistema organico di prevenzione della corruzione, che si articola su due livelli: il primo, quello nazionale, vede la predisposizione, da parte del Dipartimento della funzione pubblica, di un Piano nazionale anticorruzione (PNA); il secondo, quello decentrato, si concretizza nei piani triennali per la prevenzione della corruzione (PTPC), che ciascuna amministrazione deve adottare, sulla base delle indicazioni presenti nel PNA da un lato, e l'analisi e la valutazione dei rischi specifici di corruzione all'interno dell'ente, unitamente agli interventi organizzativi atti a prevenirli dall'altro. Il quadro normativo in materia di prevenzione della corruzione si completa con il contenuto del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 [2], e del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 [3], entrambi di attuazione della legge delega.
Per quanto qui di interesse, si osserva che, ai sensi dell'art. 1, comma 60, della legge 190/2012, l'adozione del PTPC (e del PTTI, che ne costituisce una sezione) è uno degli adempimenti obbligatori al fine di dare piena e sollecita attuazione alle disposizioni recate
[4].
Con riferimento all'ambito soggettivo, l'art. 1, comma 59, della legge 190/2012, determina l'applicazione delle norme in materia di prevenzione della corruzione a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[5]. Parimenti, ai sensi del comma 34 del medesimo articolo, lo stesso vale per le disposizioni (contenute nei commi da 15 a 33) in materia di trasparenza dell'attività amministrativa. Ne deriva pertanto che anche le aziende pubbliche di servizi alla persona sono destinatarie di tali provvedimenti normativi.
Considerato quindi il carattere obbligatorio che rivestono questi strumenti, si ritiene che l'ASP debba adottare il PTPC ed il PTTI, a prescindere dalla presenza o meno di personale direttamente gestito.
Al di là dell'obbligatorietà dei due documenti, occorre poi tenere presente che essi si compongono di diversi elementi (per la cui descrizione si rimanda al PNA ed ai suoi allegati), alcuni dei quali non riguardano segnatamente il personale.
Ad esempio, per quanto concerne il PTPC, si pensi alla definizione delle aree di rischio, che comprendono, fra gli altri, i processi finalizzati all'affidamento di lavori, servizi e forniture nonché alla concessione di vantaggi economici a terzi; oppure, con riferimento al PTTI, si pensi alla individuazione dei dati oggetto di pubblicazione nella sezione 'Amministrazione trasparente' del sito internet istituzionale o delle misure volte a garantire l'accesso civico. E' del tutto evidente che simili azioni esulano dalla problematica relativa alla gestione diretta o indiretta del personale dipendente.
Per quanto riguarda la fattispecie in esame, la collocazione dei dipendenti in distacco presso altro soggetto non fa cessare, né sospende, il loro rapporto alle dipendenze dell'Azienda: infatti gli stessi permangono nella pianta organica dell'Ente, che rimane titolare del rapporto di lavoro, anche se la prestazione lavorativa è temporaneamente svolta a favore di altri
[6].
Pertanto, si ritiene che le sezioni del PTPC il cui contenuto è connesso alla situazione gestionale dell'Azienda vadano compilate. Va infatti considerato che la programmazione triennale dei documenti in oggetto non necessariamente coincide con la durata del distacco e che sussiste inoltre la possibilità che il contratto di appalto cessi anticipatamente per altra causa. In entrambe le ipotesi il personale rientra in servizio a tutti gli effetti presso l'ente di appartenenza.
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1. [1] 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione.'
2. [2] 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.'
3. [3] 'Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190.'
4. [4] Le altre due azioni che ciascuna amministrazione deve intraprendere sono la predisposizione di norme regolamentari relative all'individuazione degli incarichi vietati ai dipendenti pubblici e l'adozione del codice di comportamento.
5. [5] 'Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.' Il comma citato così dispone: 'Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 300. (...).'
6. [6] Cfr M. Rossi, L'applicazione degli istituti del comando e del distacco ai dipendenti pubblici del comparto regioni-autonomie locali, reperibile all'indirizzo http://www.noccioli.it/newsletter/newsletter66.htm secondo il quale l'istituto del distacco comporta 'una sorta di dissociazione tra la titolarità del rapporto di lavoro, che è in capo al distaccante, e la titolarità della prestazione lavorativa, che è appannaggio del distaccatario'
(15.12.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

LAVORI PUBBLICI: Il premio di accelerazione.
DOMANDA:
Nel momento in cui si configura l’ipotesi di provvedere a riconoscere un premio di accelerazione di cui all'art. 145 del DPR 207/2010, per un appalto di lavori pubblici, correttamente previsto sia nel Capitolato Speciale d’appalto che nella lex specialis di gara, e nel contratto d’appalto, si chiede se l’importo determinato da corrispondere debba essere assoggettato a IVA o meno.
RISPOSTA:
Mentre le penali per ritardata consegna dei lavori, o per altra violazione contrattuale, sono escluse dal campo di applicazione dell’IVA per espressa previsione dell’art. 15 del DPR 633/1972, il premio accelerazione ex art. 145 del DPR 207/2010 non può che essere assoggettato ad IVA secondo i principi generali IVA fissati dal 1° comma dell’art. 13 del medesimo decreto, con la stessa aliquota prevista per l’esecuzione ordinaria dell’opera.
Si tratta, infatti di somma che concorre alla formazione dell’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire.
DOMANDA:
E’ stata presentata una istanza di permesso di costruire per realizzare una nuova abitazione in ampliamento e staccata dalla abitazione esistente con la legge del Piano Casa Regione Veneto.
Questa nuova abitazione, distante circa 100 metri dalla abitazione esistente, risulterebbe accessibile da una strada bianca esistente in proprietà privata (per il tratto iniziale in proprietà del richiedente, il resto in altra proprietà con servitù di passaggio).
Questa strada bianca in terra battuta, non asfaltata, non è dotata di illuminazione pubblica e non è dotata di fognature; è invece servita della linea elettrica e della linea dell’acqua potabile (in quanto serve una altra abitazione isolata realizzata in epoca remota) ed è identificata nello stradario comunale come “via”.
Si chiede se i requisiti di questa strada bianca dalla quale si accede al terreno che sarebbe oggetto della nuova edificazione sono sufficienti a soddisfare il requisito del 2° comma dell’art. 12 del DPR 380/2001, che recita che il rilascio del permesso di costruire “è comunque subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria”, tenendo presente che il comune non ha in previsione di realizzare alcuna opera di urbanizzazione primaria nella zona interessata, e che l’interessato non ha dichiarato, al momento, nessun impegno di procedere con l’attuazione di alcuna opera di urbanizzazione.
RISPOSTA:
Come correttamente osservato nel quesito il rilascio del permesso a costruire presuppone ai sensi del cit. art. 12, comma 2, del DPR n. 380/2001, l’esistenza di adeguate opere di urbanizzazione primarie e secondarie come definite dall’art. 7, 7-bis ed 8 dell’art. 16 del cit. DPR.
Tale preventiva urbanizzazione va peraltro accertata evidentemente non già in relazione al singolo lotto di terreno interessato dalla richiesta del titolo abilitativo a costruire, quanto con riferimento all’intero comparto o zona urbanistica nell’ambito dei quali si colloca la costruzione da assentire, tenendo conto quindi della previsioni di piano vigenti in detta zona.
Si è quindi dell’avviso che una corretta valutazione della problematica posta non possa prescindere da tale preventivo accertamento ed anche tenendo conto delle caratteristiche di autonomia (come sembra dalle notizie riferite) di tale costruzione la quale, seppure configurata come “ampliamento” dal punto di vista del piano casa, risulta in realtà una nuova costruzione dal punto di vista urbanistico e delle necessarie opere di urbanizzazione (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

ATTI AMMINISTRATIVI I certificati anagrafici.
DOMANDA:
Il rappresentante territoriale di un sindacato, con semplice nota trasmessa a mezzo fax, ha richiesto dei certificati per un suo iscritto, senza allegare fotocopia del suo documento d'identità, né copia della delega ricevuta con copia del documento di quest'ultimo.
Inoltre chiede dei certificati anagrafici (certificato di famiglia originario, certificato contestuale di residenza, nascita e cittadinanza) in carta semplice per "uso pensione estera" senza indicare specificatamente l'articolo che riguarda l'esenzione.
Si chiedono indicazioni in merito sia alla correttezza del soggetto legittimato a richiedere i certificati sia in merito all'esenzione dal bollo.
RISPOSTA:
Preliminarmente si ricorda che l’art. 33 del D.P.R. 223/1989 “Nuovo regolamento anagrafico” prevede espressamente che: ”L'ufficiale di anagrafe rilascia a chiunque ne faccia richiesta, fatte salve le limitazioni di legge, i certificati concernenti la residenza e lo stato di famiglia. Ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici, ad eccezione delle posizioni previste dal comma 2 dell'art. 35, può essere attestata o certificata, qualora non vi ostino gravi o particolari esigenze di pubblico interesse, dall'ufficiale di anagrafe d'ordine del sindaco".
L’art. 450 del codice civile dispone: ”I registri dello stato civile sono pubblici. Gli ufficiali dello stato civile devono rilasciare gli estratti e i certificati che vengono loro domandati con le indicazioni dalla legge prescritte. Essi devono altresì compiere negli atti affidati alla loro custodia le indagini domandate dai privati.”
Relativamente agli estratti degli atti di stato civile il comma 3 dell’art. 177 del D.Lgs. 196/2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali” ha precisato: ”Il rilascio degli estratti degli atti dello stato civile di cui all'articolo 107 del decreto del Presidente della Repubblica 03.11.2000, n. 396 è consentito solo ai soggetti cui l'atto si riferisce, oppure su motivata istanza comprovante l'interesse personale e concreto del richiedente a fini di tutela di una situazione giuridicamente rilevante, ovvero decorsi settanta anni dalla formazione dell'atto.”
Sulla base delle disposizioni richiamate la richiesta di certificati anagrafici con nota inviata per fax dalla quale era rilevabile il soggetto richiedente é sufficiente per il rilascio. Non necessita né copia del documento di identità del richiedente, né delega accompagnata da copia del documento del delegante. Per la richiesta di certificati di stato civile, se presentata da soggetti diversi da quelli cui l’atto si riferisce, è invece necessario precisare il motivo della richiesta comprovante l'interesse personale e concreto del richiedente a fini di tutela di una situazione giuridicamente rilevante.
Anche in questo caso, se il richiedente è identificato, non necessita allegare copie di documenti. Ovviamente vanno poste a carico del richiedente eventuali spesa di spedizione degli atti. Le certificazioni di stato civile sono esenti da bollo ai sensi dell'art. 7, comma 5, della legge n. 405/1990. I certificati anagrafici sono atti soggetti sin dall'origine all'imposta di bollo, ai sensi dell’articolo 4 della Tabella A, allegata al D.P.R. n. 642/1972 “Disciplina dell’imposta di bollo”.
Sono però esenti dall'imposta modo assoluto, ai sensi dell’art. 9 della tabella allegato B allo stesso decreto, i certificati anagrafici occorrenti per la liquidazione e il pagamento delle pensioni dirette o di reversibilità da presentare all'estero. E’ previsto che il richiedente indichi espressamente l’uso, non è necessario che sia precisato l’articolo che prevede l’esenzione (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

TRIBUTI: Regolamento ai sensi dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica di favorire la partecipazione della comunità locale alla valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni, specificamente, di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere.
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non aventi natura tributaria, ad avviso dell'IFEL e come specificato dall'ANCI, istituti analoghi possono essere attivati dall'ente, nell'ambito della disciplina regolamentare generale delle entrate (art. 52, D.Lgs. n. 446/1997) e avvalendosi della facoltà riconosciuta dall'art. 1197 c.c., secondo cui 'il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta'.

Il Comune intende approvare il Regolamento ai sensi dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, e chiede se sia legittimo estendere l'agevolazione ivi prevista anche alle entrate non tributarie, quali ad esempio le tariffe (rette per mense scolastiche, tariffe scuolabus) ed i canoni di locazione di immobili comunali.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
In via preliminare, si sottolinea la natura statale della norma in oggetto da cui consegue la competenza degli organi statali a fornire i chiarimenti in ordine all'ambito applicativo della stessa. Le considerazioni che seguono vengono, pertanto, espresse in via meramente collaborativa.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n. 133/2014
[1], 'i comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4, della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale
[2].
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano
[3].
In ordine alle modalità applicative dell'agevolazione (specificamente tributaria) prevista dall'art. 24 in commento, il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare
[4], ha espresso l'avviso secondo cui «l'impressione è che la norma non autorizzi affatto gli enti locali, in modo indiscriminato, a disporre la riduzione o l'esonero. Ma esiga, piuttosto, un preciso rapporto di connessione 'fra attività posta in essere' e tributo interessato».
Per quanto concerne la questione posta dall'Ente, relativa alla possibilità di estendere l'agevolazione tributaria prevista dall'art. 24, D.L. n. 133/2014, oltre ai tributi anche alle tariffe e ad altre entrate extra tributarie, si formulano alcune riflessioni -si ribadisce- in via collaborativa, stante la competenza degli organi statali al riguardo.
Il tenore letterale dell'art. 24 in argomento prevede un'agevolazione (esenzione o riduzione) esplicitamente riferita ai tributi, la cui essenza consiste nell'essere prestazioni patrimoniali imposte dall'ente pubblico, caratterizzate dall'attitudine (idoneità) a determinare il concorso alla pubblica spesa dell'ente impositore, e gravanti su tutti i cittadini aventi una retribuzione o un reddito imponibile a fini fiscali
[5].
Specificamente, deve essere riconosciuta natura tributaria a tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione o in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed il beneficio che il singolo riceve
[6].
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non aventi natura tributaria
[7], l'Istituto per la finanza e l'economia locale (IFEL), fondazione istituita dall'Anci, nel constatare che l'ambito di applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, si riferisce, appunto, esplicitamente al campo dei tributi comunali, per cui non sembrano potersi ricondurre al suo ambito applicativo anche le entrate patrimoniali non tributarie, ha osservato, però, che istituti analoghi possono comunque essere attivati per tali entrate non tributarie, in relazione alle quali l'ente locale può ancora più flessibilmente disporre modalità alternative di adempimento anche sotto il profilo dei pagamenti.
Un tanto l'ente potrà disporre nell'ambito della disciplina regolamentare generale delle proprie entrate (art. 52, D.Lgs. n. 446/1997
[8]), e avvalendosi della facoltà riconosciutagli dall'art. 1197 cod. civ., secondo cui 'il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta' [9].
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[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive', convertito, con modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, ha chiarito che l'individuazione delle attività 'in ragione dell'esercizio sussidiario', è da intendersi, secondo ragionevolezza, nel senso fatto palese dall'art. 118, Cost., laddove ci si riferisce solo ad attività di interesse generale (deliberazione n. 5, del 23.02.2015).
[3] L'IFEL (Istituto per la finanza e l'economia locale, fondazione istituita dall'ANCI), ha precisato che l'attività cui collegare le agevolazioni non può essere individuata liberamente dal comune, ma deve essere riconducibile alle tipologie di attività elencate dalla norma, nel rispetto del principio della riserva di legge, ex art. 23 della Costituzione (nota del 16.10.2015).
[4] Deliberazione n. 5/2015, cit..
[5] C. Cost., 12.01.1995, n. 2, con specifico riferimento alla natura tributaria del contributo per il Servizio sanitario nazionale, specificamente finalizzato al finanziamento della spesa pubblica sanitaria. La pronuncia è richiamata da Cass. civ., sez. un., Ordinanza 09.01.2007, n. 123. Conformi: Corte Costituzionale 10.02.1982, n. 26, Corte Costituzionale, 14.03.2008, n. 64; Corte Costituzionale, 11.02.2005, n. 73, tutte nel senso di qualificare il tributo come una prestazione patrimoniale imposta e collegata alla spesa pubblica.
[6] Cass. civ., Ordinanza 11.02.2008, n. 3171, che afferma la natura tributaria del contributo per il Servizio sanitario nazionale, in quanto trova applicazione a prescindere dall'an e dal quantum dei servizi (e della natura degli stessi) richiesti; e non ha un rapporto sinallagmatico con l'utilizzazione del Servizio.
[7] In particolare, per le entrate cui il Comune vorrebbe estendere l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014 (retta mensa, tariffa scuolabus), si osserva che sussiste un nesso di sinallagmaticità (che, alla luce delle elaborazioni giurisprudenziali riportate, non appartiene ai tributi) tra la retta per la mensa e la fruizione del relativo servizio, come emerge dalle considerazioni della Suprema Corte che, relativamente al servizio di mensa nella scuola materna, ha escluso una contribuzione, se pur ridotta, per gli utenti che avevano dichiarato di non voler mai usufruire della mensa, per il solo fatto di frequentare la scuola, che invece non deve comportare alcun onere economico a loro carico (Cass. civ., Sez. un., 04.12.1991, n. 13030). Lo stesso, appare configurarsi un nesso sinallagmatico tra la prestazione economica della tariffa scuolabus e l'utilizzazione del relativo servizio di trasporto scolastico.
[8] L'art. 52, D.Lgs. n. 446/1997 (Potestà regolamentare generale delle province e dei comuni), riconosce ai Comuni e alle Province il potere di disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie.
Su questo punto, cfr. Anci, nota del 15.09.2015. L'Associazione, nel rispondere ad un quesito sulla portata applicativa dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, in particolare sulla possibilità di prevedere, con regolamento comunale, anche riduzioni o esenzioni di canoni e di tariffe comunali, ha affermato la possibilità per il comune, nell'esercizio della potestà regolamentare prevista dall'art. 52, D.Lgs. n. 446/1997, di disporre ulteriori esenzioni ed agevolazioni, in materia di entrate e tributi.
[9] Cfr. nota Anci del 26.10.2015
(03.12.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Permessi agli amministratori locali per mandato elettivo.
L'art. 79, comma 6, TUEL richiede, per le varie tipologie di permessi per assentarsi dal lavoro di cui un amministratore locale può fruire per l'esercizio del mandato elettivo, la necessità di un'attestazione dell'ente.
Per i permessi per la partecipazione alle riunioni degli organi dovrà risultare, tramite attestazione dell'Ente, l'ora di inizio della riunione o quella successiva nel caso in cui l'amministratore sia arrivato in un secondo momento e quella della fine dei lavori o quella, eventualmente precedente, in cui l'interessato si sia definitivamente allontanato.
Con riferimento, invece, all'attestazione relativa alle ore di permesso per l'espletamento del mandato, utilizzate per attività non espressamente documentate agli atti dell'amministrazione (art. 79, commi 4 e 5, TUEL), l'ente può richiedere la presentazione da parte dell'interessato di una dichiarazione con la quale lo stesso attesti giorni, ore e motivi delle attività effettuate mensilmente per l'esercizio del mandato e, sulla base di questa, rilasciare la certificazione per il datore di lavoro.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla disciplina dei permessi spettanti agli amministratori locali per l'espletamento del mandato e, in particolare, relativamente alle modalità di fruizione di tali permessi.
L'articolo 79 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 stabilisce il diritto degli amministratori locali di fruire di permessi, retribuiti e non, per assentarsi dal lavoro per l'esercizio del mandato correlato alla carica rivestita presso gli enti in cui sono stati eletti o nominati.
Il comma 6 dell'indicato articolo prevede, in particolare, che 'l'attività ed i tempi di espletamento del mandato per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi, retribuiti e non retribuiti, devono essere prontamente e puntualmente documentati mediante attestazione dell'ente'.
Come chiarito dal Ministero dell'Interno con propri pareri resi sull'argomento, 'risulta fondamentale che le attività svolte dall'amministratore in questione siano correlate esclusivamente alle funzioni amministrative ricoperte, desunte da incarichi demandati all'amministratore dall'ente, proprio in forza della carica rivestita presso lo stesso'.
[1]
La necessità di attestazione riguarda le varie tipologie di permessi, siano essi retribuiti oppure no, e sia che riguardino la partecipazione alle riunioni dei diversi organi dei quali l'amministratore è componente (e per i quali la legge riconosce il diritto ad usufruire dei permessi) sia che attengano alle ulteriori attività politico-amministrative svolte dall'amministratore nel monte ore massimo concessogli dalla legge. A supporto di un tanto si consideri la sentenza del giudice contabile
[2] la quale, benché relativa alla disciplina dei permessi allora contenuta nella legge 27.12.1985, n. 816, di contenuto analogo all'attuale articolo 79 TUEL, recita: «In conclusione, tutti i permessi previsti dall'art. 4 della L. n. 816/1985, compresi le '24 o 48 ore retribuite' di cui al 3° comma del medesimo articolo, devono trovare puntuale riscontro nelle attestazioni dell'Ente presso il quale i permessi stessi vengono fruiti, sì che il diritto a tali permessi resta 'subordinato all'assolvimento degli obblighi di diligenza e documentazione di cui al (ripetuto) art. 16' (cfr. Pretore di Asti del 27/12/1988 [...])
Circa gli adempimenti connessi alla fruizione dei permessi, essi si possono suddividere in una fase preventiva finalizzata all'ottenimento dei permessi e in una fase successiva collegata all'attestazione dei permessi fruiti.
Per quanto riguarda gli adempimenti della prima fase, si rileva che, benché tali permessi si configurino come un diritto soggettivo perfetto, non subordinato alla preventiva valutazione discrezionale del datore di lavoro, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il diritto dell'amministratore locale a fruire dei permessi lavorativi vada contemperato con il diritto dell'ente di appartenenza, con cui l'amministratore ha mantenuto il rapporto lavorativo, al rispetto delle norme organizzative interne.
Ne consegue che il datore di lavoro non può negare il permesso ma potrebbe pretendere, da parte del dipendente, una comunicazione preventiva delle assenze dal servizio e, ove possibile, una pianificazione delle stesse. In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato affermando che 'a fronte di tale diritto non si rinviene alcun potere del datore di lavoro di comprimerne l'esercizio per ragioni attinenti all'organizzazione del servizio restando a carico del lavoratore solo l'onere di previa comunicazione dell'assenza e della sua causa giustificatrice'.
[3]
Quanto agli adempimenti della seconda fase relativa all'attestazione dei permessi fruiti si evidenzia che le modalità di fruizione dei permessi variano a seconda della tipologia degli stessi.
I permessi per la partecipazione alle riunioni degli organi non sono soggetti a limitazione temporale, mentre i permessi per l'espletamento del mandato sono limitati al monte ore mensile fissato per legge.
Nel primo caso dovrà risultare, tramite attestazione dell'Ente, l'ora di inizio della riunione o quella successiva nel caso in cui l'amministratore sia arrivato in un secondo momento e quella della fine dei lavori o quella, eventualmente precedente, in cui l'interessato si sia definitivamente allontanato. Dovrà, altresì, risultare il tempo impiegato per lo spostamento da e per il luogo di lavoro. Più precisamente, l'attestazione dovrà fare riferimento alla 'sola presenza dell'amministratore alle relative riunioni presso l'ente locale e alla durata delle stesse e non invece, ai tempi di percorrenza per il viaggio di andata e ritorno che potranno invece essere attestati dallo stesso amministratore con un'autodichiarazione di cui all'art. 47 del DPR 28.12.2000, n. 445, corredata dalla documentazione, biglietti di viaggio o pedaggi autostradali, eventualmente in possesso'.
[4]
Circa i soggetti legittimati al rilascio dell'attestazione, il Ministero dell'Interno ha chiarito che 'in assenza di specifica norma regolamentare, l'attestazione dell'utilizzo dei permessi può essere rilasciata dal sindaco, dal segretario comunale, o dal segretario del collegio cui partecipano gli amministratori interessati, se prestabilito, o da un consigliere facente le veci di segretario, ovvero dal presidente dell'adunanza'
[5] o, ancora 'dal dirigente competente ai sensi dell'art. 107, comma terzo, lett. h) del d.lgs. 267/2000'. [6]
Con riferimento, invece, all'attestazione relativa alle ore di permesso per l'espletamento del mandato, relativamente a quelle utilizzate per attività non espressamente documentate agli atti dell'ente,
[7] il Ministero dell'Interno ha ritenuto che, in tal caso, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui all'articolo 47 del DPR 445/2000, sia idonea a giustificare l'assenza. A tale riguardo, ha affermato che 'la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui all'art. 47 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, ha la stessa validità legale dell'atto che sostituisce tanto più che, nella fattispecie, tale dichiarazione viene effettuata da un amministratore locale investito di pubbliche funzioni'. [8]
Si segnala, tuttavia, la posizione assunta dal Consiglio di Stato,
[9] ove si afferma che 'esiste una stretta correlazione tra gli obblighi inerenti al mandato e la fruibilità dei permessi incidenti nella relazione di dipendenza lavorativa' e che 'il sacrificio imposto al datore di lavoro trova giustificazione nella non volontaria coincidenza dell'impegno nascente dalla carica (convocazione dei consigli ovvero degli organi cui si fa parte), con l'attività subordinata, salva la possibilità di fruire di un monte ore (nel limite partecipato dalla norma) per l'esercizio delle altre funzioni che competono in forza della carica medesima, le quali debbono trovare giustificazione nell'attestazione dell'Ente presso il quale viene espletato il mandato, senza che a ciò possa sopperire la dichiarazione dell'interessato e la programmazione personale degli impegni da parte del singolo amministratore.'
In ogni caso, anche aderendo alla impostazione assunta dalla giurisprudenza, secondo la quale non si può prescindere dall'attestazione dell'Ente, si può ritenere che, per i permessi relativi all'espletamento del mandato di cui ai commi 4 e 5 dell'articolo 79 TUEL, l'Ente possa richiedere la presentazione da parte dell'interessato di una dichiarazione con la quale lo stesso attesti giorni, ore e motivi
[10] delle attività effettuate mensilmente per l'esercizio del mandato e, sulla base di questa, rilasci la certificazione per il datore di lavoro.
Per concludere, come si legge in un parere del Consiglio di Stato (parere n. 1717/96 in data 07.05.1997), 'l'Amministrazione (datore di lavoro) non può esercitare alcuna valutazione dell'opportunità o meno del permesso; può solo verificare che l'attestazione dell'Ente corrisponda ai giorni per i quali i permessi sono stati chiesti e che si tratti di attività inerente ...(all'espletamento del mandato). ... Il sistema di affidare l'onere certificativo all'Ente, presso cui il dipendente svolge il mandato elettorale, ed all'Amministrazione (datore di lavoro) di verificare la corrispondenza dell'attestazione alle previsioni legislative, costituisce, garanzia da ogni forma di limitazione del diritto o di abuso del suo esercizio.'
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[1] Ministero Interno, parere del 19.01.2015. Nello stesso senso si veda anche parere del 10.06.2014.
[2] Corte dei Conti, sezione giurisdizionale dell'Umbria, sentenza del 18.05.1999, n. 379.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 24.05.2000, n. 2997. Nello stesso senso si veda anche parere dell'ANCI del 10.11.2011 ove si afferma che: 'Il sindaco non è tenuto a chiedere autorizzazione per assentarsi dal posto di lavoro per motivi inerenti al proprio mandato, ma deve, con ragionevole anticipo, comunicare l'assenza e la durata prevista al datore di lavoro, al fine di consentire di affrontare le esigenze di servizio del datore di lavoro in supplenza all'assenza dell'amministratore, senza causare disagio o pregiudizio all'attività dell'azienda'. In senso analogo si è espresso il Ministero dell'Interno, con parere del 10.02.2010, ove ha affermato che 'le assenze a tale titolo vadano tempestivamente comunicate dal dipendente all'ufficio di appartenenza per consentire allo stesso di contemperare le esigenze di servizio con gli impegni connessi al mandato amministrativo'. A tal fine, il Ministero richiama una sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, del 13.01.1988, n. 103 in cui si ribadisce che: 'Perché un lavoratore assuma una carica elettiva non ha bisogno dell'autorizzazione del datore di lavoro; egli, tuttavia, non può esimersi dal comunicare al datore di lavoro le presumibili assenze in un determinato periodo, in relazione al calendario dei lavori dell'organo di cui sia stato chiamato a far parte al fine di giustificare le assenze dal servizio'.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 30.04.2014.
[5] Ministero dell'Interno, pareri del 19.01.2015 e del 10.06.2014.
[6] Ministero dell'Interno, pareri del 30.04.2014 e del 03.05.2010.
[7] Si pensi, ad esempio, ad attività da svolgere al di fuori dell'Ente e non necessariamente ufficializzate.
[8] Ministero dell'Interno, pareri del 19.01.2015 e del 10.06.2014.
[9] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 29.03.2001, n. 1855.
[10] Rientrano nei permessi retribuiti c.d. a plafond (oltre che in quelli non retribuiti) previsti dall'articolo 79 del D.Lgs. 267/2000 la partecipazione alle c.d. 'giunte politiche', consistenti in riunioni che i componenti la Giunta tengono in via informale. Così, Corte dei Conti, sez. giurisdizionale dell'Umbria, sentenza citata in nota 2
(03.12.2015 -
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PATRIMONIO: Contratti di locazione passiva di nuova stipulazione.
Ai sensi dell'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012, per i contratti di locazione passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle amministrazioni pubbliche (ivi compresi gli enti locali, ai sensi del comma 7 dell'art. 3 in argomento, come novellato dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014), si applica la riduzione del 15 per cento sul canone congruito dall'Agenzia del demanio.
Quest'ultima ha precisato che è facoltativo per gli enti locali chiedere la verifica di congruità del canone; una scelta in tal senso -evidenzia la Corte dei conti- è comunque prudenziale, anche al fine di non incorrere in responsabilità per danno erariale.
In ogni caso, per il magistrato contabile, sul canone congruito (a seguito della relativa attestazione dell'Agenzia del demanio, cui le amministrazioni comunali abbiano ritenuto di rivolgersi) dei contratti di nuova stipulazione, si applica la riduzione del 15%, a norma dell'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012.

Il Comune necessita di un immobile da adibire a magazzino comunale ed, essendo scaduto il contratto di locazione che aveva a tal fine stipulato, ha individuato, attraverso selezione pubblica, un nuovo immobile di superficie maggiore rispetto alla precedente. L'Ente chiede dunque se possa stipulare il nuovo contratto, atteso che il proprietario richiede un canone di locazione leggermente superiore a quello precedente.
Si evidenzia al riguardo che l'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012, stabilisce che 'Per i contratti di locazione passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle Amministrazioni di cui al comma 4
[1], si applica la riduzione del 15 per cento sul canone congruito dall'Agenzia del Demanio [...]' [2].
Ai sensi del comma 7 dell'art. 3 in argomento, a seguito della novella recata dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 dell'art. 3 medesimo, si applicano altresì alle altre amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, ivi compresi gli enti locali.
Come chiarito dalla Corte dei conti, l'espressione 'canone congruito dall'Agenzia del Demanio' si riferisce alla valutazione, demandata all'Agenzia, nell'ambito della sua attività di monitoraggio, di congruità del prezzo rispetto ai prezzi medi di mercato, per il rinnovo dei contratti di locazione, ai sensi dell'articolo 1, comma 388, della L. n. 147/2013
[3].
Per quanto concerne, specificamente, le locazioni di nuova stipulazione, la Corte dei conti chiarisce che gli enti locali potranno rivolgersi all'Agenzia del Demanio per la valutazione di congruità del prezzo: come precisato dalla medesima Agenzia (circolare n. 16155/2014 dell'11.06.2014) si tratta di una scelta facoltativa (ma prudenziale, anche al fine di non incorrere in responsabilità per danno erariale), in quanto le disposizioni in materia di locazioni, commi da 4 a 6 del D.L. n. 95/2012, si applicano alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, in quanto compatibili.
In ogni caso -sottolinea la Corte dei conti
[4]- sul canone congruito [5] dei contratti di nuova stipulazione, si applica la riduzione del 15%, a norma del comma 6 dell'art. 3 del D.L. n. 95/2012.
Ed invero, per la Corte dei conti
[6], l'unica eccezione all'applicazione della riduzione obbligatoria del canone viene ravvisata con riferimento ai contratti di locazione in corso, nella sola ipotesi in cui il canone corrisposto al privato sia già inferiore all'importo ritenuto congruo dall'Agenzia del demanio, ridotto del 15%. E questo per evitare che l'ulteriore automatica riduzione, operata ai sensi del comma 4 dell'art. 3, D.L. n. 95/2012 [7], induca il privato ad esercitare il diritto di recesso. In questa evenienza, infatti, l'amministrazione si troverebbe nella necessità di stipulare un nuovo contratto ad un canone necessariamente più alto di quello originariamente corrisposto, anche in applicazione del comma 6 dell'art. 3 del D.L. n. 95/2012 (canone 'congruito' ridotto del 15%), vanificando proprio la finalità di vantaggio per l'Erario perseguita dalla norma.
A ben vedere, la Corte dei conti prende in esame il problema della stipula di un nuovo contratto di locazione ad un canone più alto di quello già pagato, per evitare che questo sia la conseguenza del recesso da parte del locatore, a seguito della decurtazione del canone, ai sensi dell'art. 3, comma 4, D.L. n. 95/21012. E a scongiurare tale rischio (di un effetto opposto a quello voluto dalla norma), la Corte dei conti fornisce la soluzione di ritenere plausibile un'interpretazione integrativa dell'art. 3, comma 4, D.L. n. 95/2012, che, in luogo di applicare il 15% di riduzione ad un canone di importo già modesto -provocando, in caso di recesso da parte del privato, la successiva stipula di un contratto meno vantaggioso per l'amministrazione- consenta di mantenere in essere il contratto in corso al canone attuale, fino alla naturale scadenza, ed eventualmente anche di procedere al rinnovo alle medesime condizioni
[8].
All'infuori di questa precisa circostanza, la Corte dei conti ribadisce per i contratti di locazione l'obbligatorietà della specifica disciplina di contenimento della spesa pubblica ed in particolare, per le locazioni di nuova stipulazione, l'applicazione in ogni caso della riduzione del 15% sul canone ritenuto congruo dall'Agenzia del demanio, a cui le amministrazioni abbiano valutato di rivolgersi per la valutazione di congruità del prezzo
[9].
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[1] Il comma 4 si riferisce alle Amministrazioni centrali.
[2] In tema di locazioni passive, non è più vigente la norma imperativa (contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12 del d.l. n. 98/2011, così come introdotto dall'art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012) che vietava, nell'anno 2013, oltre l'acquisto di beni immobili anche la stipula di contratti di locazione passiva. (Cfr. Corte dei conti, sez. reg. controllo per il Piemonte, 15.01.2015, n. 3).
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. per la Puglia, 23.07.2015, n. 154. Secondo l'art. 1, comma 388, L. n. 147/2013, richiamato dalla Corte dei conti, 'Anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di contenimento della spesa, i contratti di locazione di immobili stipulati dalle amministrazioni individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, non possono essere rinnovati, qualora l'Agenzia del demanio, nell'ambito delle proprie competenze, non abbia espresso nulla osta sessanta giorni prima della data entro la quale l'amministrazione locataria può avvalersi della facoltà di comunicare il recesso dal contratto. Nell'ambito della propria competenza di monitoraggio, l'Agenzia del demanio autorizza il rinnovo dei contratti di locazione, nel rispetto dell'applicazione di prezzi medi di mercato, soltanto a condizione che non sussistano immobili demaniali disponibili. I contratti stipulati in violazione delle disposizioni del presente comma sono nulli'.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit..
[5] A seguito della relativa attestazione dell'Agenzia del demanio, cui le amministrazioni abbiano ritenuto di rivolgersi.
[6] Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Toscana, 15.01.2015, n. 8, richiamata dalla Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit..
[7] L'art. 3, comma 4, DL n. 95/2012, come novellato dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014, ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali, prevede la riduzione automatica del 15% dei canoni di locazione, a decorrere dall'01.07.2014 (la decorrenza della misura finanziaria, originariamente fissata all'01.01.2015, è stata anticipa all'01.07.2014 dalla novella di cui al D.L. n. 66/2014).
[8] Nell'ambito di questi principi, la Corte dei conti rimette alla discrezionalità dell'ente la valutazione complessiva dell'economicità dell'operazione, in coerenza con la disciplina di contenimento della spesa in materia di locazioni (Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit.).
[9] Al riguardo, l'Anci, nella nota dell'08.07.2014, ha espresso l'avviso per cui, anche nel caso di contratti di nuova locazione, per un principio di prudenza e di garanzia del rispetto della economicità, è opportuno che, in ogni caso, l'ente locale chieda la verifica della congruità del canone all'Agenzia del demanio.
L'Agenzia del demanio, nella circolare n. 16155/2014 richiamata, fornisce chiarimenti in ordine all'istanza di congruità del canone che dovesse esserle rivolta dalle p.a. per i contratti di nuova stipulazione.
In particolare, detta istanza dovrà essere corredata dal canone proposto dal proprietario dell'immobile interessato ed inviata unitamente ad una perizia del bene.
Per la perizia, l'Agenzia del demanio mette a disposizione un apposito modello estimale (Allegato 3 della circolare, riferito specificamente alle nuove locazioni), che richiede l'indicazione del canone proposto dal proprietario e del canone di mercato. Per la valutazione dell'immobile (ai fini del valore/canone), il modello indica dei criteri valutativi, tra cui, il criterio valutativo principe del 'Canone di mercato per comparazione diretta', basato sulla comparazione diretta del bene oggetto di stima con quei beni ad esso similari, locati nel recente passato, nella stessa zona ed in regime di libero mercato.
Qualora il canone di locazione, determinato a seguito della perizia trasmessa ai fini della congruità, risulti inferiore a quello richiesto dalla Proprietà, le Amministrazioni dovranno acquisire da parte di quest'ultima l'accettazione di detto importo, specificando che lo stesso non ha carattere definitivo, ma dovrà essere sottoposto alla congruità da parte dell'Agenzia del demanio.
Inoltre, l'Agenzia evidenzia che, se interessata ai fini dell'espletamento dell'attività di congruità, comunicherà, ad ogni buon fine, oltre l'esito della verifica sul canone, anche l'eventuale disponibilità di immobili, potenzialmente idonei alle esigenze dell'Amministrazione interessata, di proprietà statale ovvero, in subordine, di proprietà pubblica - comunicati dalle P.A. all'Agenzia del demanio mediante apposito applicativo informatico
(27.11.2015 -
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APPALTI: I requisiti per la gara.
DOMANDA:
Questa Stazione appaltante ha pubblicato il bando pubblico prot. n. del 09.10.2015 per l’affidamento in concessione, ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i. e con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, del servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza e viabilità stradale post incidente.
Tra i requisiti di partecipazione ha chiesto anche il possesso all’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali per la categoria “bonifica dei siti contaminati” nonché il possesso della certificazione di conformità delle attività della Sala operativa secondo le norme UNI EN 15838/2010 e UNI 11200/2010.
Con determinazione Reg. Gen. 866 del 26.10.2015, a seguito osservazioni presentate da due operatori economici in merito all’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali per la categoria “bonifica dei siti contaminati”, nonché il possesso della certificazione di conformità delle attività della Sala operativa, requisiti ritenuti troppo restrittivi e quindi lesivi della concorrenza e del favor partecipazionis, si è stabilito di sospendere i termini di presentazione dell’offerta fissati per il giorno 06.11.2015 per approfondire l’argomento.
Con determinazione Reg. Gen. n del 04.11.2015 sono stati riaperti i termini di presentazione dell’offerta, fissati per il 27.11.2015, mantenendo integrale il bando prot. n. del 09.10.2015 per i seguenti motivi: 1. che i requisiti oggetto di osservazione sono stati richiesti da altri Comuni in procedure di gara analoghe; 2. che il territorio comunale è attraversato dalla S.R. F, strada a traffico sostenuto soprattutto nei fine settimana e strada alternativa in caso di chiusura temporanea della A4 tra il casello M. e quello di F., con passaggio anche di mezzi pesanti che trasportano materiali inquinanti.
Con la riapertura dei termini sono pervenute altre osservazioni da parte di operatori economici del settore sempre in merito ai requisiti suddetti.
Questa Stazione appaltante con determinazione Reg. Gen. n. del 20.11.2015 ha stabilito di ritirare in autotutela amministrativa, ai sensi della legge n. 241/1990 e s.m.i., il bando pubblico prot. n. allo scopo di approfondire ulteriormente la materia e favorire la massima partecipazione degli operatori economici del settore ed evitare possibili ricorsi innanzi al Tribunale Amministrativo con conseguenti spese di giudizio a carico dell’Ente e tempi lunghi per la definizioni delle controversie.
Alla luce di quanto sopra esposto si chiede un parere in merito a quali siano i requisiti minimi da chiedere agli operatori economici per partecipare alla procedura in argomento il cui valore economico è stato quantificato in complessivi € 10.000,00 per una durata della concessione di anni due.
RISPOSTA:
Su fattispecie analoga a quella sottoposta a questo ufficio di consulenza si è espressa l'Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac), con Parere n. 128 del 06/06/2014 al cui contenuto integrale si rinvia.
Per quanto di maggior attinenza al caso di specie, l'Anac ha ricordato che, con specifico riguardo all’appalto di pulizia delle strade a seguito di incidenti, la giurisprudenza ha censurato l’irragionevolezza della lex specialis di gara che richieda l’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali per l’attività di bonifica ambientale dei siti inquinati, sul rilievo che la bonifica esula dalla competenza dell’ente proprietario della strada ed incombe, di regola, sul soggetto che ha causato l’inquinamento; viceversa, per l’esecuzione degli ordinari interventi di pulizia delle strade e ripristino della viabilità, non sarebbero necessari così stringenti requisiti di qualificazione tecnica, tali da equiparare impropriamente il servizio di pulizia e ripristino alla bonifica di un sito inquinato (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 04.02.2011 n. 227; CGA Sicilia, sez. giurisdiz., 15.12.2011 n. 998).
Da parte sua, l’Autorità ha affermato l’illegittimità di un’analoga clausola, precisando tuttavia che la congruità e la ragionevolezza della qualificazione prescritta dal bando di gara devono sempre essere vagliate in concreto, ponendo attenzione alla natura delle prestazioni effettivamente rimesse all’appaltatore secondo la disciplina contrattuale predisposta dall’amministrazione, con riguardo all’oggetto dell’appalto ed alle sue specifiche peculiarità (cfr. A.V.C.P., parere 21.03.2012 n. 42).
A tal fine andrebbero verificate le operazioni di ripristino delle condizioni di sicurezza stradale previste, in concreto, nel capitolato di gara.
Nel parere, l'Autorità suggerisce di inserire nel disciplinare di gara una clausola più flessibile, come ad esempio "l'iscrizione Albo Nazionale Gestori Ambientali alla categoria 1 ed almeno classe F, oppure categoria 1 limitata per attività di spazzamento meccanizzato Classe F”.
E' pur vero, però, nell'ottica richiamata, che se il disciplinare di gara dovesse prevedere che l’affidatario del servizio effettui anche “interventi straordinari”, quali il trattamento di sversamenti di materiale pericoloso, inquinante o tossico in quantità tale da richiedere la bonifica del territorio, oppure il recupero di materiali trasportati dispersi a seguito di incidente e non facilmente allontanabili dalla carreggiata, il requisito di iscrizione contestato (iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali per la categoria “bonifica dei siti contaminati”) non sarebbe né illogico, né incongruente.
Si rimette pertanto all'amministrazione una valutazione in merito alla congruità e alla ragionevolezza dei requisiti prescritti in rapporto alla natura delle prestazioni richieste in concreto all’appaltatore (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Anci Risponde - Non è consentito partecipare al consiglio comunale in videoconferenza.
Un comune chiede al servizio ANCI Risponde se un consigliere comunale, fuori sede, possa partecipare e votare in una seduta di consiglio in atto, partecipandovi in videoconferenza.
Gli uffici comunali chiedono, inoltre, di indicare eventuali riferimenti legislativi sulla questione.

Gli esperti del servizio, su tale argomento, sono lapidari: l'art. 38, comma 2, del TUEL prevede che "Il funzionamento dei consigli, nel quadro dei princìpi stabiliti dallo statuto, e disciplinato dal regolamento, approvato a maggioranza assoluta, che prevede, in particolare, le modalità per la convocazione e per la presentazione e la discussione delle proposte. Il regolamento indica altresì il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia."
Il termine "presenza" utilizzato dalla disposizione normativa non consente interpretazioni estensive e pertanto, al momento, non è possibile consentire la partecipazione ai consigli comunali, né tantomeno la votazione in teleconferenza o comunque con modalità telematiche. Qualsiasi diversa disposizione dovrà essere oggetto di apposita disposizione normativa (link a www.centrodocumentazionecomuni.it).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIACompete alla compagnia aerea di appartenenza la rimozione e smaltimento dei rottami del velivolo precipitato a terra.
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Il comma 3 dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, stabilisce che “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Al riguardo non pare rilevare nel caso di specie l’ampio dibattito giurisprudenziale (e dottrinale) riguardante le condizioni in presenza delle quali possa ritenersi sussistente la responsabilità anche del proprietario del terreno -che sorge esclusivamente in relazione ad un atteggiamento doloso o colposo- con particolare riguardo al suo comportamento meramente omissivo.
Dibattito che –quanto meno a livello extra penale– non appare ancora definitivamente assestato impingendo i temi generali della cd. causalità omissiva.
In effetti, nel particolare caso in esame, rileva la peculiarità della vicenda, e soprattutto dell’evento, che fa ritenere insussistente il nesso causale tra la condotta del proprietario dei terreni sul quale il velivolo è precipitato (nella specie: il Comune) e il danno.
Il clamore del fatto -una sciagura che ha colpito un aereo passeggeri– le modalità degli eventi -lo spargimento di rottami tipici come parti di fusoliera, di carrelli, di timoni di coda e di parti interne– l’assoluta inevitabilità dell’evento, esclude che i proprietari delle aree interessate potessero essere coinvolti nella responsabilità riguardante lo “spargimento dei rifiuti”; così come appare del tutto pleonastica la comunicazione di avvio del procedimento di rimozione onde attivare il contraddittorio tra le parti, visto che la responsabilità non poteva che risalire alla Società proprietaria dell’aeromobile.
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Va disatteso il quarto motivo, inerente la “vetustà” dei rifiuti, l’inerzia delle amministrazioni coinvolte ed il lungo tempo trascorso dai fatti, che avrebbero reso i rottami aerei res derelictae usucapite dai proprietari dei terreni.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre affermato che l’inquinamento dà luogo a una situazione di carattere permanente al pari dell’abuso edilizio, che perdura fino a che non ne siano rimosse le cause e i parametri ambientali non siano riportati entro i limiti normativamente accettabili; da tale presupposto la giurisprudenza ha fatto derivare l’applicazione della legge ratione temporis vigente per far cessare i perduranti effetti della condotta omissiva ai fini della bonifica (nei casi citati l’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997), anche indipendentemente dal momento in cui siano avvenuti i fatti origine dell’inquinamento.

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Oggetto della presente controversia è l’intimazione a carico dell’Alitalia Linee Aeree Italiane s.p.a., attualmente in amministrazione straordinaria, a rimuovere e smaltire i rottami del velivolo del tipo Dc9 precipitato nel territorio comunale di Sarroch, area del Monte Conca d’Oru, il 14.09.1979, mentre percorreva la rotta tra Alghero e Cagliari.
Tale velivolo apparteneva alla Aero Trasporti Italiani s.p.a., meglio conosciuta come A.T.I., incorporata 15 anni dopo nell’Alitalia Linee Aeree Italiane.
Con riguardo all’elemento di contestazione contenuto nel secondo motivo di appello e relativo all’assenza di responsabilità dell’Alitalia quale successore universale di A.T.I., non si può che richiamare l’art. 192, co. 4, del D.Lgs. n. 152 del 2006, secondo il quale “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”.
Con ciò si sgombra il campo dal rilievo rappresentato dall’appellante, cui hanno fatto e fanno capo i rapporti giuridici attivi e passivi della Società incorporata, rapporti che in questo caso non attengono a sanzioni amministrative, le quali sono notoriamente intrasmissibili agli eredi, ma concernono la responsabilità conseguente ad un evidente danno ambientale causato dalla Società dante causa; le sanzioni amministrative menzionate dal provvedimento amministrativo in origine impugnato concernono infatti la mancata ed attuale inesecuzione dell’ordinanza di rimozione dei rottami.
Devono poi essere ritenuti infondati i motivi primo e terzo con cui l’appellante si duole, da un lato, dell’assenza di un accertamento della responsabilità in capo ai proprietari delle aree interessate dallo spargimento dei rottami e, dall’altro, dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai fini di provocare il contraddittorio tra le parti coinvolte.
Il comma 3 dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, stabilisce che “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Al riguardo non pare rilevare nel caso di specie l’ampio dibattito giurisprudenziale (e dottrinale) riguardante le condizioni in presenza delle quali possa ritenersi sussistente la responsabilità anche del proprietario del terreno -che sorge esclusivamente in relazione ad un atteggiamento doloso o colposo- con particolare riguardo al suo comportamento meramente omissivo.
Dibattito che –quanto meno a livello extra penale– non appare ancora definitivamente assestato impingendo i temi generali della cd. causalità omissiva.
In effetti, nel particolare caso in esame, rileva la peculiarità della vicenda, e soprattutto dell’evento, che fa ritenere insussistente il nesso causale tra la condotta del proprietario dei terreni sul quale il velivolo è precipitato (nella specie: il Comune) e il danno.
Il clamore del fatto -una sciagura che ha colpito un aereo passeggeri– le modalità degli eventi -lo spargimento di rottami tipici come parti di fusoliera, di carrelli, di timoni di coda e di parti interne– l’assoluta inevitabilità dell’evento, esclude che i proprietari delle aree interessate potessero essere coinvolti nella responsabilità riguardante lo “spargimento dei rifiuti”; così come appare del tutto pleonastica la comunicazione di avvio del procedimento di rimozione onde attivare il contraddittorio tra le parti, visto che la responsabilità non poteva che risalire alla Società proprietaria dell’aeromobile.
Infine va disatteso il quarto motivo, inerente la “vetustà” dei rifiuti, l’inerzia delle amministrazioni coinvolte ed il lungo tempo trascorso dai fatti, che avrebbero reso i rottami aerei res derelictae usucapite dai proprietari dei terreni.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre affermato che l’inquinamento dà luogo a una situazione di carattere permanente al pari dell’abuso edilizio, che perdura fino a che non ne siano rimosse le cause e i parametri ambientali non siano riportati entro i limiti normativamente accettabili (Cons. Stato, VI, 05.03.2015 n. 1109; id., 23.06.2014, n. 3165; id., 09.10.2007, n. 5283); da tale presupposto la giurisprudenza ha fatto derivare l’applicazione della legge ratione temporis vigente per far cessare i perduranti effetti della condotta omissiva ai fini della bonifica (nei casi citati l’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997), anche indipendentemente dal momento in cui siano avvenuti i fatti origine dell’inquinamento.
Il ricorso, pertanto, va respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.12.2015 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, viene meno la giustificazione causale della corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito.
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L’accoglimento della domanda di annullamento per mancata utilizzazione del permesso di costruire, in tale specifico caso, non comporta la restituzione della somma da parte del Comune, atteso che il pagamento, dalla documentazione agli atti, non risulta sia stato effettuato al Comune, bensì a soggetto, non legittimato dall’Amministrazione a riceverlo, che poi non abbia effettuato il versamento alla stessa.
In tal caso, resta salva l’applicazione delle regole civilistiche stabilite per la ripetizione nei confronti di colui che ha ricevuto il pagamento indebito, ovviamente nella sussistenza di tutti i presupposti di legge.

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1. La sig.ra Maria Francesca Mazza ha proposto ricorso in riassunzione –a seguito di sentenza n. 1411 del 05.09.2015 del Tribunale di Cosenza che ha dichiarato il difetto di giurisdizione- in opposizione a cartella di pagamento per l’annullamento, previa sospensione, della cartella e degli atti di cui in epigrafe.
Ha dedotto i seguenti motivi:
I. la ricorrente avrebbe provveduto al pagamento delle somme richieste, come si evincerebbe dai bollettini prodotti e dalla stessa concessione edilizia; l’estinzione non verrebbe meno per la circostanza che le somme sarebbero state pagate a un funzionario del Comune che ha rilasciato i bollettini e che non ha versato le somme al Comune; tanto in quanto il pagamento -avvenuto nelle mani del funzionario pubblico preposto al rilascio dei permessi a costruire, che ha poi patteggiato per il reato di peculato-, sarebbe, comunque, dimostrato dalle ricevute prodotte, ancorché poi rivelatesi false; peraltro, secondo quanto riferito dall’Amministrazione comunale nel precedente giudizio civile, il Tribunale di Cosenza ha, su ricorso del medesimo Ente, con ordinanza del 04.01.2013, disposto il sequestro conservativo sui beni del funzionario in questione, con la conseguenza che il Comune non potrebbe agire per il recupero delle dette somme anche nei confronti dell’utente;
II. le somme di cui in cartella, comunque, non sarebbero dovute per non avere la ricorrente utilizzato la concessione cui si ricollegano gli oneri.
Ha, quindi, chiesto la declaratoria della illegittimità della cartella e conseguente l’annullamento; ha, altresì, chiesto l’ammissione della prova per testi.
2. Il Comune intimato si è costituito, controdeducendo al ricorso e chiedendone il rigetto.
3. Alla camera di consiglio del 10.12.2015, fissata per la trattazione dell’istanza cautelare, il ricorso, sussistendone i presupposti e previo avviso alle parti, è stato mandato in decisione ai sensi dell’art. 60 del cod. proc. amm..
4. Il ricorso è fondato per l’accoglimento del terzo motivo, con cui parte ricorrente ritiene non dovuta la somma in questione per non avere utilizzato la concessione relativa.
4.1. Reputa il Collegio che non sussistono ragioni per discostarsi dal principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, venga meno la giustificazione causale della corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.02.1988 n. 105; id. 12.06.1995 n. 894 e 23.06.2003 n. 3714; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.03.2010 n. 728; TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 12.03.2008 n. 2294; TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890; TAR Parma 07.04.1998 n. 149; da ultimo TAR Marche, sez. I, sent. 06.02.2015 n. 114 e TAR Puglia Bari, sez. III, 17.03.2015 n. 420).
4.2. Al riguardo prive di pregio sono le affermazioni del Comune secondo cui “l’odierna ricorrente non ha mai comunicato alla amministrazione de qua la propria intenzione di rinunciare al titolo edilizio di che trattasi, né ha presentato alcuna istanza di sgravio”; né ha rilievo che, solo con missiva del 27.10.2015, la sig.ra Ma. ha chiesto il detto rimborso.
Il Comune, peraltro, non risulta che, in riscontro a detta richiesta, abbia contestato l’utilizzo del titolo, bensì che abbia solo rilevato che, a seguito di controlli effettuati, non risultavano versate le dette somme all’Amministrazione.
4.3. La fondatezza di tale motivo, con assorbimento degli ulteriori, comporta l’accoglimento della domanda avanzata, con accertamento e declaratoria che la sig.ra Ma.Fr.Ma. non è debitrice della somma contestata nei confronti del Comune di San Fili e il conseguente annullamento della cartella impugnata.
4.4. L’accoglimento della domanda di annullamento per mancata utilizzazione del permesso di costruire, in tale specifico caso, però, non comporta la restituzione della somma da parte del Comune (a cui, peraltro, si fa cenno solo in seno al II motivo), atteso che il pagamento, dalla documentazione agli atti, non risulta sia stato effettuato al Comune, bensì a soggetto, non legittimato dall’Amministrazione a riceverlo, che poi non abbia effettuato il versamento alla stessa; in tal caso, resta salva l’applicazione delle regole civilistiche stabilite per la ripetizione nei confronti di colui che ha ricevuto il pagamento indebito, ovviamente nella sussistenza di tutti i presupposti di legge (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.12.2015 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul diritto -o meno- di accesso agli atti della gara.
La ricorrente, partecipante alla gara in oggetto e risultante non aggiudicataria, presentava istanza di accesso allo specifico “fine di valutare la possibilità di effettuare un formale ricorso”.
Non si può quindi escludere una specifica esigenza difensiva per la tutela di una posizione concreta e differenziata.
Riguardo alla pretesa esigenza di salvaguardare il “know-how industriale e commerciale”, va osservato che l’esigenza di riservatezza viene genericamente affermata dall’amministrazione richiamando le opposizioni delle controinteressate trascritte nel provvedimento impugnato che contengono, nella sostanza, un generico dissenso senza specificare quale tipo di segreto verrebbe divulgato e in quali documenti sarebbe contenuto.
L’amministrazione ha l’onere di rappresentare quali sono le specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e commerciale custoditi negli atti di gara, in riferimento a precisi dati tecnici. In assenza di tale dimostrazione, l’accesso deve essere consentito.
Di conseguenza, ove non sia fornita, in modo puntuale, idonea prova circa l’esistenza di un vero e proprio segreto, non possono che prevalere le esigenze di trasparenza della procedura cui lo stesso concorrente (che oggi si oppone all’accesso) si è volontariamente ed implicitamente assoggettato con la partecipazione alla gara, peraltro con la duplice garanzia offerta dall’ordinamento della limitazione, sul piano della legittimazione soggettiva attiva, dell’accessibilità dell’offerta ad esclusivo vantaggio dei soli concorrenti che abbiano partecipato alla selezione e, sul piano oggettivo, per le sole esigenze di tutela giurisdizionale.

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... per l'annullamento in parte qua, della nota prot. n. 5916 del 20/02/2015 recante parziale diniego di accesso agli atti di gara per la fornitura biennale di generi alimentali vari per refezione scolastica periodo 01/01/2015 31/12/2016.
...   
Con l’odierno ricorso viene impugnato il diniego di accesso agli atti della gara per la fornitura biennale di generi alimentari, con specifico riferimento alle offerte presentate dalle ditte controinteressate stante l’opposizione delle stesse, ai sensi dell’art. 13, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, per salvaguardare proprie esigenze tecniche e commerciali la cui divulgazione avvantaggerebbe le aziende concorrenti in difetto di una concreta esigenza difensiva manifestata dalla ricorrente.
Il ricorso è fondato.
Contrariamente a quanto affermato nel provvedimento di diniego, la ricorrente, partecipante alla gara in oggetto e risultante non aggiudicataria, presentava istanza di accesso allo specifico “fine di valutare la possibilità di effettuare un formale ricorso”.
Non si può quindi escludere una specifica esigenza difensiva per la tutela di una posizione concreta e differenziata.
Riguardo alla pretesa esigenza di salvaguardare il “know-how industriale e commerciale”, va osservato che l’esigenza di riservatezza viene genericamente affermata dall’amministrazione richiamando le opposizioni delle controinteressate trascritte nel provvedimento impugnato che contengono, nella sostanza, un generico dissenso senza specificare quale tipo di segreto verrebbe divulgato e in quali documenti sarebbe contenuto.
Solo Ri. Srl aggiunge che alcuni documenti sono stati rilasciati da enti pubblici loro clienti che non l’hanno autorizzata a diffonderli ma, al riguardo, è agevole rilevare che gli enti pubblici sono soggetti alla disciplina sulla trasparenza.
Sul punto va ricordato che l’amministrazione ha l’onere di rappresentare quali sono le specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e commerciale custoditi negli atti di gara, in riferimento a precisi dati tecnici. In assenza di tale dimostrazione, l’accesso deve essere consentito.
Di conseguenza, ove non sia fornita, in modo puntuale, idonea prova circa l’esistenza di un vero e proprio segreto, non possono che prevalere le esigenze di trasparenza della procedura cui lo stesso concorrente (che oggi si oppone all’accesso) si è volontariamente ed implicitamente assoggettato con la partecipazione alla gara, peraltro con la duplice garanzia offerta dall’ordinamento della limitazione, sul piano della legittimazione soggettiva attiva, dell’accessibilità dell’offerta ad esclusivo vantaggio dei soli concorrenti che abbiano partecipato alla selezione e, sul piano oggettivo, per le sole esigenze di tutela giurisdizionale (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 26.02.2013, n. 2106; TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 15.01.2013 n. 116).
L’impugnato diniego è quindi illegittimo e va annullato (TAR Marche, sentenza 11.12.2015 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOE' consolidato l’indirizzo giurisprudenziale che considera quale atto dovuto l’esercizio del diritto-dovere dell’Amministrazione di ripetere le somme indebitamente corrisposte ai pubblici dipendenti.
Il recupero di tali somme costituisce il risultato di attività amministrativa, di verifica, di controllo, priva di valenza provvedimentale; in tali ipotesi l’interesse pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione: infatti, a prescindere dal tempo trascorso, l’oggetto del recupero produce di per sé un danno all’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente.
Si tratta dunque di un atto dovuto che non lascia all’Amministrazione alcuna discrezionale facultas agendi e, anzi, configura il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate come danno erariale; il solo temperamento ammesso è costituito dalla regola per cui le modalità di recupero non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore.
A ciò si aggiunga anche che l’affidamento del pubblico dipendente e la stessa buona fede non sono di ostacolo all’esercizio del potere-dovere di recupero, per cui l’Amministrazione non è tenuta a fornire un’ulteriore motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile all’interessato.
Ne discende, ancora, che è destinato a essere recessivo il richiamo ai principi in materia di autotutela amministrativa sotto il profilo della considerazione del tempo trascorso e dell’affidamento maturato in capo agli interessati.
Peraltro, in proposito è utile osservare che, secondo un altrettanto consolidato e condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa, la doverosità del recupero da parte dell'Amministrazione delle somme indebitamente corrisposte ai propri dipendenti esclude che l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento configuri causa di illegittimità della ripetizione, anche ai sensi dell’art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241 perché, trattandosi di atto completamente vincolato e non autoritativo, il suo contenuto non sarebbe stato diverso, sia in quanto l'eventuale mancanza del preavviso non influisce sulla debenza delle somme né sulla possibilità di difesa del destinatario perché questi, nell'ambito del rapporto obbligatorio di reciproco e paritetico dare/avere, può sempre far valere le sue eccezioni nell'ordinario termine di prescrizione.
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Secondo un ormai costante giurisprudenza “l'azione di recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte della pubblica amministrazione è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista dall'art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in quest'ultima norma”.
Invero, il diritto alla repetitio indebiti da parte della p.a., a norma dell’art. 2946 cod. civ., è soggetto a prescrizione ordinaria decennale il cui termine decorre dal giorno in cui le somme sono state materialmente erogate.
Più specificamente, l’azione di ripetizione di indebito ha come suo fondamento l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, a seguito ad esempio di annullamento.

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Al riguardo, è consolidato l’indirizzo giurisprudenziale che considera quale atto dovuto l’esercizio del diritto-dovere dell’Amministrazione di ripetere le somme indebitamente corrisposte ai pubblici dipendenti.
Il recupero di tali somme costituisce il risultato di attività amministrativa, di verifica, di controllo, priva di valenza provvedimentale; in tali ipotesi l’interesse pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione: infatti, a prescindere dal tempo trascorso, l’oggetto del recupero produce di per sé un danno all’Amministrazione, consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente.
Si tratta dunque di un atto dovuto che non lascia all’Amministrazione alcuna discrezionale facultas agendi e, anzi, configura il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate come danno erariale; il solo temperamento ammesso è costituito dalla regola per cui le modalità di recupero non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore (cfr. Cons. Stato, sez. III, 09.06.2014, n. 2902; idem, 28.10.2013, n. 5173).
A ciò si aggiunga anche che l’affidamento del pubblico dipendente e la stessa buona fede non sono di ostacolo all’esercizio del potere-dovere di recupero, per cui l’Amministrazione non è tenuta a fornire un’ulteriore motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile all’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. III, 12.09.2013, n. 4519; idem, sez. V, 30.09.2013, n. 4849).
Ne discende, ancora, che è destinato a essere recessivo il richiamo ai principi in materia di autotutela amministrativa sotto il profilo della considerazione del tempo trascorso e dell’affidamento maturato in capo agli interessati (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. III, 04.09.2013, n. 4429; idem, 31.05.2013, n. 2986; idem, 10.12.2012, n. 11548).
Peraltro, in proposito è utile osservare che, secondo un altrettanto consolidato e condivisibile orientamento della giurisprudenza amministrativa, la doverosità del recupero da parte dell'Amministrazione delle somme indebitamente corrisposte ai propri dipendenti esclude che l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento configuri causa di illegittimità della ripetizione, anche ai sensi dell’art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241 perché, trattandosi di atto completamente vincolato e non autoritativo, il suo contenuto non sarebbe stato diverso, sia in quanto l'eventuale mancanza del preavviso non influisce sulla debenza delle somme né sulla possibilità di difesa del destinatario perché questi, nell'ambito del rapporto obbligatorio di reciproco e paritetico dare/avere, può sempre far valere le sue eccezioni nell'ordinario termine di prescrizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 04.09.2013, n. 4429).
...
E’ possibile procedere ora all’esame dei plurimi motivi aggiunti con i quali i ricorrenti hanno eccepito, sotto diversi profili, la sopravvenuta prescrizione del credito vantato dall’amministrazione.
A tale riguardo si osserva, innanzitutto, che secondo un ormai costante giurisprudenza “l'azione di recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte della pubblica amministrazione è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista dall'art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in quest'ultima norma” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 20.09.2012, n. 4989).
Ciò premesso la censura non merita adesione.
Il diritto alla repetitio indebiti da parte della p.a., a norma dell’art. 2946 cod. civ., è soggetto a prescrizione ordinaria decennale il cui termine decorre dal giorno in cui le somme sono state materialmente erogate (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24.04.1993, nr. 294; Corte Conti, sez. giur. Veneto, 19.11.2009, nr. 782).
Più specificamente, l’azione di ripetizione di indebito ha come suo fondamento l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, a seguito ad esempio di annullamento.
Nel caso in esame l’erogazione delle somme è avvenuta in esecuzione dell’ordinanza n. 470/2003, con la quale era stato disposto l’inquadramento nelle rispettive posizioni superiori, ai fini sia giuridici che economici, di militari che all’esito delle procedure di avanzamento a suo tempo espletate erano risultati semplicemente idonei ma non promossi; pertanto, a nulla vale il richiamo dei ricorrenti al periodo di servizio anteriore cui vanno formalmente imputati gli emolumenti indebitamente corrisposti, dovendosi avere riguardo unicamente al momento della loro materiale erogazione, verificatasi nel 2003 e nel 2005, poiché è solo da tale momento che il diritto dell’Amministrazione alla restituzione avrebbe potuto essere fatto valere.
L’ordinanza impugnata, che ha annullato l’erogazione delle somme è stata emanata il 22.08.2012, e pertanto l’attività di ripetizione è certamente tempestiva rispetto al termine decennale (la tesi della prescrizione quinquennale è, come già osservato, destituita di fondamento) prevista dall’art. 2946 cod. civ..
Invero, il fatto “genetico” che ha determinato l’erogazione delle somme è costituito dall’ordinanza n. 470/2003 e dall’ordinanza n. 227/2005 (tale dato è incontestato);
- ne consegue che, per logica, l’erogazione degli emolumenti abbia potuto seguire, e non già precedere, tale ordinanza;
- quindi, la corresponsione delle somme non può non essere avvenuta che nel 2003 e nel 2005 (e segnatamente dopo l’ordinanza del n. 470 del 17.03.2003 e n. 227 del 04.05.2005), la prescrizione decennale (art. 2946 cod. civ.) alla data del 22.08.2012 di emissione della avversata ordinanza commissariale n. 394 (momento “genetico” dell’azione di ripetizione) non si era compiuta ed il termine di prescrizione, quindi, non era ancora decorso;
In armonia con la sopra richiamata consolidata giurisprudenza, come detto, il termine di prescrizione non può essere quinquennale, ma si estende per dieci anni, in quanto nel caso in esame si verte sulla ripetizione, ex art. 2033 c.c., di somme indebitamente percepite alle quali è applicabile l'ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946 c.c. (cfr. fra le altre Con. Stato Sez. II 18.12.1996 n. 2612 Sez. IV n. 2150/2006, Sez. VI n. 6599/2002), per cui la pretesa recuperatoria può spingersi sino al decennio precedente l'atto interruttivo.
Né sotto tale profilo merita adesione la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. l’art. 2948, n. 4 cod. civ. e dell’art. 2 del r.d.l. 19.01.1939, n. 295, in relazione all’art. 3 della Costituzione.
Nel caso di specie, infatti, non si controverte del mancato pagamento al creditore (lavoratore) degli importi dovuti per un servizio reso, bensì della differente ipotesi in cui proprio il soggetto (la Pubblica Amministrazione) che ha pagato richiede la ripetizione di quanto corrisposto a chi non aveva titolo e, dunque, di un’azione per la ripetizione dell'indebito oggettivo (art. 2033 cod. civ.), che giustifica l’applicazione del regime della prescrizione ordinaria decennale.
In tal senso, del resto, si è espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24418 del 23.11.2010, quando ha statuito che la ripetizione dell'indebito oggettivo, essendo azione tesa a ripristinare l'equilibrio tra le posizioni di due contraenti, leso dal mancato rispetto del vincolo sinallagmatico tra le prestazioni, è soggetta al termine prescrizionale decennale.
In altri termini, la diversità della posizione del lavoratore che può agire per ottenere quanto dovuto per le proprie prestazioni nel termine di cinque anni previsto dall’art. 2948, n. 4 cod. civ. per i pagamenti periodici è ben diversa rispetto a quella in cui lo stesso dipendente abbia attenuto somme non dovute, il che giustifica l’applicazione del diverso regime della prescrizione ordinaria decennale.
A fronte di tale sequenza i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare che l’erogazione è avvenuta prima del 2003, ma gli stessi non hanno assolto a tale onere, limitandosi a sostenere l’applicazione della prescrizione quinquennale, il che a contrario rafforza la tesi della insussistenza della (ulteriore) eccepita prescrizione decennale.
Vale la pena osservare, in proposito, che la allegazione e prova del fatto estintivo incombe sulla parte che eccepisca la prescrizione, spettando al creditore, invece, provare la circostanza eccezionale che impedisca il prodursi degli effetti del predetto fatto estintivo (cfr. Cassazione civile, sez. I, 05.04.2013, n. 8426).
Peraltro, l’ordinanza commissariale n. 394 del 22.08.2012 è stata preceduta da formali atti di messa in mora che hanno interrotto i termini di prescrizione, emanati dalla Croce Rossa Italiana – Comitato Centrale Dipartimento Risorse Umane e Organizzazione – Ispettorato Nazionale del Corpo Militare di cui danno conto gli stessi ricorrenti (nr. Prot. 0019039.12 notificata a Ba.Ma. il 19.12.2012 – nr. Prot. 0018964.12 notificata a Pe.Si. il 30.11.2012 - nr. Prot. 0018985.12 notificata a Ma.Pi.Pa. il 28.11.2012 – nr.prot. 00168.13 notificata a Fu.Ma. il 11.01.2013 e nr. Prot. 18739.12 notificata il 27.11.2012- nr. Prot. 18714.13 notificata a Co.Ro. il 27.11.2012)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 10.12.2015 n. 13835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio e sanatoria ordinaria: diversità di presupposti e finalità.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui sussiste il principio di “doppia conformità”) e l’istituto straordinario del condono edilizio operano, infatti, su presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da apposite normative che non possono, evidentemente, sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione (anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella prevista.

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Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed assorbenti le argomentazioni difensive con cui l’appellante sottolineava come la nuova configurazione del manufatto (in posizione rialzata rispetto al progetto originariamente assentito) fosse stata già oggetto di sanatoria, con successiva richiesta di condono edilizio solo per estinguere il reato paesaggistico.
Dette argomentazioni appaiono ragionevoli e non smentite dalla documentazione in atti, in cui si rinvengono certificato di assenza di danno ambientale (rectius: paesaggistico) in data 06.02.2003, concessione edilizia in sanatoria n. 2.653/1 del 26.03.2003, per “innalzamento quota d’imposta di fabbricato” e permesso di costruire in variante n. 2653/3 del 04.05.2004.
In tale contesto la domanda di condono edilizio, depositata il 04.03.2004, appare plausibilmente riconducibile all’intento enunciato dall’appellante, o a finalità tuzioristiche in rapporto ad eventuali iniziative dell’Amministrazione in via di autotutela (in effetti annunciate il 31.03.2003, ma della cui eventuale conclusione non si ha notizia).
L’atto di condono edilizio del 09.10.2006, in effetti, non poteva validamente riferirsi solo alle fondamenta e al piano interrato, posto che –come rilevato nella sentenza appellata– l’art. 32, comma 25, del decreto-legge 30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n. 326, circoscrive l’oggetto della sanatoria alle “opere abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003”: circostanza, quest’ultima, non sussistente nel caso di specie.
Sotto il profilo in questione, pertanto, le conclusioni della medesima sentenza, nella parte riferita all’annullamento del condono edilizio, sono condivisibili, mentre non può dirsi altrettanto per l’affermazione, secondo cui tutti gli atti antecedenti al condono sarebbero stati assorbiti da quest’ultimo, il cui “travolgimento determinerebbe il venir meno dell’unico titolo legittimante l’intervento avversato”.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui sussiste il principio di “doppia conformità”) e l’istituto straordinario del condono edilizio operano, infatti, su presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da apposite normative che non possono, evidentemente, sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione (anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella prevista.
E’ vero che detta sanatoria e le successive varianti erano state oggetto del ricorso introduttivo e dei primi motivi aggiunti del controinteressato, signor Se.Sa.; ma tali argomentazioni difensive non sono state riproposte in appello, mentre l’improcedibilità risulta sostanzialmente contestata dall’appellante, che sottolinea le differenti sequenze procedimentali della sanatoria e del condono edilizio, con conseguente sopravvivenza della prima all’annullamento del secondo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.12.2015 n. 5624 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumori: Cassazione, se il cane abbaia anche di notte, non c'è bisogno della perizia per condannare il padrone.
Il disturbo alla quiete pubblica è reato di pericolo presunto, desumibile da elementi probatori diversi dalla consulenza tecnica.
Non serve la perizia per far scattare la condanna nei confronti del padrone se i testi confermano che il cane abbaia giorno e notte disturbando il riposo di chi abita nelle vicinanze.
Sono queste le conclusioni cui è giunta la terza sezione penale della Cassazione (con la sentenza 09.12.2015 n. 48460), confermando la condanna di una donna alla contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. e a 200 euro di ammenda, per non aver impedito lo strepitio del proprio pastore tedesco disturbando così le occupazioni e il riposo dei residenti.
La donna era stata ritenuta responsabile dal tribunale di Cagliari anche in seguito alle deposizioni rese dai testimoni che avevano confermato che l'animale era solito abbaiare di giorno e quasi tutte le notti, "con grande frequenza", sì da rendere impossibile il sonno di tutti gli abitanti nelle immediate adiacenze. Del resto, la stessa proprietaria del cane aveva ammesso che lo stesso abbaiasse, pur contestandone l'asserita frequenza.
Per gli Ermellini, ciò è sufficiente per affermare la responsabilità della padrona, in quanto la fattispecie de qua non implica, "attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato".
Per cui, hanno proseguito i giudici di legittimità, l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone "non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica –e- il giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità".
Da qui l'inammissibilità del ricorso e la condanna della donna anche al pagamento delle spese (commento tratto da www.studiocataldi.it).
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MASSIMA
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Il Tribunale di Cagliari, infatti, ha riconosciuto la responsabilità della Ec. in ragione di plurimi elementi istruttori e, in particolare, delle deposizioni rese da tre testimoni (Al.Ma., Ga. e Gi.Mo.) che -senza alcun motivo di astio o risentimento verso la ricorrente- avevano confermato quanto contestato ex art. 659 cod. pen.; in particolare, che il cane di proprietà della Ec. era solito abbaiare di giorno e quasi tutte le notti, con grande frequenza, sì da disturbare il sonno, reso quasi impossibile, e recare evidente disturbo al riposo degli stessi, tutti abitanti nelle immediate adiacenze.
Di seguito, la sentenza ha esaminato gli elementi di prova indotti dalla difesa, ma -con motivazione logica e congrua- ne ha affermato l'inattendibilità (i testi Or. e Si. erano ex fidanzati della ricorrente); fino a precisare -emergenza non contestata neppure in questa sede- che la stessa Ec. aveva ammesso che il cane abbaiava, anche se «non così continuamente come mi si accusava...anche perché il cane dorme, non è che stava 24 ore ad abbaiare di continuo».
Orbene, in forza di questa motivazione -che si apprezza per completezza, congruità e logicità- la sentenza ha richiamato:
1) il costante principio secondo cui
l'affermazione di responsabilità per la fattispecie de qua non implica, attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato (per tutte, Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese, Rv. 262510);
2) l'ulteriore principio, del pari consolidato, per cui
l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità (per tutte, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli, Rv. 263433, a mente della quale in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete);
3) la piena attendibilità delle deposizioni assunte, invero non contestata con argomenti concreti neppure nel presente gravame.
Sì da manifestarsi la piena infondatezza degli argomenti dedotti e, in particolare, l'invocata necessità di esperire comunque accertamenti di natura tecnica, nonché di provare il numero indeterminato di soggetti potenzialmente danneggiati, non risultando a ciò sufficienti tre persone.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Alla luce della sentenza 13.06.2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 1.000,00 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.12.2015 n. 48460).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIn caso di pubblico impiego privatizzato nel caso di domanda proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l'erogazione sia avvenuta sine titulo, è consentita la ripetibilità delle somme ex art. 2033 c.c. e tale ripetibilità non è esclusa per la buona fede dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi.
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Il ricorso merita accoglimento, per quanto di ragione.
L'assunto secondo cui l'Ente ricorrente avrebbe operato una ripetizione di indebito regolata dall'art. 2033 c.c., come prospettato dai dipendenti a fondamento della domanda, non corrisponde all'esatta qualificazione giuridica dei fatti, i quali non sono sussumibili nell'alveo di tale fattispecie legale, risultando conseguentemente errata anche la soluzione data dalla Corte di appello, che tale prospettazione ha condiviso.
Giova premettere che,
in caso di pubblico impiego privatizzato nel caso di domanda proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l'erogazione sia avvenuta sine titulo, è consentita la ripetibilità delle somme ex art. 2033 c.c. e tale ripetibilità non è esclusa per la buona fede dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (Cass. sent. n. 8338/2010 cit. e Cass. n. 29926/2008).
Ma nella vicenda che interessa, nulla è stato recuperato nei confronti dei singoli lavoratori, i quali nessuna trattenuta hanno subito sulle competenze mensili per ricalcolo del compenso incentivante a ciascuno erogato negli anni interessati dalla verifica ispettiva, pur avendo costoro percepito l'incentivo -come è pacifico in giudizio- in misura superiore a quanto sarebbe spettato ove la parte datoriale avesse correttamente operato, in esatta applicazione delle regole della contrattazione nazionale e in osservanza dei vincoli di bilancio, le cui omissioni restano suscettibili di integrare responsabilità amministrative e contabili, profili tuttavia estranei al presente giudizio.
Invero, la C.R.I., proprio ritenendo (sulla scorta di un parere espresso dall'Avvocatura dello Stato) che non potesse ricorrere un'ipotesi di erogazione sine titulo, a fronte di una prestazione lavorativa già resa, dell'operata verifica del raggiungimento dei risultati e della avvenuta ripartizione del Fondo degli anni 2003 e 2004 concordata con le organizzazioni sindacali -e dunque muovendo da premesse opposte a quelle poste a base della domanda e condivise dalla Corte di appello nella sentenza impugnata- ha posto in essere un'operazione non riconducibile nella ripetizione di indebito di cui all'art. 2033 c.c..
Deve pure precisarsi che la domanda dei lavoratori non aveva ad oggetto la rivendicazione di differenze retributive (in ipotesi) spettanti per errata ripartizione del fondo in relazione agli anni interessati dal piano di rientro (2006/2010). Non si deduce, in tale domanda, l'erroneità del calcolo del dovuto in relazione agli stanziamenti del fondo per gli anni 2006/2010, ma si contesta "a monte" la composizione del fondo assumendosi l'illegittimità della trattenuta annua deliberata a titolo di rientro contabile.
La domanda proposta dai lavoratori investe, principalmente, la Determinazione Direttoriale n. 86 del 17.07.2007 con la quale la C.R.I. dispose il recupero, a carico di tutti i dipendenti del comparto, della somma complessiva di € 5.154.216,87 (distribuita in cinque annualità di € 1.030.843,37), mediante prelievo di tale somma dai Fondi per il trattamento accessorio di ente relativi agli anni 2006/2010.
Al riguardo, il Collegio osserva quanto segue.
La disciplina contrattuale di riferimento è contenuta negli artt. 31 e 32 del CCNL comparto Enti Pubblici non Economici 1998/2001 del 16.2.1999. L'art. 31 detta le regole di costituzione del Fondo di Ente per i trattamenti accessori del personale ricompreso nelle Aree A, B e C, stabilendo che "è costituito presso ciascun ente del comparto un Fondo per i trattamenti accessori..." e indica le fonti di finanziamento, elencando con quali risorse economiche il Fondo deve essere alimentato, confermando il principio di precostituzione e tassatività nella contrattazione collettiva nazionale delle fonti di finanziamento di trattamenti accessori.
L'art. 32 del CCNL detta le regole per l'utilizzazione del Fondo, che è "prioritariamente finalizzato a promuovere reali e significativi miglioramenti dei livelli di efficienza/efficacia dell'amministrazione e di qualità dei servizi istituzionali, mediante realizzazione, attraverso la contrattazione integrativa, di piani produttivi annuali e pluriennali e di progetti strumentali e di risultato, basati su sistemi di programmazione e di controllo quali-quantitativo dei risultati".
La composizione del Fondo è dunque atto unilaterale dell'Amministrazione, che tuttavia non è libera di decidere tipologia ed entità delle risorse da destinare al finanziamento dei trattamenti accessori, ma deve disporre in conformità al CCNL e alle previsioni legislative di finanza pubblica, mentre è oggetto di accordo sindacale l'utilizzazione delle risorse che vengono a comporre il Fondo.
Il compenso incentivante viene dunque attribuito mediante ripartizione tra i dipendenti dell'importo del Fondo per il trattamento accessorio di cui all'art. 31 citato, al netto delle somme erogate ai dipendenti per altri titoli cui lo stesso è destinato.
È principio generale del rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, affermato dal testo unico D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 8, che la spesa sostenuta dall'Amministrazione per il proprio personale debba essere "evidente, certa e prevedibile nella evoluzione" e che le risorse finanziarie destinate a tale spesa siano "determinate in base alle compatibilità economico-finanziarie definite nei documenti di programmazione e di bilancio" (art. 8). Tale disposizione, di tenore programmatico, ha come destinatarie (anche) direttamente le amministrazioni, che hanno il compito di adottare tutte le misure necessarie a far conoscere l'entità e l'evoluzione delle spese per il personale in rapporto alle prestazioni erogate e ai risultati conseguiti, nonché i controllori, interni ed esterni, che hanno il dovere di segnalare anomalie riscontrate; la norma rinvia dunque anche al titolo V del medesimo d.lgs. 165/2001 (artt. 58-62) relativo al "controllo di spesa". Per le amministrazioni di tutti i comparti sono previste verifiche degli organi interni di controllo sul rispetto dei limiti imposti dalla contrattazione collettiva integrativa e sulle sue implicazioni finanziarie.
Inoltre, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 3 (nel testo originale precedente la riforma introdotta con il D.Lgs. n. 150 del 2009), è volto a sanzionare espressamente con la nullità le clausole del contratto di secondo livello difformi dalle prescrizioni del primo livello e che comportino la violazione di vincoli derivanti dagli strumenti di programmazione economico-finanziaria.
Prescrizione quest'ultima che risulta successivamente ribadita dal disposto dell'art. 40-bis del suddetto decreto (introdotto dalla L. n. 448 del 2001, art. 17) in forza del quale l'accertamento in sede di verifica e monitoraggio della contrattazione collettiva di costi non compatibili con i vincoli di bilancio delle amministrazioni determina la conseguente applicazione della sanzione della nullità della clausola difforme.
Alla luce di tali principi, deve ritenersi legittima la riduzione operata dalla C.R.I., in conformità alla cogente previsione dell'art. 40, terzo comma, d.lgs. 165/2001 (nel testo applicabile ratione tetnporis alla fattispecie), per il vincolo di bilancio posto dalla relazione ispettiva trasmessa con nota 23.10.2006, n. 137691, cui la C.R.I. era tenuta a conformarsi.
Né di converso tale riduzione integrava alcuna violazione di diritti quesiti dei lavoratori.
Invero, l'operazione di recupero di cui alla D.D. n. 86/2007 veniva a gravare su fondi non ancora costituiti, tali dovendo ritenersi anche quelli relativi agli anni 2006 e 2007, la cui costituzione venne sospesa in corso di verifica ispettiva. Occorre pure tenere conto della natura retributiva del compenso incentivante ex art. 28, primo comma, lett. e) c.c.n.l. 1998/2001, da corrispondere tuttavia non già con cadenza periodica mensile come gli altri istituti ordinari secondo lo svolgimento cronologico della prestazione lavorativa, ma dopo la necessaria verifica del raggiungimento dei risultati secondo le disposizioni ex art. 31, secondo comma, CCNL cit..
Pertanto, al momento della d.d. n. 86/2007 non era ancora maturato, per gli anni 2006/2007 (e a maggior ragione per gli anni successivi), il diritto al compenso incentivante non essendosi perfezionati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, integrati dalla prestazione lavorativa e dalla compiuta verifica del raggiungimento dei risultati relativi agli obiettivi e programmi di incremento della produttività dell'anno (in relazione all'an debeatur) e dalla ripartizione del fondo a seguito di accordo sindacale (in relazione al quantum debeatut). Il recupero di cui al piano quinquennale di rientro ha riguardato, dunque, somme non ancora entrate nel patrimonio individuale dei singoli dipendenti.
Quanto al Fondo per l'anno 2005, relativamente al quale furono erogati al personale solo acconti, con sospensione del pagamento del saldo (che sarebbe dovuto avvenire nel maggio 2006), deve ritenersi che tutti gli elementi della fattispecie costitutiva del diritto -ed ai quali dianzi si è fatto richiamo- si fossero già perfezionati anteriormente alla D.D. n. 86/2007 e che, dunque, non vi fossero i presupposti per negare agli odierni resistenti il pagamento del residuo dovuto.
Può quindi concludersi che l'Ente ben poteva (ed anzi doveva) procedere al recupero delle somme corrisposte in mancanza di valida copertura finanziaria e con irregolarità contabili in forme quali la rimodulazione di retribuzioni accessorie e comunque aggiuntive per il futuro, compatibili con la necessità di predisporre un piano di rientro indicato nella nota del Ministero dell'Economia, mediante rideterminazione del Fondo a ciò destinato per gli anni 2006/2010, con stipulazione di relativi accordi con le rappresentanze sindacali, mentre non poteva incidere su diritti già acquisiti, anche nel quantum, quale doveva ritenersi il compenso incentivante maturato per l'anno 2005 secondo il piano di utilizzo definito nel relativo accordo negoziale con le 00.SS. intervenuto prima dell'accertamento ispettivo.
Vale pure osservare, incidentalmente, che, con la riforma di cui al d.lgs. n. 150 del 2009, con l'introduzione (art. 54), all'art. 40, del comma 3-quinquies, l'apparato sanzionatorio sopra accennato è stato ulteriormente rafforzato, con previsione della sostituzione automatica delle disposizioni illegittime con quelle legali derogate e la conservazione del contratto in caso di nullità parziale (artt. 1339 e 1419 c.c.) e contemplandosi espressamente l'obbligo, per le pubbliche amministrazioni, in caso di "accertato superamento dei vincoli finanziari", di "recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva".
In definitiva, non si è in presenza di una ripetizione di indebito operata ai sensi dell'art. 2033 c.c., ma di una rimodulazione dei compensi accessori per il futuro, imposta dalla necessità di compensare con minori erogazioni de futuro le eccedenze indebite del passato, pertanto incidendo su compensi sui quali, relativamente agli anni dal 2006 al 2010, nessun diritto ad una diversa e maggiore erogazione si era perfezionato. Il personale odierno resistente non ha quindi subito alcuna decurtazione dello stipendio, bensì una attribuzione di trattamenti economici aggiuntivi rimodulati alla stregua della rideterminazione al ribasso del Fondo di ente per gli anni successivi al 2005.
In sede di memoria ex art. 378 c.p.c. la difesa dei controricorrenti ha prodotto il decreto 26.02.2015 del Presidente della Repubblica che, su parere del Consiglio di Stato, si è pronunciato, accogliendoli, sui ricorsi straordinari proposti da altri lavoratori nei confronti della C.R.I. aventi il medesimo petitum, ossia aventi ad oggetto l'illegittimità del "recupero del compenso incentivante relativo agli anni dal 2003 al 2005".
Il decreto, a seguito di una ricostruzione fattuale del tutto sovrapponibile a quella della presente causa, ha pronunciato sul rapporto controverso, ravvisando l'insussistenza di un pagamento indebito ai dipendenti, i quali, "alla luce degli artt. 1429, 1431 e 2126 c.c. e nel rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost., avevano indubbiamente titolo a percepire o, a seconda dei casi, trattenere tali compensi che, oltre tutto erano stati loro corrisposti per prestazioni effettivamente rese, ed in base ad ordinanze commissariali della C.R.I. e ad accordi tra l'ente e le organizzazioni sindacali".
Avverso tale pronuncia non risulta che sia stato proposto ricorso ex art. 111, co. 8, Cost., art. 362 c.p.c.. Come affermato da S.U. n. 23464 del 2012 (v. pure S.U. 10414/2014), in tema di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la decisione presidenziale conforme al parere del Consiglio di Stato ripete dal parere stesso la natura di atto giurisdizionale in senso sostanziale, come tale impugnabile in cassazione per motivi di giurisdizione (S.U. 10414/2014, v. pure S.U. 20569 del 2013).
Sebbene l'art. 7 del c.p.a. abbia definito il perimetro delle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa ed, all'ultimo comma, abbia precisato che il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, così riducendo l'ambito di applicazione dell'istituto ed escludendo ogni possibilità di intervento in sfere di competenza della giurisdizione ordinaria, osserva il Collegio che la pronuncia anzidetta, sollecitata ad individuare patologie della contestata delibera le ha ravvisate anche all'esito di disamina del rapporto controverso.
E' stato di recente osservato dalle SS.UU. di questa Corte (SS.UU. n. 19786/2015), che, come ha ricordato la Corte costituzionale, l'estensione del ricorso straordinario anche a materie di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria era il frutto di una risalente tradizione interpretativa, consolidatasi, 'praeter legem', nel presupposto della natura amministrativa del rimedio, in virtù della quale era consentito al giudice ordinario disapplicare la decisione sul ricorso straordinario al Capo dello Stato. La netta esclusione di tale estensione da parte del codice del processo amministrativo risponde ad una finalità di "ricomposizione sistematica", perché è consequenziale alla scelta del legislatore del 2009 nel senso della traslazione del ricorso straordinario dall'area dei ricorsi amministrativi a quella dei rimedi giustiziali, che aveva fatto venire meno il presupposto su cui si fondava la tradizione interpretativa su ricordata. (Corte cost. 02.04.2014, n. 73).
Ma al di là dei rilievi appena formulati sulla estensione e sui limiti della potestas judicandi , appare al Collegio assorbente che , nella fattispecie in esame non è configurabile giudicato formatosi in sede di decisione del ricorso straordinario, perché manca l'identità soggettiva. Questa Corte ha difatti affermato che, affinché la decisione su un ricorso straordinario al Capo dello Stato possa essere invocata con autorità di giudicato (ove emessa, come quella di cui si discute, su ricorsi proposti successivamente al 16.09.2010, data di entrata in vigore del d.lgs. 02.07.2010, n. 104) sia necessaria l'identità delle parti dei due giudizi (Cass. n. 20054/2013), presupposto nella specie insussistente.
Neppure è ipotizzabile un'efficacia riflessa del giudicato, poiché nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo tale efficacia è ravvisabile solo allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente o comunque di un diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza che l'efficacia del giudicato non si estende a quanti siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto giuridico definito con il giudicato (cfr. Cass. 6788/2013, 2137/2014, 4130/2014).
Conclusivamente, il ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 09.12.2015 n. 24834).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il diniego per l'installazione di un'insegna di esercizio, lungo un'autostrada, che abbia valenza di pubblicità della ditta.
L'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade, o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione.
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L'articolo 47, primo comma, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
Anche recenti pronunce hanno avuto modo di precisare che la nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito che un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è consentita solo ove non presenti alcun contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
E’ allora evidente che verificare se una determinata insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23 sopra citato impone un esame in concreto sulle caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento meramente pubblicitario.

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... per l'annullamento del provvedimento (prot. CVE-0022778-P) del 17/07/2015 con il quale Anas Spa ha comunicato alla ricorrente l’esito negativo della fase istruttoria relativa all’istanza di ottenimento dell’autorizzazione/nulla osta all’installazione di un mezzo pubblicitario;
...
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sul punto è dirimente constatare che l'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade, o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione.
1.2 Va, altresì, rilevato come l'articolo 47, primo comma, del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada) qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
1.3 Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima, per poter essere qualificata come tale, impone che sia strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare l’ubicazione della sede della stessa impresa.
1.4 Anche recenti pronunce (Cons. Stato Sez. IV, 25.11.2013, n. 5586) hanno avuto modo di precisare che la nozione di insegna di esercizio deve essere intesa in senso rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47, comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito (Cons. Stato Sez. IV, 27.04.2012, n. 2480) che un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è consentita solo ove non presenti alcun contenuto riconducibile a finalità pubblicitarie.
1.5 E’ allora evidente che verificare se una determinata insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23 sopra citato impone un esame in concreto sulle caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento meramente pubblicitario.
1.6 Nel caso di specie è dirimente constatare come sia stata la stessa parte ricorrente a rilevare che l’insegna in questione è collocata sulla facciata dell'esercizio, rivolta verso la strada, senza che sulla stessa facciata sia presente un’entrata dell’esercizio.
1.7 E’ allora evidente che, seppur l’insegna in questione abbia le caratteristiche proprie di un’insegna di esercizio, ai sensi dell’art. 47 del DPR 16.12.1992 n. 495, la sua installazione è stata posta in essere per realizzare un intento pubblicitario, diretto nei confronti degli utilizzatori della strada prospiciente.
Dette conclusioni sono confermate dal fatto che l’insegna in questione, non solo duplica l’insegna di esercizio già esistente, ma in quanto posizionata su un lato in cui non vi è l’entrata dell’impresa, non aggiunge alcuna informazione ulteriore circa l’identificazione della stessa impresa che, in quanto tale, è già resa dall'altra insegna d'esercizio.
1.8 Ne consegue che risulta integrato il divieto di installazione di strumenti pubblicitari in prossimità delle strade, circostanza che consente di ritenere infondate le argomentazioni di parte ricorrente.
In definitiva il ricorso è, pertanto, infondato e va respinto (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 09.12.2015 n. 1315 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte effettuate dall'Amministrazione all'atto dell'approvazione del P.R.G. costituiscono apprezzamenti di merito e sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che siano inficiate da errori di fatto, da grave illogicità o da contraddittorietà.
Inoltre è stato chiarito come tali scelte non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che possa evincersi dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti per l'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni consolidate non abbiano creato aspettative qualificate del privato.
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa del privato all'ottenimento di una tipizzazione più gradita, è cedevole rispetto all'esercizio della potestà pianificatoria finalizzata alla corretta e razionale disciplina urbanistica del territorio comunale.

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Nel merito, ritiene il Collegio che il ricorso sia infondato.
Si premette che, secondo giurisprudenza consolidata, da cui il Collegio ritiene di non doversi discostare (ex multis Tar Genova, sez. I, 03.05.2012 n. 623; Tar Trieste, sez. I, 07.10.2014, n. 488), le scelte effettuate dall'Amministrazione all'atto dell'approvazione del P.R.G. costituiscono apprezzamenti di merito e sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che siano inficiate da errori di fatto, da grave illogicità o da contraddittorietà.
Inoltre è stato chiarito come tali scelte non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che possa evincersi dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti per l'impostazione del piano stesso, salvo che particolari situazioni consolidate non abbiano creato aspettative qualificate del privato (v. la stipula di convenzioni di lottizzazione e di accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, in specie non sussistenti né dimostrati).
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa del privato all'ottenimento di una tipizzazione più gradita, è cedevole rispetto all'esercizio della potestà pianificatoria finalizzata alla corretta e razionale disciplina urbanistica del territorio comunale (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 04.12.2015 n. 3197 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICome noto, ai sensi dell’art. 113, comma 4, D.Lgs. 163/2006 “La mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1, determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione della cauzione provvisoria di cui all'art. 75 da parte della stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o la concessione al concorrente che segue nella graduatoria” senza al riguardo alcun margine di discrezionalità per la stazione appaltante.
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L'utilizzo del fax costituisce modalità "ordinaria" di scambio delle comunicazioni tra la stazione appaltante e le imprese partecipanti alle gare e rappresenta, pertanto, uno strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del provvedimento.
Infatti, il fax costituisce un sistema basato su linee di trasmissione di dati e su apparecchiature che consentono di documentare sia la partenza del messaggio dall'apparato trasmittente sia -attraverso il c.d rapporto di trasmissione- la ricezione del messaggio in quello ricevente.
Pertanto, la trasmissione del fax consente di presumere l'avvenuta ricezione senza che colui che dimostra di aver inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova, salva l'eventuale prova contraria concernente la funzionalità dell'apparecchio ricevente fornita, secondo l'ordinaria regola processualistica, da chi afferma la mancata ricezione del messaggio.
Va rilevato come nella fattispecie per cui è causa la difesa del ricorrente non ha abbia né allegato né tantomeno provato eventuali malfunzionamenti del fax da essa stessa indicato in sede di offerta.
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Laddove la lettera di invito alla gara, ai sensi dell’art. 79, comma 5-quinqiues, del D.lgs. 163 del 2006, richieda espressamente l’autorizzazione dei concorrenti a ricevere le comunicazioni inerenti la gara stessa a mezzo fax in tal caso parte della giurisprudenza ritiene, invero, che nelle gare per l'aggiudicazione di appalti pubblici la comunicazione mediante fax non può rappresentare uno strumento idoneo a determinare la piena conoscenza dell'aggiudicazione e/o di un atto o documento, nel caso in cui non sia stata espressamente autorizzata dal concorrente; ciò perché, in base alla disposizione normativa di cui al comma 5-bis dell'art. 79, D.lgs. n. 163 del 2006, la comunicazione a mezzo fax degli atti di una procedura di evidenza pubblica è consentita “solo se espressamente autorizzata dal concorrente”.
Rileva il Collegio che ai sensi dell’art. 43, comma 6, del d. P.R. 28.12.2000, n. 445, i documenti trasmessi tramite fax o altro mezzo idoneo ad accertarne la fonte di provenienza soddisfano il requisito della forma scritta e che la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale, salva la necessità del riscontro dell’avvenuta ricezione mediante il rapporto di trasmissione.
Il fax, infatti, rappresenta ormai un modo del tutto ordinario di comunicazione idoneo a determinare la conoscenza dalla quale decorre il termine per impugnare, qualora il rapporto di trasmissione indichi che questa sia avvenuta regolarmente, spettando unicamente a chi eccepisce la mancata ricezione la prova della non funzionalità dell’apparecchio ricevente.
Anche volendo ritenere imprescindibile l’autorizzazione del ricorrente, invero richiesta come visto nella lex specialis, ritiene il Collegio che la comunicazione attraverso fax, il cui numero è stato espressamente riportato dalla società offerente nell’offerta economica presentata per partecipare alla gara quale sede legale dell’impresa, e della cui ricezione esiste rapporto negli atti di causa, costituisce mezzo di comunicazione sufficiente a fondare la conoscenza del procedimento e della sua lesività, valendo sostanzialmente tale indicazione come autorizzazione implicita ai sensi del citato art. 79, comma 5-bis, Codice contratti pubblici.

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2. E’ materia del contendere la legittimità del provvedimento 1643 del 14.05.2013 con cui il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha disposto ai sensi dell’art. 113, comma 4, del D.lgs. 163 del 2006 la decadenza dall’aggiudicazione dei lavori di ristrutturazione, manutenzione straordinaria e adeguamento degli impianti elettrici e speciali della Caserma “Cefalonia-Corfù” vecchio edificio, sede del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Perugia, con importo a base di gara di 806.139,20 euro.
3. Preliminarmente deve essere esaminata la questione preliminare di ammissibilità del ricorso per mancata notificazione alla controinteressata impresa “Delta Impianti s.r.l.”.
Trattasi di questione di rito eccepita soltanto all’udienza di discussione nel merito e quindi oltre i termini pacificamente perentori di cui all’art. 73, comma 1, cod. proc. amm. e che non può essere esaminata d’ufficio, non essendosene dato atto al verbale d’udienza così come prescrive l’art. 73, comma 3, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato sez. IV, 26.08.2015, n. 3992; id. 12.05.2014, n. 2420).
4. L’esame della suesposta questione è comunque non decisivo nell’economia del giudizio, essendo il ricorso infondato nel merito.
Come noto, ai sensi dell’art. 113, comma 4, “La mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1, determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione della cauzione provvisoria di cui all'art. 75 da parte della stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o la concessione al concorrente che segue nella graduatoria” senza al riguardo alcun margine di discrezionalità per la stazione appaltante (ex multis TAR Sicilia Catania sez. IV, 05.12.2013, n. 2909; TAR Lombardia Brescia sez. II, 02.05.2013, n. 401).
Come emerge dalla documentazione depositata in giudizio dal Ministero resistente, la nota prot. 1479 dell’11.04.2013 di diffida a produrre la documentazione necessaria alla stipulazione del contratto, tra cui la cauzione definitiva, è stata spedita a mezzo fax al numero della sede legale dell’impresa ricorrente indicato negli atti di gara (vedi offerta economica allegato n. 2 al ricorso) e regolarmente ricevuta lo stesso giorno alle ore 9 e 11 minuti, come da rapporto di trasmissione depositato dall’Amministrazione resistente.
L'utilizzo del fax costituisce modalità "ordinaria" di scambio delle comunicazioni tra la stazione appaltante e le imprese partecipanti alle gare e rappresenta, pertanto, uno strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del provvedimento. Infatti, il fax costituisce un sistema basato su linee di trasmissione di dati e su apparecchiature che consentono di documentare sia la partenza del messaggio dall'apparato trasmittente sia -attraverso il c.d rapporto di trasmissione- la ricezione del messaggio in quello ricevente. Pertanto, la trasmissione del fax consente di presumere l'avvenuta ricezione senza che colui che dimostra di aver inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova, salva l'eventuale prova contraria concernente la funzionalità dell'apparecchio ricevente fornita, secondo l'ordinaria regola processualistica, da chi afferma la mancata ricezione del messaggio (ex multis TAR Sicilia Palermo sez. I, 04.03.2014, n. 613; Consiglio di Stato sez. IV, 12.06.2013, n. 3252).
Va rilevato come nella fattispecie per cui è causa la difesa del ricorrente non ha abbia né allegato né tantomeno provato eventuali malfunzionamenti del fax da essa stessa indicato in sede di offerta.
Deve invece essere rilevato come la lettera di invito (pag 4, punto HH) ai sensi dell’art. 79, comma 5-quinqiues, del D.lgs. 163 del 2006 richiedesse espressamente l’autorizzazione dei concorrenti a ricevere le comunicazioni inerenti la gara a mezzo fax.
In tal caso, parte della giurisprudenza ritiene invero che nelle gare per l'aggiudicazione di appalti pubblici, la comunicazione mediante fax non può rappresentare uno strumento idoneo a determinare la piena conoscenza dell'aggiudicazione e/o di un atto o documento, nel caso in cui non sia stata espressamente autorizzata dal concorrente; ciò perché, in base alla disposizione normativa di cui al comma 5-bis dell'art. 79, D.lgs. n. 163 del 2006, la comunicazione a mezzo fax degli atti di una procedura di evidenza pubblica è consentita “solo se espressamente autorizzata dal concorrente” (TAR Calabria Catanzaro sez. I, 12.12.2012, n. 1171; Consiglio di Stato sez. III, 11.07.2012, n. 4116).
Rileva il Collegio che ai sensi dell’art. 43, comma 6, del d. P.R. 28.12.2000, n. 445, i documenti trasmessi tramite fax o altro mezzo idoneo ad accertarne la fonte di provenienza soddisfano il requisito della forma scritta e che la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale, salva la necessità del riscontro dell’avvenuta ricezione mediante il rapporto di trasmissione.
Il fax, infatti, rappresenta ormai un modo del tutto ordinario di comunicazione idoneo a determinare la conoscenza dalla quale decorre il termine per impugnare, qualora il rapporto di trasmissione indichi che questa sia avvenuta regolarmente, spettando unicamente a chi eccepisce la mancata ricezione la prova della non funzionalità dell’apparecchio ricevente (ex multis TAR Lazio sez. III, 13.02.2008, n. 1254; id. sez. II, 08.01.2015, n. 151).
4.1. Anche volendo ritenere imprescindibile l’autorizzazione del ricorrente, invero richiesta come visto nella lex specialis, ritiene il Collegio che la comunicazione attraverso fax, il cui numero è stato espressamente riportato dalla società offerente nell’offerta economica presentata per partecipare alla gara quale sede legale dell’impresa, e della cui ricezione esiste rapporto negli atti di causa, costituisce mezzo di comunicazione sufficiente a fondare la conoscenza del procedimento e della sua lesività, valendo sostanzialmente tale indicazione come autorizzazione implicita ai sensi del citato art. 79, comma 5-bis, Codice contratti pubblici.
5. Le doglianze di illegittimità del provvedimento di decadenza e del consequenziale atto di segnalazione all’Autorità di Vigilanza per mancata ricezione della presupposta diffida prot. 1479/13 sono pertanto prive di pregio.
6. Parimenti infondate oltre che pretestuose risultano tutte le rimanenti censure, del tutto prive di capacità invalidante, non avendo la ricorrente mai provveduto, così come più volte richiesto dalla stazione appaltante, a produrre la documentazione richiesta e necessaria per la stipulazione del contratto (TAR Umbria, sentenza 04.12.2015 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica del ricorso a mezzo del servizio postale.
Ai sensi dell’art. 7 della l. n. 890 del 1982, in caso di notifica a mezzo del servizio postale (e per quanto di interesse):
- l’avviso di ricevimento prova, fino a querela di falso, la consegna al destinatario, a condizione che l’atto sia stato consegnato presso il suo indirizzo e che il consegnatario abbia apposto la propria firma, ancorché illeggibile o apparentemente apocrifa, nello spazio dell’avviso relativo alla «firma del destinatario o di persona delegata», risultando irrilevante, in quanto non integra una nullità ex art. 160 c.p.c., la mancata indicazione dell’indirizzo del destinatario sulla ricevuta di ritorno;
- è valida la notificazione a mezzo posta effettuata nelle mani del portiere dello stabile, ex art. 7 cit., qualora l’agente postale gli abbia consegnato il plico raccomandato nell’assenza del destinatario e in mancanza delle altre persone indicate nel 2º comma del suddetto articolo, dovendosi presumere, fino a prova contraria, che tra le mansioni del custode del fabbricato rientri la distribuzione della posta ai destinatari che vi abitano; non ha pertanto rilievo la circostanza che la relazione di notifica, redatta dall’ufficiale giudiziario, non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone abilitate a ricevere l’atto e delle loro vane ricerche;
- l’adempimento costituito dall’invio della raccomandata di avviso previsto dal 6º comma dell’art. 7 cit. -rispetto al quale non possono ravvisarsi profili di illegittimità costituzionale, trattandosi di valutazione riservata al legislatore- è elemento essenziale del procedimento di notificazione, che deve quindi considerarsi nullo se il piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al destinatario stesso mediante lettera raccomandata; in tal caso, infatti, la mancata attestazione della spedizione della lettera raccomandata prevista dal più volte menzionato art. 7 costituisce non una mera irregolarità, ma un vizio dell’attività dell’agente postale che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, la nullità della notificazione nei riguardi del destinatario.
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8. L’appello è irricevibile.
In considerazione dei principi elaborati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2015 (circa la tassonomia delle questioni che devono essere decise dal giudice amministrativo), in ordine logico è prioritario l’esame dell’eccezione di irricevibilità del gravame che, in quanto fondata, esime il Collegio, ex art. 49, co. 2, c.p.a., dall’affrontare il tema della difettosa integrazione del contraddittorio per mancata notificazione dell’appello, da parte della società Ma., nei confronti di tutte le imprese aggiudicatarie dei restanti lotti.
8.1. In fatto giova premettere quanto segue.
L’impugnata sentenza è stata avviata per la notificazione alla Ma. dal difensore della Fe., ex lege n. 53 del 1994, in data 13.05.2015 per il tramite di Poste italiane.
Dall’avviso di ricevimento redatto dall’agente postale si evince che:
- il plico recante la copia conforme della sentenza è stato consegnato in data 15.05.2015 al portiere (che ha sottoscritto per ricevuta) dello stabile dove era ubicato lo studio del difensore domiciliatario della ditta Ma. per il giudizio di primo grado (quale risultante del resto dalla medesima sentenza impugnata), stante l’assenza del destinatario e delle altre persone abilitate a ricevere il plico;
- l’agente postale ha spedito in pari data (15.05.2015) raccomandata recante comunicazione dell’avvenuta notifica;
- l’atto di appello proposto dalla ditta Ma. è stato notificato a mezzo posta dal difensore, sempre ex lege n. 53 del 1994, in data 18.06.2015.
8.2. La difesa della ditta Ma., per superare l’eccezione di tardività del gravame, ha sostenuto la tesi secondo cui la notificazione della sentenza nei confronti della propria assistita sarebbe nulla, perché l’agente postale non avrebbe indicato il numero della raccomandata spedita per comunicare l’avvenuta notifica.
8.3. La tesi è inaccoglibile, alla stregua della ricostruzione in fatto operata al precedente § 8.1. nonché dei principi elaborati dalla giurisprudenza sul punto controverso (cfr. Cass. civ. [ord.], sez. VI, 31.07.2015, n. 16289; Cass. civ., sez. lav., 13.03.2013, n. 6345; Cass. civ., sez. III, 04.12.2012, n. 21725 ; Cass. sez. lav., 29.08.2011, n. 17733 cui si rinvia a mente dell’art. 120, co. 10, c.p.a.).
Per tale giurisprudenza, in particolare, qualora il difensore proceda alla notificazione di atti processuali avvalendosi del servizio postale ai sensi dell’art. 2, l. n. 53 del 1994, trovano applicazione, per l’art. 3, co. 3, della medesima legge, le disposizioni degli artt. 4 e ss. della l. n. 890 del 1982.
Ai sensi dell’art. 149, u.c., c.p.c., in linea generale la notificazione a mezzo del servizio postale si perfeziona per il destinatario «dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell’atto».
La legale conoscenza dell’atto si ha con il perfezionamento delle procedura di notificazione, ovvero con il completamento di tutti gli adempimenti richiesti dalla legge come essenziali.
Ai sensi dell’art. 7 della l. n. 890 del 1982, in caso di notifica a mezzo del servizio postale (e per quanto di interesse):
- l’avviso di ricevimento prova, fino a querela di falso, la consegna al destinatario, a condizione che l’atto sia stato consegnato presso il suo indirizzo e che il consegnatario abbia apposto la propria firma, ancorché illeggibile o apparentemente apocrifa, nello spazio dell’avviso relativo alla «firma del destinatario o di persona delegata», risultando irrilevante, in quanto non integra una nullità ex art. 160 c.p.c., la mancata indicazione dell’indirizzo del destinatario sulla ricevuta di ritorno;
- è valida la notificazione a mezzo posta effettuata nelle mani del portiere dello stabile, ex art. 7 cit., qualora l’agente postale gli abbia consegnato il plico raccomandato nell’assenza del destinatario e in mancanza delle altre persone indicate nel 2º comma del suddetto articolo, dovendosi presumere, fino a prova contraria, che tra le mansioni del custode del fabbricato rientri la distribuzione della posta ai destinatari che vi abitano; non ha pertanto rilievo la circostanza che la relazione di notifica, redatta dall’ufficiale giudiziario, non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone abilitate a ricevere l’atto e delle loro vane ricerche;
- l’adempimento costituito dall’invio della raccomandata di avviso previsto dal 6º comma dell’art. 7 cit. -rispetto al quale non possono ravvisarsi profili di illegittimità costituzionale, trattandosi di valutazione riservata al legislatore- è elemento essenziale del procedimento di notificazione, che deve quindi considerarsi nullo se il piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al destinatario stesso mediante lettera raccomandata; in tal caso, infatti, la mancata attestazione della spedizione della lettera raccomandata prevista dal più volte menzionato art. 7 costituisce non una mera irregolarità, ma un vizio dell’attività dell’agente postale che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, la nullità della notificazione nei riguardi del destinatario.
In base alle norme ed ai principi su richiamati, deve escludersi che sia elemento essenziale del procedimento di notificazione in esame l’indicazione, nell’avviso di ricevimento, del numero della raccomandata spedita dall’agente postale.
Sotto tale profilo è irrilevante, contrariamente a quanto affermato dalla difesa della ditta Ma., che, nel particolare caso di specie, sugli altri avvisi di ricevimento della sentenza impugnata (in particolare quello alla società mandate Vi. & Ca.) sia stato indicato il numero della raccomandata.
Conseguentemente, in base al combinato disposto degli artt. 92, co. 1, e 119, co. 1, lett. a) e co. 2, c.p.a., l’atto di appello è stato proposto oltre il termine perentorio dimidiato di 30 giorni, decorrente dalla rituale notificazione dell’impugnata sentenza effettuata alla ditta Ma. in data 15.05.2015.
9. In conclusione l’appello deve essere dichiarato irricevibile (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.12.2015 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Il datore di lavoro non va esente da responsabilità in caso di caduta conseguente a malore.
In tema di infortuni sul lavoro, non occorre, per configurare la responsabilità del datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l’evento dannoso si verifichi a causa dell’omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all’imprenditore dall’art. 2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore, con la conseguenza che ricadono sul datore di lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed accorgimenti, anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo.
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2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono infondati in quanto muovono da un'interpretazione della sentenza non coerente con il testo della motivazione.
2.1. E' bene sottolineare che la condotta colposa ascritta a Mi.Br. era descritta nel capo d'imputazione, oltre che in termini di colpa generica, anche quale specifica violazione della regola cautelare posta dall'art. 11, comma 7, lett. d), d.P.R. 27.04.1955, n. 547, a mente del quale <Quando i lavoratori occupano posti di lavoro all'aperto, questi devono essere strutturati, per quanto tecnicamente possibile, in modo tale che i lavoratori non possano scivolare o cadere>, per avere il datore di lavoro permesso che il Br. lavorasse in piedi su una trave di cemento armato posta ad un'altezza di m. 1,47 dal piano del solaio ed avente una larghezza di m. 0,30 omettendo di strutturare il posto di lavoro in modo tale che il lavoratore non potesse scivolare o cadere.
Tale obbligo era stato, quindi, specificato nella sentenza di primo grado in termini di omesso utilizzo di scarpe antiscivolamento e casco protettivo, nonché in termini di utilizzo di un cordolo non munito di alcuna protezione da cadute con una base dì appoggio di appena m. 0,30 sulla quale il lavoratore doveva effettuare le operazioni con le braccia alzate.
2.2. La Corte territoriale, in replica a specifico motivo di gravame, ha richiamato il punto della decisione di primo grado in cui si era sostenuto che l'esecuzione dell'opera commissionata al lavoratore infortunato avrebbe dovuto indurre il responsabile a predisporre adeguate opere provvisionali (ponteggi) ai sensi dell'art. 16 d.P.R. 07.01.1956, n. 164 per evitare il rischio di cadute dall'alto in quanto il lavoratore doveva operare con le braccia alzate ad un'altezza di tre metri.
Tale richiamo è stato, tuttavia, operato al solo fine di evidenziare che la normativa richiamata dall'appellante (art. 107 d.Lgs. 09.04.2008, n. 81) era entrata in vigore successivamente all'infortunio. L'erronea interpretazione dell'art. 16 d.P.R. n. 164/1956 come norma applicabile alla lavorazione in esame, considerando l'altezza di tre metri alla quale erano le braccia del lavoratore, non ha avuto influenza sul dispositivo e può essere emendata mediante soppressione ai sensi dell'art. 619, comma 1, cod. proc. pen..
2.3. Se è, infatti, vero che la necessità di predisporre un ponteggio nel caso in esame non avrebbe potuto comunque desumersi da una precisa previsione normativa, non essendo applicabile l'art. 16 d.P.R. 07.01.1956, n. 164 che disciplinava i lavori eseguiti ad un'altezza superiore ai 2 metri, deve sottolinearsi che la censura, seppure suggestiva, trascura gli altri profili di colpa presi in esame dal giudice di merito e richiamati a pag. 3 della sentenza impugnata, ossia l'omessa predisposizione di scarpe antiscivolamento e di una base di appoggio idonea ad evitare perdite di equilibrio.
Il giudice di primo grado aveva, peraltro, rimarcato che l'infortunato non portava casco protettivo né abbigliamento da lavoro (scarpe antiscivolamento) e che il cordolo sul quale egli era salito non era munito di alcuna protezione da eventuali cadute, mentre il lavoro da eseguire comportava una situazione di instabilità dell'operatore anche in relazione alla larghezza della base d'appoggio, pari a 30 centimetri.
La decisione risulta, dunque, immune da erronea applicazione della normativa antinfortunistica in vigore all'epoca dell'infortunio, non dovendosi sovrapporre l'obbligo di predisposizione di idonei ponteggi per i lavori da eseguire ad un'altezza superiore ai due metri al più generale obbligo, regolarmente indicato nel capo d'imputazione, di strutturare il posto di lavoro in modo da evitare scivolamenti o cadute.
2.4. Tale regola cautelare è, peraltro, rispondente ai generali principi di diligenza e di prudenza, che impongono a chiunque assuma, in qualsiasi momento ed in qualsiasi occasione, una posizione di garanzia rispetto ad un'attività di lavoro, di operare per prevenire ogni prevedibile ed evitabile rischio e per garantire la sicurezza del luogo di lavoro. Invero, entrambe le regole cautelari menzionate (art. 11, comma 7, lett. d), d.P.R. n. 547/55 e art. 16 d.P.R. n. 164/1956) possono riferirsi a lavori non eseguiti ad altezza d'uomo, bensì ad un'altezza dal suolo -qualunque essa sia- che ne renda più difficile e rischiosa l'esecuzione, tanto da rendere necessario il ricorso a misure capaci di prevenire il rischio di cadute.
Il diverso ambito di operatività di tali regole non concerne, pertanto, la sussistenza o meno dell'obbligo di protezione gravante sul datore di lavoro in caso di lavorazioni, ove svolte ad altezza inferiore ai due metri dal suolo, quanto piuttosto il tipo di opere provvisionali e di sistemi di protezione da predisporre in rapporto all'altezza alla quale si svolge la lavorazione.
2.5. L'individuazione della regola cautelare che l'imputato avrebbe dovuto rispettare risulta, peraltro, frutto di un ragionamento coerente anche rispetto all'evento che l'osservanza di tale regola avrebbe dovuto evitare, ossia la caduta del lavoratore.
La Corte territoriale ha, in proposito, rimarcato che la morte di Br.Gu. era stata causata da un grave trauma cranico e che non vi fosse prova certa che la caduta fosse conseguenza di un malore piuttosto che della perdita di equilibrio o di scivolamento. Contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, non è dunque certo che la caduta del lavoratore sia stata causata da malore.
Pleonastica, e comunque inidonea a scardinare la congruità della motivazione, risulta l'affermazione secondo la quale <la predisposizione di misure di protezione (realizzazione di un ponteggio) avrebbe evitato l'evento mortale in caso di caduta a seguito di malore>, fondandosi in ogni caso la decisione sull'assunto che di tale malore non fosse stata fornita prova certa.
2.6. E' bene, in ogni caso, ricordare che, in tema di infortuni sul lavoro, non occorre, per configurare la responsabilità del datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo sufficiente che l'evento dannoso si verifichi a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art.2087 cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore (Sez. 4, n. 4917 del 01/12/2009, dep. 2010, Filiasi, Rv. 246643; Sez. 4, n. 13377 del 28/09/1999, Bassi, Rv. 215537); con la conseguenza che ricadono sul datore di lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed accorgimenti, anche quei rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.11.2015 n. 46979).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra costruzioni, la Cassazione sui fondi con dislivelli.
In caso di modifica al piano di campagna, l’altezza del muro di confine va misurata computandovi il terrapieno creato artificialmente.
In tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato mediante la realizzazione di un innalzamento del piano di campagna stessa, al fine di verificare se sia rispettata l'altezza massima del muro di cinta che sia stato costruito sul confine, l'altezza va misurata computandovi il terrapieno creato ex novo dall'opera dell'uomo, e quindi tenendo conto dell'originario posizionamento del terreno prima dell'innalzamento.
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2. - Con il secondo motivo (erronea applicazione di norme di legge; erronea e contraddittoria motivazione; erronea valutazione di un elemento essenziale attinente alle risultanze istruttorie) ci si duole che la Corte d'appello abbia ritenuto illegittima l'altezza del muro di recinzione perché, pur realizzato all'altezza prevista dalla norma all'epoca in vigore, questa sarebbe stata calcolata rispetto alla nuova situazione di fatto derivante dalla mutazione del piano di campagna.
Il motivo si conclude con il quesito "se dall'esecuzione di opere di livellamento dà fondi limitrofi, con alterazione degli originari piani di campagna, derivi il conseguente obbligo di limitare l'altezza dei muri di confini in relazione al dislivello raggiunto dai fondi a seguito del mutamento del piano di campagna".
2.1. - Il motivo è infondato.
In tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora l'andamento altimetrico del piano di campagna -originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia stato artificialmente modificato mediante la realizzazione di un innalzamento del piano di campagna stessa, al fine di verificare se sia rispettata l'altezza massima del muro di cinta che sia stato costruito sul confine, l'altezza va misurata computandovi il terrapieno creato ex novo dall'opera dell'uomo, e quindi tenendo conto dell'originario posizionamento del terreno prima dell'innalzamento (cfr. Cass., Sez. Il, 24.06.2003, n. 9998; Cass., Sez. Il, 04.06.2010, n. 13628) (Corte di Cassazione, Sez. II, civile, sentenza 24.11.2015 n. 23934).

EDILIZIA PRIVATA: Non può configurarsi come elemento meramente accessorio dell'edificio, la realizzazione di una canna fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.”.
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in cotto.
Né peraltro, la costruzione di canne fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che le stesse producono una modifica dei prospetti dell’edificio.
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Non appare rilevante, in favore del ricorrente, il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso di un significativo intervallo temporale tra la realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera ragionevolmente certa la colpevole inerzia dell’amministrazione.

Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di specie, non può sostenersi essersi verificata.
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L’attribuzione all’opera (abusiva) contestata di un nome diverso da quello in concreto pertinente, non è da sola sufficiente per compromettere la legittimità dell’atto sanzionatorio, soprattutto laddove, al di là del profilo nominalistico, l’amministrazione ne individui esattamente la collocazione, la consistenza, i materiali e le caratteristiche. Nel caso specifico, non vi sono dubbi né contestazioni sull’esatta identificazione di questi elementi.
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La consistenza e la natura dei due manufatti difformi dalla licenza di costruzione non possono che risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono obiettivamente destituite di fondamento.

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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 28.11.2012 del Dirigente del settore, notificata il successivo 6 dicembre, con cui si intima la demolizione di opere asseritamente abusive.
...
6.- I tre motivi di censura possono essere trattati congiuntamente, in relazione agli evidenti profili di connessione argomentativa negli stessi presenti.
6.1.- Va, in primo luogo, smentita la premessa dalla quale poi generano le molteplici censure a vario titolo sollevate dal ricorrente, ossia le modeste dimensioni della canna fumaria.
Come rilevato dal sopralluogo dell’U.T.C., condotto in data 19.05.2012 –che si ritiene opportuno riportare integralmente- risultano i seguenti manufatti: “A margine dell'ala del piano seminterrato posta in aggetto alla facciata est del fabbricato per civile abitazione strutturato su quattro livelli, risulta ubicata una canna fumaria che si eleva per circa ml. 3,00 sul terrazzo a livello del piano rialzato, distante dalla facciata circa mt. 4,10. Su tale facciata risultano esposte ad altezza superiore rispetto alla sommità della canna fumaria ed in direzione della stessa, una finestra appartenente al primo piano ed un'altra appartenente al secondo piano. I piani seminterrato e rialzato costituiscono l'appartamento abitato dal sig. De Si. come sopra generalizzato.
La suddetta canna fumaria, rivestita con scaglie di pietra, si erge, come già accennato, a margine del terrazzo lato est del piano rialzato incastonata nel parapetto che delimita il terrazzo; ai lati della canna fumaria si elevano sul parapetto, due pilastrini rivestiti con mattoncini di cotto di altezza circa mt. 1,50 mentre altri due risultano posizionati ai margini ed in aderenza alla parete retrostante; sulla sommità dei suddetti pilastrini e nella parte alta della canna fumaria risulta ancorata tramite traverse, una tettoia di legno lamellare reticolare priva di copertura, costituente ingombro di superficie circa mq. 20
.”.
Quanto sopra lascia intendere che l’opera, per la superficie che occupa e per l’altezza che sviluppa non può essere minimizzata. In ogni caso, a prescindere dalle dimensioni, la stessa è conseguente ad una evidente intervento in difformità ad una licenza di costruzione.
6.2.- E’ quindi applicabile, al caso di specie, quell’orientamento giurisprudenziale (Tar Venezia, sez. II, 825/2013) secondo cui “
non può configurarsi come elemento meramente accessorio dell'edificio, la realizzazione di una canna fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.” (cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 4005/2012).
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in cotto.
6.3.-
Né peraltro, la costruzione di canne fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che le stesse producono una modifica dei prospetti dell’edificio.
Ciò è tanto più rilevante sotto il profilo urbanistico ove si consideri che il comune di Trecase è incluso nell’ambito del Piano Territoriale Paesistico dell’area Vesuvio, di cui al decreto ministeriale 14.12.1995, redatto ai sensi dell'art. 1-bis della legge 08.08.1985 n. 431.
Nello specifico, come emerge dalla stessa relazione peritale di parte, la proprietà del ricorrente ricade in zona R.U.A. (Recupero Urbanistico-Edilizio Restauro Paesistico-Ambientale), con possibilità di interventi di ristrutturazione edilizia e di adeguamento igienico-sanitario e tecnologico delle unità abitative.
Quest’ultima circostanza, tuttavia, non è comunque idonea a superare l’esigenza, anche ai fini del rispetto dei vincoli paesaggistico-ambientali, di ottenere il preventivo nullaosta, laddove, com’è accaduto, si verifichino alterazioni prospettiche e volumetriche rispetto al preesistente stato dei luoghi.
6.4.-
Né, in favore del ricorrente, appare rilevante il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso di un significativo intervallo temporale tra la realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera ragionevolmente certa la colpevole inerzia dell’amministrazione.

Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di specie, non può sostenersi essersi verificata (TAR Umbria, Perugia, sez. I, 21.01.2010, n. 23).
6.5.- Non risolutiva appare poi la censura relativa all’erronea qualificazione che il comune avrebbe formulato sull’altro manufatto, indicato erroneamente come “tettoia”, in luogo del più appropriato “pergola pompeiana”.
L’attribuzione all’opera contestata di un nome diverso da quello in concreto pertinente, non è da sola sufficiente per compromettere la legittimità dell’atto sanzionatorio, soprattutto laddove, al di là del profilo nominalistico, l’amministrazione ne individui esattamente la collocazione, la consistenza, i materiali e le caratteristiche. Nel caso specifico, non vi sono dubbi né contestazioni sull’esatta identificazione di questi elementi.
Sicché la censura non può essere seguita.
7.- Infine, con il quarto motivo il ricorrente censura, in via subordinata, la violazione dell’art. 12 Legge n. 47/1985 e dell’art. 34 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere per difetto di motivazione, lo sviamento nella forma sintomatica dell’ingiustizia manifesta.
Nell’ipotesi in cui si ritenga che le opere realizzate siano comunque soggette al controllo dell’amministrazione comunale, il ricorrente si duole del fatto che quest’ultima non avrebbe comunque valutato l’incidenza della disposta demolizione sull’intera struttura né avrebbe in alcun modo esaminato l’eventualità di applicare, in luogo della più invasiva misura demolitoria, una sanzione pecuniaria, come espressamente contemplato dall’art. 12 L. n. 47/1985, recepito dall’art. 34 d.p.r. 380/2001.
La censura non può essere presa in considerazione.
Come appurato in esito all’esame delle precedenti censure,
la consistenza e la natura dei due manufatti difformi dalla licenza di costruzione non possono che risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono obiettivamente destituite di fondamento.

8.- Per quanto sopra, il ricorso va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 23.11.2015 n. 5424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni culturali. Tutela delle pertinenze.
Sono oggetto di tutela non solo gli immobili considerati nella loro struttura edilizia, ma anche le cose che, costituendone pertinenza, contribuiscono a salvaguardare l'interesse storico ed artistico del bene.
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1. Il ricorso è infondato.
Occorre osservare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che, per quanto è dato rilevare dal ricorso e dalla sentenza impugnata, unici atti ai quali questa Corte ha accesso, il nuraghe nei pressi del quale sono stati eseguiti gli interventi in contestazione rientra tra i beni culturali di cui all'art. 10, comma 1, d.lgs. 42/2004, il quale individua, tra detti beni culturali, le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.
Tali beni sono sottoposti alle disposizioni del d.lgs. 42/2004 fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell'interesse culturale di cui all'art. 12, garantendone così la tutela. L'esito positivo della verifica equivale alla dichiarazione di interesse culturale del bene.
L'art. 169 del d.lgs. 42/2004 considera quattro diverse condotte costituenti reato e già previste dall'articolo 59 della legge 1089/1939 e poi dall'articolo 118 del d.lgs. 490/1999. Quella contemplata dal comma 1, lett. a), contestata agli odierni ricorrenti, prende in considerazione la condotta di chiunque, senza autorizzazione demolisca, rimuova, modifichi, restauri ovvero, senza approvazione, esegua opere di qualunque genere sui beni culturali indicati nell'articolo 10.
2. I destinatari del precetto vanno quindi individuati non solo nei soggetti proprietari del bene vincolato o negli altri soggetti ad essi equiparabili, ma anche in coloro che, con la propria condotta, anche in concorso con altri, possono materialmente incidere sulla cosa protetta o comunque trasgredire le prescrizioni indicate.
Il reato, considerata la sua natura, è stato collocato tra i reati formali di pericolo presunto e si perfeziona con la sola realizzazione degli interventi non autorizzati, indipendentemente dal pregiudizio arrecato al bene tutelato e dal conseguimento della prescritta autorizzazione in un momento successivo all'esecuzione delle opere, sempre che sussista un minimo di idoneità offensiva della condotta tale da incidere sul bene tutelato, nel senso della diminuzione del godimento estetico complessivo.
3.
La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare, sotto la vigenza della legge 1089/1939, che sono oggetto di tutela non solo gli immobili considerati nella loro struttura edilizia, ma anche le cose che, costituendone pertinenza, contribuiscono a salvaguardare l'interesse storico ed artistico del bene (Sez. 3, n. 6295 del 10/04/1997, Franceschetti, Rv. 208692; Sez. 2, n. 7622 del 27/02/1986 - dep. 25/07/1986, Simoni, Rv. 173415; Sez. 3, n. 11927 del 29/10/1985, Pisano, Rv. 171323).
Tali principi, ad avviso del Collegio, paiono senz'altro condivisibili, atteso che consentono un'adeguata protezione dell'immobile di interesse culturale considerato nel suo complesso, sebbene debba tenersi conto della possibilità di imposizione dei vincoli di tutela indiretta di cui all'articolo 45 del D.Lv. 42/2004 (già previsti dall' articolo 21 legge 1089/1939).
4. L'articolo 45, comma 1, d.lgs. 42/2004 stabilisce, come è noto, che il competente Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.
Si fa in tal caso riferimento ad una ipotesi di «tutela indiretta», in quanto il provvedimento di prescrizione incide su beni diversi da quelli tutelati, ma con specifiche finalità di conservazione di questi ultimi, con particolare riferimento alla «cornice ambientale», in modo tale da evitare ogni alterazione dell'insieme delle caratteristiche fisiche e culturali che caratterizzano lo spazio circostante al monumento.
5. Quanto sopra scongiura il rischio, paventato dai ricorrenti, di una incerta estensione dell'ambito di operatività dell'art. 169 d.lgs. 42/2004, poiché è evidente che il riferimento alle pertinenze implica necessariamente un collegamento oggettivo e funzionale al bene vincolato, come peraltro è dimostrato dal contenuto delle richiamate decisioni, le quali riguardano le parti mobili di una «stube», la sostituzione di sporti in ferro con altri di alluminio anodizzato e la realizzazione abusiva di opere su cantoria in legno sovrapposta alla struttura edilizia.
6. Tenuto conto di quanto appena osservato, occorre considerare la fattispecie in esame.
Come si è detto, secondo la prospettazione dei ricorrenti, ricavabile dai motivi di ricorso, il vincolo culturale opererebbe esclusivamente con riferimento al nuraghe isolatamente considerato, mancando ogni verifica preventiva dell'interesse culturale dell'area, che (pag. 3 del ricorso) viene descritta come «area di sedime distante diverse decine di metri dal limite del fortilizio».
Di diverso avviso sono, invece, i giudici del gravame, i quali intendono estesa la tutela anche a quest'area.
Si legge nella sentenza impugnata (pag. 9) che i limiti dell'area di interesse archeologico erano stati preventivamente individuati dalla sovrintendenza con rilevamento mediante GPS e riportati sulle carte di progetto; che tale area consiste in quella circostante al nuraghe, caratterizzata anche dalla presenza di pietre rappresentati i resti di una possibile «muraglia perimetrale» del nuraghe e che, vicino e sotto alcune pietre, erano stati rinvenuti frammenti di ceramica risalenti all'epoca in cui sul sito era stato edificato un insediamento romano alto medievale.
La Corte territoriale, inoltre, ricorda che l'art. 49 del piano paesaggistico regionale prescrive anche, per i beni archeologici, una fascia di rispetto di almeno cento metri dai margini.
7. Le considerazioni svolte dai giudici dell'appello non sembrano dunque sconfinare in una arbitraria estensione dell'ambito di efficacia del vincolo, risultando, piuttosto, il risultato di un accertamento in fatto che pone in evidenza come l'area interessata dall'intervento costituisca con il nuraghe un unico complesso.
Le conclusioni in fatto cui perviene la Corte territoriale sono sorrette da motivazione priva di cedimenti logici o manifeste contraddizioni e, in quanto tali, non censurabili in questa sede ed il complessivo ed univoco percorso giustificativo seguito non verrebbe comunque intaccato dal fatto, diffusamente segnalato dai ricorrenti, che la citazione di un brano della motivazione della sentenza del giudice amministrativo (Cons. Stato Sez. 6 n. 457 del 02/02/2015) non sarebbe pertinente.
Il motivo di ricorso è dunque infondato.
8. Ad identiche conclusioni deve pervenirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso.
Va ricordato, a tale proposito, che la Legge 308/2004 (c.d. Legge - delega ambientale), apportando consistenti modifiche all'articolo 181 d.lgs. 42/2004 ha, tra l'altro, previsto la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi definibili come «minori», all'esito della quale, pur mantenendo ferma l'applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dall'articolo 167, non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal primo comma dell'articolo 181.
Gli interventi suscettibili di «sanatoria» riguardano, come stabilito dal comma 1-ter, i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l'impiego di  materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380. Tali interventi possono, come si è detto, essere definiti "minori", in quanto caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull'assetto del territorio vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima disposizione di legge.
La procedura per il conseguimento della valutazione postuma di compatibilità paesaggistica è disciplinata dal comma 1-quater del menzionato articolo 181, il quale dispone che il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi in questione deve presentare apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo, la quale si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza, da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni.
9. La Corte territoriale ha, nella fattispecie, escluso che la determinazione dirigenziale 2373/2010 emessa dal Servizio Tutela paesaggistica dell'Assessorato regionale Enti Locali consista in un accertamento di compatibilità paesaggistica, riguardando la sola estinzione del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 167 d.lgs. 42/2004.
L'assunto viene però contestato dai ricorrenti, i quali, riproducendo testualmente parte del menzionato provvedimento, ritengono che lo stesso abbia effettivamente comportato una efficace e valida valutazione di compatibilità paesaggistica, idonea, pertanto, a produrre gli effetti estintivi invocati.
Va tuttavia rilevato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011 (dep. 2012), Falconi e altri, Rv. 251640; Sez. 3, n. 27750 del 27/05/2008, Sarro e altro, Rv. 240822),
il mero rilascio della valutazione paesaggistica all'esito della menzionata procedura non determina automaticamente la non punibilità in ordine al reato contestato, dovendo essere sempre accertata dal giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la «sanatoria».
Tale verifica è stata evidentemente effettuata dai giudici del merito mediante valutazione in fatto, sulla base della documentazione nella loro disponibilità e non accessibile a questa Corte, che non può essere messa in discussione in questa sede, sostanzialmente sollecitando un analogo giudizio da parte del giudice di legittimità, peraltro sulla base della parziale trascrizione del contenuto di un unico atto amministrativo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2015 n. 45149 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad esempio, l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo.
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7. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il secondo motivo di ricorso.
Va a tale proposito ricordato come questa Corte abbia già specificato (Sez. 3, n. 23998 del 12/05/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che
la condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad esempio, l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del 02/05/1988, Rurali, Rv. 178593).
Più in generale, si è precisato che
l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore, rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384).
Tale onere di informazione non può ritenersi superato per la sola esistenza dei provvedimenti amministrativi, menzionati dai ricorrenti, in presenza di un consolidato indirizzo giurisprudenziale che escludeva, come si è visto, la possibilità di ristrutturazione dei ruderi e che la Corte territoriale ha giustamente posto in evidenza, unitamente all'inosservanza del richiamato onere di informazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposta misura repressivo-ripistinatoria perde la propria efficacia in seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria.
Nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di demolizione, e prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di accertamento di conformità obbliga, infatti, l’amministrazione comunale a riattivare comunque il procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il diniego oppostogli.

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Come evidenziato retro, in narrativa, sub n. 4, dopo l’emissione del provvedimento repressivo-ripristinatorio, e prima dell’esperimento dell’impugnazione, Gr.Lu. e Gr.An., in data 28.01.2014 (prot. n. 3095), hanno rassegnato al Comune di Aversa domanda di sanatoria ex art. 37 del d.p.r. n. 380/2001.
Al riguardo, il Collegio ritiene di dover aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la disposta misura repressivo-ripistinatoria perde la propria efficacia in seguito alla presentazione dell’istanza di sanatoria (cfr., ex multis, Const. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n. 1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n. 172; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n. 1519; Salerno, sez. I, 23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; 04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n. 885; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche, Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691).
Ed invero, nella specie, la richiesta di riesame dell’abusività degli interventi eseguiti ha comportato la formazione di un nuovo provvedimento espresso di rigetto, il quale è valso comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, cosicché l’amministrazione comunale è rimasta obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere.
Ciò posto, nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di demolizione, e prima della proposizione del ricorso giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di accertamento di conformità obbliga, infatti, l’amministrazione comunale a riattivare comunque il procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il diniego oppostogli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VII, 05.06.2009, n. 3105; sez. III, 18.06.2009, n. 3354; sez. VII, 02.07.2009, n. 3673; 09.07.2009, n. 3829; sez. IV, 15.11.2013 n. 5114; sez. VIII, 09.01.2014, n. 63; 07.02.2014, n. 883; 14.05.2014, n. 2668; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1455; 09.04.2009, n. 605; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 16.04.2014, n. 617; TAR Emilia Romagna, Parma, 09.07.2014, n. 274; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 05.08.2014, n. 2132; TAR Liguria, Genova, sez. II, 03.09.2014, n. 1336; TAR Umbria, Perugia, 03.12.2014, n. 590)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per consolidata giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere controversie circa i diritti reali su di esso vantati da terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo, quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di legittimazione formalmente idoneo.
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza, dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai terzi controinteressati.
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I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come, appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente confliggente posizione di qualificata disponibilità dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo che questi, sulla base di detta posizione, ove incontroversa, abbiano manifestato il proprio dissenso.
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma 1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione non solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva (afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa, cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente).
E tanto è coerente con la diversa ottica dei due procedimenti: l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, presuppone necessariamente la verifica della posizione giuridica che consente la legittima esplicazione del ius aedificandi e, come tale, sottende un rapporto qualificato di disponibilità con l’immobile; l’altro, disciplinato dai successivi artt. 36 e 37, presuppone, invece, un abuso commesso e, quindi, ben può riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un collegamento soggettivamente qualificato non già con l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con la possibilità di sanarne gli effetti.

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6. Osserva, innanzitutto, il Collegio che, in sede di presentazione della domanda di sanatoria ex art. 37 del d.p.r. n. 380/2001, prot. n. 3095, del 28.01.2014, Gr.Lu. e Gr.An. hanno allegato, oltre alla planimetria catastale, quale titolo di proprietà, copia del testamento pubblico dell’11.02.1999, rep. n. 34, col quale Ma.An. ha lasciato loro in legato “la porzione della casa colonica sita in Aversa con ingresso dal viale Kennedy, n. 39/A, costituita da un appartamento al piano terra e da un appartamento al primo piano, individuata in catasto al foglio 5, particella 707, sub 6 e 7, con la proprietà esclusiva della corte annessa attualmente recintata”.
Ebbene, a fronte del titolo di legittimazione esibitogli, avente per oggetto l’immobile attinto dalle opere contestate (cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), il resistente Comune di Aversa ha esorbitato dai propri poteri istruttori, avendo svolto, in assenza di formali e specifiche contestazioni da parte dei terzi controinteressati (non rinvenibili ex actis), ulteriori e autonome indagini circa la sussistenza di diritti vantati da questi ultimi (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.03.2001, n. 1507; TAR Trentino Alto Adige, Trento, 04.11.2003, n. 376; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 16.12.2003, n. 1801; 24.03.2004, n. 500) ed avendo annesso rilievo indebitamente preclusivo ad una controversa civilistica con i medesimi insorta (sul punto, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.04.2002, n. 199; TAR Campania, Salerno, sez. II, 17.11.2003, n. 1536).
In questo senso, giova rammentare che, per consolidata giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere controversie circa i diritti reali su di esso vantati da terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo, quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di legittimazione formalmente idoneo (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005, n. 3730; 07.09.2007, n. 4703; 07.09.2009, n. 5223; 24.03.2011, n. 1770; sez. IV, 22.11.2013, n. 5563; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 28.04.2010, n. 1168; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 15.06.2010, n. 2841; TAR Campania, Napoli, sez. II, 18.11.2008, n. 19795; sez. VI, 03.12.2010, n. 26792; sez. VIII, 16.12.2010, n. 27527; sez. II, 31.07.2012, n. 3666; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 25.01.2012, n. 32; TAR Abruzzo, Pescara, 09.02.2012, n. 52; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 26.03.2012, n. 328; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 27.09.2012, n. 1569; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 24.04.2013, n. 1150).
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza, dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai terzi controinteressati (nel caso in esame –come detto– neppure attivatisi, se non nella presente sede processuale); certezza che, all’evidenza, non sussiste in pendenza di un contenzioso civile non ancora definito (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. I, 15.09.2011, n. 2220), quale quello evocato nella gravata nota del 18.12.2014, prot. n. 2949.
7. I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come, appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente confliggente posizione di qualificata disponibilità dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo che questi, sulla base di detta posizione, ove incontroversa –e non è tale il caso di Ma.An. e di Ma.Al.–, abbiano manifestato il proprio dissenso –e neppure tale è il caso di Ma.An. e di Ma.Al.– (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 17.02.2012, n. 358).
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp. artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma 1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione non solo in presenza di una domanda avanzata dal proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva (afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa, cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente). E tanto è coerente con la diversa ottica dei due procedimenti: l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del d.p.r. n. 380/2001, presuppone necessariamente la verifica della posizione giuridica che consente la legittima esplicazione del ius aedificandi e, come tale, sottende un rapporto qualificato di disponibilità con l’immobile; l’altro, disciplinato dai successivi artt. 36 e 37, presuppone, invece, un abuso commesso e, quindi, ben può riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un collegamento soggettivamente qualificato non già con l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con la possibilità di sanarne gli effetti (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 196; TAR Puglia, Bari, sez. III, 09.07.2011, n. 1057; Lecce, sez. III, 25.09.2014, n. 2409; TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.03.2013, n. 486; 28.05.2014, n. 800; 26.02.2015, n. 235)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata - Raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante - Artt. 256, 260 e 266 D.Lgs. 152/2006.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Motivazione circa il periculum in mora - Esclusione - Sequestro preventivo preordinato alla confisca obbligatoria.

La condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi del citato d.lgs., artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità (Cass., sez. 3, 24/06/2014, n. 29992); la deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 266, comma 5, per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
In merito alla motivazione circa il periculum in mora, la stessa è superflua, trattandosi di sequestro preventivo preordinato alla confisca obbligatoria del mezzo di trasporto, ai sensi dell'art. 260-ter, comma 5, del d.lgs. n. 152 del 2006.
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Nota di commento
REATI AMBIENTALI – Attività di gestione di rifiuti non autorizzata – Raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante – Artt. 256, 266 D.Lgs. 152/2006.
Il caso
Il Tribunale di Chieti rigettava l’appello cautelare avanzato da C.V. –indagato per il reato di cui all’art. 256 comma I D.L.vo 152/2006– avverso l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva a sua volta rigettato l’istanza di revoca del sequestro preventivo di un autocarro.
Avverso tale decisione ricorreva per Cassazione l’indagato, deducendo un unico motivo di gravame afferente l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice oggetto di contestazione, lamentando come il Tribunale non aveva considerato che egli svolgeva attività di robivecchi, non rientrante nell’alveo della gestione di rifiuti ma in quella di commercio ambulante per il quale aveva regolare autorizzazione.
Il discrimine tra la raccolta ed il trasporto di rifiuti in forma ambulante e la gestione di rifiuti non autorizzata
I Giudici della Terza Sezione della Suprema Corte hanno ritenuto corretta la valutazione sulla cui scorta il Tribunale è addivenuto al rigetto dell’appello cautelare, ritenendo configurata l’ipotesi di reato di gestione abusiva di rifiuti: in effetti l’attività concretamente svolta dal ricorrente non è quella, come asserito nel motivo di doglianza, di robivecchi –che, effettivamente, resterebbe sottratta alla disciplina generale dei rifiuti stante la sua minima pericolosità per la salute e per l’ambiente– ma quella di trasporto abusivo di rifiuti, trattandosi addirittura di una tonnellata di rottami metallici di variegata natura, assolutamente inutilizzabili in mancanza della prescritta autorizzazione.
Sul punto, la Corte Regolatrice ha richiamato la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi del citato d.lgs., artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da occasionalità.
La deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 266, comma 5, per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (ex plurimis, Cass. Pen., Sez. III, 24/06/2014, n. 29992, rv. 260266) (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 04.11.2015 n. 44471 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICARicorre la presupposizione, o condizione non espressa, quando una determinata situazione, di fatto o di diritto, passata, presente o futura, di carattere obiettivo -la cui esistenza, cessazione e verificazione sia del tutto indipendente dall'attività o dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione- debba ritenersi, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, essere stata tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, come presupposto avente valore determinante ai fini dell'esistenza e del permanere del vincolo contrattuale.
Così intesa, la presupposizione assume rilevanza giuridica, determinando l'invalidità o la risoluzione del contratto, quando la situazione presupposta, passata o presente, in effetti non sia mai esistita e, comunque, non esista al momento della conclusione del contratto, ovvero quando quella contemplata come futura (ma certa) non si verifichi.
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Va ricordato che l'indagine diretta a stabilire se una determinata situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, sia stata tenuta presente dai contraenti nella formulazione del consenso, secondo lo schema della presupposizione si esaurisce nell'interpretazione del contratto e costituisce, pertanto, un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se, come in specie, immune da vizi logici e giuridici.

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I motivi di ricorso principale, che per la loro connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono entrambi infondati.
Ricorre la presupposizione, o condizione non espressa, quando una determinata situazione, di fatto o di diritto, passata, presente o futura, di carattere obiettivo -la cui esistenza, cessazione e verificazione sia del tutto indipendente dall'attività o dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione- debba ritenersi, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, essere stata tenuta presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro consenso, come presupposto avente valore determinante ai fini dell'esistenza e del permanere del vincolo contrattuale.
Così intesa,
la presupposizione assume rilevanza giuridica, determinando l'invalidità o la risoluzione del contratto, quando la situazione presupposta, passata o presente, in effetti non sia mai esistita e, comunque, non esista al momento della conclusione del contratto, ovvero quando quella contemplata come futura (ma certa) non si verifichi (cfr.: cass. civ., sez. 1^, sent. 11.03.2006, n. 5390; cass. civ., sez. 1^, sent. 21.11.2001, n. 14629; cass. civ., sez. 2^, sent. 24.03.1998, n. 3083).
Su tali principi l'impugnata sentenza ha basato la sua decisione allorché ha ritenuto, attraverso l'esame della volontà delle parti, che esse avevano stipulato il contratto preliminare tenendo presente la situazione, considerata per certa, della possibilità di edificare sul terreno promesso in vendita.
Ed invero, dopo avere sottolineato che con il contratto le parti avevano pattuito la stipula del rogito di vendita del fondo entro e non oltre 30 giorni dalla licenza di lottizzazione del restante terreno ad ovest di quello promesso in vendita, al cui rilascio il venditore era stato incaricato dal fratello, e la concessione su detto restante terreno di una incondizionata servitù di transito carraio su strada, park, uso reti fogna, acqua, sip, gas, enel, verde, ecc. in favore del fondo oggetto del preliminare, ha desunto, da tale regolamentazione negoziale non solo che era pacifico che il terreno costituente il fondo servente sarebbe stato lottizzato a scopo edificatorio, ma anche che analoga lottizzazione le parti avevano prevista per il fondo dominante, giacché la natura delle servitù concesse non poteva trovare giustificazione nella sola volontà di garantire uno spazio di aria e di verde intorno all'abitazione del promissario, ma assumeva un significato soltanto in previsione della realizzazione di strade e di allacciamenti primari e dello sfruttamento (ai fini della cubatura) di eventuali spazi verdi esistenti sul fondo servente.
Ha poi aggiunto che tanto il prezzo pattuito per l'acquisto, corrispondente al valore di un terreno edificabile e non a destinazione agricola, quanto la previsione, in caso di inadempienza del promittente, di una rivalutazione del prezzo versato in base esclusivamente al valore di mercato dei nuovi alloggi abitabili non avrebbero avuto senso se le parti non avessero presupposto una possibilità di edificazione, successivamente non verificatasi non essendo stata consentita la lottizzazione.
Per il resto
va ricordato che l'indagine diretta a stabilire se una determinata situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, sia stata tenuta presente dai contraenti nella formulazione del consenso, secondo lo schema della presupposizione si esaurisce nell'interpretazione del contratto e costituisce, pertanto, un accertamento di fatto riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se, come in specie, immune da vizi logici e giuridici, e che è inammissibile, in sede di ricorso per Cassazione, una censura relativa alla violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, qualora la parte ricorrente si limiti, come in specie, a riportare nella rubrica gli artt. 1362 c.c., e segg., senza specificare le ragioni e il modo in cui si sarebbe realizzata l'asserita violazione (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.11.2006 n. 24295).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: In tema di rapporti giuridici sorti da contratto, la cosiddetta "presupposizione" deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di "condizione", da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa "causa" del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato.
Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'articolo 1467 cod. civ..

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Il motivo non è fondato.
Ed invero, rileva questo Collegio che, accertato correttamente che nel caso di specie è intercorso tra le parti un rapporto contrattuale di affitto parziale del manufatto canale di carico del molino di proprietà M., con concessione al Consorzio di immettervi le proprie acque derivate direttamente dal fiume Tenna a scopo irriguo, il Tribunale di Fermo ha rigettato l'appello proposto dal M., avendo ritenuto in applicazione dell'art. 1463 c.c., che il Consorzio era stato "liberato dalla propria prestazione per impossibilità sopravvenuta relativa alla prestazione di controparte" e, quindi, non "tenuto al pagamento del canone", stante il fatto che in altra causa pendente tra le stesse parti dinanzi al Tribunale delle acque era rimasto comprovato che anteriormente al 1988 l'erosione del letto del fiume suddetto aveva determinato un dislivello di circa tre metri rispetto alla originaria imboccatura del canale in questione, con la conseguenza che quest'ultimo era divenuto totalmente inadeguato a captare l'acqua del fiume stesso.
Tale motivazione deve ritenersi erronea in punto di diritto.
Ed infatti, nella specie va considerato inconferente il riferimento all'ipotesi normativa di cui all'art. 1463 c.c., in quanto, dovendo derivare l'assoluta impossibilità della prestazione a carico del ricorrente da causa a lui non imputabile, cioè da una causa obiettiva estranea alla sua volontà, caso fortuito o forza maggiore (v. Cass. Civ., sez. 2^, 05.04.1975, n. 1221), l'abbassamento del letto fluviale non può farsi rientrare in tali categorie, non traducendosi in un impedimento assoluto, tale cioè da non poter essere rimosso in alcun modo.
L'erroneità della motivazione in punto di diritto non tocca peraltro la correttezza della decisione finale in ordine al rigetto dell'appello, per cui, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 2, compete a questa Corte la correzione della motivazione stessa. Nel senso, cioè, che a fondamento di quest'ultima debba porsi una analisi logico-giuridica delle risultanze processuali che sia ispirata dai
principi propri della c.d. "presupposizione", intesa questa come figura giuridica che, da un lato, si avvicina ad una particolare forma di "condizione" da considerarsi implicita e comunque certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro lato, alla stessa "causa" del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica in concreto che il contratto è destinato a realizzare.
E' evidente che
il rilievo della "presupposizione" resta affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato.
L'orientamento giurisprudenziale di questa S.C. in materia di "presupposizione" si individua nel senso di ritenerla configurabile tutte le volte in cui dal contenuto del contratto si evinca che una situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale (cfr. ex multis, Cass. Civ., sez. 1^, 21.11.2001, n. 14629), così da comportare la risoluzione del contratto stesso ex art. 1467 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 24.03.2006 n. 6631).

AGGIORNAMENTO AL 09.12.2015

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IN EVIDENZA

Luoghi di culto in Lombardia: il Consiglio di Stato sconfessa il TAR Lombardia-Brescia.
Anche senza opere edilizie, il cambio d'uso (da negozio a luogo di culto) richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati, e del pur necessario titolo edilizio.

EDILIZIA PRIVATAAi sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature per servizi religiosi in immobili destinati a sede di associazioni le cui finalità siano da ricondurre alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Inoltre, che nel caso di specie il mutamento della destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del pur necessario titolo edilizio.
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... per la riforma dell'ordinanza 31.07.2015 n. 1506 del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, resa tra le parti, concernente ripristino originale destinazione d'uso a negozio nei locali di via Tremana 11, Bergamo;
...
- Considerato che ai sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature per servizi religiosi in immobili destinati a sede di associazioni le cui finalità siano da ricondurre alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati;
- ritenuto, inoltre, che nel caso di specie il mutamento della destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del pur necessario titolo edilizio;
- ritenuto, pertanto, che l’appello proposto dal Comune meriti accoglimento, con conseguente rigetto dell’istanza cautelare proposta in primo grado;
- ritenuto che sussistono i presupposti per compensare le spese della fase cautelare;
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8729/2015) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, respinge l'istanza cautelare proposta in primo grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art. 55, comma 10, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 25.11.2015 n. 5254 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa destinazione ad attività di culto di un locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Questo appare non essere il caso, poiché da un lato gli agenti di Polizia Locale non hanno rilevato sul posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato, come dichiarato alla camera di consiglio dal responsabile della comunità, al momento l’accesso al locale è riservato ai soci dell’associazione e, come da contratto allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al culto è configurata come futura ed eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi amministrativi necessari.
Pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso che allo stato non può impedirsi che gli associati all’ente ricorrente, nominativamente individuati, accedano alla struttura per professarvi il culto religioso da loro scelto, con esclusione del pubblico accesso.
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... per l’annullamento, previa sospensiva, del provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176, notificato alla ricorrente in data 06.03.2015, con la quale il Dirigente del servizio interventi edilizi e gestione del territorio del Comune di Bergamo ha ordinato, fra gli altri, al legale rappresentante della Missione della Chiesa di Scientology delle Orobie di ripristinare nei locali siti in Bergamo, alla via Tremana civico 11 la originaria destinazione di uso a negozio;
...
Rilevato:
- che l’associazione ricorrente, di carattere religioso, insorge contro il provvedimento di cui meglio in epigrafe, con il quale si è vista imporre lo sgombero dai locali in questione, sul presupposto che negli stessi si svolga attività di culto (doc. 1 ricorrente, copia ordinanza);
- che tale apprezzamento si fonda su un sopralluogo effettuato in data 27.01.205, il cui tenore è ricostruibile dalla conseguente relazione di servizio del 05.02.2015, prodotta dal Comune il 24.07.2015;
- che la destinazione ad attività di culto di un locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato a tutti i fedeli interessati, così come ritenuto, fra le molte, dalla sentenza della Sezione 29.05.2013 n. 522, ove ulteriori rimandi;
- che questo appare non essere il caso, poiché da un lato gli agenti operanti (v. rel. citata) non hanno rilevato sul posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato, come dichiarato alla camera di consiglio 04.06.2015 dal responsabile della comunità, al momento l’accesso al locale è riservato ai soci dell’associazione e, come da contratto allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al culto è configurata come futura ed eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi amministrativi necessari;
- che pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso che allo stato non può impedirsi che gli associati all’ente ricorrente, nominativamente individuati, accedano alla struttura per professarvi il culto religioso da loro scelto, con esclusione del pubblico accesso;
- che le spese di fase seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
accoglie la suindicata istanza cautelare e per l’effetto sospende il provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176 del Dirigente del servizio interventi edilizi e gestione del territorio del Comune di Bergamo. Spese di fase compensate. Fissa per la trattazione del merito la pubblica udienza del 19.10.2016 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 31.07.2015 n. 1506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa che si è pronunciata su tale questione, ha in più occasioni affermato che il computo del quantum della sanzione amministrativa in relazione al “profitto conseguito” ex art. 167 dgs 42/2004 deve avvenire mediante una disamina compiuta ed esaustiva della documentazione che si profili utile al fine di ricostruire il vantaggio economico che il trasgressore ha tratto dall’illecito commesso e, pertanto, tale disamina deve essere effettuata necessariamente avvalendosi di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la quantificazione operata possa essere oggetto di una dimostrazione articolata ed analitica.
In particolare,
la giurisprudenza ha stabilito che il “profitto” non può essere presunto, in quanto va identificato nell’incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione, incremento che viene determinato come differenza tra il valore attuale ed il valore dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere abusive.
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Il Tribunale deve innanzitutto osservare che la nuova determinazione, da parte del Comune, dell’importo della sanzione pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, del D. lgs. n. 42 del 2004 da irrogare agli ex committenti degli odierni ricorrenti si fonda –come richiede espressamente la citata disposizione– su una perizia di stima redatta dalla “U.I. Tecnica del Settore Patrimonio del comune di Bologna” (v. doc. n. 6 del Comune).
La tabella facente parte integrante della nuova perizia evidenzia un calcolo del “maggiore profitto”, asseritamente tratto dai proprietari del fabbricato, per mezzo dell’abuso paesaggistico in questione, ammontante ad €. 157.860,90 e, di conseguenza, ridetermina in tale somma l’importo della sanzione ex art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42 del 2004.
A tale conclusione l’Ente perviene partendo dai seguenti dati: a) un volume abusivo effettivamente realizzato di mc. 199,23; b) un’altezza dei vani di riferimento su cui calcolare la sanzione di m. 2,40 (corrispondente all’altezza dei vani accessori); c) una superficie dichiaratamente qualificata “virtuale”, calcolata in mq. 83,01, sulla base dei precedenti dati di volume ed altezza; nonché d) il valore unitario della superficie stimato in €/mq. 1.901,65.
Il ragionamento del Comune per pervenire, sulla base di questi dati, a tale somma di “maggiore profitto”, può essere sintetizzato riportando quanto riferisce l’Ufficio comunale per la Tutela del Paesaggio nella nota del 14/07/2015 diretta al’Avvocatura comunale, secondo cui: “E’ evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc. ha determinato un profitto che pur non consistendo al momento in termini di superfici utili reali, si realizza nel non aver demolito una struttura. In condizioni normali, nel 2005, se i proprietari avessero richiesto legittimamente la possibilità di ispessire le strutture e quindi aumentare la sagoma plani volumetrica, avrebbero potuto farlo chiedendo prima le autorizzazioni necessarie (autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire). Realizzandolo in assenza delle necessarie autorizzazioni, ha comportato un abuso edilizio, paesaggistico che per le modifiche introdotte nel Codice dei Beni Culturali, non potevano essere sanate in quanto comportante aumento di volumetria”.
Secondo il Comune, poi “E’ evidente che di fronte alla scelta della demolizione in luogo del pagamento della sanzione, come si è detto, per ragioni tecnico–costruttive non si è potuto demolire il volume abusivo e pertanto si è mantenuto quell’aumento di volume che appunto costituisce il maggior profitto sanzionato dalla norma. L’ispessimento dei solai e con la conseguente altezza del fabbricato, hanno potuto beneficiare di un bonus volumetrico oggi quantificabile in nuova superficie. Da tali premesse, i tecnici comunali pervengono alla conclusione che “Il maggior profitto” conseguito mediante la trasgressione è costituito da un volume che, essendo aumentato, rappresenta una potenzialità edificatoria diversa e maggiore da quella che il proprietario avrebbe senza abuso: con gli strumenti urbanistici attuali, in caso di demolizione e ricostruzione, il trasgressore potrà utilizzare la volumetria abusivamente realizzata per ottenere superficie utile o accessoria, ricostruire quindi un nuovo volume trasformando le strutture portanti (il corpo "solido cieco” descritto nel ricorso) in superficie. Ne consegue che oggi l’aumento di 199,23 mc., potrebbe potenzialmente diventare 83,01 mq. di superficie accessoria o mq. 73,79 di superficie utile.”.
Il Tribunale ritiene che le suddette considerazioni portate a supporto motivazionale della nuova determinazione della sanzione siano condivisibili unicamente riguardo a parte di quanto contenuto nelle premesse, ma certamente non per quanto concerne le ulteriori considerazioni svolte, con particolare riferimento alle conclusioni alle quali la civica amministrazione erroneamente perviene.
La parte motiva del provvedimento che il Collegio ritiene legittima è quella in cui, come si è detto, il Comune rileva, quale unico parametro a disposizione ai fini di determinare la sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del D.lgs. n. 42 del 2004, quello del “maggior profitto”, correttamente configurando ed adattando il parametro espressamente indicato dalla norma al concreto, specifico abuso da sanzionare, nonché quella parte della motivazione nella quale il Comune, contestualizzando altrettanto correttamente tale “maggiore profitto” derivante dall’abuso solo volumetrico, lo collega direttamente al solo effettivo, concreto lucro tratto, nell’occasione, dai proprietari del fabbricato. Secondo il Comune, infatti: “E’ evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc ha determinato un profitto che pur non consistendo al momento in termini di superfici reali, si realizza nel non avere demolito una struttura…”.
Pertanto, tale parte delle valutazioni svolte dal Comune corrispondono pienamente sia alla lettera che, soprattutto alla ratio della norma, la quale, indicando il quantum di sanzione nel maggiore importo tra danno paesaggistico derivante dall’abuso e, appunto, il maggior profitto conseguito dall’autore, si attiene a parametri certamente connotati da concretezza ed attualità, di modo che la sanzione pecuniaria irrogata, oltre che a soddisfare i predetti requisiti, risulti altresì proporzionata e comunque coerente con l’oggettiva entità dell’abuso, nei suoi duplici riflessi riferiti o al danno paesaggistico causato o al concreto “maggior profitto” tratto dai responsabili dell’abuso.
In conclusione, stante quanto dallo stesso Comune rilevato,
nella fattispecie in esame, ove non può essere applicato il primo dei parametri indicati dalla norma, non essendosi verificato alcun danno paesaggistico (v. il relativo specifico passaggio nella sentenza di questo TAR n. 975 del 2014), risulta del tutto condivisibile l’individuazione del concreto profitto tratto dai proprietari dell’edificio nel mancato esborso dell’importo relativo ai costi della demolizione della sola opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in cui tale operazione avrebbe dovuto essere effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle altre parti dell’edificio realizzate legittimamente; ciò anche ai fini equitativi e di necessaria proporzionalità, non solo tra l’effettivo abuso paesaggistico (minore) accertato e la corrispondente sanzione pecuniaria da irrogare, ma anche fra l’altra sanzione pecuniaria irrogata in riferimento alla stessa opera in sede di sanatoria edilizia (€. 12.695,16) e quella che il Comune valuterà di comminare quale “sanzione paesaggistica” in esecuzione della presente decisione.
Per quanto riguarda, infine, l’ulteriore apparato motivazionale a sostegno della nuova stima e le conclusioni alle quali perviene –dopo le suesposte corrette premesse- il Comune, il Collegio ritiene che le stesse non siano assolutamente condivisibili, risultando fondata, invece, la censura rassegnata nei motivi aggiunti, con cui i ricorrenti rilevano l’illegittimità della nuova sanzione per violazione e falsa applicazione dell’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42 del 2004.
Le conclusioni a cui perviene il Comune si pongono, infatti, in chiaro contrasto con la lettera e la ratio della più volte citata disposizione, caratterizzata, appunto, da un concetto di “maggior profitto” connotato da concretezza e da attualità.
Tale contrasto si evidenzia soprattutto nell’avere il Comune individuato detto profitto, che deriva, come si è detto, da un abuso unicamente valutabile in termini volumetrici, mediante la semplicistica trasformazione di detto volume abusivo in superficie dichiaratamente virtuale (seppure procedendo, in quest’ultima stima, a determinare la superficie “virtuale” con modalità diverse, come si è detto, da quelle ritenute illegittime dal TAR con la citata decisione n. 975 del 2014).
Ed ancor di più la nuova stima risulta in contrasto con la norma, allorché l’amministrazione, accorgendosi dell’arbitrarietà ed insostenibilità, nella realtà, di un concetto di “profitto” in tal modo elaborato, tenta di dare concretezza a detta trasformazione, collegandola alla futura ed eventuale realizzazione, ad opera dei proprietari, di uno specifico intervento edilizio di completa demolizione dell’edificio e successiva integrale ricostruzione dello stesso. Solo a conclusione di tale specifico e radicale intervento edilizio i proprietari del fabbricato ricostruito potrebbero, in teoria, utilizzare quella superficie divenuta reale, che, in ogni altro caso, invece, rimarrebbe inesorabilmente incorporata nel complessivo volume del fabbricato originario.
Ma nonostante l’utilizzo di tale presunzione, la tesi del Comune si rivela comunque incongrua ed insufficiente al precisato scopo di dare concretezza alla propria valutazione, cosicché l’ente ritiene di potere sviluppare un’ulteriore presunzione, ipotizzando, cioè, la vigenza di uno strumento urbanistico le cui disposizioni, diversamente da quanto ordinariamente avviene riguardo alle zone tutelate sotto il profilo paesaggistico, consentono la realizzazione proprio di tale specifico e particolarmente impattante intervento di demolizione e ricostruzione.
Risulta pertanto evidente, sulla base delle considerazioni sopra esposte, quanto gran parte della motivazione relativa all’irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42 del 2004 sia lontana dalla lettera e dalla ratio di tale norma, a contrario ponendosi, per quanto detto, in palese contrasto con essa.
Anche la giurisprudenza amministrativa che si è pronunciata su tale questione, ha in più occasioni affermato che il computo del quantum della sanzione amministrativa in relazione al “profitto conseguito,” deve avvenire mediante una disamina compiuta ed esaustiva della documentazione che si profili utile al fine di ricostruire il vantaggio economico che il trasgressore ha tratto dall’illecito commesso e, pertanto, tale disamina deve essere effettuata necessariamente avvalendosi di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la quantificazione operata possa essere oggetto di una dimostrazione articolata ed analitica (v. TAR Perugia, sez. I, 15/05/2015 n. 213; TAR Lazio, sez. I-quater, 13/02/2009 n. 1450).
In particolare,
la giurisprudenza ha stabilito che il “profitto” non può essere presunto, in quanto va identificato nell’incremento del valore venale che gli immobili acquistano per effetto della trasgressione, incremento che viene determinato come differenza tra il valore attuale ed il valore dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere abusive (v. TAR Umbria sez. I. n. 213 del 15/05/2015 cit; TAR Toscana, sez. III, 16/04/2012 n. 724).
Tanto basta ad avviso del Tribunale, per ritenere fondata l’esaminata censura, stante l’accertato ricorso, da parte del Comune, nella determinazione impugnata a ben due presunzioni, peraltro non riconducibili, in via diretta, all’abuso paesaggistico sanzionato.
Pertanto, il ricorso per motivi aggiunti è accolto, e, per l’effetto, è annullata la determinazione della sanzione pecuniaria con esso impugnata, fatta salva, comunque, la nuova perizia di stima che il Comune dovrà redigere tenendo conto delle puntuali indicazioni di cui sopra, con conseguente rideterminazione, nei confronti dei soggetti direttamente interessati, della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42 del 2004 (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 27.11.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 d.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
Nell'applicare tale regola, con riguardo all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Al riguardo, questo tribunale ha più volte ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va peraltro rilevato che il Giudice Siciliano d’appello, con recente decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento adottato sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; e che “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…”.

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F.1. – Per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 d.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 28.07.2006, n. 4690; 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405; 12.11.2002, n. 6279).
E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (v. anche TAR Sicilia, Sez. I, 23.07.2014, n. 1942; 13.05.2013, n. 1098).
Nell'applicare tale regola, con riguardo all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni (v. Consiglio di Stato, 12.03.2009, n. 1464).
Al riguardo, questo tribunale, pur dando atto del diverso orientamento assunto anche in tempi recenti dal C.G.A. -secondo il quale “…la permanenza cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria” (v. C.G.A. in sede giurisd., 13.09.2011, n. 554)– ha più volte ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria” (cfr. TAR Sicilia, n. 1098/2013 cit.; nello stesso senso, TAR Sicilia, n. 1942/2014 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va peraltro rilevato che il Giudice Siciliano d’appello, con recente decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento adottato sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; e che “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” (cfr. C.G.A. n. 123/2014 cit.).
Il Collegio ben conosce l’esistenza del precedente, citato dalla difesa erariale (C.G.A. sentenza n. 143/2014 del 19.03.2014), di segno contrario alla (coeva) sentenza n. 123/2014; ritiene, tuttavia, di condividere, per le ragioni già espresse, la ricostruzione della normativa operata nella citata sentenza del C.G.A. n. 123/2014, confortato, sotto tale profilo, dal consolidarsi del medesimo orientamento, favorevole al privato, del Consiglio di Stato, non ravvisando nuove ragioni per discostarsi dal consolidato orientamento della Sezione, ribadito anche con recentissime pronunce (v.: pareri del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 02091/2015 e data 16/07/2015, Adunanza di Sezione del 17.06.2015, n. affare 01793/2014; n. 00909/2015 e data 24/03/2015, Adunanza di Sezione del 04.03.2015, n. affare 00479/2013; nonché: Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 4087 del 05.08.2013; sentenze in forma semplifica di questa Sezione, n. 836/2015 e n. 812/1015; TAR Campania, Sez. VI, 13.02.2015, n. 1092) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 23.10.2015 n. 2645 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

PATRIMONIO: E' illegittima la permuta di un terreno comunale a trattativa privata.
In base al principio posto dall’art. 41 del RD 827/1924 la trattativa privata costituisce modalità di alienazione ammissibile solo nei casi ivi espressamente previsti, casi tutti cui certamente non può ascriversi quello in esame nel quale si è alienato un terreno di proprietà comunale.
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un procedimento di evidenza pubblica tanto più che, come riferisce lo stesso Comune, alla stessa amministrazione comunale erano pervenute relativamente al terreno di cui trattasi altre istanze di acquisto da parte di diverso soggetto, istanze che avrebbero richiesto un confronto concorrenziale.
Lo stesso Regolamento comunale del resto conferma la necessità dell’asta pubblica mentre l’art. 192 D.lgs. 267/2000 prescrive che la determina a contrarre sia preceduta dall’indicazione delle modalità di scelta del contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2, della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di alienazione non appare in linea con i principi richiamati, stabiliti sia dalla legislazione nazionale che dalla regolamentazione locale, in quanto non risulta essere stata avviata alcuna procedura di evidenza pubblica con adeguata pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di garantire la massima trasparenza e imparzialità nella cessione del bene comunale.

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... per l'annullamento:
- della nota prot. 9497 del 22.11.10, recante comunicazione di indisponibilità alla stipula dell'atto di permuta di suoli di cui alla delibera consiliare n. 5/2007;
- della nota n. 10011 del 14.12.2010, recante comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’annullamento della prefata delibera consiliare.
...
1.- Con delibera consiliare n. 5 del 13.03.2007 il Comune di Pimonte ha deciso di procedere, tra l’altro, alla permuta di alcune aree di proprietà comunale, nella specie un’area di mq. 103 con altra di mq 80 di proprietà del sig. Ca.Ch., previa corresponsione di un conguaglio di 1.186,50 euro da parte del medesimo.
2.- A fronte della successiva richiesta del sig. Ch. di dare seguito a tale delibera, il Comune -con nota del 22.11.2010 prot. del responsabile dell’ufficio Patrimonio- comunicava l’indisponibilità alla permuta rilevando sia profili di illegittimità della citata delibera n. 5/2007 che di inalienabilità del bene attesa la sua vicinanza al depuratore pubblico.
3.- Avverso la nota il sig. Ch. ha svolto con il ricorso in epigrafe le seguenti doglianze: ...
...
9.- Il ricorso non merita accoglimento.
Dalla richiamata delibera consiliare 5/2011, che ha sospeso la delibera con cui era stata decisa la cessione dell’area comunale, risultano –non essendo oggetto di specifica contestazione da parte del ricorrente– le seguenti circostanze:
- il regolamento comunale sui contratti (art. 54) prevede che l’alienazione dei beni comunali avvenga con il sistema dell’asta pubblica;
- antecedentemente alla citata delibera 5/2007, è stata presentata per la stessa particella una proposta di acquisto da parte di altro soggetto “ad un prezzo uguale o maggiore”.
Fatte queste premesse, il Collegio rileva che in base al principio posto dall’art. 41 del RD 827/1924 la trattativa privata costituisce modalità di alienazione ammissibile solo nei casi ivi espressamente previsti, casi tutti cui certamente non può ascriversi quello in esame nel quale si è alienato un terreno di proprietà comunale (cfr. Tar Liguria n. 380/2008).
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un procedimento di evidenza pubblica tanto più che, come riferisce lo stesso Comune, alla stessa amministrazione comunale erano pervenute relativamente al terreno di cui trattasi altre istanze di acquisto da parte di diverso soggetto, istanze che avrebbero richiesto un confronto concorrenziale (cfr. per analogo indirizzo cfr. ex multis Cons. Stato 338/2012).
Lo stesso Regolamento comunale (art. 58 su richiamato) del resto conferma la necessità dell’asta pubblica mentre l’art. 192 D.lgs. 267/2000 prescrive che la determina a contrarre sia preceduta dall’indicazione delle modalità di scelta del contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in materia di contratti delle pubbliche amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2, della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di alienazione non appare in linea con i principi richiamati, stabiliti sia dalla legislazione nazionale che dalla regolamentazione locale, in quanto non risulta essere stata avviata alcuna procedura di evidenza pubblica con adeguata pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di garantire la massima trasparenza e imparzialità nella cessione del bene comunale.
Ne consegue che il diniego espresso dall’ufficio Patrimonio risulta giustificato dall’applicazione della normativa sopra richiamata.
Nel caso di specie, in presenza di atto plurimotivato, la fondatezza di una delle motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori censure volte a contestare gli ulteriori profili della motivazione in quanto il rigetto della doglianza volta a contestare una delle sue ragioni giustificatrici comporta la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle ulteriori doglianze volte a contestare le altre ragioni giustificatrici.
In conclusione il ricorso viene respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 24.11.2015 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato.
La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime.
   a) Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato.
La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento –da rilasciarsi col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire– rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
   b) Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
   c)
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d. varianti minori.
In proposito, l’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti –come si è visto– di ‘varianti leggere’.

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1. Lamentano, innanzitutto, i nominati in epigrafe che l’amministrazione resistente avrebbe disposto la gravata misura repressivo-ripristinatoria senza previamente rimuovere in autotutela gli effetti della d.i.a. del 06.05.2006, prot. n. 6238, in virtù della quale sarebbe stato legittimato il contestato mutamento di destinazione d’uso dei porticati/box auto e dei sottotetti-stenditoi (cfr. relazione tecnica a corredo della menzionata d.i.a., esibita in giudizio il 21.10.2014), nonché senza previamente verificare l’avvenuta presentazione o meno della stessa, anche in contraddittorio con i soggetti interessati.
Tale ordine di doglianze si infrange contro le seguenti argomentazioni, già propugnate in casi omologhi dalla Sezione (cfr. sent. n. 3275 del 12.06.2014, n. 6080 del 26.11.2014, n. 6345 del 04.12.2014 e n. 1154 del 19.02.2015), dalle quali il Collegio non ritiene di doversi discostare.
1.1. Giova, in primis, rammentare che la vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato.
La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236; 25.09.2012 n. 49290).
  
a) Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato.
La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento –da rilasciarsi col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire– rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
  
b) Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
  
c) Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d. varianti minori.
In proposito, l’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti –come si è visto– di ‘varianti leggere’.
1.2. Ora, nella fattispecie in esame, le difformità riscontrate dal Comune di Orta di Atella rientrano appieno nel fuoco applicativo dell’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001 (“variazioni essenziali”).
Trattasi, infatti, della trasformazione (non solo funzionale, ma anche materiale) di 8 locali da porticati/box auto e sottotetti-stenditoi ad appartamenti residenziali, ossia di una significativa modifica al progetto originario, in quanto incidente sulle destinazioni d’uso con aggravio del carico urbanistico e, quindi, alterazione degli standards, oltre che incidente, in via consequenziale, sui parametri urbanistico-edilizi di zona.
1.3. Da quanto sopra discende, dunque, che, a dispetto degli assunti di parte ricorrente, la natura essenziale della variante posta in essere rende ab origine irrilevante la presentazione della menzionata d.i.a. del 06.05.2006, prot. n. 6238;
In altri termini, una volta accertato che gli interventi edilizi erano difformi dal paradigma normativo (art. 22 del d.p.r. n. 380/2001), l’amministrazione comunale, anche dopo la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, è rimasta nella condizione di esercitare i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti dall’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2005 n. 3498; 12.09.2007 n. 4828; 18.12.2008 n. 6378; 12.02.2010 n. 781) e, più in generale, i poteri di controllo sulle attività edilizie per i quali l’art. 27 del d.p.r. n. 380/2001 cit. non prevede alcun termine decadenziale (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.10.2007 n. 8951).
Ciò posto, essendosi riscontrate variazioni essenziali ex art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, i poteri anzidetti si sono correttamente incanalati nell’alveo naturale e vincolato del ripristino dello stato dei luoghi.
1.4. A questo punto, costituisce dato processuale acquisito che sono state introdotte varianti essenziali al progetto assentito col permesso di costruire n. 69 del 06.05.2005.
Ebbene, siccome –per le ragioni dianzi illustrate– simili variazioni giammai avrebbero potuto essere legittimamente autorizzate ai sensi degli artt. 22 ss. del d.p.r. n. 380/2001, tale circostanza consente di dequotare il profilo di censura incentrato sulla pretesa carenza di istruttoria per omesso reperimento della d.i.a. del 06.05.2006, prot. n. 6238, poiché quest’ultima, ove pure rinvenuta e vagliata, sarebbe rimasta, comunque, tamquam non esset, siccome insuscettibile di produrre effetti abilitativi in ordine alla tipologia di opere controverse (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Le Responsabilità del coordinatore per l'esecuzione dei lavori.
Il coordinatore per l'esecuzione dei lavori è tenuto:
- a verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di Coordinamento (P.S.C.) e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
- a verificare l'idoneità del Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.), assicurandone la coerenza con il P.S.C., che deve provvedere ad adeguare in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere;
- a verificare che le imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi P.O.S.;
- ad organizzare tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione;
- a verificare l'attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al miglioramento della sicurezza in cantiere;
- a segnalare, al committente o al responsabile dei lavori, le inosservanze alle disposizioni degli artt. 94, 95 e 96, e art. 97, comma 1, e alle prescrizioni del P.S.C., proponendo la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto in caso di inosservanza;
- a dare comunicazione di eventuali inadempienze alla Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale del Lavoro territorialmente competenti;
- a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate.

In forza di quanto precede, risulta quindi evidente che
il coordinatore per l'esecuzione riveste un ruolo di vigilanza "alta", che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale e stringente vigilanza "momento per momento", demandata alle figure operative, ossia al datore di lavoro, al dirigente, al preposto.
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1. Con sentenza del 27/03/2014, il Tribunale di Messina dichiarava Le.Ca. -nella qualità di coordinatore per l'esecuzione dei lavori e di responsabile della "... C. s.r.l."- responsabile di talune violazioni commesse nell'ambito di un cantiere edile sito in Messina, analiticamente indicate nel capo di imputazione, e lo condannava alla pena di 6 mila euro di ammenda.
...
3. Il ricorso è fondato; al riguardo, risulta assorbente il secondo motivo.
Come già affermato da questa Corte,
con riguardo alla figura del coordinatore per l'esecuzione dei lavori, di cui all'art. 92, d.lgs. n. 81 del 2008, occorre rilevare che i compiti assegnati alla stessa risalgono al d.lgs. 14.08.1996, n. 494 (di attuazione della Direttiva 92/57/CEE) -nell'ambito di una generale e più articolata ridefinizione delle posizioni di garanzia e delle connesse sfere di responsabilità correlate alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili- a fianco di quella del committente, allo scopo di consentire a quest'ultimo di delegare, a soggetti qualificati, funzioni e responsabilità di progettazione e coordinamento, diversamente a lui riferibili, implicanti particolari competenze tecniche.
La definizione dei relativi compiti e della connessa sfera di responsabilità discende, pertanto, da un lato, dalla funzione di generale, "alta vigilanza" che la legge demanda allo stesso, dall'altro dallo specifico elenco, originariamente contenuto nell'art. 5, d.lgs. n. 494 del 1996, ed attualmente trasfuso nel citato art. 92, d.lgs. n. 81 del 2008, in forza del quale
il coordinatore per l'esecuzione è tenuto:
- a verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di Coordinamento (P.S.C.) e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
- a verificare l'idoneità del Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.), assicurandone la coerenza con il P.S.C., che deve provvedere ad adeguare in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere;
- a verificare che le imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi P.O.S.;
- ad organizzare tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione;
- a verificare l'attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al miglioramento della sicurezza in cantiere;
- a segnalare, al committente o al responsabile dei lavori, le inosservanze alle disposizioni degli artt. 94, 95 e 96, e art. 97, comma 1, e alle prescrizioni del P.S.C., proponendo la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto in caso di inosservanza;
- a dare comunicazione di eventuali inadempienze alla Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale del Lavoro territorialmente competenti;
- a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate.

In forza di quanto precede, risulta quindi evidente che -come affermato dal ricorrente-
il coordinatore per l'esecuzione riveste un ruolo di vigilanza "alta", che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale e stringente vigilanza "momento per momento", demandata alle figure operative, ossia al datore di lavoro, al dirigente, al preposto (tra le altre, Sez. 4, n. 3809 del 07/01/2015, Cominotti, Rv. 261960; Sez. 4, n. 443 del 17/01/2013, Palmisano, Rv. 255102; Sez. 4, n. 18149 del 21/04/2010, Cellie, Rv. 247536).
Orbene, tutto ciò premesso, rileva il Collegio che la motivazione stesa dal Tribunale di Messina risulta -oltre che molto sintetica- non aderente al principio di diritto da ultimo enunciato, atteso che riconosce la responsabilità del Ca. in ordine a violazioni molto specifiche e puntuali (relative, tra l'altro, alle lavorazioni in prossimità di cavi elettrici, alle passerelle, alle aperture lasciate per il vano ascensore), senza precisare se le stesse siano comunque riferibili -nel caso di specie- a quei doveri di vigilanza "alta" sopra richiamati, imposti al coordinatore per l'esecuzione dei lavori, oppure invero demandate ad altre figure.
Ancora, la sentenza non ha speso alcuna considerazione in ordine ai testi Sa. e Di., escussi ex art. 507 cod. proc. pen., i quali -giusta tenore del ricorso, in ciò specifico e completo- avrebbero reso dichiarazioni in palese dissonanza con quanto affermato dai testimoni indotti dal pubblico ministero (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2015 n. 41820).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una SCIA in forma cartacea anziché telematica non presuppone la sua stessa configurazione ed ammissibilità.
Una Scia presentata al SUAP in modalità cartacea non può, per il solo fatto di essere stata lì depositata, ritenersi una segnalazione valida, mancando il presupposto per la sua stessa configurazione e ammissibilità, ovvero la modalità telematica.
Invero, il legislatore è stato chiaro nello stabilire che le domande, le dichiarazioni, le segnalazioni e le comunicazioni concernenti le attività produttive, di prestazione di servizi e quelle relative alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, e i relativi elaborati tecnici e allegati debbano presentarsi esclusivamente in modalità telematica al Suap competente per territorio (cfr. art. 2 del DPR n. 160/2010).

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... per l'annullamento, previo accoglimento dell’istanza cautelare:
- del provvedimento prot. n. 821 del 21.01.2015 a firma del Dirigente del Settore Servizi al Territorio del Comune di Santeramo in Colle;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale e, in particolare ove occorra, della nota prot. n. 13278 del 02.03.2015 a firma del Responsabile Unico del Procedimento del SUAP Associato del Sistema Murgiano;
con Motivi Aggiunti depositati in data 03.06.2015:
- del provvedimento prot. n. 5875 del 12.03.2015 a firma del Dirigente del Settore Servizi al Territorio del Comune di Santeramo in Colle;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale e, in particolare ove occorra, della nota prot. n. 13278 del 02.03.2015 a firma del Responsabile Unico del Procedimento del SUAP Associato del Sistema Murgiano;.
...
La Telecom Italia s.p.a., proprietaria di una stazione radio base per telefonia cellulare sita nel territorio del Comune di Santeramo in Colle, presentava, congiuntamente alla Vodafone Omnitel B.V., una segnalazione certificata di inizio attività (scia), indirizzata al Comune stesso ed acquisita in formato cartaceo, per l’implementazione di un impianto di proprietà Vodafone sulla suddetta stazione radio base.
Con provvedimento del 13.05.2014, veniva però disposta l’archiviazione dell’istanza sul rilievo che la stessa avrebbe dovuto essere presentata, a pena di inammissibilità, presso il SUAP su apposita modulistica, ai sensi del DPR 447/1998, rilevando altresì che le installazioni di nuove SRB avrebbero potuto essere realizzate esclusivamente nei siti comunali all’uopo individuati col piano di localizzazione comunale.
Il suddetto provvedimento veniva annullato da questo Tar con Sentenza n. 1267/2014, ritenendo sussistente in capo all’Amministrazione, con particolare riferimento al profilo dell’inammissibilità dell’istanza, un obbligo di trasmissione ufficiosa della domanda alla competente articolazione del proprio apparato.
Tale sentenza è stata formalmente notificata in data 05.12.2014 al Comune di Santeramo - che l’ha successivamente impugnata innanzi la Terza Sezione del Consiglio di Stato (Rg. 1129/2015).
Ritenendo da tale data decorso il termine per la formazione del silenzio assenso ai sensi dell’art. 87-bis, D.Lgs. 259/03, la ricorrente comunicava quindi all’Amministrazione comunale l’avvio dei lavori oggetto della scia.
Il Comune, con provvedimento n. 1821 del 21.01.2015, disponeva tuttavia per ragioni istruttorie la sospensione temporanea dell’efficacia della segnalazione, ai sensi degli artt. 2 e 21-quater, comma 2, l. n. 241/1990, per la durata di 60 giorni, inibendo per l’effetto, l’inizio dei lavori preannunciati.
Successivamente, il SUAP–Murgia Sviluppo s.c.a.r.l., rilevata l’improcedibilità dell’istanza sottoscritta da Telecom e Vodafone e trasmessa dall’Amministrazione comunale, ne disponeva l’archiviazione – circostanza che ha determinato in sede processuale la rinuncia alla domanda cautelare incidentalmente avanzata con l’appello suddetto, per sopravvenuto difetto di interesse.
Avverso la nota comunale del 21.01.2015, nonché il successivo provvedimento di improcedibilità e archiviazione del SUAP, l’odierna ricorrente ha quindi proposto un nuovo gravame censurando la violazione e falsa applicazione degli artt. 87 e 87-bis, D.Lgs. 259/2003 nonché dell’art. 19, L. n. 241/1990, ed eccesso di potere sotto diversi profili, chiedendone pertanto l’annullamento previa sospensione dell’efficacia.
Con controricorso del 30.04.2015, si è costituito il Comune intimato, eccependo preliminarmente l’inammissibilità e improcedibilità del ricorso sotto diversi profili - ovvero in considerazione della natura temporanea e provvisoria del provvedimento di sospensione impugnato, che avrebbe quindi già cessato di produrre effetti; della mancata notifica al SUAP; nonché della mancata impugnazione della successiva nota comunale, prot. n. 5875 del 12.03.2015, con cui nel trasmettere la nota di archiviazione del SUAP del 02.03.2015, il Comune ha preso atto dell’arresto procedimentale così determinatosi e dell’inefficacia della comunicazione di inizio dei lavori.
Alla Camera di Consiglio del 06.05.2015, avvisate le parti della possibile definizione in forma semplificata del gravame ai sensi dell’art. 60 cpa, parte ricorrente ha chiesto disporsi un rinvio per la presentazione di motivi aggiunti.
Con atto di motivi aggiunti del 19.05.2015, notificati anche al SUAP, la ricorrente ha infatti impugnato il sopra detto provvedimento n. 5875 del 12.03.2015, conosciuto in data 20 marzo, deducendo vizi in via derivata e vizi propri, quali violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 6, l. n. 291/1990, in quanto l’Amministrazione avrebbe dovuto chiedere una regolarizzazione postuma della scia; eccesso di potere sotto diversi profili, ed elusione della Sentenza n. 1267/2014 resa da questo Tar.
Alla successiva Camera di Consiglio del 02.07.2015, avvertite nuovamente le parti ai sensi dell’art.60 c.p.a., la causa è quindi passata in decisione.
Il Collegio deve preliminarmente rilevare che il provvedimento comunale di sospensione per esigenze istruttorie, è stato superato dalla successiva nota di arresto procedimentale -impugnata con motivi aggiunti- determinando in tal modo l’improcedibilità dell’azione di annullamento proposta contro lo stesso.
Ritenute inoltre superate, con la proposizione dei motivi aggiunti, le eccezioni di inammissibilità come sollevate dalla difesa comunale, può quindi passarsi all’esame delle censure mosse dalla ricorrente avverso la nota di archiviazione Suap e la nota comunale di arresto procedimentale, che il Collegio ritiene infondate per le seguenti ragioni.
Pur condividendo in via di principio quanto affermato nella precedente pronuncia resa da questo stesso TAR, il Collegio deve tuttavia rilevare che l’applicazione nella specie dei principi ivi esposti non avrebbe potuto determinare comunque l’ammissibilità e la corretta formazione della scia.
Invero,
se in un’ottica di leale collaborazione tra la p.a. e il cittadino, la mancata trasmissione in via officiosa di una istanza alla competente articolazione amministrativa può costituire violazione dei principi di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, nel caso di specie l’improcedibilità dell’istanza presentata dalla ricorrente non ha concretizzato “un appello dell’Amministrazione a meri formalismi”, come tali da censurare in sede giurisdizionale, venendo invece in rilievo la possibile configurabilità, e quindi esistenza, della domanda (recte, scia) stessa.
Il legislatore è stato infatti chiaro nello stabilire che le domande, le dichiarazioni, le segnalazioni e le comunicazioni concernenti le attività produttive, di prestazione di servizi, e quelle relative alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento, ed i relativi elaborati tecnici e allegati, debbano presentarsi esclusivamente in modalità telematica, al Suap competente per territorio (art. 2, DPR 160/2010).
Di tale modalità tiene infatti conto anche l’art. 19, l. n. 241/1990, laddove nel disciplinare la scia, prescrive che la stessa, corredata delle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonché dai relativi elaborati tecnici, possa essere presentata a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, ad eccezione dei procedimenti per cui è previsto l’utilizzo esclusivo della modalità telematica. In tal caso la segnalazione può considerarsi presentata solo al momento della ricezione da parte dell'amministrazione.
Non è infatti estraneo all’ordinamento, tanto più nella recente ottica di semplificazione e snellimento delle procedure, un procedimento interamente informatizzato, articolato sin dalla fase di avvio in modalità esclusivamente telematica.
Pertanto,
una Scia presentata al SUAP in modalità cartacea, come nella specie, non può, per il solo fatto di essere stata lì depositata, ritenersi una segnalazione valida, mancando il presupposto per la sua stessa configurazione e ammissibilità, ovvero la modalità telematica.
Prova ne è che dalla sentenza più volte citata -che la parte assume essere stata elusa- non è derivato l’avvio del relativo iter ai sensi dell’art. 87-bis del Dlgs. n. 259, per il perfezionamento della scia, essendo stato invece statuito il mero obbligo del Comune, ottemperato nella specie, di trasmissione della domanda all’organismo competente.
Pertanto,
non può affatto ritenersi formato il silenzio-assenso, come invece asserito dalla ricorrente facendo erroneamente decorrere il termine per la sua formazione dalla notifica della sentenza all’Amministrazione, dovendosi invece considerare quale unico dies a quo il momento di recepimento dell’istanza da parte del Suap rappresentato dal rilascio dell’apposita ricevuta, come sancito espressamente dall’art. 5, DPR 160/2010.
Nella specie, il Suap si è tempestivamente espresso con un provvedimento di archiviazione in considerazione dell’inammissibilità dell’istanza, in quanto inoltrata dal Comune, e non dal soggetto richiedente, in modalità cartacea, e non telematica.
Né vale appellarsi al soccorso istruttorio, posto che tale istituto deve intervenire a fronte di irregolarità ed incompletezze sanabili, che presuppongono l’esistenza stessa dell’istanza, condizione che, per le argomentazioni suddette, non può però ritenersi verificata a fronte di una scia cartacea.
Seguendo la tesi della ricorrente infatti, si arriverebbe comunque alle medesime conclusioni del Collegio, a riprova dell’inammissibilità di una segnalazione cartacea: la parte sostiene invero che lo Sportello Unico avrebbe dovuto invitarla a presentare la scia in modalità telematica, anziché disporne l’archiviazione. Ma ripresentare la scia secondo tale modalità -si ribadisce, l’unica possibile- equivale a presentarla ex novo.
Il soccorso istruttorio invocato, è evidente, non potrebbe diversamente giovare.
Nulla ha vietato, né vieta, infatti alla società ricorrente di presentare una nuova scia nei termini previsti dalla normativa di riferimento.
Alla luce delle considerazioni su fatte, le doglianze formulate non meritano quindi accoglimento
(TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 16.10.2015 n. 1330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Punibile per omissione di atti d’ufficio il pubblico ufficiale che non risponde ad una richiesta di provvedere anche se la stessa non è direttamente a lui rivolta.
Integra gli estremi del reato di omissione di atti d’ufficio il comportamento del responsabile di un ufficio tecnico comunale che, ricevuta dal Sindaco una lettera di diffida e messa in mora direttamente rivolta all’organo politico –lettera inoltrata dal Sindaco medesimo al responsabile dell’U.T. comunale con l’esplicito “invito a darne immediato riscontro e relativa comunicazione al sottoscritto”-, non provveda nel termine di legge, atteso che detta diffida, pur essendo stata inviata a soggetto diverso da quello competente a provvedere, era giunta nella sfera di conoscenza del funzionario dell’ente locale, ponendolo in condizione di conoscere l’oggetto dell’incarico da adempiere, a lui affidato nella rispettiva qualità
1. Il ricorso è in parte fondato e va pertanto accolto nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.
2. Il primo, il terzo ed il quarto motivo di doglianza sono inammissibili per manifesta infondatezza, poiché le relative censure sono state prospettate sulla base del richiamo ad un isolato precedente del 1998, rimasto del tutto superato dalla successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
Al riguardo, invero, deve ribadirsi la pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, che ha ormai da tempo stabilito il principio secondo cui, in tema di delitto di omissione di atti d’ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, dep. 13/11/2013, Rv. 257706; Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
Rispetto a tale indirizzo dominante, l’unico precedente giurisprudenziale contrario, cui ha fatto riferimento il ricorrente, non può essere sotto alcun profilo condiviso in quanto, come più volte evidenziato in questa Sede, sovrappone la questione del rimedio apprestato dall’ordinamento contro l’inerzia della pubblica amministrazione –consentendo con la finzione del silenzio-rifiuto che il cittadino possa procedere ad impugnazione– con i diversi aspetti problematici inerenti la responsabilità penale del pubblico funzionario. Senza dire che, con l’esperibilità dei rimedi giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto, non soddisfano neppure interamente le esigenze di tutela nei confronti della pubblica amministrazione (basti pensare al vizio di merito dell’atto amministrativo).
La fattispecie di cui all’articolo 328 c.p., comma 2, incrimina non tanto l’omissione dell’atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall’istanza di chi vi abbia interesse. L’omissione dell’atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell’agente, poiché questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l’atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo: viene punita, in tal modo, non già la mancata adozione dell’atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della pubblica amministrazione, bensì l’inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l’attività amministrativa. In tal senso, la stessa formulazione della norma, che utilizza la congiunzione “e”, delinea una equiparazione ex lege dell’omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell’atto richiesto (v., in motivazione, Sez. 6, 22.06.2011, n. 43647).
Ne discende, conclusivamente, che la richiesta scritta di cui all’articolo 328 c.p., comma 2, assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono, con il logico corollario che il reato si “consuma” quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato (Sez. 6, 15.01.2014–20.01.2014, n. 2331).
Con riferimento ai su indicati motivi di doglianza, pertanto, la decisione impugnata ha fatto buon governo delle regole stabilite da questa Suprema Corte, ritenendo la condotta in contestazione idonea ad integrare gli estremi del reato omissivo sul pacifico rilievo, in punto di fatto, che la lettera di diffida e messa in mora del 21.04.2008, nonostante fosse direttamente rivolta al Sindaco, era stata da questi inoltrata, il successivo 30.04.2008, al responsabile del Servizio urbanistico tecnico, con l’esplicito “invito a darne immediato riscontro e relativa comunicazione al sottoscritto”, così ponendolo in condizione di conoscere l’oggetto dell’incarico da adempiere, a lui affidato nella rispettiva qualità.
3. Fondato, di contro, deve ritenersi il secondo motivo di doglianza, là dove i Giudici di merito non hanno adeguatamente affrontato e risolto, in punto di fatto, un aspetto decisivo ai fini della configurazione della responsabilità penale, atteso che già in sede di gravame (v. pag. 5 della memoria difensiva in data 22.10.2014) era stato posto in dubbio il connesso profilo inerente l’accertamento della effettiva riconducibilità del comportamento omissivo alla persona dell’imputato, con riferimento alla necessaria verifica della sua formale condizione soggettiva di responsabile del servizio tecnico comunale al momento della ricezione della diffida da parte del Sindaco, con le relative implicazioni in tema di competenza a provvedere sull’oggetto della richiesta inoltrata al dirigente di quell’Ufficio.
Su tali punti, specificamente contestati in sede di gravame, non emerge dalla motivazione della decisione impugnata una precisa ed argomentata risposta a confutazione delle censure mosse dalla difesa (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 06.10.2015 n. 42610).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Danno erariale da "lite temeraria": sul fatto di costituirsi in giudizio "a tutti i costi", la cui deliberazione giuntale è stata adottata immotivatamente e sarebbe palesemente priva di ragionevolezza e di elementi giustificativi a supporto.
Parte della giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere che la deliberazione di agire o resistere in giudizio debba considerarsi fonte di responsabilità amministrativa se ed in quanto la lite possa considerarsi temeraria, nel senso cioè che gli amministratori, nel deliberare, fossero consapevoli o avrebbero dovuto essere consapevoli, con l’uso della diligenza minima, della fondatezza della domanda proposta dalla controparte o della infondatezza delle ragioni dell’appello, sì da qualificare la resistenza o l’appello come connotati da malafede o colpa grave.
Secondo la citata giurisprudenza, laddove la resistenza in giudizio o la proposizione dell’appello non siano temerarie o dilatorie, ma si mantengano al di sotto di una ragionevole soglia di rischio implicita in ogni difesa legale, la relativa delibera esprimerebbe una scelta discrezionale di merito, insindacabile da questo giudice.
Conformemente alla più recente giurisprudenza di questa Corte, con riferimento agli atti discrezionali delle Amministrazioni, il Collegio osserva che, come le Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare, la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente.
Infatti,
in base all’art. 1, comma 1, L. n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori, ossia la scelta comparativa tra più soluzioni equivalenti sul piano del merito, costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti; in tale prospettiva, le aree della discrezionalità amministrativa “devono essere espressamente attribuite dalla legge”, escludendo dal sindacato giurisdizionale sulle scelte discrezionali “soltanto quelle in relazione alle quali la legge attribuisce all’amministrazione una scelta elettiva tra diversi comportamenti, negli stretti limiti di tale attribuzione”.
In tale contesto,
secondo le SS.UU. della Cassazione, occorre tenere presente un “aspetto fondamentale, che è quello di individuare le norme che attribuiscono spazi di discrezionalità. Spesso, infatti, vengono considerate come discrezionali valutazioni che non si ricollegano all’attribuzione, da parte del legislatore, di una scelta elettiva fra più comportamenti, attribuzione che, come si è detto, riconduce l’agire discrezionale al principio di legalità”.
Sempre l’art. 1, comma 1, della L. n. 241 del 1990, stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità) dell'azione amministrativa.
Pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
A tale stregua, l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore.
Più in generale è stato altresì precisato che
il comportamento contra legem del pubblico amministratore non è mai al riparo dalla valutazione giurisdizionale non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile.
A questa ultima giurisprudenza ritiene di aderire il Collegio.
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La condotta della Giunta che ha deciso di proporre appello è, senza dubbio, sindacabile da questa Corte e va valutata alla stregua degli ordinari parametri di verifica degli atti discrezionali.
Non occorre, cioè, che la lite, proseguita con la delibera di Giunta, oltrepassi la soglia della temerarietà o sia dilatoria affinché si radichi la competenza della Corte a valutarla e si sostanzi la gravità della colpa nella condotta, ma la valutazione della condotta va effettuata ex ante, secondo i consueti parametri utilizzati per gli atti discrezionali.

In particolare, quindi, non è sufficiente a configurare la colpa grave dei componenti della Giunta che hanno espresso il voto favorevole alla proposizione dell’appello la circostanza che detto appello sia stato respinto e sia stato accolto l’appello incidentale, con conseguente ulteriore danno per il Comune.
Ma va verificato che, ex ante, la decisione di proporlo si configurasse come sorretta da ragionevole motivazione.
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3.2 La posizione del Sindaco e della Giunta
Secondo la ricostruzione della Procura, un contributo causale alla produzione dell’esborso di € 54.240,53, relativo alla condanna in sede di appello deve essere attribuito ai componenti della Giunta -il Sindaco Za. e gli Assessori Go., Fu., Sc., Se.Ro., Si., Te.-, che hanno votato la delibera n. 175 del 05.08.2010, con la quale si autorizzava la proposizione dell’appello avverso la sentenza di primo grado che, tra l’altro, condannava il Comune al risarcimento dei danni derivati alla Pa. a causa del demansionamento.
Secondo l’assunto dell’Organo requirente, il Sindaco ed i componenti della Giunta sarebbero corresponsabili, insieme ad Os. e alla Dirigente del Servizio Affari Legali e Contratti, Eu.Ca., del danno costituito dall’esborso della predetta somma, nella misura di € 3.390,033 ciascuno, poiché la citata delibera sarebbe stata assunta immotivatamente e sarebbe palesemente priva di ragionevolezza e di elementi giustificativi a supporto, risultando palese il torto dell’Amministrazione nella gestione del rapporto di lavoro con la dipendente.
Occorre, innanzitutto, precisare che la decisione della Giunta di proporre appello ha natura gestoria.
Parte della giurisprudenza (Sez. Campania, sent. n. 153 dell’11.02.2010) è orientata nel senso di ritenere che la deliberazione di agire o resistere in giudizio debba considerarsi fonte di responsabilità amministrativa se ed in quanto la lite possa considerarsi temeraria, nel senso cioè che gli amministratori, nel deliberare, fossero consapevoli o avrebbero dovuto essere consapevoli, con l’uso della diligenza minima, della fondatezza della domanda proposta dalla controparte o della infondatezza delle ragioni dell’appello, sì da qualificare la resistenza o l’appello come connotati da malafede o colpa grave.
Secondo la citata giurisprudenza, laddove la resistenza in giudizio o la proposizione dell’appello non siano temerarie o dilatorie, ma si mantengano al di sotto di una ragionevole soglia di rischio implicita in ogni difesa legale, la relativa delibera esprimerebbe una scelta discrezionale di merito, insindacabile da questo giudice (Corte dei Conti, Sez. II d’Appello, sent. n. 36 del 18.01.2001).
Conformemente alla più recente giurisprudenza di questa Corte (Sez. II d’Appello, sent. n. 296 dell’08.06.2015), con riferimento agli atti discrezionali delle Amministrazioni, il Collegio osserva che, come le Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare (Cass. S.U. 09.07.2008 n. 18757; Cass. S.U. 28.03.2006 n. 7024; Cass. S.U. 29.09.2003 n. 14488), la Corte dei Conti, nella sua qualità di giudice contabile, può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente.
Infatti, in base all’art. 1, comma 1, L. n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori, ossia la scelta comparativa tra più soluzioni equivalenti sul piano del merito (Cass. SS.UU. sent. n. 21291 del 2005), costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti; in tale prospettiva, le aree della discrezionalità amministrativa “devono essere espressamente attribuite dalla legge”, escludendo dal sindacato giurisdizionale sulle scelte discrezionali “soltanto quelle in relazione alle quali la legge attribuisce all’amministrazione una scelta elettiva tra diversi comportamenti, negli stretti limiti di tale attribuzione (SS.UU., sent. n. 7024 del 2006).
In tale contesto, secondo le SS.UU. della Cassazione, occorre tenere presente un “aspetto fondamentale, che è quello di individuare le norme che attribuiscono spazi di discrezionalità. Spesso, infatti, vengono considerate come discrezionali valutazioni che non si ricollegano all’attribuzione, da parte del legislatore, di una scelta elettiva fra più comportamenti, attribuzione che, come si è detto, riconduce l’agire discrezionale al principio di legalità (v. SS.UU., sent. n. 7024 del 2006).
Sempre l’art. 1, comma 1, della L. n. 241 del 1990, stabilisce che l'esercizio dell'attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del più generale principio sancito dall'art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano della legittimità (non della mera opportunità) dell'azione amministrativa.
Pertanto, la verifica della legittimità dell'attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti.
A tale stregua, l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni possibilità di controllo della conformità alla legge dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore.
Più in generale è stato altresì precisato che il comportamento contra legem del pubblico amministratore non è mai al riparo dalla valutazione giurisdizionale non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile (cfr., ad esempio, Cass. S.U. ordin. 27.02.2008 n. 5083; Cass. S.U. 28.03.2006 n. 7024).
A questa ultima giurisprudenza ritiene di aderire il Collegio.
La condotta della Giunta che ha deciso di proporre appello è, quindi, senza dubbio, sindacabile da questa Corte e va valutata alla stregua degli ordinari parametri di verifica degli atti discrezionali.
Non occorre, cioè, che la lite, proseguita con la delibera di Giunta, oltrepassi la soglia della temerarietà o sia dilatoria affinché si radichi la competenza della Corte a valutarla e si sostanzi la gravità della colpa nella condotta, ma la valutazione della condotta va effettuata ex ante, secondo i consueti parametri utilizzati per gli atti discrezionali.

In particolare, quindi, non è sufficiente a configurare la colpa grave dei componenti della Giunta che hanno espresso il voto favorevole alla proposizione dell’appello la circostanza che detto appello sia stato respinto e sia stato accolto l’appello incidentale, con conseguente ulteriore danno per il Comune.
Ma va verificato che, ex ante, la decisione di proporlo si configurasse come sorretta da ragionevole motivazione.
Ebbene, ad escludere la gravità della colpa nella condotta di Sindaco e Assessori rileva che la delibera sia stata assunta a fronte di conforme parere di regolarità tecnica, reso dalla Dirigente del Servizio Affari Legali ai sensi dell’art. 49 del D.Lgs. n. 267 del 2000, le cui motivazioni sono poi state esplicitate nell’atto di appello e non paiono irragionevoli.
Se è vero, infatti, che il demansionamento risultava evidente ed innegabile dai fatti per come venuti in evidenza nel primo grado del giudizio, è altrettanto vero che, ad una valutazione ex ante, poteva apparire non irragionevole la proposizione dell’appello almeno per contestare la decorrenza del demansionamento e la quantificazione del danno.
Vanno, quindi, assolti il Sindaco Za. e gli Assessori Go., Fu., Sc., Se.Ro., Si., Te. dagli addebiti contestati
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto, sentenza 23.09.2015 n. 139).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAImpianti termici, la nuova guida su esercizio, controllo e manutenzione.
Impianti termici: cosa sono, chi è il responsabile, come e quando eseguire i controlli di efficienza energetica. Tutto quello che c’e da sapere nella guida Enea ... (03.12.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATACalcolo trasmittanza e caratteristiche termiche dei materiali isolanti, la nuova guida di Biblus-net.
Calcolo trasmittanza delle strutture e valutazione delle caratteristiche termiche dei materiali. Tutto quello che occorre sapere nella nuova guida di Biblus-net con aspetti teorici ed esempi pratici ... (26.11.2015 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROSistemi di protezione degli scavi a cielo aperto, la guida Inail.
Guida Inail sui sistemi di protezione degli scavi a cielo aperto: cosa sono, quali sono le tipologie e come sceglierli ... (26.11.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATAContabilizzazione del calore e termoregolazione: la nuova guida pratica di BibLus-net.
Contabilizzazione del calore e termoregolazione: ecco la guida pratica con approfondimenti teorici ed esempio applicativo nello Speciale di BibLus-net ... (12.11.2015 - link a www.acca.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Interpretazione e applicazione dell'articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dall'articolo 17, comma 3, della legge 07.08.2015, n. 124. Integrazione della circolare del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione n. 6 del 2014 (circolare 10.11.2015 n. 4/2015).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Festività infrasettimanali - Il diritto al riposo per l'ARAN si trasforma in un obbligo di lavorare se il lavoratore è turnista (CGIL-FP di Bergamo, nota 01.12.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni orizzontali - Possibili se si rispettano alcune regole (CGIL-FP di Bergamo, nota 17.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego - Trattamento economico - Oltre al danno la beffa (CGIL-FP di Bergamo, nota 05.11.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Terre e rocce da scavo: consultazione pubblica sul nuovo regolamento (ANCE di Bergamo, circolare 27.11.2015 n. 224).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: competenze regionali e sindacali in merito al divieto autunno-invernale di utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento (Regione Lombardia, nota 26.11.2015 n. 359007 di prot.).

INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: Considerazioni sulla normativa vigente in tema di onorari, indennità e spese dei periti e dei CTU in ambito penale e civile procedura e richiami giurisprudenziali, con nota di accompagnamento - protocolli di intesa con i Presidenti dei Tribunali (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 20.11.2015 n. 630).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Diritti di istruttoria in relazione ai procedimenti amministrativi di competenza del SUAP (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 17.11.2015 n. 243917 di prot.)

SICUREZZA LAVORO: OGGETTO: linea guida per lo svolgimento dell'incarico di coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 10.11.2015 n. 626).

APPALTI: Oggetto: Indicazione del nominativo del subappaltatore in fase di gara – Oneri della sicurezza aziendali e soccorso istruttorio. Adunanza Plenaria n. 9/2015 (ANCE di Bergamo, circolare 06.11.2015 n. 214).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 09.12.2015, "Definizione dei turni di servizio dei giorni festivi e dei turni di ferie degli impianti di distribuzione di carburanti da osservare nell’anno 2016 - Ex d.g.r. X/4071 del 25.09.2015" (decreto D.U.O. 23.11.2015 n. 10080).

PATRIMONIO: G.U. 03.12.2015 n. 282 "Definizione dei termini e delle modalità di attuazione degli interventi di adeguamento strutturale e antisismico, in attuazione dell’art. 1, comma 160, della legge 13.07.2015, n. 107" (D.P.C.M. 12.10.2015).

APPALTI: G.U.U.E. 25.11.2015 n. L 307:
- REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2015/2170 DELLA COMMISSIONE del 24.11.2015 che modifica la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti:
Articolo 1
La direttiva 2014/24/UE è così modificata:
   1) il testo dell'articolo 4 è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito da «5.225.000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «134.000 EUR» è sostituito da «135.000 EUR»;
c) alla lettera c), l'importo «207.000 EUR» è sostituito da «209.000 EUR»;
   2) l'articolo 13, primo comma, è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito da «5.225.000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «207.000 EUR» è sostituito da «209.000 EUR».

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- REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2015/2171 DELLA COMMISSIONE del 24.11.2015 che modifica la direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti:
Articolo 1
L'articolo 15 della direttiva 2014/25/UE è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «414.000 EUR» è sostituito da «418.000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito da «5.225.000 EUR».

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- REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2015/2172 DELLA COMMISSIONE del 24.11.2015 che modifica la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti:
Articolo 1
 All'articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE, l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito da «5.225.000 EUR».

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N.B.: i regolamenti entrano in vigore il 01.01.2016.

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 25.11.2015 n. 275 "Misure urgenti per interventi nel territorio" (D.L. 25.11.2015 n. 185).
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Di particolare interesse si legga:
Art. 15. - Misure urgenti per favorire la realizzazione di impianti sportivi nelle periferie urbane

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2015, "Definizione delle modalità per l’identificazione delle priorità temporali degli interventi di bonifica acustica del territorio ai sensi dell’articolo 12 della legge regionale 10.08.2001, n. 13" (deliberazione G.R. 20.11.2015 n. 4363).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2015, "Differimento al primo gennaio 2017 delle disposizioni per l’efficienza energetica degli edifici, approvate con d.g.r. n. 3868 del 17.07.2015, relative ai requisiti prestazionali dei serramenti, in caso di riqualificazione energetica" (deliberazione G.R. 20.11.2015 n. 4362).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 46 del 12.11.2015, "Legge di semplificazione 2015 - Ambiti economico, sociale e territoriale" (L.R. 10.11.2015 n. 38).
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 2 - (Modifiche alla l.r. 31/2008 e alla l.r. 24/2006)
Art. 7 - (Semplificazione delle procedure di intesa ai sensi del d.p.r. 383/1994 per opere pubbliche di interesse statale previste dagli strumenti urbanistici comunali)
Art. 8 - (Semplificazione delle procedure di intesa ai sensi del d.p.r. 383/1994 per opere pubbliche di interesse statale soggette a VIA o a verifica di assoggettabilità a VIA di competenza della Regione)
Art. 10 - (Modifiche alla l.r. 31/2014)
Art. 11 - (Abrogazione della l.r. 26/1995)
Art. 12 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
Art. 13 - (Disposizioni per l’utilizzo e la reimmissione in falda delle acque sotterranee utilizzate per scambio termico in impianti a pompa di calore)
Art. 14 - (Modifiche all’art. 26 della l.r. 16/1999)
Art. 15 - (Modifiche alla l.r. 14/1998)
Art. 16 - (Modifiche alla l.r. 86/1983 e alla l.r. 16/2007)

APPALTI: G.U.U.E. 12.11.2015 n. L 296 "REGOLAMENTO DI ESECUZIONE (UE) 2015/1986 DELLA COMMISSIONE dell'11.11.2015 che stabilisce modelli di formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore degli appalti pubblici e che abroga il regolamento di esecuzione (UE) n. 842/2011".

VARI: G.U. 11.11.2015 n. 263 "Regolamento in materia di fascicolo sanitario elettronico" (D.P.C.M. 29.09.2015 n. 178).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Cerioni, Il cittadino-utente delle informazioni pubbliche. Linee di tendenza dal D.lgs. n. 33/2013 sino alla “Riforma Madia” (25.11.2015 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il cittadino e l’utente tra il “purismo teorico” e la “prassi opacizzante”. - 2. Il cittadino come titolare del diritto al rispetto dei principi democratico e di trasparenza. - 3. L’utente diviene il soggetto che esercita i diritti di cui è titolare il cittadino. - 4. Il primo effetto dell’osmosi: la responsabilità politica diffusa ed i feed-back per gli utenti. - 5. Lo strumento - grimaldello dell’accesso civico per rendere effettivo un controllo diffuso e costante dei cittadini-utenti su politica e P.A. - 6. Il Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti elevato a parte istituzionale. - 7. Alcune riflessioni (critiche) conclusive sui paradossi della democrazia degli utenti.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: S. Moro, I vincoli urbanistici per la tutela dei c.d. interessi differenziati e dell’equilibrio ecologico: spunti di riflessione propedeutici ad uno studio sulla relazione fra il potere di governo degli interessi collegati all’uso del territorio e il diritto di proprietà (16.11.2015 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Oggetto della ricerca: i vincoli di cui all’art. 7, comma 2, nr. 5, l. n. 1150/1942 (d’ora in avanti Vincoli). 2. Il presupposto della ricerca: i Vincoli non sono meramente ricognitiva di quelli previsti dalla normativa di settore, ma hanno un’autonoma efficacia costitutiva. 3. I Vincoli si articolano in due specie funzionali a tutelare rispettivamente: a) l’equilibrio ecologico; b) i c.d. interessi differenziati. La figura esemplificativa dei vincoli urbanistici con finalità paesaggistiche. 4.1. La natura dei vincoli funzionali a tutelare il c.d. equilibrio ecologico. 4.2. La natura dei vincoli urbanistici preordinati alla tutela dei c.d. interessi differenziati nel modello pianificatorio previsto dalla l. n. 1150/1942. 4.3. La natura dei vincoli urbanistici preordinati alla tutela dei c.d. interessi differenziati nel modello pianificatorio previsto dalle leggi regionali c.d. di terza generazione. 5. Conclusione: spunti di riflessione propedeutici ad uno studio sulla relazione fra il potere di governo degli interessi collegati all’uso del territorio e il diritto di proprietà.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Tapetto, Considerazioni sulla nuova definizione di produttore di rifiuti e sulle conseguenze operative (03.11.2015 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Lipari, La SCIA e l’autotutela nella legge n. 124/2015: primi dubbi interpretativi (21.10.2015 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La legge n. 124 e i suoi obiettivi. Deleghe e modifiche immediate della legge n. 241/1990. - 2. Il favore per l’espansione della SCIA e della sua configurazione totalmente negoziale. - 3. La “nuova” autotutela dell’art. 6: una nozione ampia? - 4. I nuovi commi 3 e 4 dell’art. 19: maggiore chiarezza sui poteri inibitori e correttivi dell’amministrazione? - 5. Le differenze principali tra la nuova e la vecchia normativa dei commi 3 e 4. - 6. La suddivisione del comma 3 in due periodi: la distinzione tra i poteri inibitori (totali) e i poteri conformativi (parziali). La disciplina dei termini. - 7. L’autotutela e la disciplina dell’art. 21-nonies: “Condizioni” e termini dell’intervento successivo dell’amministrazione. - 8. I poteri successivi incidenti sulla SCIA e la decorrenza del termine di diciotto mesi. - 9. Quale spazio per il potere di sospensione dell’attività oggetto di SCIA? - 10. L’ambito oggettivo di esercizio della autotutela e gli interessi sensibili. - 11. Scompare il riferimento al potere di “revoca” della SCIA. Il mutamento di fatto delle “condizioni” per il conseguimento della SCIA. - 12. Doverosità o discrezionalità dei provvedimenti inibitori successivi? - 13. Le conseguenze delle dichiarazioni mendaci rese in sede di presentazione della SCIA: un quadro normativo confuso. - 14. Il mancato coordinamento con il nuovo art. 21-nonies e con l’art. 21. - 15. Il termine per l’esercizio dei poteri di autotutela nel nuovo art. 21-nonies. - 16. Il termine per l’esercizio dell’autotutela e la protezione dei terzi. - 17. Le dichiarazioni false e l’accertamento con sentenza passata in giudicato. - 18. La disciplina derogatoria del comma 2-bis è applicabile alla SCIA? - 19. La fattispecie delineata dal comma 2-bis. - 20. La “salvezza” delle sanzioni previste dal TU 445/2000. - 21. Le possibili conseguenze della norma di salvezza del TU n. 445/2000 la necessità di una modifica normativa che renda chiaro e coerente il quadro normativo. - 22. La ricostruzione del sistema a legislazione vigente.

EDILIZIA PRIVATA: F. de Leonardis, Il silenzio-assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull’art. 17-bis introdotto dalla cd. riforma Madia (21.10.2015 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La previsione del silenzio assenso in materia ambientale nei procedimenti tra pubbliche amministrazioni. – 2. La prima criticità: incoerenza con l’art. 20, quarto comma, l. 241/1990. – 3. La seconda criticità: il contrasto con le sentenze della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale. – 4. La terza criticità: la mancata valutazione delle organizzazioni amministrative preposte alla tutela. – 5. Spunti conclusivi.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 07.08.2015, n. 124) (21.10.2015 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. La limitazione dell’autotutela decisoria come potere generale. 3. La teoresi dell’autotutela decisoria. 4. Osservazioni conclusive.

PATRIMONIO - VARI: L’imposizione indiretta sui vincoli di destinazione: nuovi orientamenti e prospettive interpretative (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 01-02.10.2015 n. 132-2015/T).
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Sommario: 1. La tassazione dei vincoli di destinazione secondo la Corte di Cassazione: i casi esaminati; 2. Segue: La “nuova” imposta sui vincoli di destinazione secondo la Corte; 3. Conseguenze applicative della tesi interpretativa della Corte di Cassazione per la generalità dei vincoli di destinazione: la tassazione dei vincoli non traslativi e di quelli non liberali; 4. Le critiche avanzate alla interpretazione della Corte di Cassazione e le prospettive future; 5. Ulteriori effetti sul piano applicativo, in particolare con riferimento al momento di imposizione per i trust.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. G. Annunziata e F. Panzuto, L’istituto della presupposizione e delle sopravvenienze (31.03.2008 - link a www.filodiritto.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Vileno, La presupposizione nella dottrina e nella giurisprudenza, con particolare riferimento ad una recente pronuncia della Cassazione - nota a Corte di Cassazione - Sez. III civile, sentenza 25.05.2007 n. 12235 (09.07.2007 - link a www.filodiritto.com).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Sezione autonomie ha affermato il principio della priorità della ricollocazione del personale soprannumerario degli enti di vasta area.
In altri termini,
al fine di assicurare la conservazione delle posizioni lavorative dei dipendenti delle province da ricollocare, secondo il canone interpretativo indicato dalla Sezione autonomie “deve ritenersi che, per gli anni 2015 e 2016, agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria”.
Tale soluzione ermeneutica, peraltro, può ritenersi, nella sostanza, in linea con gli indirizzi espressi con la circolare del Ministero della funzione pubblica n. 1/2015, richiamata nella richiesta di parere.

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Con nota n. 1979 del 24.02.2015, il Sindaco del Comune di Mezzojuso (PA) ha chiesto un parere “circa l’ambito di applicazione del divieto di nuove assunzioni previsto dalla recente legge di stabilità (legge 23.12.2014, n. 190, art. 1, comma 424)”.
Al riguardo, ritenendo che la disposizione menzionata e le altre contenute nello stesso testo normativo non abbiano efficacia ostativa rispetto alla immissione nella dotazione organica dell’Ente di personale in mobilità volontaria, ha chiesto se ”l’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014, debba essere interpretato nel senso secondo cui sono consentiti ancora, alla vigente data, i processi di mobilità volontaria fra Enti locali, ai sensi e per gli effetti stabiliti dal decreto legislativo n. 165/2001, subordinatamente all’infruttuoso espletamento delle procedure di mobilità obbligatoria previste decreto legislativo n. 165/2001”.
...
La questione concernente l’interpretazione dell’art. 1, comma 424, della legge 23.12.2014, n.190, (legge di stabilità 2015), che testualmente recita: “Le regioni e gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite dalla normativa vigente, all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della presente legge e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e di bilancio dell’ente, le spese per il personale ricollocato secondo il presente comma, non si calcolano al fine del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge 27.12.2006, n. 296.
Il numero delle unità di personale ricollocato o ricollocabile è comunicato al Ministero per gli affari regionali e le autonomie, al Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministero dell’economia e delle finanze nell’ambito delle procedure di cui all’accordo previsto dall’art. 1, comma 91, della legge 07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono nulle
”.
La disposizione ha introdotto una disciplina particolare per le assunzioni a tempo indeterminato, derogatoria, per gli anni 2015 e 2016, di quella generale.
Il quesito formulato dal Comune di Mezzojuso verte sull’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 2014, e in particolare, sulla esperibilità, o meno, dell’ordinaria mobilità volontaria, prevista dall’art. 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001, in presenza del nuovo vincolo.
Al riguardo, nel formulare la richiesta di parere, il Comune di Mezzojuso ritiene che il vincolo introdotto dal menzionato comma 424 non abbia, comunque, efficacia ostativa rispetto all’immissione nella dotazione organica dell’Ente di personale in mobilità volontaria, considerato che, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza contabile, questa procedura non costituisce ipotesi di nuova assunzione, bensì di semplice cessione di contratto, neutra, come tale, ai fini del calcolo della spesa complessiva del pubblico impiego.
In merito alla corretta applicazione del comma 424 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014, si è espressa la Sezione delle autonomie con la deliberazione 16.06.2015 n. 19 e deliberazione 28.07.2015 n. 26, rese nelle adunanze rispettivamente del 04.06.2015 e del 20.07.2015.
La Sezione autonomie, risolvendo alcune questioni di massima sollevate in merito all’interpretazione del menzionato comma, ha affermato, tra l’altro, il principio -a cui questo Collegio è tenuto ad adeguarsi ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174-, della priorità della ricollocazione del personale soprannumerario degli enti di vasta area.
In altri termini,
al fine di assicurare la conservazione delle posizioni lavorative dei dipendenti delle province da ricollocare, secondo il canone interpretativo indicato dalla Sezione autonomie “deve ritenersi che, per gli anni 2015 e 2016, agli enti locali è consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del personale soprannumerario destinatario dei processi di mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di mobilità volontaria (delib. n. 16/SEZAUT/2015/QMIG).
Tale soluzione ermeneutica, peraltro, può ritenersi, nella sostanza, in linea con gli indirizzi espressi con la circolare del Ministero della funzione pubblica n. 1/2015, richiamata nella richiesta di parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 24.11.2015 n. 323).

INCENTIVO PROGETTAZIONELe disposizioni di legge che escludono l'applicabilità degli incentivi per la progettazione al personale con qualifica dirigenziale non possono essere derogate in via interpretativa e, segnatamente, non può configurarsi un difforme trattamento per le ipotesi in cui l'attività del dirigente è prestata a favore di enti esterni.
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Con la nota in epigrafe, l’Assessore regionale delle Infrastrutture e della Mobilità premette:
- che con circolare del 17.12.2014 ha fornito indicazioni sulle modalità di corresponsione degli incentivi per la progettazione in relazione alle disposizioni recate dall’art. 93, commi da 7-bis a 7-quinquies, del D.lgs. 12.04.2006, n. 123 (Codice dei contratti pubblici), come introdotti dall’art. 13 della legge 11.08.2014 n. 114;
- che con nota del 04.05.2015 (n. 30337/DRT) ha chiesto parere all’Ufficio Legislativo e Legale della Regione in ordine alla possibilità di interpretare la norma di cui all’ultimo periodo del comma 7-ter dell’art. 93 prima riferito, nel senso che l’esclusione si applichi soltanto ai dirigenti che rivestono incarichi apicali di strutture di massima dimensione o equiparati;
- che il Dipartimento Regionale Tecnico dell’Assessorato in epigrafe è chiamato ai sensi dell’art. 90, comma 1, lett. c) del Codice dei contratti a svolgere prestazioni tecniche di progettazione, direzione lavori e collaudo per conto di altre stazioni appaltanti, prevalentemente Enti locali o comunque enti o amministrazioni diverse da quella regionale, anche a seguito di stipula di apposite convenzioni;
- che reputa che detta fattispecie, a differenza dell’attività tecnica svolta per conto dell’amministrazione regionale, debba sottrarsi all’applicazione della disposizione di cui al comma 7-ter, ultimo periodo, dell’art. 93 del Codice dei contratti per i seguenti motivi:
- la normativa si riferisce al solo personale interno alla stazione appaltante;
- l’attività svolta per conto di amministrazione diversa da quella di appartenenza non sembra configurarsi come compito istituzionale d’ufficio;
- l’attività svolta gratuitamente dal dirigente potrebbe configurarsi come indebito arricchimento da parte delle amministrazioni avvalenti.
Ciò premesso chiede di conoscere se è possibile sottrarre dalla limitazione di cui all’ultimo periodo del comma 7-ter dell’art. 93 (che esclude la possibilità per il personale con qualifica dirigenziale di partecipare alla corresponsione/ripartizione degli incentivi per le attività tecnica) il personale con qualifica dirigenziale che svolga attività tecnica per conto di altre stazioni appaltanti.
...
2. Merito. Nel merito la risposta al quesito è nei termini che seguono.
2.1. Preliminarmente occorre richiamare il quadro normativo.
La disciplina della “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici” è recata dall’art. 90 del Codice dei contratti pubblici; il successivo art. 93 contiene al proprio interno le norme che regolamentano i livelli della progettazione (commi da 1 a 6, oltre ai commi 8 e 9), gli oneri per le attività tecniche (comma 7), nonché una disciplina ad hoc (commi da 7-bis a 7-quinquies) e di massima (quella di dettaglio è demandata ad apposito regolamento interno, cfr. comma 7-ter) riguardante i c.d. incentivi spettanti al responsabile del procedimento e ai dipendenti incaricati della varie attività di progettazione, redazione del piano di sicurezza, direzione lavori e collaudo nonché ai loro collaboratori.
2.1.2. La riferita disciplina si applica nella Regione siciliana in ragione del recepimento operato dalla legge regionale 12.07.2011, n. 12. Occorre, al contempo, rilevare che la materia dei c.d. compensi incentivanti è stata ritenuta dalla Corte costituzionale una materia di ordinamento civile (sentenze n. 341/2009 e n. 401/2007), come tale rimessa all’ordinamento statale (art. 117, secondo comma) quanto meno per la determinazione dei suoi presupposti applicativi.
Conseguentemente, occorre sin d’ora rilevare che la previsione di compensi incentivanti al di là delle ipotesi espressamente consentite dalla disciplina statale porrebbe non pochi problemi di coordinamento con i principi costituzionali (Corte dei conti, Sez. di controllo per la Regione Sardegna, parere 20.12.2013 n. 85 e parere 30.01.2015 n. 11); a fortiori ciò non sarebbe consentito per via regolamentare o amministrativa.
2.1.3. Passando al dettaglio della disciplina, l’art. 90 (Progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici) del D.lgs. n. 163/2006 (recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) dispone che “Le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
b) dagli uffici consortili di progettazione e di direzione dei lavori che i comuni, i rispettivi consorzi e unioni, le comunità montane, le aziende unità sanitarie locali, i consorzi, gli enti di industrializzazione e gli enti di bonifica possono costituire con le modalità di cui agli articoli 30, 31 e 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267;
c) dagli organismi di altre pubbliche amministrazioni di cui le singole stazioni appaltanti possono avvalersi per legge;
d) da liberi professionisti singoli od associati nelle forme di cui alla legge 23.11.1939, n. 1815, e successive modificazioni, ivi compresi, con riferimento agli interventi inerenti al restauro e alla manutenzione di beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici, i soggetti con qualifica di restauratore di beni culturali ai sensi della vigente normativa;
e) dalle società di professionisti;
f) dalle società di ingegneria;
f-bis) da prestatori di servizi di ingegneria ed architettura di cui alla categoria 12 dell'allegato II A stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi;
g) da raggruppamenti temporanei costituiti dai soggetti di cui alle lettere d), e), f), f-bis) e h) ai quali si applicano le disposizioni di cui all'articolo 37 in quanto compatibili;
h) da consorzi stabili di società di professionisti e di società di ingegneria, anche in forma mista, formati da non meno di tre consorziati che abbiano operato nel settore dei servizi di ingegneria e architettura, per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, e che abbiano deciso di operare in modo congiunto secondo le previsioni del comma 1 dell'articolo 36. […]
".
2.1.4. L’art. 13-bis, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114, ha introdotto all’interno dell’art. 93 del Codice dei contratti pubblici i commi da 7-bis a 7-quinquies. Per effetto di tale novella il tenore dell’articolo 93, comma 7 e ss., è ora il seguente: "7. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori, alla vigilanza e ai collaudi, nonché agli studi e alle ricerche connessi, gli oneri relativi alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e dei piani generali di sicurezza quando previsti ai sensi del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494 (ora d.lgs. n. 81 del 2008), gli oneri relativi alle prestazioni professionali e specialistiche atte a definire gli elementi necessari a fornire il progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, ivi compresi i rilievi e i costi riguardanti prove, sondaggi, analisi, collaudo di strutture e di impianti per gli edifici esistenti, fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti. 7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare.
7-ter. L’80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7- bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell’articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d’asta offerto. Ai fini dell’applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all’articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione è destinato all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all’ammodernamento e all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti di cui all’articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente articolo.".
Senza pretesa di esaustività in ordine alla riferita disciplina ed al previgente quadro normativo,
si deve, tuttavia, porre l’accento su alcune significative innovazioni, immediatamente percepibili dalla lettura della novella, per meglio comprenderne la portata e la ratio:
a) talune attività sono espressamente escluse dall’incentivazione;
b) si è disposta l’introduzione di criteri volti a ridurre la percentuale dell’incentivo nella ricorrenza di alcune circostanze (aumento dei tempi o dei costi di realizzazione dell’opera o del lavoro);
c) una percentuale del fondo pari al 20% è destinata alle finalità indicate dal comma 7-quater;
d) è stato rimodulato il limite massimo individuale della retribuzione incentivante percepibile;
e) è venuto meno ogni riferimento all’incentivazione delle attività di pianificazione;
f) è espressamente esclusa l’applicazione degli incentivi per la progettazione al personale con qualifica dirigenziale.

Tali profili di novità della disciplina statale, aventi certamente portata limitativa della misura del compenso erogabile ai dipendenti rispetto al passato, ed implicanti il riconoscimento di peculiari modalità ai fini della sua liquidazione, si innestano in un insieme di previsioni di carattere generale (percentuale del 2%, necessità di ripartire le risorse in considerazione della relativa ripartizione di responsabilità, novero dei soggetti titolati alla percezione degli incentivi, necessità di apposita regolamentazione interna dell’amministrazione) che la nuova normativa ha mantenuto ferme rispetto al passato.
2.2. Richiamato il quadro normativo in oggetto
appare evidente che l’esclusione dell’applicazione degli incentivi per la progettazione al personale con qualifica dirigenziale non possa essere derogabile né nei termini prospettati dall’amministrazione richiedente né in altra accezione.
E ciò, innanzitutto, per la necessità di attenersi al principio cardine di interpretazione letterale e teleologica delle norme contenuto nell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale del Codice civile.
D’altra parte, gli argomenti invocati dall’amministrazione richiedente per suffragare una difforme conclusione ed in premessa riferiti (disciplina destinata al solo personale interno, attività svolta a favore di amministrazione esterna da reputarsi non istituzionale, esigenza di evitare un’indebita locupletazione da parte di quest’ultima) non solo si scontrano con il chiaro tenore del testo legislativo ma risultano anche poco fondati.
Ed invero, ai sensi dell’art. 90, lett. c), del Codice dei contratti pubblici, espressamente richiamato dall’Assessorato richiedente per individuare la fattispecie sottoposta a quesito, la stazione appaltante per l’espletamento delle attività di progettazione può rivolgersi ad un “organismo di altra p.a.” (nel caso di specie il Dipartimento regionale che possiede le competenze necessarie) e non già direttamente al “dirigente” o “dipendente” dell’amministrazione esterna.
Diversamente opinando, in disparte le violazioni in cui incorrerebbe il dipendente pubblico ove non autorizzato, costui opererebbe direttamente come una sorta di libero professionista incaricato da un ente pubblico, costituendosi un rapporto di lavoro autonomo o di collaborazione ulteriore rispetto al rapporto di lavoro subordinato intercorrente con la propria amministrazione, ciò che è possibile solo nei casi espressamente previsti per legge e con le limitazioni, anche in relazione alla percezione di compensi, previsti da quella disciplina che eccezionalmente autorizza l’instaurazione di tali peculiari rapporti.
D’altra parte, l’amministrazione che ha richiesto il parere è ben consapevole che la fattispecie è disciplinata da apposite “convenzioni” tra due pubbliche amministrazioni (il Dipartimento e le amministrazioni esterne che se ne avvalgono, secondo quanto riferito dalla stessa) e non tra il dipendente e la stazione appaltante esterna.
2.2.1. Poste tali precisazioni, è opportuno rammentare, sia pure incidentalmente, che, con riferimento ai rapporti tra l’amministrazione che opera quale “stazione appaltante” (avvalente) e l’“organismo” pubblico che presta le proprie attività progettuali, occorre ispirarsi al più generale principio di collaborazione istituzionale: il modello collaborativo suggerito dal legislatore corrisponde, infatti, a un principio immanente nell’ordinamento ossia quello di favorire la collaborazione tra p.a.; gli organismi dotati di competenze tecniche particolari, quali possono essere i dipartimenti tecnici, sono istituzionalmente destinati ad espletare le attività progettuali e mettere a sistema tali peculiarità non solo a favore dell’amministrazione regionale ma anche di quelle che, prive di tali competenze specialistiche, ne facciano richiesta.
Al riguardo, si rammenta che l’impronta collaborativa dell’istituto esclude che l’amministrazione c.d. avvalsa possa chiedere oltre al ristoro delle spese sostenute anche un vero e proprio pagamento del corrispettivo per l’attività espletata a favore di altra pubblica amministrazione (cfr. determinazione ANAC n. 7/2010). Di talché non può assumere rilevanza neppure l’argomento sollevato dall’istante circa un’indebita locupletazione dell’amministrazione avvalente.
Più nello specifico, poi, l'istituto dell'avvalimento corrisponde ad un rapporto tra due o più amministrazioni in cui, in base ad una previsione legislativa o regolamentare (ad es., l'art. 90, D.Lgs. n. 163/2006; l'art. 19, comma 3, l. n. 109/1994; l'art. 5, comma 9, DPCM 06.05.2013), una amministrazione od un ente ha il potere (simile ad un diritto potestativo sostanziale) di utilizzare le strutture di una seconda amministrazione, sulla quale incombe il dovere specifico di fornirle, senza potersi rifiutare (Corte dei Conti, Sez. contr., 12.06.1996, n. 87).
La materia oggetto di avvalimento, quindi, rientra tra i compiti di istituto della seconda amministrazione, posto che il dovere specifico di fornire le proprie strutture, ai sensi dell'art. 90, D.Lgs. n. 163/2006, deve essere previsto dalla legge o da un regolamento e posto che il regolamento o la legge individuano le funzioni, i compiti, i doveri delle varie amministrazioni e dei vari enti pubblici, in ossequio al principio di legalità ex art. 97 Cost.
2.2.2. In definitiva, nei casi in questione il rapporto intercorre tra le due amministrazioni mentre il dipendente che in concreto effettua l’attività di progettazione all’interno dell’organismo di cui si avvale l’altra amministrazione appaltante resta, per l’appunto, un soggetto legato alla propria amministrazione di appartenenza secondo il contratto di lavoro. Ciò ne determina l’assoggettamento allo statuto giuridico che lo lega alla stessa e, più in generale, alla pubblica amministrazione.
Ebbene,
proprio tale statuto giuridico si ispira al principio generale di onnicomprensività della retribuzione (come meglio si dirà oltre) e, nel caso in cui si tratti di figura dirigenziale, come nell’ipotesi esaminata, esclude espressamente la corresponsione del corrispettivo incentivante di cui all’art. 93 del Codice dei contratti pubblici, ferma restando la più generale valutazione dell’operato del medesimo, in termini quantitativi e qualitativi, ai fini del conseguimento del trattamento accessorio spettante secondo la struttura retributiva vigente. Si badi che la disposizione non distingue tra dirigenti apicali e non apicali né prende in considerazione criteri discretivi che prescindano dalla mera “qualifica di dirigente”.
2.3. È pure evidente come la suddetta soluzione, in linea con la disciplina legislativa recata dall’ultimo periodo di cui al comma 7-ter, corrisponda bensì alla ratio della disposizione normativa ed ai principi propri dell’ordinamento dei dipendenti pubblici e, segnatamente, della dirigenza. Viene, infatti, direttamente in rilievo, come anticipato, il principio di onnnicomprensività (che, non a caso, era espressamente richiamato dal D.L. 24.06.2014, n. 90, all’art. 13, comma 1, nella formulazione anteriore alla legge di conversione, che poi abrogò la norma riscrivendo l’art. 93: «All'articolo 92 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, dopo il comma 6 è aggiunto il seguente: "6-bis. In ragione della onnicomprensività del relativo trattamento economico, al personale con qualifica dirigenziale non possono essere corrisposte somme in base alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6."»).
Il principio immanente di onnicomprensività del trattamento economico, come si può anche desumere dal decreto legislativo n. 165/2001 che detta le norme in materia di pubblico impiego: il suddetto testo legislativo, nel razionalizzare il sistema retributivo dei dipendenti pubblici, ha previsto che al trattamento economico principale si affianchi un trattamento accessorio correlato, per quello che concerne i dirigenti, alle funzioni attribuite ed alle connesse responsabilità (art. 24) e per ciò che riguarda il personale non dirigente, alla produttività individuale ed a quella collettiva (art. 45).
Per i dirigenti, inoltre, è puntualizzato che il trattamento economico remunera tutte le funzioni e compiti attribuiti in base a quanto previsto dal decreto legislativo n. 165/2001, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa (cfr. nei medesimi termini l’art. 13 della legge regionale 15.05.2000, n. 10).
Il successivo art. 54 del testo unico sul pubblico impiego, nel porre il divieto per le Amministrazioni di conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri d’ufficio, che non siano espressamente previsti e disciplinati dalla legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati, costituisce, argomentando a contrario, ulteriore espressione del divieto di corrispondere compensi per lo svolgimento di attività istituzionali, il cui esercizio trovi il suo presupposto necessario nella qualifica attribuita e nell’ufficio ricoperto dal soggetto o, comunque, nelle finalità istituzionali dell’Ente di appartenenza.
È poi altrettanto pacifico che i compiti ed i doveri di ufficio di un soggetto vanno valutati non con riferimento all’ufficio nel quale è momentaneamente incardinato, bensì alla qualifica da lui posseduta ed alle mansioni che l’ordinamento individua in capo a quest’ultima, in funzione dell’appartenenza e delle esigenze operative di una particolare P.A., esigenze che ben possono essere, di volta in volta, quelle di rendere la propria attività a favore dell’ente avvalente.
In tale contesto ordinamentale è noto come proprio la disposizione recata dagli articoli 17 e 18 della legge 11.02.1994 n. 109, che ha disciplinato la corresponsione dell’incentivo ai dipendenti pubblici in materia di progettazione di opere pubbliche, abbia introdotto un’eccezione, in senso proprio, alla regola della onnicomprensività della retribuzione, non suscettibile di alcuna interpretazione analogica.
Ed allora,
l’attuale disciplina, laddove espressamente esclude i dirigenti dalla corresponsione degli incentivi, non rappresenta tanto una deroga o un’eccezione bensì il riespandersi del richiamato principio generale di onnicomprensività. La stessa formulazione letterale è una chiara conferma della volontà legislativa di non rendere derogabile il principio di onnicomprensività del trattamento retributivo per il personale che possiede “qualifica dirigenziale” ed appare, anzi, proprio finalizzata ad evitare di estendere la deroga al personale dirigenziale, per il quale la portata del principio generale è affermata in termini precettivi assai rigorosi.
2.3. Ulteriore argomento a discapito della tesi sostenuta dall’amministrazione richiedente si ricava dalla disparità di trattamento che, accedendo a detta tesi, si verrebbe a creare tra due dirigenti del Dipartimento che si ipotizzi impegnati nella redazione di attività tecnica di progettazione, il primo a favore della Regione, il secondo a favore di una stazione appaltante esterna: ebbene, per il medesimo lavoro, il primo riceverebbe l’ordinaria retribuzione spettante al personale dirigenziale sulla base del principio di onnicomprensività mentre il secondo conseguirebbe anche un ulteriore incentivo.
2.4. In definitiva,
non solo non può ritenersi legittima in via interpretativa una diversa conclusione, come quella prospettata dall’ente, ma è evidente che neppure sarebbe possibile introdurre una deroga (contra legem) all’ultimo periodo dell’art. 7-ter attraverso la fonte amministrativa (regolamento ex art. 93, comma 7) o pattizia (convenzione) (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 24.11.2015 n. 319).

URBANISTICARilevano, ai fini del rispetto del Patto di stabilità, le somme derivanti dall’escussione di polizze fideiussorie stipulate in attuazione di convenzioni urbanistiche.
L’ente infatti, escutendo la fideiussione, subentra ai privati nel completamento delle opere di urbanizzazione “in proprio” e, così facendo, imprime una connotazione pubblicistica alle somme a tal fine utilizzate, che peraltro entrano nel bilancio dell’ente e conseguentemente restano assoggettate alla relativa disciplina, anche in termini di rispetto degli specifici obiettivi vigenti in riferimento al patto di stabilità
.
Si deve pertanto escludere, contrariamente a quanto sostenuto nella richiesta di parere,
che la realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte del Comune per inerzia del privato possa considerarsi un’attività compiuta in “conto terzi” che giustifichi la contabilizzazione delle spese nei relativi capitoli di bilancio.
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Con l’assumere direttamente la realizzazione delle opere sia pure inizialmente affidate all’iniziativa privata, il Comune, lungi dal divenire il mero esecutore di una determinazione altrui, mantiene la totale discrezionalità e l’autonomia decisionale che escludono le relative transazioni dal novero dei servizi conto terzi.
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La tassatività delle voci di entrata e di spesa escludibili dal saldo finanziario valido ai fini della verifica del rispetto del patto, porta a ritenere che debbano essere contabilizzate nei pertinenti titoli di bilancio anche le spese sostenute a seguito di interventi sostitutivi del comune richiesti con Ordinanza sindacale o dirigenziale, in materia di igiene, sicurezza o abusivismo edilizio, originariamente richiesti al privato.

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Con la nota sopra citata il Sindaco del comune di Masate (MI) dopo aver riferito che il mancato adempimento degli obblighi derivanti da una convenzione urbanista comporta per il comune la necessità di escutere la garanzia rilasciata dal privato e di sostituirsi allo stesso nella realizzazione delle opere di urbanizzazione richieste, formula i seguenti quesiti:
1. se, in generale, le spese sostenute dal Comune che agisca in sostituzione del privato per la realizzazione delle opere di urbanizzazione con l’impiego di somme derivanti dall’escussione della polizza fideiussoria possano essere contabilizzate tra le partite di giro in modo da non incidere sul rispetto del Patto di stabilità interno;
2. se, più in particolare, le stesse spese possano essere escluse da quelle rilevanti ai fini del Patto di stabilità nel caso in cui si tratti di interventi richiesti con Ordinanza sindacale o dirigenziale, in materia di igiene, sicurezza o abusivismo edilizio.
...
L’esame del merito dei quesiti proposti richiede di stabilire la corretta contabilizzazione, agli effetti del rispetto del Patto di stabilità interno, delle spese sostenute dall’ente mediante l’impiego di somme derivanti dall’escussione di una polizza fideiussoria, in attuazione di una convenzione urbanistica, a garanzia della corretta realizzazione di opere di urbanizzazione.
La questione è già stata affrontata da questa Sezione con il parere reso con il parere 30.03.2015 n. 143 che si richiama di seguito.
Si deve ribadire, in primo luogo, la natura cogente delle disposizioni costituenti il patto di stabilità interno. Gli articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183 (legge di stabilità per il 2012), come più volte modificati e integrati, da ultimo, per quanto di rilievo, dall’art. 1, comma 489, della legge n. 190 del 2014, disciplinano la materia, fra l’altro, per l’anno 2015 (per approfondimenti si rinvia alla Circolare MEF-RGS n. 6 del 18.02.2014, relativa al triennio 2014-2016).
Con riferimento alle voci di entrata e di spesa escludibili dal saldo finanziario valido ai fini della verifica del rispetto del patto, l’art. 31, commi 7 ss., della citata legge n. 183 del 2011, come successivamente modificato, ha confermato, nelle sue linee portanti, il previgente sistema di deroghe, con alcune variazioni. Importanza fondamentale assume in materia il comma 17, che abroga le disposizioni che individuano esclusioni di entrata o di spesa non previste espressamente dalla stessa legge di stabilità per il 2012.
Pertanto, per l’esercizio finanziario in corso, non sono consentite esclusioni di entrate o di spese diverse da quelle previste dalla legge.
Il predetto principio di tassatività è stato più volte oggetto di attenzione da parte di questa Corte, che ha sempre confermato la natura imperativa ed inderogabile delle relative disposizioni legislative (v. la deliberazione delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 6 del 25.01.2011; le deliberazioni di questa Sezione n. 1026/2010/PAR, n. 54/2012/PAR, n. 375/2014/PAR).
Quanto esposto è confermato, da ultimo, dalla citata Circolare MEF-RGS n. 6 del 2014, che, per il triennio 2014-2016, riporta una dettagliata esplicitazione delle ipotesi di entrate e spese escludibili in forza delle vigenti disposizioni di legge.
Al riguardo, si deve altresì rilevare che
i precedenti del giudice contabile hanno evidenziato, in applicazione dei predetti principi, la rilevanza, ai fini del rispetto del Patto di stabilità, delle somme derivanti dall’escussione di polizze fideiussorie stipulate in attuazione di convenzioni urbanistiche. L’ente infatti, escutendo la fideiussione, subentra ai privati nel completamento delle opere di urbanizzazione “in proprio” e, così facendo, imprime una connotazione pubblicistica alle somme a tal fine utilizzate, che peraltro entrano nel bilancio dell’ente e conseguentemente restano assoggettate alla relativa disciplina, anche in termini di rispetto degli specifici obiettivi vigenti in riferimento al patto di stabilità (v. Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 15.05.2013 n. 128; cfr. altresì questa Sezione, parere 19.11.2009 n. 1044).
Si deve pertanto escludere, contrariamente a quanto sostenuto nella richiesta di parere, che la realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte del Comune per inerzia del privato possa considerarsi un’attività compiuta in “conto terzi” che giustifichi la contabilizzazione delle spese nei relativi capitoli di bilancio.
L’art. 168 del TUEL nel testo introdotto dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 come modificato dal decreto legislativo 10.08.2014, n. 126 stabilisce che “le entrate e le spese relative ai servizi per conto di terzi e le partite di giro, che costituiscono al tempo stesso un debito ed un credito per l'ente, comprendono le transazioni poste in essere per conto di altri soggetti, in assenza di qualsiasi discrezionalità come individuate dal principio applicato della contabilità finanziaria di cui all'allegato n. 4/2 del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, e successive modificazioni”.
Il richiamato principio contabile, al punto 7, dopo avere ribadito che le transazioni per conto terzi, non comportando discrezionalità ed autonomia decisionale, non hanno natura autorizzatoria, precisa che la predetta autonomia decisionale sussiste quando l’ente concorre alla definizione di almeno uno dei seguenti elementi della transazione: ammontare, tempi e destinatari della spesa.
Con l’assumere direttamente la realizzazione delle opere sia pure inizialmente affidate all’iniziativa privata, il Comune, lungi dal divenire il mero esecutore di una determinazione altrui, mantiene la totale discrezionalità e l’autonomia decisionale che escludono le relative transazioni dal novero dei servizi conto terzi.
La tassatività delle voci di entrata e di spesa escludibili dal saldo finanziario valido ai fini della verifica del rispetto del patto, nel senso sopra descritto, porta a ritenere che debbano essere contabilizzate nei pertinenti titoli di bilancio anche le spese sostenute a seguito di interventi sostitutivi del comune richiesti con Ordinanza sindacale o dirigenziale, in materia di igiene, sicurezza o abusivismo edilizio, originariamente richiesti al privato.
Si ricorda al riguardo che, ai sensi dell’art. 31, comma 7, della citata legge n. 183 2011, possono essere escluse dal saldo le entrate derivanti dallo Stato, le relative spese di parte corrente e in conto capitale sostenute dalle province e dai comuni per l'attuazione delle ordinanze emanate dal Presidente del Consiglio dei ministri a seguito di dichiarazione dello stato di emergenza (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 17.11.2015 n. 430).

ENTI LOCALI: Non paghi? Non puoi assumere. Debiti p.a..
Divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, per le amministrazioni pubbliche che registrano un indice dei tempi medi di pagamento superiore a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015.

Questo è il principio di diritto affermato dalla Corte dei conti, Sez. Umbria (parere 12.11.2015 n. 148), in risposta al parere del comune di Terni.
Quest'ultimo infatti chiedeva alla Corte se ai fini dell'assunzione, tramite concorso, di personale non amministrativo dei servizi scolastici ed educativi, tra le «limitazioni assunzionali vigenti» rientrava anche quella prevista dall'articolo 41, 2° comma, del dl 66/2014 (mancato rispetto per l'anno 2014 dell'indicatore dei tempi medi nei pagamenti).
Ricordano i giudici che la ratio del legislatore, quale traspare dalla formulazione letterale della norma citata («nel rispetto delle limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti»), deve essere intesa nel senso che la facoltà di «indire le procedure concorsuali per il reclutamento a tempo indeterminato di personale in possesso di titoli di studio specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni professionali necessarie per lo svolgimento delle funzioni fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale amministrativo, oltre alle condizioni espressamente richiamate nella richiesta di parere, ossia: l'esaurimento delle graduatorie vigenti, l'assenza di figure professionali idonee tra le unità soprannumerarie «destinatarie dei processi di mobilità», debba svolgersi nel rispetto di tutte le limitazioni (anche di natura finanziaria) previste dalla normativa vigente in materia di assunzione di personale.
Tra dette limitazioni non può ritenersi esclusa quella prevista dall'art. 41, comma 2, del dl 66/2014, come modificato dalla legge di conversione 23.06.2014, n. 89, che sanziona con il divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale, nell'anno successivo a quello di riferimento, le p.a. che non rispettano i tempi di pagamento (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODipendenti scambiabili. Anche negli enti soggetti a divieto di assunzioni. La Corte conti dell'Umbria consente di attivare le procedure di mobilità.
Mobilità per interscambio possibile anche per gli enti che incorrano nel divieto di assunzioni.

Il parere 12.11.2015 n. 147 della Corte dei conti, sezione regionale di controllo dell'Umbria,  fornisce un chiarimento utilissimo per le amministrazioni locali e non solo, perché apre margini di flessibilizzazione nella gestione del personale.
La sezione Umbria consente espressamente di attivare la mobilità per interscambio anche ad un ente che incappi nel divieto assoluto di effettuare assunzioni, per violazione dell'articolo 41, comma 2, del dl 66/2014 come convertito dalla legge 89/2014 e, cioè, per aver sforato i tempi di pagamento ivi previsti.
Quanto specifica la sezione è estremamente importante, perché chiarisce la differenza esistente tra la mobilità volontaria e quella per interscambio.
Come indica il parere, la mobilità volontaria disciplinata dall'articolo 30 del dlgs 165/2001 (attualmente inapplicabile per effetto dell'articolo 1, commi 424 e 425, della legge 190/2014) ha lo scopo di coprire posti vacanti della dotazione organica.
Per quanto tale mobilità sia da considerare neutra sul piano finanziario se posta in essere tra enti entrambi soggetti a vincoli alle assunzioni, dal momento che non accresce gli oneri complessivi della finanza pubblica, tuttavia implica comunque per l'ente di destinazione un incremento della spesa di personale.
Ciò impedisce radicalmente, spiega la sezione Umbria, di utilizzare la mobilità volontaria come strumento di reclutamento, pendente il divieto in capo all'ente, cagionato dalla violazione dei tempi medi di pagamento.
Fattispecie diversa è la mobilità per interscambio. Essa, a differenza della mobilità volontaria, non ha lo scopo di coprire un posto vacante della dotazione organica, ma di permettere a due enti di scambiare tra loro due dipendenti che, dunque, cambiano sede, senza modifiche di alcun genera all'assetto organizzativo degli enti e alla spesa.
La sezione Umbria ritiene applicabile l'articolo 5 del dpcm 05.08.1988, n. 325, ai sensi del quale «è consentita in ogni momento, nell'ambito delle dotazioni organiche di cui all'art. 3, la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa od altre amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo nulla osta dell'amministrazione di provenienza e di quella di destinazione».
In particolare, secondo il parere, la mobilità per interscambio, poiché è «improduttiva di variazioni dell'organico e di nuove ed ulteriori spese per le amministrazioni coinvolte» non rientra nell'ambito di applicazione dell'articolo 41, comma 2, del dl 66/2014 perché si limita a permettere a due dipendenti di profilo professionale corrispondente, di «scambiare» l'amministrazione di appartenenza, previo nulla osta degli enti coinvolti.
Quanto espresso dalla sezione Umbria va a completare le indicazioni a suo tempo formulate sul tema della mobilità per intere scambio dalla sezione Veneto, col parere 06.03.2013, che aveva ritenuto possibile la mobilità per interscambio nonostante l'abolizione dell'articolo 6, comma 20, del dpr 268/1987, norma a suo tempo espressamente dedicata a regolare tale istituto nel comparto regioni enti locali.
La sezione Veneto individuò nei principi generali delle leggi sul reclutamento la possibilità di attivare l'interscambio, senza riferirsi all'articolo 7 del dpcm 05.08.1988, n. 325 che, invece, a giudizio della sezione Umbria, come visto, costituisce fonte vigente per applicare l'istituto (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

INCENTIVO PROGETTAZIONEManutenzioni, incentivi vietati ai tecnici della p.a.. Delibera della Corte dei conti sulle nuove modifiche.
Sono illegittimi gli incentivi ai tecnici della pubblica amministrazione se relativi a servizi manutentivi e non alla progettazione di lavori.

E quanto ha affermato la Corte dei conti con il parere 28.10.2015 n. 490 della sezione regionale di controllo per la Toscana che ha risolto due problematiche riguardanti le modifiche introdotte, in materia di incentivi alla progettazione, a opera degli articoli 13 e 13-bis del dl 24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge 114/2014.
La prima verteva sull'esistenza o meno dell'obbligo di esclusione dell'incentivo per le attività manutentive, sia ordinarie sia straordinarie; la seconda concerneva le modalità di calcolo della annualità cui riferirsi per la verifica del limite massimo per la corresponsione degli incentivi (pari al 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo), cioè se si dovesse fare riferimento al momento della liquidazione oppure alla fase del pagamento dei corrispettivi.
Sul primo argomento va innanzitutto precisato come la materia sia oggetto di profonda revisione da parte del disegno di legge delega sugli appalti pubblici che, in un apposito criterio di delega, prevede lo spostamento dell'incentivo ai tecnici della pubbliche amministrazione sulle fasi di programmazione e controllo, con divieto di applicazione alle attività di progettazione. In prospettiva quindi, almeno su questo primo aspetto, questioni particolari non dovrebbero più esserci, laddove il testo della norma all'esame della camera verrà confermato.
Nel merito della norma attualmente vigente la corte dei conti riassume una serie di punti fondamentali partendo dalla considerazione che la «possibilità di corrispondere l'incentivo è limitata all'area degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi manutentivi». La ragione di ciò è da rinvenirsi nella «natura eccezionale della deroga» che porta a dichiarare che l'incentivo «non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria-ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un'opera pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale».
In realtà la delibera chiarisce anche che l'incentivo potrebbe essere anche riconosciuto anche se non relativo a tutte e tre le fasi della progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva).
Inoltre, la magistratura contabile esclude che si possa applicare l'incentivo per tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com'è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in economia). Su questo punto la delibera conclude comunque che «le ipotesi di riconoscibilità dell'incentivo ad attività di manutenzione ordinaria, anche laddove astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini molto limitati, spettando comunque all'ente di valutare quale sia la soglia minima di complessità tecnica e progettuale che ne giustifichi la corresponsione».
Per quel che concerne poi il calcolo dell'annualità si deve avere riguardo al momento della corresponsione e, quindi, alla fase del pagamento, cioè alla materiale erogazione del «riconoscimento incentivante» (articolo ItaliaOggi del 13.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGOCorte dei conti. Dipendente demansionato, risponde solo il dirigente.
La responsabilità erariale determinata dal risarcimento dei danni determinati dal demansionamento di un dipendente matura solo in capo al dirigente responsabile e gli amministratori non sono responsabili, neppure per i maggiori oneri causati dalla proposizione dell’appello.

Sono questi i principi affermati dalla sentenza 23.09.2015 n. 139 della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Veneto.
Il suo contenuto sembra “anticipare” l’attuazione del principio affermato dalla legge Madia, la n. 124/2015, che rimette al decreto delegato sulla dirigenza pubblica –da adottare entro il prossimo mese di agosto- la «ridefinizione del rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile, con particolare riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della responsabilità per l’attività gestionale». Ma dà attuazione a quanto previsto per gli enti locali dal testo unico delle leggi sull’ordinamento locale.
Nel caso oggetto della sentenza, una dipendente a tempo indeterminato utilizzata nell’ufficio di staff di un sindaco, a seguito dell’insediamento di una nuova amministrazione, era stata progressivamente “esautorata”, non le erano stati assegnati incarichi corrispondenti e anzi era stata costretta «per un lungo periodo alla quasi totale inoperosità». Elementi accertati da una sentenza del giudice del lavoro, che ha condannato il Comune a un elevato risarcimento del danno conseguente al demansionamento. Di questo danno è stato ritenuto responsabile esclusivamente il segretario comunale, che svolgeva anche il compito di dirigente del settore personale.
La sentenza stabilisce con molta nettezza due principi. In primo luogo, la condanna inflitta dal giudice del lavoro determina la maturazione di responsabilità amministrativa.
In secondo luogo, la condotta del segretario-responsabile del personale «è connotata da colpa grave, in considerazione dell’apicalità e molteplicità dei ruoli rivestiti che avrebbero consentito un’immediata ed efficace soluzione della situazione insorta con la dipendente, nonché in considerazione del lungo protrarsi nel tempo dei comportamenti inadeguati».
La sentenza assolve inoltre gli amministratori dall’imputazione di aver determinato ulteriori danni con la proposizione dell’appello, in quanto questa scelta era basata su una «ragionevole motivazione», costituita dal fatto che la proposta di delibera era corredata dal parere tecnico favorevole.
Questa sentenza è basata sui principi affermati dalla legislazione vigente: basta fare riferimento alle previsioni contenute nell’articolo 107, comma 6, del Dlgs 267/2000, secondo il quale «i dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione». Di conseguenza, appare evidente che quanto previsto dalla legge n. 124/2015 determinerà concretamente solo l’estensione a tutte le amministrazioni pubbliche delle regole in vigore per gli enti locali.
Anche se non si può mancare di sottolineare il rilievo che comunque assume la nuova disposizione in termini di annuncio e, di conseguenza, l’inevitabile rafforzamento delle disposizioni già esistenti che sostanzialmente limitano la maturazione della responsabilità contabile degli amministratori ai soli casi in cui essi hanno dato con dolo o colpa grave l’input a decisioni illegittime da cui sono scaturiti danni erariali.
Dal decreto attuativo della legge n. 124/2014 ci si deve attendere la riscrittura delle disposizioni sulla maturazione di responsabilità dirigenziale, cioè di risultato, nel caso di scelte illegittime e che apportano un danno all’ente
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.11.2015).

URBANISTICA: Il pagamento dei lavori effettuati mediante l’impiego delle somme derivanti dall’escussione di una polizza fideiussoria, stipulata in attuazione di convenzione urbanistica, a garanzia della corretta esecuzione delle opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), non possono essere contabilizzate “nell’ambito delle partite di giro”, quali spese per “opere che dovevano inizialmente essere eseguite da privati” e, come tali, escluse dal patto di stabilità.
Sono “partite di giro” le entrate e le spese che costituiscono, nel contempo, un credito ed un debito per l’ente.
La fattispecie dedotta dal Comune non pare assolutamente sussumibile nelle c.d. partite di giro ossia nei servizi per conto terzi, di cui all’art. 168 del TUEL.
Il completamento delle opere di urbanizzazione, se pure inizialmente di competenza di altri, infatti, è stato assunto non per conto di terzi bensì “in proprio” dall’ente, che innegabilmente si è “accollato” il rischio, operativo e patrimoniale, dell’intervento.

A tal fine,
il comune ha dovuto porre in essere tutta una serie di adempimenti preliminari (primo fra tutti, l’inserimento delle opere nel programma triennale e, a seguire, l’approvazione del relativo progetto e l’espletamento delle procedure di affidamento dell’appalto), che hanno consentito la riconduzione, all’interno delle competenze comunali, delle opere in questione, a riprova del fatto che non si tratta più di un’attività di terzi.
Si nutrono, inoltre, dubbi che, nella specie, possa realizzarsi quel perfetto equilibrio, sia in sede preventiva che consuntiva, tra le entrate e le spese e tra le riscossioni ed i pagamenti, che caratterizza le partite di giro (ciò anche in considerazione dell’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica).
Poiché la connotazione, in termini di neutralità ed irrilevanza per il bilancio dell’ente (e, del pari, ai fini della determinazione del saldo del Patto di stabilità), dei c.d. servizi per conto terzi è subordinata alla piena ed assoluta corrispondenza dell’operazione finanziaria sottostante alla rigida classificazione contenuta nel già richiamato D.P.R. n. 194/1996, qualsivoglia “forzatura” o errore nella allocazione delle relative poste costituisce grave irregolarità contabile.
La non corretta contabilizzazione di importi da collocare in altri Titoli dell’entrata e della spesa, infatti, concretizza non solo una violazione del Principio contabile dianzi richiamato, vincolante per l’ente locale, ma anche delle disposizioni del TUEL che disciplinano i servizi per conto terzi (o partite di giro), con effetti anche sul piano del rispetto, sostanziale ed effettivo, del Patto di stabilità.

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Il sindaco del Comune di Grisignano di Zocco (VI), con la suindicata richiesta di parere, presentata ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, precisando che, solo da quest’anno, l’Ente è soggetto alle regole del patto di stabilità, chiede se il pagamento dei lavori effettuati mediante l’impiego delle somme derivanti dall’escussione di una polizza fideiussoria, stipulata in attuazione di convenzione urbanistica, a garanzia della corretta esecuzione delle opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), già impegnate nel 2011, possano essere contabilizzate “nell’ambito delle partite di giro”, quali spese per “opere che dovevano inizialmente essere eseguite da privati” e, come tali, escluse dal patto di stabilità.
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Nel merito, come si è evidenziato, il Comune di Grisignano di Zocco chiede se possa ritenersi escluso dal patto di stabilità il pagamento dei lavori di completamento delle opere di urbanizzazione connesse all’attuazione di una convenzione urbanistica, da effettuarsi utilizzando le somme rinvenienti dalla escussione di una polizza fideiussoria stipulata a garanzia dell’obbligo di eseguire dette opere (solo parzialmente adempiuto), già impegnate, a tal fine, nell’esercizio 2011.
L’esclusione troverebbe fondamento nella collocazione della relativa spesa tra le c.d. “partite di giro”, in ragione del fatto che si tratterebbe di “opere che dovevano inizialmente essere eseguite da privati”.
La risposta al suesposto quesito necessita della preliminare individuazione di quelle che, secondo l’ordinamento contabile, costituiscono “partite di giro”, sì da verificare se la fattispecie posta all’esame della Sezione possa o meno trovare collocazione in tale ambito ed essere, quindi, esclusa dal saldo finanziario contemplato dall’art. 31.
Secondo l’intendimento comune,
sono “partite di giro” le entrate e le spese che costituiscono, nel contempo, un credito ed un debito per l’ente.
Tali entrate e spese non sono effettive (non producono, cioè, alcun effetto sul risultato economico della gestione), ma vengono annotate in bilancio solo “per memoria”.
L’art. 2, comma 8, del D.P.R. 31.01.1996, n. 194, ne contiene una elencazione, che comprende: le ritenute previdenziali e assistenziali, le ritenute erariali, altri tipi di ritenute, i depositi cauzionali, i depositi per spese contrattuali, le gestione dei fondi economali ed i c.d. servizi per conto terzi.
L’art. 168 del TUEL, al comma 1, ne prescrive la collocazione in appositi capitoli, in modo da palesarne in via immediata la natura figurativa e neutrale per il bilancio dell’ente, enunciando, al comma 2, il principio dell’equivalenza -ulteriormente esplicitato nel punto 25 del Principio contabile n. 2, applicabile al sistema di contabilità degli enti locali– in base al quale “la misura dell’accertamento deve garantire l’equivalenza con l’impegno sul correlato capitolo delle spese” (in sostanza, il pareggio tra le entrate e le uscite).
In via di eccezione al carattere autorizzatorio del bilancio, il comma 2 dell’art. 164 del T.U.E.L. consente l’assunzione di impegni di spesa oltre gli stanziamenti previsti, mentre il successivo art. 175, per evitare commistioni con la ordinaria gestione di bilancio, al comma 7, esclude variazioni di dotazione finanziaria dei relativi capitoli con altre sezioni del bilancio stesso.
Sempre secondo il Principio contabile n. 2, punto 25 –e secondo l’orientamento, pressoché costante, della Corte dei conti– le voci ascrivibili alle “partite di giro” sono soltanto quelle “tipizzate” nell’elencazione contenuta nel citato D.P.R. 194/1996, ciò evincendosi, tra l’altro, dal divieto, sancito dall’art. 165, comma 12, del T.U.E.L., di inclusione tra i “servizi per conto terzi” delle funzioni delegate dalle Regioni.
Da siffatta disposizione, peraltro, si desume, altresì, che i suddetti servizi, sono tali e, dunque, costituiscono partite di giro, solo quando si tratti di attività estranee alle competenze (anche delegate) dell’ente, ovvero quando siano realizzate nel preminente interesse di soggetti terzi e rispetto ad esse l’ente medesimo non assuma alcun rischio, né operativo né patrimoniale, qualificandosi, in definitiva, come mero esecutore materiale di determinazioni altrui.
Alla luce di quanto puntualizzato,
la fattispecie dedotta dal Comune di Grisignano di Zocco non pare assolutamente sussumibile nelle c.d. partite di giro ossia nei servizi per conto terzi, di cui all’art. 168 del TUEL.
Il completamento delle opere di urbanizzazione, se pure inizialmente di competenza di altri, infatti, è stato assunto non per conto di terzi bensì “in proprio” dall’ente, che innegabilmente si è “accollato” il rischio, operativo e patrimoniale, dell’intervento.

A tal fine,
il comune ha dovuto porre in essere tutta una serie di adempimenti preliminari (primo fra tutti, l’inserimento delle opere nel programma triennale e, a seguire, l’approvazione del relativo progetto e l’espletamento delle procedure di affidamento dell’appalto), che hanno consentito la riconduzione, all’interno delle competenze comunali, delle opere in questione, a riprova del fatto che non si tratta più di un’attività di terzi.
Si nutrono, inoltre, dubbi che, nella specie, possa realizzarsi quel perfetto equilibrio, sia in sede preventiva che consuntiva, tra le entrate e le spese e tra le riscossioni ed i pagamenti, che caratterizza le partite di giro (ciò anche in considerazione dell’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica).
Poiché la connotazione, in termini di neutralità ed irrilevanza per il bilancio dell’ente (e, del pari, ai fini della determinazione del saldo del Patto di stabilità), dei c.d. servizi per conto terzi è subordinata alla piena ed assoluta corrispondenza dell’operazione finanziaria sottostante alla rigida classificazione contenuta nel già richiamato D.P.R. n. 194/1996, qualsivoglia “forzatura” o errore nella allocazione delle relative poste costituisce grave irregolarità contabile.
La non corretta contabilizzazione di importi da collocare in altri Titoli dell’entrata e della spesa, infatti, concretizza non solo una violazione del Principio contabile dianzi richiamato, vincolante per l’ente locale, ma anche delle disposizioni del TUEL che disciplinano i servizi per conto terzi (o partite di giro), con effetti anche sul piano del rispetto, sostanziale ed effettivo, del Patto di stabilità.

Non è un caso che l’art. 1, comma 111-ter, della Legge 13.12.2013, n. 220, così come modificato dall’art. 20, comma 12, della Legge n. 111/2011, codifichi, sia pure in via solo esemplificativa, tra le condotte elusive, proprio l’errata iscrizione di spese nei servizi per conto terzi.
All’evidenza, la sottrazione di poste che avrebbero dovuto concorrere alla quantificazione dell’obiettivo finanziario del saldo del Patto, attraverso una allocazione difforme dalla reale natura delle stesse, può comportare l’inesatta determinazione di tale obiettivo e la conseguente “elusione” del Patto, alla quale, se accertata, seguirà l’irrogazione di sanzioni a all’ente ed agli amministratori (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 15.05.2013 n. 128).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Il codice identificativo di gara.
DOMANDA:
In riferimento all'art. 3 della legge 136/2010 e alla Determinazione ex AVCP 4/2011 (utilizzo di c/c dedicato - attribuzione di codice CIG), si chiede parere in ordine all'obbligo di attribuzione del codice identificativo gara e al rispetto degli obblighi in materia di tracciabilità per le seguenti fattispecie di spesa:
1) spedizione di atti giudiziari tramite Poste Italiane Spa, pagamento mensile (€ 5.000,00 circa) a presentazione di fattura elettronica;
2) spese di custodia veicoli rimossi ai sensi del CdS giacenti presso le depositerie autorizzate, importo del corrispettivo disposto dalla Prefettura (legge di stabilità 2014 che ha previsto procedura straordinaria per l'alienazione dei veicoli giacenti presso le depositerie autorizzate ai sensi del DPR 571/1982), da pagare alla depositeria a presentazione di fattura elettronica;
3) rimborso spese ad Associazioni di volontariato che collaborano con la Polizia Municipale in servizi di tutela ZTL, supporto in occasione di manifestazioni, presidio davanti alle scuole negli orari di entrata uscita alunni.
RISPOSTA:
1) L’art. 4 del d.lgs. 261/1999, nel testo risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.lgs. 58/2011, prevede che i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20.11.1982, n. 890 nonché i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui all’art. 201 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 (violazioni in materia di codice della strada) sono affidati in regime di esclusiva al fornitore designato del servizio universale, Poste Italiane, per finalità di ordine pubblico.
Ciò significa che -a differenza di altri servizi postali- quello di invio di atti giudiziari non deve essere affidato tramite procedura ad evidenza pubblica, che richiederebbe l'adempimento degli obblighi in materia di tracciabilità (cfr. Linee guida per l’affidamento degli appalti pubblici di servizi postali emanate dall'Anac con Deliberazione n. 3 del 09.12.2014).
2) Il Ministero delle Finanze - Dipartimento del Territorio, con circolare n. 73620 del 30.06.1998, ha elencato i requisiti soggettivi ed oggettivi che debbono essere posseduti dai depositari custodi di beni demaniali e dalle relative depositerie, ai fini dell‘individuazione delle stesse da parte del Prefetto ai sensi dell'art. 8 del DPR. 29.07.1982 n. 571, che prevede una ricognizione annuale dei soggetti, pubblici e privati, abilitati a svolgere il servizio in parola.
Anche successivamente all'introduzione dell'art. 214-bis del Codice della Strada, i Prefetti devono continuare a predisporre annualmente, ai sensi dell‘art. 8 del DPR. 571/1982, l'elenco delle depositerie autorizzate alla custodia dei veicoli sequestrati (cfr. circolare n. 50/06 Ministero dell'Interno - Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali del 13.12.2006).
Il contratto per l'affidamento del servizio di recupero, custodia e acquisto di veicoli oggetto dei provvedimenti di sequestro amministrativo, fermo o confisca ai sensi dell'art. 214-bis del d.lgs. 30/04/1992 n. 285, è stipulato col soggetto risultato affidatario nell'ambito di una procedura di gara ad evidenza pubblica, nell'ambito della quale è richiesto l'adempimento degli obblighi in materia di tracciabilità (utilizzo di c/c dedicato - attribuzione di codice CIG).
3) Le convenzioni stipulate con associazioni di volontariato rientrano nella disciplina di cui alla legge n. 136/2010 (obbligo di tracciabilità per consentire la trasparenza delle operazioni finanziarie relative all’utilizzo del corrispettivo dei contratti pubblici di appalto), nel caso in cui rivestano carattere oneroso per l’amministrazione procedente.
Le suddette convenzioni non rientrano nella disciplina di cui alla legge n. 136/2010, nel caso in cui rivestano carattere non oneroso per l’amministrazione procedente e prevedano solo il riconoscimento di un rimborso spese non forfettario (cfr. FAQ sulla Tracciabilità dei flussi finanziari pubblicate dall'ANAC in data 21.05.2014) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Stemmi comunali tutelati. Un partito politico non può appropriarsene. La disciplina del simbolo dell'ente è demandata dal Tuel allo statuto.
È legittimo l'inserimento dell'immagine dello stemma comunale nel simbolo di un movimento politico locale che lo stesso utilizza per tutte le comunicazioni ufficiali, nei manifesti e, in genere, negli interventi verso la cittadinanza e verso le istituzioni?

Lo stemma comunale, che in origine era disciplinato dagli artt. 31 e 66 del regio decreto 07.06.1943 n. 651, reso esecutivo con regio decreto n. 652/1943 (norme ora abrogate, la prima dall'art. 274, comma 1, del dlgs 18.08.2000, n. 267, la seconda dall'art. 24, dl 25.06.2008, n. 112), è attualmente disciplinato dall'art. 6, comma 2, del Tuel n. 267/2000, che demanda all'autonomia dell'ente e, quindi, allo statuto, la sua determinazione, con l'eventuale previsione di una specifica disciplina regolamentare per le modalità di utilizzazione dello stesso.
In particolare, lo stemma costituisce il segno distintivo del comune, l'elemento grafico rappresentativo dell'identità dell'ente e, pertanto, è proprietà del comune il quale può agire, mediante la tutela riconducibile a quella del diritto al nome di cui all'art. 7 del codice civile, contro chiunque ne faccia un uso improprio o, comunque, non consentito.
Nella fattispecie in esame, lo statuto comunale descrive la foggia dello stemma comunale e ne rinvia l'uso alla disciplina di apposito regolamento che non è stato ancora adottato.
In assenza di specifica regolamentazione, l'uso dello stemma è comunque da considerare compatibile sia da parte dei consiglieri singolarmente sia dai gruppi, in considerazione del fatto che ciascuno costituisce una parte istituzionale dell'ente locale del quale lo stemma rappresenta un elemento unitario di identificazione.
Il suo utilizzo dovrebbe, quindi, essere limitato all'esercizio del munus istituzionale di cui il gruppo è investito e a tal fine sarebbe opportuno che sulla carta intestata fosse prevista, insieme allo stemma comunale, la contemporanea presenza della denominazione del gruppo o del nominativo del consigliere, nonché del simbolo del gruppo con la specifica indicazione «gruppo consiliare».
Nel caso specifico, tuttavia, l'uso è riferito a un movimento politico al di fuori della sede istituzionale del comune a cui appartengono i gruppi.
Il segretario generale ha riferito che l'inserimento dello stemma comunale (con caratteristiche leggermente diverse da quello ufficiale) nel simbolo del citato movimento politico, è ritenuto legittimo dal predetto movimento in forza della sentenza n. 16984/2004 con la quale la Corte di cassazione ha affermato che «la legge n. 131 del 2003, art. 4 in particolare, assegna agli statuti di disporre i principi del funzionamento dell'ente, e tra questi non rientra il potere di innovare nella disciplina dell'uso e del conflitto tra i segni identificativi dei soggetti o tra i segni del mercato».
Tale sentenza, invero, non appare contrastare con l'articolo 6 del Tuel n. 267/2000 il quale prevedendo l'adozione dello statuto comunale, stabilisce espressamente che tale strumento debba contenere, altresì, la disciplina dello stemma comunale.
Infine si soggiunge, che l'Ufficio del cerimoniale di stato e per le onorificenze presso la presidenza del consiglio dei ministri, in risposta a taluni quesiti ha affermato che «lo stemma è un bene immateriale dell'ente ed è salvaguardato dalle leggi dello stato alla stregua del cognome delle persone e di altri diritti immateriali»; e ancora, che «è fatto divieto assoluto di appropriarsi dello stemma del comune, ciò anche se le finalità sono umanitarie, senza scopi di lucro, pur se approvate dal comune stesso», mentre per le manifestazioni culturali, può essere presente nella locandina «lo stemma dell'ente patrocinante, ma ne va richiesta comunque l'autorizzazione all'ente stesso» (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Le fasce di reperibilità saltano se l'infortunio è sul lavoro. Escluse anche se le patologie richiedono terapie salvavita.
L'ESPERTO RISPONDE/Quando scatta la richiesta di accertamento dello stato di malattia
Il quesito che pongo anche a nome di alcuni colleghi collaboratori scolastici è il seguente: è vero, come sostiene un delegato sindacale, che c'è una precisa norma che disciplina l'obbligatorietà della richiesta di accertamento dello stato di malattia del dipendente scolastico e l'obbligo di rispettare le fasce di reperibilità?

La norma a cui fa riferimento il delegato sindacale è, presumibilmente per quanto attiene alle fasce di reperibilità, l'articolo 2 del decreto della presidenza del consiglio dei ministri del 18.12.2009, n. 206, articolo che non ci risulta essere stato modificato o abrogato.
Dispone detto articolo che sono esclusi dall'obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti per i quali l'assenza è etiologicamente riconducibile ad una delle seguenti circostanze: patologie gravi che richiedono terapie salvavita, infortuni sul lavoro, malattie per le quali è stata riconosciuta la causa di servizio, stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta.
Sono anche esclusi i dipendenti nei confronti dei quali è stata già effettuata la visita fiscale per il periodo di prognosi indicato nel certificato.
Quanto alla obbligatorietà della richiesta di visita fiscale, tale obbligo non sussiste, stando a quanto si legge nella nota del dipartimento della funzione pubblica n. 30536 datata 24.07.2012, qualora nella documentazione medica risulti chiaramente il collegamento con una delle infermità di cui al predetto articolo 2 (articolo ItaliaOggi del 24.11.2015).

TRIBUTI: Le tipologie di interpello.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 156/2015, modificando l'art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente, individua cinque tipologie di interpello: ordinario, qualificatorio, probatorio, anti abuso e disapplicativo disponendo che gli enti locali devono provvedere entro il 01.07.2016 ad adeguare i propri regolamenti.
Si chiede cortesemente di sapere: a) se le tipologie di interpello probatorio, anti abuso e disapplicativo riguardano anche i tributi comunali o solo i tributi erariali; b) se il termine per l'adeguamento del regolamento comunale per la disciplina delle entrate (contenente anche la disciplina dell'interpello) è effettivamente il 01.07.2016 oppure se si deve provvedere entro il termine di approvazione del bilancio comunale (termine, quest'ultimo, da rispettare per l'adeguamento dei regolamenti tributari).
RISPOSTA:
Il nuovo articolo 11 dello Statuto del contribuente razionalizza le tipologie di interpello esistenti, sistematizzandole e raggruppandole in diverse categorie, di cui sono definiti esplicitamente i presupposti applicativi:
• interpello “ordinario” e “qualificatorio” (articolo 11, comma 1, lettera a)
• interpello “probatorio” (articolo 11, comma 1, lettera b)
• interpello “anti abuso” (articolo 11, comma 1, lettera c),
• interpello “disapplicativo” (articolo 11, comma 2).
L’interpello ordinario ricalca quello già disciplinato dal vecchio testo dell’articolo 11, trattandosi di una richiesta volta a ottenere un parere quando sussistano obiettive condizioni di incertezza sull’interpretazione delle disposizioni tributarie, in relazione alla loro applicazione a casi concreti e personali. A questo modello generale, il legislatore delegato, sempre nel punto a), ha affiancato l’interpello “qualificatorio” in cui l’istanza del contribuente riguarda la corretta qualificazione della fattispecie quando, comunque, sussistono obiettive condizioni di incertezza alla luce delle disposizioni tributarie applicabili alle medesime.
La seconda tipologia menzionata dal nuovo comma 1 dell’articolo 11 è definita dallo stesso legislatore interpello probatorio e si sostanzia in una richiesta tesa a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’accesso a un determinato regime fiscale, azionabile, tuttavia, solo nei casi espressamente previsti (quelli, appunto, contenenti l’esplicito richiamo all’interpello di cui alla lettera c) del comma 1 dell’articolo 11).
In verità, non si tratta di una forma di interpello nuova, ma di una categoria ampia che ricomprende e abbraccia, sotto il cappello della formula utilizzata, tante figure già previste dal sistema, che vengono, in questo modo, ricondotte a unità. In questa categoria sono ricomprese ipotesi molto eterogenee, tra cui alcune a oggi classificate tra gli interpelli obbligatori, degradati perciò solo a facoltativi. Un’altra categoria di interpelli facoltativi è l’interpello anti-abuso -destinato ad assorbire le principali fattispecie ricomprese nel capo di applicazione dell’interpello antielusivo di cui all’articolo 21 della legge 413/1991- che costituisce il nuovo strumento attraverso il quale il contribuente può chiedere all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto, ai sensi del nuovo articolo 10-bis dello Statuto.
Il comma 2 dell’art. 11 prevede, altresì, l’interpello “disapplicativo”: mutuato dall’art. 37-bis, co. 8, del DPR n. 600/1973, consente al contribuente di richiedere un parere all’Amministrazione in ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione di norme tributarie che limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive del soggetto passivo.
In questo caso, laddove l’Agenzia fornisca una risposta negativa all’istanza, il contribuente può fornire la dimostrazione della spettanza della disapplicazione delle norme anche nelle successive fasi dell’accertamento e del contenzioso. In conclusione, ad un primo esame, sembrano applicabili ai tributi locali esclusivamente gli interpelli ordinari e qualificatori; le altre tipologie sembrano applicabili soltanto ai tributi erariali.
In merito, si attende comunque una circolare dell’Agenzia delle Entrate. L’adeguamento dei regolamenti comunali relativamente agli interpelli potrà essere effettuato entro il 01.07.2016; la data di approvazione del bilancio, infatti, riguarda soltanto quelle modifiche suscettibili di incidere sul bilancio stesso e, pertanto, tale limitazione non si applica al caso in esame (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI: La centrale unica di committenza per i comuni associati.
DOMANDA:
Con la presente per formulare il seguente quesito:
- tre comuni hanno costituito il 01.10.2014 la gestione associata dell’ufficio tecnico “Val D.”
- L’ufficio tecnico associato non è evidentemente un soggetto giuridico autonomo, non avendo pertanto partita iva…
- L’Anac non ha accettato l’accreditamento della Centrale Unica “Val D.” per mancanza di requisiti (per le ragioni sopra indicate - l’ut associato non è un soggetto giuridico autonomo)
Domanda:
1. Come può fare l’ut associato a bandire una gara d’appalto?
2. Può accedere al mercato elettronico (Sintel o Consip) e ritenere così di aver adempiuto ai disposti normativi?
RISPOSTA:
Ai fini di adempiere agli obblighi di centralizzazione previsti dal comma 3-bis dell’art. 33 del codice dei contratti pubblici occorre, nell’ipotesi che si sia optato per l’”accordo consortile” che i comuni interessati abbiano stabilito in via convenzionale (ex art. 30 D.lgs. n. 267/2000) di costituire tra di loro una apposita “centrale unica di committenza” e non già un mero “ufficio tecnico” che svolge in modo associato le proprie funzioni.
Potranno quindi o stabilire convenzionalmente di istituire un ufficio comune operante come centrale unica di committenza per i comuni associati oppure designare uno di essi come ente capofila per la gestione associata delle acquisizioni di lavori, servizi e beni in base a quanto previsto dal cit. comma 3-bis.
Nel primo caso l’ufficio comune rappresenta una mera articolazione organizzativa costituita presso uno degli enti associati e funge quindi da CUC mentre nell’altra ipotesi è lo stesso ente capofila che assumerà tale ruolo; Trattandosi di “ufficio comune” operante come centrale unica di committenza si ritiene che iscrivibile alla Anagrafe unica delle stazioni appaltanti presso l’ANAC sia il Comune presso cui l’ufficio comune è istituito, mentre nell’altro caso sia lo stesso ente capofila che funge da CUC.
In ogni caso la struttura organizzativa comune non ha soggettività giuridica autonoma e pertanto ai fini dello svolgimento delle procedure occorre far riferimento a tutti gli elementi identificativi del Comune di riferimento, fermo restando che i singoli comuni aderenti risultano ad ogni effetto stazioni appaltanti e mantengono tale definizione ai fini degli obblighi di iscrizione e comunicazione all’AUSA (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGO: I permessi brevi.
DOMANDA:
L'art. 20 del CCNL 06.07.1995 prevede e disciplina i "permessi brevi", quantificati nella misura massima di 36 ore annue.
Si chiede:
- l'espressione "il dipendente, a domanda, può assentarsi dal lavoro ..." deve essere intesa che il permesso breve può essere usato soltanto per interrompere/assentarsi dal lavoro e quindi non per giustificare una entrata in servizio oltre l'orario previsto/consentito?
- Per la fruizione, deve sempre esserci una domanda (del dipendente) ed una autorizzazione (del dirigente) oppure il tutto può essere/rimanere a livello verbale e in questo caso l'Ufficio Personale sulla base di cosa giustifica d'ufficio l'assenza?
- L'espressione "36 ore annue" significa che la fruizione deve avvenire solamente ad ore intere o è possibile fruire tali permessi anche frazionati a minuti purché sia rispettato il limite annuo di 36 ore?
- L'espressione "secondo modalità individuate dal dirigente" significa che lo stesso programma il recupero tenendo conto esclusivamente delle esigenze del servizio senza dover quindi mediare con le esigenze/disponibilità del dipendente?
- L'espressione "in caso di mancato recupero, si determina la proporzionale decurtazione della retribuzione" significa che in tale ipotesi deve necessariamente effettuarsi la decurtazione stipendiale e pertanto non è possibile attingere ad eventuale "plus orario" ordinario o ad eventuali prestazioni straordinarie per compensare il mancato recupero?
RISPOSTA:
I permessi brevi di cui all'art. 20 del CCNL 06.07.1995 non possono in nessun caso essere superiori alla metà dell'orario di lavoro giornaliero, purché quest'ultimo sia di almeno 4 ore consecutive. Sulla base dell’ampia e generica formulazione della disciplina contrattuale, l’utilizzo dei permessi di cui si tratta è possibile anche, eventualmente, per periodi di tempo inferiori all’ora. Essi possono essere utilizzati anche per posticipare l’orario di entrata al lavoro, così come definito dall’Ente e, quindi, eventualmente per giustificare un possibile ritardo del dipendente. Tuttavia, anche in questo caso, è necessario il rispetto integrale delle regole stabilite nell’art. 20 del CCNL del 06.07.1995.
Pertanto, la fruizione del permesso deve essere sempre preventivamente autorizzata dal dirigente dell’unità organizzativa presso cui presta servizio il dipendente, che ne deve fare richiesta in via preventiva. Ciò serve ad escludere che i permessi in oggetto possano essere utilizzati direttamente ed automaticamente dal dipendente per giustificare eventuali ritardi eccedenti la normale flessibilità in entrata al lavoro come determinata dall’ente.
Il dipendente per avvalersi del beneficio deve presentare una specifica richiesta al dirigente dell'ufficio di appartenenza. Non essendo prevista alcuna specifica esigenza o ragione giustificativa per la concessione del beneficio, la valutazione del dirigente, ai fini della concessione del permesso, non si focalizza sui motivi addotti dal dipendente, ma in via assolutamente prioritaria sulla compatibilità dell’assenza con le esigenze organizzative e funzionali dell’ufficio. Il dipendente non ha alcun “diritto” alla concessione dei permessi brevi, in quanto spetta sempre al datore di lavoro pubblico valutare se concedere o meno il permesso. "In caso di mancato recupero, si determina la proporzionale decurtazione della retribuzione".
La contrattazione non prevede la possibilità di attingere ad eventuale "plus orario" ordinario o ad eventuali prestazioni straordinarie. Il mancato rispetto dell’obbligo di recupero dei permessi, anche sotto il profilo delle modalità a tal fine stabilite dal dirigente, può comportare oltre alla decurtazione del trattamento economico, anche l’eventuale applicazione di sanzioni disciplinari connesse all’inosservanza delle disposizioni di servizio e di quelle connesse al rispetto dell’orario di lavoro.
Tuttavia, trattandosi di regole finalizzate prevalentemente alla tutela di un interesse organizzativo ed economico del datore di lavoro pubblico, si ritiene (in questo senso anche l'Aran) che l'amministrazione potrebbe anche ammettere, assumendosi ogni responsabilità in proposito, che il dipendente, in casi eccezionali, possa recuperare le ore di permesso breve fruite anche al di là del termine stabilito, come regola generale (mese successivo) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

TRIBUTI: La pubblicità abusiva.
DOMANDA:
E' vero che se rileviamo un cartello o un'insegna abusiva (in assenza di autorizzazione, ovvero scaduta) e spesso anche non in regola con il tributo, non dovremmo emettere avvisi di accertamento, in quanto sono i vigili ad elevare contravvenzione ai sensi del Codice della Strada?
La motivazione sarebbe che una volta pagato il tributo, se si dovesse andare davanti al Giudice, si perderebbe la causa. La domanda è: ma allora non può mai esistere una avviso di accertamento per mancata dichiarazione di inizio pubblicità?
E tutto il tempo, magari anni, di esposizione abusiva viene risolto solo con la contravvenzione dei vigili?
RISPOSTA:
Quanto riportato nel quesito, senza alcun riferimento normativo o giurisprudenziale è incomprensibile. L’applicazione della normativa tributaria è completamente autonoma nei confronti dell’applicazione delle norme di legge e di regolamento riguardo la mancanza di autorizzazione all’installazione dell’impianto pubblicitario (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

TRIBUTI: D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, art. 9. Spettanza di agevolazioni ICI a coadiuvanti agricoli.
Come rilevato dalla giurisprudenza, in tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del D.Lgs. 446/1997) e della conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione all'INPS (gestione ex SCAU) è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei primi due requisiti, il terzo requisito, relativo alla conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma.

Il Comune chiede un parere con riferimento al riconoscimento delle agevolazioni ICI di cui all'art. 9 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504
[1], anche a coadiuvanti agricoli. Specifica l'Ente che il soggetto interessato è iscritto all'INPS in capo al nucleo del coltivatore diretto, che lo stesso non conduce direttamente i terreni (che sono condotti dal coltivatore) e che non dichiara redditi agrari ma solo dominicali.
Atteso che non rientra nella competenza di questo Servizio l'interpretazione di normativa statale in materia tributaria, si suggerisce all'Ente di rivolgersi direttamente all'Agenzia delle entrate competente per territorio al fine di acquisire i necessari chiarimenti.
Peraltro, in via meramente collaborativa, si formulano alcune osservazioni con riferimento alla fattispecie prospettata.
L'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 stabilisce una riduzione dell'imposta comunale sugli immobili (ICI) per i terreni agricoli condotti direttamente, e a tal fine individua sia la franchigia che le percentuali di riduzione in base al valore dei terreni. Tale riduzione è riconosciuta a condizione che i terreni siano posseduti e condotti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli che esplicano la loro attività a titolo principale.
La norma è stata integrata dall'art. 58, comma 2, del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446
[2], il quale ha chiarito che, ai fini della riduzione in argomento, 'si considerano coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale le persone fisiche iscritte negli appositi elenchi comunali previsti dall'articolo 11 della legge 09.01.1963, n. 9, e soggette al corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità, vecchiaia e malattia (...).'
Pertanto, come rilevato dalla giurisprudenza
[3], in tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del D.Lgs. 446/1997) e dalla conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione agli elenchi comunali di cui alla L. 9/1963
[4] è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei primi due requisiti (atteso che chi viene iscritto in quell'elenco svolge normalmente a titolo principale quell'attività legata all'agricoltura), il terzo requisito, relativo alla conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma 'potendo ben accadere che un soggetto iscritto nel detto elenco poi non conduca direttamente il fondo per il quale chiede l'agevolazione, la quale, pertanto, non compete'. [5]
Stando alle informazioni fornite dall'Ente instante, il coadiuvante agricolo de quo non conduce direttamente i terreni.
Parrebbe quindi potersi ritenere che allo stesso, carente del presupposto essenziale della conduzione diretta, non spetti la riduzione ex art. 9, anche a prescindere dalla verifica della sussistenza degli altri requisiti stabiliti dalla norma.
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[1] 'Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23.10.1992, n. 421.'
[2] 'Istituzione dell'imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali.'
[3] Cassazione civile, sez. trib., Sentenze n. 15551 del 30.06.2010, n. 9143 del 16.04.2010, n. 214 del 07.01.2005.
[4] La compilazione degli elenchi comunali avveniva, fino al 30.06.1995, ad opera del Servizio per i contributi agricoli unificati (SCAU). A far data dal 01.07.1995 il Servizio SCAU è stato soppresso e le sue funzioni trasferite all'INPS, per effetto dell'art. 19 della legge 23.12.1994, n. 724.
Inoltre, si osserva che l'iscrizione alla assicurazione generale obbligatoria da parte del coltivatore diretto può essere estesa da questi al proprio nucleo familiare, comprendendo parenti e affini fino al 4° grado, sulla base di requisiti oggettivi e soggettivi determinati dalla normativa vigente.
[5] Cassazione civile, Sent. 1551/2015 cit.
(17.11.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Istanza di accesso, formulata da parte di un comitato, rispetto agli atti di un procedimento di autorizzazione per l'installazione di una antenna radio.
Essendo il comitato soggetto giuridico, titolare, ex lege, di un autonomo diritto di accesso agli atti, la circostanza che i singoli cittadini abbiano già esercitato e ottenuto soddisfazione del relativo diritto non impedisce che quest'ultimo sia autonomamente rivendicato anche dal comitato dai primi composto.
Ed, invero, si rammenta che la l. 241/1990, con la disposizione di cui all'art. 22, c. 1, lett. b), richiede che, in capo al soggetto instante, sussista un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento rispetto al quale è chiesto l'accesso. Il fatto che i cives siano, individualmente, già in possesso della documentazione, richiesta poi anche dal comitato, non esclude l'esistenza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo a quest'ultimo.
Si esclude, inoltre, che l'esercizio del diritto di accesso dia luogo ad un'ipotesi di controllo generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione se l'istanza di ostensione ha per oggetto uno specifico procedimento amministrativo di autorizzazione, non già tutti gli atti autorizzativi rilasciati dal Comune.

Un Comune presenta una richiesta di parere in merito ad un'istanza di accesso, formulata da parte di un comitato, rispetto agli atti di un procedimento autorizzativo per l'installazione di un'antenna radio, segnalando, in particolare:
- di aver rilasciato un'autorizzazione per la realizzazione di un'antenna per telefonia mobile, contestata da alcuni cittadini residenti nelle vicinanze del luogo ove è prevista l'allocazione della stessa;
- questi ultimi, a titolo personale o cumulativo, in più tempi, secondo il progredire della pratica autorizzativa o della realizzazione delle opere, hanno presentato domanda di accesso agli atti, del tutto soddisfatta, non essendo state opposte dall'ente pubblico condizioni o limitazioni rispetto all'esercizio del diritto di accesso;
- successivamente, le stesse persone si sono costituite in comitato, che ha incaricato un professionista per verificare la correttezza di quella specifica pratica e delle relative azioni amministrative;
- il tecnico incaricato ha, quindi, chiesto di prendere visione ed estrarre copia degli atti relativi all'installazione di un'antenna radio, alta trenta metri, la cui realizzazione è prevista presso una frazione del territorio comunale;
- a giustificazione dell'interesse, connesso all'oggetto della richiesta, è precisata la necessità di verificare la procedura autorizzativa per l'installazione dell'antenna per telefonia mobile presso la frazione del Comune anche ai sensi della legge 01.07.1997, n. 189
[1].
L'ente locale, rammentando che l'istanza di accesso non deve essere preordinata ad una verifica generalizzata nei confronti dell'esercizio del potere pubblico, domanda se, nella descritta fattispecie, sia ammissibile, da parte di un comitato spontaneo, chiedere copia di atti detenuti dalla pubblica amministrazione e già in possesso delle persone che compongono il comitato stesso, non escludendo che la richiesta di ostensione dei documenti sia da considerarsi strumentale e suscettibile di costituire intralcio all'operatività amministrativa, atteso che i singoli cittadini non hanno mai sollevato dubbi o riserve sulla completezza degli atti loro rilasciati.
Nel quesito sottoposto allo scrivente, il principale nodo da risolvere è, quindi, costituito dalla seguente situazione: coloro che, successivamente, hanno dato vita al comitato, hanno già formulato delle autonome istanze di accesso e queste sono state ampiamente soddisfatte da parte dell'ente locale, con la consegna di tutti i documenti richiesti. Il problema da affrontare è, allora, quello di verificare se la summenzionata condizione -avvenuto esercizio del diritto di accesso da parte dei singoli soggetti privati- sia di ostacolo alla presentazione dell'istanza di ostensione da parte del comitato costituito da quegli stessi cittadini, considerato che il Comune appalesa il timore che l'accesso, da parte dell'ente esponenziale, potrebbe apparire strumentale ed ostacolare l'operato della pubblica amministrazione.
A fronte dell'illustrato dubbio interpretativo, anticipando, fin d'ora, la risposta all'odierno quesito, allo scrivente parrebbe di poter affermare che, essendo -come si verificherà nel prosieguo del testo- il comitato soggetto giuridico, titolare ex lege di un autonomo diritto di accesso agli atti, la circostanza che i singoli cittadini abbiano già esercitato e ottenuto soddisfazione del relativo diritto non impedisce che quest'ultimo sia autonomamente rivendicato anche dal comitato dai primi composto.
Ed, invero, si rammenta che la legge 07.08.1990, n. 241, con la disposizione di cui all'articolo 22, comma 1, lettera b), richiede che, in capo al soggetto instante, sussista un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento rispetto al quale è chiesto l'accesso. La circostanza che i singoli cittadini siano già in possesso della documentazione, richiesta poi anche dal comitato, non esclude l'esistenza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo a quest'ultimo.
In relazione alla fattispecie descritta dall'ente locale, è possibile ipotizzare che gli abitanti della frazione abbiano ritenuto di costituire un soggetto terzo -il comitato- con il compito di tutela di alcuni valori 'costituzionalmente forti', quali la salute individuale e collettiva e l'ambiente, garantiti dagli articoli 9, comma 2 e 32, comma 1, Cost. Il fatto che i residenti nella frazione abbiano già ottenuto gli atti non esclude che il comitato possa esercitare, autonomamente e indipendentemente da questi, un proprio diritto di accesso, anche se rispetto alla stessa documentazione di cui i cives sono individualmente ormai in possesso.
Si deve inoltre considerare che, nel caso in esame, l'accesso è esercitato in un settore rientrante nella materia dell'ambiente, dove, ai sensi del decreto legislativo 19.08.2005, n. 195 - Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale, il diritto di ottenere l'ostensione dei documenti è riconosciuto in modo notevolmente ampio
[2].
Al fine di fornire risposta all'illustrato quesito, è necessario premettere alcune considerazioni sull'istituto del diritto di accesso ai documenti amministrativi ed, in particolare, in merito all'esercizio del summenzionato diritto da parte dei cosiddetti soggetti portatori di interessi pubblici o diffusi.
Ai sensi dell'articolo 22, comma 2, legge 241/1990, l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa, con l'obiettivo di favorire la piena partecipazione dei soggetti dell'ordinamento giuridico nei confronti di quest'ultima e di assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'azione amministrativa.
Indagando l'aspetto della legittimazione attiva all'accesso e, quindi, dei soggetti abilitati ad esercitare il relativo diritto, si evidenzia che la legge 241/1990, all'articolo 22, comma 1, lettera b), definisce 'per interessati, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso'.
Dalla definizione riportata, emerge che il legislatore ha esteso la qualifica di 'interessati' anche ai soggetti privati 'portatori di interessi diffusi', prevedendo che, per 'interessati' all'accesso, si devono intendere i soggetti singoli o associati, come quelli portatori di interessi pubblici o diffusi
[3]. Il diritto di accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche agli enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove avvalorati dalla rappresentatività dell'associazione, comitato o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all'oggetto dell'istanza [4].
La titolarità del diritto di accesso è, dunque, riconosciuta e attribuita non solo ai singoli privati, ma anche alle associazioni (ad esempio associazioni di consumatori e altre associazioni riconosciute) e ai comitati portatori di interessi pubblici o diffusi (si pensi ai comitati di quartiere che si legittimano mediante una semplice raccolta di firme
[5]). Non solo il singolo ha titolo all'accesso ma anche i soggetti portatori di 'interessi generali', quali le associazioni e/o i comitati, soggetti esponenziali degli interessi diffusi degli utenti di un servizio o dei destinatari di atti autoritativi da parte della pubblica amministrazione [6]: astrattamente tutti i portatori di 'interessi generali' hanno titolo a richiedere l'accesso agli atti relativi all'esercizio di una determinata attività o in presenza dell'adozione di atti amministrativi che incidano la sfera giuridica di una molteplicità di cittadini (erga omnes) [7].
Da quanto sopra, discende l'esigenza di appurare un collegamento diretto tra il richiedente e il documento: la posizione legittimante l'accesso è costituita da una situazione giuridicamente rilevante comprensiva anche degli interessi diffusi e dal collegamento tra questa posizione qualificata e la specifica documentazione della quale si chiede l'esibizione
[8].
Anche per le figure in esame (enti esponenziali di interessi pubblici o diffusi), è necessario verificare un effettivo, attuale e concreto 'interesse' alla conoscenza di atti che incidono in via diretta e immediata (non già in via meramente ipotetica e riflessa) sugli interessi collettivi degli associati
[9], in quanto collegati alla prestazione o alla funzione svolta dall'ente stesso [10].
Poiché l''interesse' rappresenta il fulcro attorno al quale ruota tutta la disciplina del diritto di accesso agli atti, con riferimento al medesimo atto, l'istanza di accesso rivolta all'amministrazione da soggetti diversi (ad esempio, un comune cittadino, un sindacato, un comitato) potrebbe portare a risultati differenti (di accoglimento in certi casi, di diniego in altri), proprio perché è possibile configurare un diverso 'interesse' a seconda del soggetto che formula la domanda di ostensione del documento detenuto dalla pubblica amministrazione (e delle diverse ragioni che sono dal medesimo addotte)
[11].
È indispensabile motivare -in sede di richiesta- l'esatta rappresentazione dell'interesse all'accesso, dimostrando la presenza, tra i fini statutari o dell'attività svolta, del perseguimento di quel determinato interesse posto alla base dell'istanza di accesso, acclarando una differenziata posizione di interesse concreto, diretto ed attuale, che legittima a chiedere copia di documenti; documenti che una volta acquisiti possono costituire indubbio supporto e mezzo per il miglior perseguimento degli scopi statutari, sociali o dell'attività svolta (si pensi ad un comitato in difesa dell'ambiente o a tutela dei beni culturali)
[12].
Nel concludere l'analisi di tali aspetti, si ribadisce che il diritto di accesso può essere esercitato anche da parte di associazioni e/o comitati, costituendo questi ultimi un'organizzazione funzionalizzata alla protezione degli interessi di una categoria di soggetti e in grado di motivare le richieste di accesso perché legittimati alla cura di un interesse qualificato dell'intera stabile organizzazione
[13].
Nel caso in esame, a giustificazione dell'interesse all'accesso, il tecnico incaricato dal comitato fa riferimento alla necessità di verificare quella specifica procedura autorizzativa prodromica all'installazione dell'antenna per telefonia mobile presso una frazione comunale. Orbene, questa appare una motivazione sufficiente ai sensi della legge 241/1990, se corredata dalla dimostrazione che la documentazione richiesta rappresenta uno strumento per il conseguimento di quello che potrebbe essere uno scopo statutariamente eletto: la difesa della salute degli individui residenti in un determinata zona e la tutela della salubrità dell'ambiente.
Deve, ora, affrontarsi l'ulteriore problematica sollevata dall'ente locale: la possibilità che l'accesso sia utilizzato, impropriamente, come uno strumento di controllo sull'operato generale della pubblica amministrazione.
Ed, invero, nella fattispecie in attenzione, l'istanza di accesso formulata dal comitato provoca alcune perplessità al Comune sulla base della considerazione che, in ossequio al dettato normativo di cui all'articolo 24, comma 3, legge 241/1990, la domanda di ostensione dei documenti amministrativi non deve essere preordinata ad una verifica generalizzata nei confronti dell'esercizio del potere pubblico.
In generale, è necessario osservare che l'ampiezza dello scopo sociale e la sua riferibilità alla tutela di interessi diffusi o collettivi non può trasformare l'esercizio del diritto di accesso in un'inammissibile azione popolare, espressione di un controllo universale ed indistinto sulla pubblica amministrazione. Non si può, invero, ritenere che la rappresentatività facente capo ad un ente esponenziale conferisca per ciò solo all'associazione o al comitato un generico e indifferenziato titolo per il diritto d'accesso nei confronti degli atti della pubblica amministrazione: dal momento che il diritto di accesso non corrisponde ad un'azione popolare, il suo esercizio non può che essere collegato alla sussistenza (e alla puntuale rappresentazione) di un interesse differenziato, concreto e attuale all'accesso ai documenti. La pretesa titolarità (o la pretesa rappresentatività) di interessi collettivi o diffusi non vale a costituire un potere -comunque privato e perciò estraneo ai circuiti pubblici di rappresentatività e responsabilità- di ispezione generalizzata sulla pubblica amministrazione.
Il diritto di accesso impone pur sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un bisogno differenziato di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, perché non è orientato ad un controllo generalizzato ed indiscriminato di chiunque sull'azione amministrativa (che è anzi espressamente vietato a norma dell'articolo 24, comma 3, della legge 241/1990), ma solo alla conoscenza, da parte dei singoli titolari, di atti effettivamente, o anche solo potenzialmente, incidenti sui loro interessi particolari.
Al riguardo, si rammenta che, mediante il diritto di accesso, si esercita, legittimamente, un controllo quando questo è indirizzato verso il singolo atto amministrativo nei confronti del quale l'interessato vanta un interesse concreto e differenziato rispetto alla collettività, non già quando il controllo è riferito all'attività amministrativa nel suo complesso.
Ed, invero, come evidenziato dalla giustizia amministrativa, la disciplina sull'accesso tutela solo l'interesse alla conoscenza degli atti amministrativi e non l'interesse ad effettuare un controllo preventivo sull'amministrazione, allo scopo di verificare eventuali e non ancora definite forme di lesione della sfera dei privati
[14]. E, così, dapprima la giurisprudenza, poi il legislatore hanno stabilito di dover negare l'accesso tutte le volte in cui l'istanza è finalizzata a svolgere un controllo sull'operato della pubblica amministrazione, controllo puro e semplice avulso da un interesse specifico del richiedente.
L'interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi è, poi, destinato alla comparazione con altri rilevanti interessi, fra i quali quello dell'amministrazione pubblica a non subire eccessivi intralci nella propria attività gestoria, tutelata anche a livello costituzionale ex articolo 97 Cost.
[15].
In ogni caso, nella fattispecie in esame, si ritiene di escludere che l'esercizio del diritto di accesso da parte del comitato dia luogo ad un'ipotesi di controllo generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione: ed, invero, l'istanza di ostensione ha per oggetto quello specifico procedimento amministrativo di autorizzazione all'installazione di un'antenna presso una frazione comunale, non già tutti gli atti autorizzativi rilasciati dal Comune.
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[1] È necessario precisare che la legge 189/1997 -Conversione urgente, con modificazioni, del decreto legge 01.05.1997, n. 115, recante disposizioni urgenti per il recepimento della direttiva 96/2/CE sulle comunicazioni mobili e personali- è stata abrogata dall'articolo 218 del decreto legislativo 01.08.2003, n. 259 - Codice delle comunicazioni elettroniche.
[2] Si veda Consiglio di Stato, sez. III, sentenza del 30.09.2015, n. 4577, in tema di ambiente, elettrosmog, stazioni radio base per telefonia mobile, installazione di impianti radioelettrici, ove si afferma che 'la disciplina generale della localizzazione degli impianti di telefonia mobile ... è riservata allo Stato ... in quanto concernente la salvaguardia dell'ambiente e dell'ecosistema (ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. 's', della Costituzione)'.
[3] Il legislatore, con la riforma ad opera della legge 11.02.2005, n. 15 -Modifiche ed integrazioni alla legge 07.08.1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa- ha recepito le pronunce giurisprudenziali adottate in tal senso nel corso degli anni precedenti.
[4] In tal senso, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza del 14.03.2011, n. 2260.
La giurisprudenza ha stabilito che, in presenza di istanze di accesso prodotte da enti esponenziali (ad esempio, associazioni sindacali, associazioni dei consumatori, associazioni a difesa dell'ambiente, eccetera), la pubblica amministrazione deve accertare la sussistenza di un nesso tra l'oggetto dell'accesso ed i fini contenuti nello statuto dell'ente, mentre ha ritenuto di non dovere dare riscontro positivo alla richiesta di accesso qualora questa produca una conoscenza, a favore dell'istante, di elementi informativi non in linea con la mission dell'associazione. Così, G. Modesti, 'L'esercizio del diritto di accesso agli atti della Pubblica Amministrazione alla luce della legge 15/2005', in www.dirittosuweb.com
[5] Così S. Biancardi, 'Il procedimento amministrativo e il diritto di accesso agli atti', Maggioli, 2011, 145.
[6] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 5481/2011.
[7] M. Lucca, 'Diritto di accesso dei comitati e delle associazioni (portatori di interessi diffusi)', in www.mauriziolucca.com e www.segretarientilocali.it
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 16.01.2004 n. 127, riportata da M. Lucca, 'Diritto di accesso dei comitati ...', cit.
[9] In merito all'interesse che i soggetti legittimati devono avere, secondo le previsioni del legislatore di cui all'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge 241/1990, esso deve essere diretto, concreto e attuale. L''attualità' è valutata in base al momento in cui è formulata la richiesta di accesso ad un determinato documento; la 'concretezza' presuppone un collegamento tra il soggetto ed un bene della vita coinvolto dal documento.
Il Consiglio di Stato ha stabilito che l'interesse, imputabile al soggetto, deve rientrare in una delle seguenti categorie: diritti soggettivi, interessi legittimi, 'interesse solo strumentale alla tutela di essi'. La scriminante è data, pertanto, dal trovarsi l'instante in una posizione differenziata rispetto agli altri soggetti dell'ordinamento giuridico.
[10] cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.02.2009, n.737; 25.09.2006, n. 5636; 10.02.2006, n. 555.
[11] In tal senso, S. Biancardi, 'Il procedimento amministrativo ...', cit., 145.
[12] Si veda ancora M. Lucca, 'Diritto di accesso dei comitati ...', cit.
[13] Così Tar Lazio-Roma, sez. III, sentenza del 16.01.2008, n. 249, riportata da M. Lucca, 'Diritto di accesso dei comitati ...', cit.
[14] In tal senso, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 15.11.2004, n. 7412, riportata da S. Biancardi, 'Il procedimento amministrativo ...', cit., 270.
[15] S. Biancardi, 'Il procedimento amministrativo ...', cit., 169
(13.11.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Vicesindaco dalla giunta. Va scelto tra gli assessori non tra i consiglieri. Lo statuto non può derogare la legge in materia di organi di governo.
È legittima la delibera con la quale il consiglio comunale ha approvato la modifica di un articolo dello statuto comunale prevedendo la facoltà, da parte del sindaco, di nominare il vicesindaco oltre che tra gli assessori anche tra i consiglieri comunali?

Nella fattispecie in esame, la modifica statutaria che, ferma restando la previsione che consente la nomina di assessori esterni, prevede tale facoltà sarebbe motivata dall'esigenza di affidare le funzioni vicarie della presidenza del consiglio ad un componente dello stesso organo e di superare le eventuali problematiche che potrebbero scaturire nell'esercizio delle funzioni statali del sindaco di cui agli artt. 12 e 54 del Tuel.
L'ente, infatti, sostiene che dopo la modifica del Titolo V della Costituzione lo «statuto, nell'ambito della gerarchia delle fonti, è norma prevalente rispetto alla legge statale» e che il vicesindaco, non essendo un organo del comune, non rientra nella riserva di disciplina statale di cui all'articolo 117, lett. p), della Costituzione; tant'è che la legge n. 148/2011, nell'azzerare la giunta nei comuni con popolazione inferiore ai mille abitanti, nulla disponeva per la figura del vicesindaco che doveva essere ricoperta necessariamente da un consigliere comunale.
In merito, proprio per le esigenze di armonizzazione complessiva del sistema ordinamentale e di salvaguardia del funzionamento dell'ente locale, il ministero dell'interno, con circolare n. 2379 del 16.02.2012, fornendo chiarimenti in ordine all'applicazione dell'articolo 16, comma 17, del dl 138/2011, ha specificato che, in assenza della giunta, nei comuni con popolazione inferiore ai mille abitanti, la figura del vicesindaco per l'esercizio delle indefettibili funzioni sostitutive «deve essere nominata tra i consiglieri eletti
».
Una volta intervenuta una nuova modifica normativa che ha ripristinato l'organo giuntale, l'ente, come specificato con la circolare ministeriale n. 6508 del 24.04.2014, con la quale sono stati approfonditi alcuni aspetti applicativi della legge 07.04.2014, n. 56, è, tuttavia, obbligato a individuare il vice sindaco tra i nuovi assessori.
In ogni caso, la nomina di assessori esterni al consiglio, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del dlgs n. 267/2000; l'art. 64, comma 3, del Tuel, dispone, inoltre, che negli stessi comuni non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta.
Circa le funzioni di presidente del consiglio comunale, che spettano al sindaco nei comuni sino a 15 mila abitanti (salvo che l'ente si sia avvalso della facoltà di prevedere nello statuto la figura del presidente del consiglio), l'articolo 39 dello stesso decreto legislativo n. 267/2000, al comma 1, prevede che «quando lo statuto non dispone diversamente, le funzioni vicarie del presidente del consiglio sono esercitate dal consigliere anziano».
Pertanto, è la stessa legge che, anche in carenza di specifiche disposizioni normative dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio senza alcuna necessità che questi coincida con il vicesindaco.
Peraltro, non appare evidente alcuna problematica in ordine all'eventuale espletamento, da parte dell'assessore esterno vicesindaco, delle funzioni di cui all'articolo 54 del citato Testo unico (in sostituzione del sindaco), visto che il vicesindaco esercita funzioni surrogatorie permanenti e temporanee del sindaco, ai sensi dell'articolo 53, commi 1 e 2.
Riguardo alla gerarchia delle fonti, poi, l'art. 114, comma 2, della Costituzione dispone che i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Lo stato ha competenza esclusiva, ex art. 117, comma 2, lett. p), in ordine alla potestà legislativa in materia di disciplina elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.
Il vicesindaco, facendo parte della giunta, è compreso a pieno titolo negli organi di governo individuati dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 267/2000, senza considerare la qualità di organo proprio che riveste nel momento in cui svolge le funzioni vicarie del sindaco.
La legge n. 131/2003, all'art. 4, comma 2, prescrive che lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, mentre al comma 4 statuisce che la disciplina dell'organizzazione dei comuni è riservata all'ente «nell'ambito della legislazione dello stato o della regione».
Il Consiglio di stato, con sentenza n. 832, del 03.03.2005, alla luce proprio degli artt. 114 e 117 della Costituzione, ha ribadito la competenza esclusiva dello stato in materia di organi di governo e connesse sfere di competenza che, è evidente, non può essere autonomamente disciplinata dal comune, neppure in sede statutaria, in mancanza di una norma legislativa statale che ne delimiti l'intervento integrativo.
Pertanto, come già sostenuto dal Tar Calabria, sez. II con le decisioni n. 492 e 493 (dell'08.02.2008 e del 07.03.2008) «lo statuto comunale,... anche a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, è da qualificarsi come atto normativo secondario, capace, entro certi limiti, di innovare l'ordinamento e che, nell'ambito della gerarchia delle fonti, può essere considerato come fonte sub primaria, incapace di derogare o di modificare una legge, collocata appena al di sopra delle fonti regolamentari» (articolo ItaliaOggi del 13.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Trattamento economico del dipendente trasferito ai sensi dell'art. 47 della l. n. 428/1990 (trasferimento d'azienda).
Nell'ipotesi di applicazione dell'art. 31 del d.lgs. 165/2001, detta norma, in relazione al fenomeno traslativo ivi contemplato, dispone direttamente la continuità di tutti i rapporti di lavoro coinvolti in capo al soggetto che subentra nell'attività e la conservazione, da parte dei lavoratori, di tutti i diritti che ne derivano, in forza del richiamo all'applicazione dell'art. 2112 c.c., senza limitazioni o condizioni (fatte salve solo 'disposizioni speciali', ove esistenti).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al trasferimento del personale dipendente attualmente occupato nella casa di riposo gestita dall'Ente medesimo, a seguito della costituzione di un'Azienda Pubblica di Servizi alla Persona (ASP), cui affidare detta gestione.
L'Amministrazione precisa che intende procedere a detto trasferimento seguendo le modalità e procedure previste all'art. 47 della l. 428/1990, nonché ai sensi di quanto disposto dall'art. 2112 del codice civile e specifica che l'ASP applicherà ai dipendenti interessati il CCNL del comparto Regioni-Autonomie locali.
Il Comune istante si è, pertanto, posto la questione relativa al corretto inquadramento retributivo del personale trasferito, alla luce delle indicazioni fornite in materia dall'ARAN, e ritiene inoltre che, nel caso di specie, non rilevi l'intervenuta abrogazione dell'art. 202 del d.p.r. 3/1957, ad opera dell'art. 1, comma 458, della l. 147/2013, che ha fatto venir meno il divieto della c.d. 'reformatio in peius'.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione e relazioni sindacali della Direzione generale, si osserva quanto segue.
L'art. 31 del d.lgs. 165/2001 prevede che, fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l'articolo 2112 del codice civile e si osservano le procedure di informazione e di consultazione di cui all'articolo 47, commi da 1 a 4, della l. 428/1990
[1].
L'art. 2112, comma 1, c. c., dispone che 'in caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano'.
La Corte costituzionale ha affermato che l'art. 31 in commento dispone esplicitamente l'applicazione dell'art. 2112 c.c. nell'ambito del lavoro pubblico, riferendosi al transito di funzioni e dipendenti da enti pubblici ad altri soggetti (pubblici o privati)
[2].
Si rinvia preliminarmente, in linea generale, alle considerazioni espresse, in ordine al trasferimento di attività, dallo scrivente Servizio con parere n. prot. 13418 del 09.05.2014
[3], ove si è operata l'illustrazione dei diversi orientamenti circa l'applicazione dell'art. 31 del d.lgs. 165/2001, nel senso del passaggio automatico o meno dei lavoratori al cessionario.
Qualora nel caso specifico si verifichi il passaggio dei dipendenti all'ASP ai sensi dell'art. 31 del d.lgs. 165/2001, si osserva che detta norma regolamenta il fenomeno traslativo disponendo direttamente la continuità di tutti i rapporti di lavoro coinvolti
[4] in capo al soggetto che subentra nell'attività e la conservazione, da parte dei lavoratori, di tutti i diritti che ne derivano, in forza dell'applicazione dell'art. 2112, c.c., ivi richiamato senza limitazioni o condizioni (fatte salve solo, 'disposizioni speciali' [5], ove esistenti) [6].
Premesso un tanto, per quanto concerne l'inquadramento retributivo del personale trasferito nella fattispecie rappresentata, l'ipotesi prospettata dall'Amministrazione istante (sub 1.) sembra in linea con quanto stabilito dall'art. 28 del CCNL del comparto Regioni-Autonomie locali, stipulato in data 05.10.2001 che, pur riferendosi a personale trasferito dallo Stato, può rappresentare un utile criterio generale di riferimento anche in sede di inquadramento di personale trasferito da pubbliche amministrazioni anche di diverso comparto
[7].
Emerge, dalla prospettazione illustrata dall'Ente, anche l'applicazione delle direttive fornite a sua volta dall'ARAN
[8] in ordine alle modalità di inquadramento economico presso un ente del comparto Regioni-Autonomie locali di dipendenti provenienti da comparti di contrattazione diversi. In particolare, la predetta Agenzia ha rimarcato, in linea generale, che gli enti procedono all'inquadramento nel sistema di classificazione dei rispettivi comparti, tenendo conto della categoria e del profilo professionale posseduto dal personale presso l'ente di provenienza.
Inoltre, si è precisato che, ai fini dell'inquadramento economico, l'ente procede alla determinazione del trattamento complessivo annuo effettivamente in godimento presso l'ente di appartenenza, attraverso la sommatoria di determinati emolumenti computati su base annua (retribuzione tabellare, eventuale RIA in godimento, eventuale progressione economica in godimento). Una volta definito il trattamento economico annuo spettante al dipendente a seguito dell'inquadramento presso la nuova amministrazione, qualora risulti che il medesimo godeva di un maggiore trattamento economico annuo presso l'ente di provenienza, l'importo corrispondente alla differenza tra i due valori complessivi viene conservato a titolo di retribuzione individuale di anzianità.
Si osserva inoltre che recentemente il D.P.C.M. del 26.06.2015 (pubblicato sul sito della Funzione pubblica), ha definito le tabelle di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione nazionale, al fine di favorire i processi di mobilità fra i comparti di contrattazione del personale delle pubbliche amministrazioni.
L'art. 2, comma 3, del citato decreto stabilisce che 'la corrispondenza tra i livelli economici relativi ai diversi comparti di contrattazione è individuata anche sulla base del criterio della prossimità degli importi del trattamento tabellare del comparto di provenienza'.
Pur individuando il predetto decreto la corrispondenza fra i livelli economici di inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione nazionale, si ritiene che il principio sopra affermato costituisca un utile riferimento anche per i processi di trasferimento di personale da/verso il comparto unico del pubblico impiego regionale e locale della Regione Friuli Venezia Giulia, considerato che l'art. 5 del medesimo decreto precisa che le disposizioni in esso contenute si applicano anche ai processi di mobilità che coinvolgono, ove previsti, gli specifici comparti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e le relative norme di attuazione.
Resta fermo che determinate disposizioni di legge o contrattuali, a livello regionale, possono dettare regole specifiche, sia per il trasferimento di personale all'interno del comparto unico, sia per il trasferimento di personale da o verso enti di comparti diversi.
Ciò posto, per quanto riguarda infine la normativa che ha abrogato il divieto di reformatio in peius si evidenzia che la fattispecie di cui all'art. 2112 riveste una propria peculiarità in quanto garantisce al lavoratore la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, rafforzando la tutela dei crediti che il lavoratore aveva al momento del trasferimento dell'azienda.
---------------
[1] E' prevista una particolare procedura di informazione, consultazione ed esame congiunto con le rappresentanze sindacali, qualora si intenda effettuare un trasferimento d'azienda.
[2] Corte costituzionale, 23.07.2013, n. 227.
[3] Consultabile sul sito: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall.
[4] Cass. civ., sez. lav., 11.07.2012, n. 11660.
[5] Naturalmente di rango primario, considerata la natura della fonte da derogare (cfr. Cass. civ., sez. lav. udienza del 25.01.2005).
[6] Cass. civ., sez. lav., n. 16376/2012, cit.. Conforme, Cass. civ., sez. lav., n. 11660/2012, cit..
[7] E' quanto emerge infatti dalla dichiarazione congiunta n. 24, apposta in calce al CCNL comparto Regioni-Autonomie locali del 22.01.2004.
[8] Cfr. RAL_1649_Orientamenti Applicativi
(11.11.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti comunali: il rimborso dell'iscrizione all'Albo non si estende a tutti i professionisti.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti con deliberazione n. 1/2011 e successivamente la Corte dei Conti Toscana con deliberazione 162/2015, chiamate a pronunciarsi sulla questione concernente l'individuazione del soggetto (professionista dipendente di amministrazione locale o amministrazione locale) sul quale dovessero gravare le spese per l'iscrizione all'albo (nel caso specifico degli avvocati) ha emesso pronuncia di inammissibilità oggettiva perché la questione presuppone la risoluzione di una questione di stretta interpretazione normativa e solo indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della contabilità pubblica.
La Cassazione Civ. Sez. lavoro con
sentenza 16.04.2015 n. 7776 ha stabilito che le spese sostenute da lavoratore nell'esclusivo interesse del datore di lavoro devono essere rimborsate al dipendente.
Ciò premesso il Comune pone su questo argomento diversi quesiti:
Il dipendente di un ente locale, che è stato assunto nel profilo professionale di architetto o ingegnere e che è impiegato nel settore delle opere pubbliche è obbligato ad essere iscritto all'albo?

Ed il dipendente inquadrato nel medesimo profilo e che si occupa di urbanistica nell'ente locale è obbligato all'iscrizione all'albo?
Nel caso in cui non sussista l'obbligo di iscrizione all'albo, ma nel bando di concorso espletato dall'ente per ricoprire il posto era stata richiesta tra i requisiti per l'ammissione alla selezione anche l'iscrizione all'albo, è legittimo da parte dell'Ente locale comunicare al lavoratore che ai fini della legittima sussistenza del rapporto di lavoro il requisito dell'iscrizione all'albo non è più necessario e quindi che l'obbligo di iscrizione è venuto meno?
Nel caso in cui sussista l'obbligo d'iscrizione all'albo, l'onere è a carico dell'Ente e da quando?
In risposta a tali interrogativi la redazione ANCI Risponde ricorda che la questione per la quale la pubblica amministrazione (compresi gli enti locali) sia tenuta o meno, a rimborsare al proprio dipendente la tassa d'iscrizione al rispettivo Albo professionale, è destinata a riproporsi ogni qualvolta nella materia di nostro interesse, sopraggiunge una autorevole pronuncia giurisprudenziale che sembra schiudere alla possibilità di un nuovo orientamento interpretativo sul delicato tema.
E' questo il caso della recente sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Corte di Cassazione –Sezione lavoro- che rigetta il ricorso proposto dal I.N.P.S. avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 4864/2011 depositata il 08/07/2011.
La citata sentenza è formulata in senso favorevole al dipendente pubblico, avvocato, disponendo che a favore di questo ultimo fossero rimborsate tutte le tasse versate da quando era impiegato all'ufficio legale del INPS.
Come è facile notare, lo specifico caso sottoposto al vaglio del Giudice di Cassazione, riguardava un avvocato dipendente dell'INPS, con inserimento nel ruolo legale, regolarmente iscritto nell'elenco speciale annesso all'Albo di appartenenza e riguardante gli avvocati degli enti pubblici. Nel caso di specie il professionista interessato aveva invano richiesto all'Istituto, proprio datore di lavoro, il rimborso di quanto versato al Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Napoli, come tassa di iscrizione per numerosi anni pregressi (dal 1989 al 2002).
Il provvedimento della Cassazione, fonda essenzialmente il suo assunto sulla constatazione che il rapporto avvocato/pubblica amministrazione va considerato alla stregua del contratto di mandato così come previsto dall'articolo 1719 del vigente codice civile. La citata norma civilistica prevede espressamente che il mandante (in questo caso l'ente pubblico), sia tenuto a mantenere indenne il mandatario (il legale), da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari per espletare la professione.
All'indomani della pronuncia giudiziaria, sono stati in molti a ritenere che i principi giuridici contenuti nella sentenza, si presentino estensibili in maniera indiscriminata anche alle altre categorie professionali di pubblici dipendenti potenzialmente destinatarie (ingegneri, architetti, sanitari, assistenti sociali, ecc.), distinte da quella forense.
In proposito non si può non fare osservare che il dictum giudiziale di nostro interesse è, da una parte, per sua intrinseca natura, destinato a fare stato soltanto tra i soggetti che sono stati parte nella causa, ma soprattutto che esso riguarda espressamente la professione forense e le peculiari modalità che regolano lo status dell'avvocato pubblico dipendente (iscrizione nell'elenco speciale annesso all'Albo di appartenenza).
Nel merito la sentenza della Cassazione in disamina, ricollegandosi al parere 15.03.2011 n. 1081 del Consiglio di Stato (reso nell'affare n. 678/2010), ha affermato (rectius: ribadito), che quando sussista il vincolo di esclusività, l'iscrizione all'Albo è funzionale allo svolgimento di un'attività professionale svolta nell'ambito di una prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività, che dovrebbero, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare sull'Ente che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività.
Il principio per come è formulato, si attaglia perfettamente, ma anche in maniera del tutto peculiare, al dipendente pubblico professionista-avvocato, attesa la sussistenza del vincolo di esclusività e della funzionalità dell'iscrizione allo svolgimento dell'attività professionale, nell'ambito della propria prestazione di lavoro dipendente e, l'oggettiva circostanza, per la quale l'ente locale datore di lavoro, rappresenta l'unico beneficiario dell'attività professionale svolta dal proprio dipendente, diventando perciò il soggetto obbligato a sostenere gli oneri della tassa di iscrizione.
L'iscrizione nell'elenco speciale, infatti, fa si che l'avvocato dipendente pubblico potrà svolgere solo ed esclusivamente la professione legale in nome, per conto e nell'interesse dell'ente di appartenenza.
Analoga cosa non si può affermare per tutti gli altri professionisti dipendenti pubblici, i quali con l'iscrizione al proprio Albo professionale, non vengono confinati in alcuna sezione speciale, potendo teoricamente, se pure nel rispetto delle norme concernenti la esclusività del rapporto di pubblico impiego, godere di specifiche disposizioni normative derogatorie del vincolo (collaudi di opere pubbliche, direzione lavori, attività professionali rese a favore di terzi a titolo gratuito etc.), salvo il rispetto della vigente disciplina locale in materia di autorizzazioni ad incarichi extraistituzionali (ex art. 53 del D.Lgs. 165/2001 e s.m.i.).
Senza contare che con l'entrata in vigore del D.P.R. 07.08.2012, n. 137 -Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell'articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– il divieto di iscrizione per il pubblico dipendente è praticamente caduto, anche se deve essere chiaro che a seguito dell'eventuale iscrizione non si costituisce un diritto incondizionato all'esercizio della libera professione.
Per gli stessi dipendenti comunali ingegneri ed architetti, infine, sembra opportuno evidenziare che
per poter idoneamente svolgere il proprio rapporto di lavoro con l'ente datore, è sufficiente la sola abilitazione, legata all'accertamento dei requisiti tecnico-professionali (l'art. 90 del Codice dei Contratti precisa che nelle amministrazioni pubbliche i progetti sono firmati da dipendenti abilitati all'esercizio della professione e quindi non è richiesta per tali figure alcuna iscrizione all'albo.
Anche per quanto riguarda l'attività di collaudo, a termini dell'art. 120 del codice non è richiesta alcuna iscrizione).

In conseguenza di quanto argomentato,
dal momento che per tali categorie professionali, l'iscrizione al proprio ordine professionale non costituisce un requisito professionale necessario per svolgere il rapporto di lavoro con l'ente di appartenenza, ad essi non spetta alcun rimborso della quota di iscrizione annuale.
Le risposte alle singole questioni generali poste dal quesito sono rilevabili dal contenuto dei chiarimenti sopra svolti. Si segnala in proposito anche la recente
nota 19.10.2015 n. 79309 di prot. del MEF.
Per quanto attiene al secondo specifico punto del quesito,
parrebbe utile che l'ente locale che -in sede di bando di concorso avesse espressamente richiesto, tra i requisiti di ammissione anche l'iscrizione al rispettivo Ordine professionale– comunicasse ai lavoratori in questione che il proprio rinnovo della iscrizione all'Albo, resta una formalità riconducibile esclusivamente all'interesse professionale personale di ciascuno di loro (10.11.2015 - link a www.centrodocumentazionecomuni.it).

URBANISTICAParere in merito agli effetti della mancata realizzazione di un programma di riqualificazione urbana approvato con accordo di programma in variante urbanistica - Comune di Sora (Regione Lazio, parere 09.11.2015 n. 121960 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un amministratore locale che riveste la carica di Presidente di una società cooperativa a responsabilità limitata.
Si ritiene non sussista alcuna causa di incompatibilità per un amministratore locale che riveste, altresì, la carica di Presidente di una società cooperativa, che non riceve sovvenzioni dal Comune e nella quale l'Ente possiede una partecipazione minoritaria, qualora l'amministrazione comunale non eserciti alcuna influenza, controllo o vigilanza sulla società in riferimento né partecipi in alcun modo alla scelta dei componenti degli organi di amministrazione.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all'esistenza di una qualche causa di incompatibilità per un amministratore locale che riveste, altresì, la carica di Presidente di una società cooperativa nella quale l'Ente possiede una partecipazione minoritaria. Precisa, altresì, l'amministrazione comunale, per le vie brevi, che la stessa 'non esercita alcuna influenza, controllo o vigilanza sulla società in riferimento né partecipa in alcun modo nella scelta dei componenti degli organi di amministrazione'.
Alla luce delle indicazioni fornite dal Comune pare non venga in rilievo, nella fattispecie in esame, alcuna causa di incompatibilità disciplinata dalla legge.
In particolare, pare manchino i presupposti per l'applicabilità sia delle disposizioni previste dall'articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), rubricato 'Incompatibilità', sia di quelle contenute nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
[1]
In via generale, si ricorda come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall'articolo 51 della Costituzione.
Atteso un tanto, pare manchino i presupposti per l'applicazione del disposto di cui all'articolo 63, comma 1, num. 1), TUEL laddove prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno il 20 per cento di partecipazione da parte del comune o che dallo stesso riceva, in via continuativa, una sovvenzione, in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Nel caso di specie, infatti, mancano sia i presupposti per l'applicabilità della prima parte della disposizione sopra citata, non sussistendo alcun rapporto di vigilanza tra l'ente e la società e non avendo il Comune una partecipazione rilevante ai fini di legge nella cooperativa, sia quelli di cui alla seconda parte della disposizione citata atteso che la società non riceve alcuna sovvenzione da parte del Comune.
Non assume rilievo il disposto di cui all'articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL, atteso che lo stesso non si applica 'a coloro che hanno parte in cooperative o consorzi di cooperative, iscritte regolarmente nei registri pubblici', ai sensi del comma 2 del medesimo articolo.
Quanto alle cause di incompatibilità previste dal D.Lgs. 39/2013 si rileva che l'articolo 1, comma 2, lett. c), del medesimo annovera tra gli enti di diritto privato in controllo pubblico 'le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell'articolo 2359 c.c.
[2] da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi'.
Al fine di escludere che la società cooperativa in riferimento debba essere annoverata tra gli 'enti di diritto privato in controllo pubblico', risulta necessario valutare in concreto le modalità di nomina dei componenti degli organi di amministrazione della società stessa. In ogni caso, da una analisi delle cause di inconferibilità e incompatibilità disciplinate dal D.Lgs. 39/2013 parrebbero, comunque, mancare i requisiti richiesti dalla legge per l'insorgenza delle fattispecie dalla stessa disciplinate.
In particolare, tanto l'articolo 7, comma 2,
[3] quanto l'articolo 13, comma 3, [4] del D.Lgs. 39/2013, richiedono, tra gli altri, l'elemento della soglia demografica minima comunale che deve essere superiore ai 15.000 abitanti: tale requisito risulta difettare nel caso del Comune che ha posto l'odierno quesito.
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[1] Recante 'Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190'.
[2] Recita l'articolo 2359 c.c.: 'Sono considerate società controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Ai fini dell'applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.
Sono considerate collegate le società sulle quali un'altra società esercita un'influenza notevole. L'influenza si presume quando nell'assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati'.
[3] Recita l'articolo 7, comma 2, del D.Lgs. 39/2013: 'A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, ovvero a coloro che nell'anno precedente abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella stessa regione dell'amministrazione locale che conferisce l'incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione, non possono essere conferiti:
a) OMISSIS;
b) OMISSIS;
c) OMISSIS;
d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione'.
[4] Recita l'articolo 13, comma 3, del D.Lgs. 39/2013: 'Gli incarichi di presidente e amministratore delegato di ente di diritto privato in controllo pubblico di livello locale sono incompatibili con l'assunzione, nel corso dell'incarico, della carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia o di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione'
(05.11.2015 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La pubblicità temporanea.
DOMANDA:
Si può rinnovare una pubblicità temporanea trimestrale? La normativa parla di temporanea mensile/bimestrale/trimestrale dopodiché diventa permanente annuale.
RISPOSTA:
Le norme relative alle modalità di rilascio delle autorizzazioni alle diverse esposizioni pubblicitarie sono previste nel regolamento comunale e nel piano generale degli impianti ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 507/1993. Pertanto è in riferimento a questi due strumenti regolamentari che vanno valutate le richieste di installazione e di eventuale rinnovo delle pubblicità temporanee.
La norma sulla tariffa per la pubblicità temporanea (art. 12 del D.Lgs. 507/1993) riguarda appunto la tariffa da applicare e non i provvedimenti autorizzatori.
Nel caso in cui una pubblicità si protragga oltre i tre mesi, anche in conseguenza di una proroga dovrà pagare l’importo della pubblicità annuale per intero. Cioè una pubblicità che dura quattro mesi deve comunque pagare l’intera pubblicità annuale (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lo sportello unico per le attività produttive.
DOMANDA:
Si premette che: lo Sportello unico attività produttive (Suap) del nostro Comune è gestito attualmente dall'ufficio tecnico comunale; il Servizio Commercio–Polizia Amministrativa è inserito in un Settore Amministrativo distinto e separato dallo Sportello unico attività produttive; non è stato ancora approvato il Regolamento per la disciplina dello stesso Suap.
Considerato quanto sopra, si chiede, alla luce della vigente normativa in materia, stante l'attuale organizzazione del Comune in premessa descritta, al fine di evitare l'emissione di provvedimenti illegittimi, quale sia il Settore competente, se il Suap o l'Ufficio Commercio–Polizia Amministrativa:
1) al rilascio delle autorizzazioni ai sensi della L.R. Marche 27/2009, "Testo unico sul Commercio", e all'emissione dei provvedimenti di sospensione, decadenza e revoca delle suddette autorizzazioni;
2) all'avvio del procedimento per i provvedimenti sopra citati di sospensione, decadenza e revoca delle suddette autorizzazioni 2) al rilascio delle autorizzazioni di cui al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza e delle normative regionali in materia di strutture ricettive;
3) all'adozione dei motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione delle attività sopra citate e di rimozione degli eventuali effetti dannosi delle stesse, di cui all'art. 19 della L. 241/1990.
RISPOSTA:
L’art. 4 del D.P.R. n. 160/2010, recante il regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, dispone che le comunicazioni al richiedente sono trasmesse esclusivamente dal SUAP; gli altri uffici comunali e le amministrazioni pubbliche diverse dal comune, che sono interessati al procedimento, non possono trasmettere al richiedente atti autorizzatori, nulla osta, pareri o atti di consenso, anche a contenuto negativo, comunque denominati e sono tenute a trasmettere immediatamente al SUAP tutte le denunce, le domande, gli atti e la documentazione ad esse eventualmente presentati, dandone comunicazione al richiedente.
E’ solo il SUAP che deve adottare il provvedimento conclusivo entro trenta giorni, mentre presso ciascun Settore/Servizio dell’Amministrazione Comunale dovrebbe essere individuato un Referente SUAP che, generalmente, coincide con il Responsabile del Settore/Servizio, salvo delega ad altro personale individuato dal Responsabile stesso, in qualità di responsabile delle fasi endoprocedimentali di competenza di ciascun Ufficio o Servizio ovvero di una o più materie collegate allo Sportello Unico.
Questi referenti interni dovrebbero presidiare le funzioni autorizzative/abilitative dei Settori che intervengono negli endoprocedimenti del procedimento unico di competenza del SUAP e dovrebbero far pervenire le autorizzazioni, pareri o quant’altro di loro competenza, con relativi atti presupposti al responsabile del SUAP nei termini previsti.
I provvedimenti di sospensione, di decadenza ecc. sono di competenza del dirigente/funzionario che adotta anche i titoli autorizzativi e quindi questo può essere determinato solo nel regolamento del comune che disciplina l’attività del SUAP e le competenze assegnate al SUAP e ai dirigenti/funzionari di ciascun Settore/Servizio dell’Amministrazione Comunale che interviene nel procedimento (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modena - regolamento comunale del Sito Unesco di Modena: Cattedrale, Torre Civica Ghirlandina e Piazza Grande (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 03.11.2015 n. 26403 di prot.).
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La Direzione generale Belle Arti e Paesaggio, con nota del 29.08.2015, nel trasmettere la bozza del regolamento comunale del sito Unesco di Modena, su istanza della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara, chiede il parere di questo Ufficio sulla previsione di cui al punto 8.2 del suddetto Regolamento, che consente di derogare all'obbligo di acquisire l'autorizzazione ministeriale, prevista dall'art. 21 del codice di settore, in caso di interventi conformi al regolamento medesimo.
Tale "procedura in deroga" poggerebbe sull'Accordo di programma ...

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: NAPOLI — Rione Duca D'Aosta in via Giacomo Leopardi 110 - Trasferimento di immobili facenti parte di fabbricato con vincolo gravante solo su un particolare architettonico - art. 60 decreto legislativo 22.01.2004 n. 42, "Codice dei beni culturali e del paesaggio" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 02.10.2015 n. 23142 di prot.).
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Codesta Direzione, con nota prot. 21245 del 09.09.2015, chiede chiarimenti circa la legittimità della procedura prevista dall'art. 60 del codice di settore (acquisto in via di prelazione) in caso di alienazione di bene sottoposto a vincolo gravante unicamente sulla facciata.
Nella fattispecie considerata, il procedimento risulta caratterizzato dalla natura pubblica dell'ente proprietario del complesso immobiliare, soggetto al procedimento di verifica di interesse culturale ...

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Applicabilità della disciplina della L.R. n. 15 del 2013 sulla proroga a interventi edilizi avviati, con il rilascio del titolo edilizio, in vigenza della L.R. n. 31 del 2002 (Regione Emilia Romagna, parere 23.09.2015 n. 689858 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: CAPRI (Napoli) - demolizione di manufatti abusivi - art. 27, comma 2, decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia" - art. 167, decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio" (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 23.09.2015 n. 22200 di prot.).
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La Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il comune e la provincia di Napoli, con nota prot. 11941 del 30.07.2015, chiede chiarimenti circa le competenze del Soprintendente in merito all'esecuzione delle opere per il ripristino dello stato dei luoghi che, ricadenti in ambito territoriale tutelato ai fini paesaggistici, risultano essere stati modificati o alterati per effetto di interventi abusivi non sanati.
Espone in fatto l'avvenuta esecuzione di opere abusive ...

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Collegio San Carlo S.r.l. con sede a Milano, corso Magenta 71 - alienazione di beni chiesastici (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 02.09.2015 n. 20330 di prot.).
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Con nota prot. 265/1-1 del 07.07.2015 codesto Comando, in relazione alla vendita di numerosi oggetti chiesastici provenienti dalla sede del Collegio San Carlo S.r.l. della Diocesi di Milano, chiede di sapere se tale ente, costituitosi in forma di società per azioni nel 1913, e trasformatosi in società a responsabilità limitata nel 1988, sia assimilabile agli enti ecclesiastici che ne costituiscono l'assetto societario (opera Diocesana per la prevenzione e diffusione della fede al 99% e Vicenziana al 1%), se detta società sia sottoposta agli obblighi imposti dall'art. 12 del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e se i beni chiesastici provenienti ...

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Composizione Commissioni regionali ex art. 137 del codice dei beni culturali e del paesaggio. Segretariati regionali dei beni e delle attività culturali e del turismo (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 21.07.2015 n. 17462 di prot.).
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Si fa riferimento al quesito posto da codesto Segretariato regionale, con nota prot. n. 1979 del 29.06.2015, con il quale si chiede se il Segretario regionale dei beni e delle attività culturali e del turismo possa subentrare al Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici nella composizione delle Commissioni regionali del paesaggio.
Al riguardo, si osserva che la composizione delle Commissioni suddette è stabilita ...

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Che cos'è la presupposizione.
La presupposizione costituisce un’ipotesi di scioglimento del contratto di creazione dottrinale e giurisprudenziale.
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura) viene considerata come presupposto determinante ai fini della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte della dottrina definisce la presupposizione una "condizione inespressa".

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La presupposizione costituisce un’ipotesi di scioglimento del contratto di creazione dottrinale e giurisprudenziale. Come si può leggere sul Torrente, "talora accade che le parti abbiano dettato il regolamento negoziale fondando le loro valutazioni su determinati presupposti che in seguito possono essere venuti meno o che, nonostante le attese, non si sono verificati".
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura) viene considerata come presupposto determinante ai fini della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte della dottrina definisce la presupposizione una "condizione inespressa".
La definizione più efficace di tale istituto viene fornita dalla sentenza della Cassazione, n. 633 del 24/03/2006, che statuisce quanto segue: “La cosiddetta presupposizione deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di condizione, da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa causa del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'articolo 1467 cod. civ.”.
Un esempio: acquistare un terreno per costruire una casa; entrambi i contraenti "presupponevano" l'edificabilità del suolo di cui viene successivamente constatata l'inedificabilità (17.02.2015 - link a http://www.studiodostuni.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Comune di TORINO (TO) - Riscontro a nota comunale prot.  n. 2040 del 18.04.2014: "Attestazioni di agibillità ai sensi dell’art. 25, comma 5-bis, del DPR n. 380/2001 - attuazlone modalità di effettuazione dei controlli (Regione Piemonte, parere 16.05.2014 n. 13265 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Comune di CHIERI (TO) - Riscontro a nota comunale prot. n. 35182 del 23.10.2013: “Quesito in merito all’applicabilità delle tempistiche previste per i procedimenti SUAP in casi di interventi in deroga agli strumenti urbanistici ai sensi della L. 106/2011” (Regione Piemonte, parere 12.02.2014 n. 4028 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comune di NARZOLE (CN) - "Richiesta di parere per intervento edilizio proposto come ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e successiva ricostruzione di fabbricato residenziale, alla luce delle recenti novità introdotte dal D.L. n. 69 del 21.06.2013 convertito nella legge n. 69 del 09.08.2013" (Regione Piemonte, parere 30.01.2014 n. 2766 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Comune di PONTI (AL) - “Serra mobile stagionale per il ricovero della fienagione costituita da tunnel”. Richiesta parere sulla procedura autorizzativa (Regione Piemonte, parere 15.11.2013 n. 31150 di prot.).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Rilascio polizze fideiussorie false nell’ambito dei contratti pubblici - Notizie acquisite dall’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (comunicato del Presidente 17.11.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Attività della Società ASMEL. Sospensiva del provvedimento dell’Anac n. 32/2015.
Con riferimento alla delibera dell’Autorità n. 32/2015, si porta a conoscenza delle Amministrazioni interessate che con ordinanza 04.11.2015, n. 5042, emessa ai sensi dell’art. 112, comma 5, c.p.a., il Consiglio di Stato, VI sezione,  ha affermato che la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato dell’Autorità ha ad oggetto “esclusivamente la sua incidenza sulle procedure di gara in corso e non anche sulla futura attività amministrativa di Asmel, che rimane regolata dal suddetto provvedimento nelle more della decisione nel merito della controversia”.
È stata chiarita, in questo modo, l’esatta portata della precedente ordinanza n. 4016 del 09.09.2015.
Delibera n. 32 del 30.04.2015
Ordinanza 04.11.2015 n. 5042
Ordinanza 09.09.2015 n. 4016
(09.11.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Criticità della normativa contenuta nel d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (“Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali”), in tema di esimenti alle cause di incompatibilità e di conflitto di interessi (atto di segnalazione 04.11.2015 n. 7 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAnac contro le proroghe, distorcono la concorrenza. Denunciato l'utilizzo improprio. Rischi di danno erariale.
Rischio di responsabilità per danno erariale per le proroghe e i rinnovi contrattuali illegittimi e che, per ragioni di natura «tecnica», arrivano a 6 anni oltre la scadenza originaria del contratto, con picchi fino a tre volte la durata del contratto originario.

È quanto messo in evidenza dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il comunicato del Presidente 04.11.2015 che dà conto dei risultati dell'indagine condotta dall'Autorità su un campione di 39 stazioni appaltanti e che fa emerge un utilizzo improprio degli istituti del rinnovo e della proroga al punto da fare prefigurare a Raffaele Cantone «profili di illegittimità e di danno erariale allorquando le amministrazioni interessate non dimostrino di aver attivato tutti quegli strumenti organizzativi-amministrativi necessari a evitare il generale e tassativo divieto di proroga dei contratti in corso e le correlate distorsioni del mercato».
Oggetto di esame sono stati oltre 78 contratti, più volte prorogati. La durata media delle proroghe è di 36 mesi (da 9 a 72 mesi); solo 35 contratti prevedevano opzioni, mediamente di circa 30 mesi (da 9 a 48) pari all'85% della durata media dei contratti originari.
Nel complesso, per i 78 contratti presi in esame si è arrivati a 5.694 mesi di proroghe pari al 203% delle durate originarie (2.804 mesi). È invece ritenuto dalla stessa Autorità «sorprendente» il dato medio di 73 mesi di proroghe «tecniche» (6 anni), con un caso limite in cui un contratto di 3 anni è stato prorogato di altri 9 e un altro in cui l'anno di durata si è concluso quasi dopo 10 anni.
La maggior parte delle proroghe è stata motivata dal fatto che si trattava di proroghe concesse prima del divieto esplicito di rinnovo dei contratti previsto dall'articolo 23, comma 2, della legge n. 62/2005.
Per quel che riguarda le proroghe «tecniche» le amministrazioni hanno, invece, spesso fatto riferimento alla redazione degli atti di gara (per l'Anac il 70% delle stazioni appaltanti hanno «difficoltà a predisporre gli atti di gara e a svolgere le gare»), o alla modifica degli atti di gara a causa di nuove normative o a ritardi derivanti dal contenzioso che non ha permesso l'aggiudicazione definitiva.
Viene notato come la dilatazione dei tempi sia strettamente connessa alla incompletezza e alla scarsa qualità della definizione delle prestazioni che, a seguito di richieste di chiarimento da parte dei concorrenti, determinano lo spostamento dei termini delle offerte.
Nell'8% dei casi la proroga tecnica è imputabile ad una «sorta di cortocircuito determinato dalla regolazione regionale che impedisce nuove gare agli enti, ma al contempo le centrali di acquisto avviano e completano con forti ritardi le gare di loro competenza».
Nell'analisi, l'Autorità ha ribadito che la proroga rimane sempre un istituto eccezionale perché deroga ai principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, e deve essere molto limitata nel tempo e finalizzato al passaggio da un regime contrattuale a un altro, con gara pubblica.
Viene poi individuato nella scarsa programmazione delle acquisizioni di beni e servizi e delle attività di gara, l'elemento di maggiore criticità, al quale si affianca anche il «continuo rimescolamento dei modelli organizzativi degli enti appaltanti» (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Un appalto di 12 mesi può durare 13 volte il previsto. L'Anac: troppi e troppo lunghi i rinvii. Lesivi dei principi di concorrenza.
Troppe e troppo lunghe le proroghe dei contratti di appalto della pubblica amministrazione.
Il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) è intervenuto con il comunicato del Presidente 04.11.2015 a stigmatizzare un comportamento molto diffuso, lesivo dei principi di concorrenza e buon andamento.
Il comunicato è frutto di un'indagine dell'Anac riguardo le motivazioni che hanno spinto un campione ti 39 stazioni appaltanti facenti parte di vari servizi sanitari regionali, riguardante in particolare i contratti dei servizi di lavanolo, pulizie e ristorazione.
Sotto la lente dell'Anac sono finiti 78 contratti oggetto di ripetute proroghe pari a complessivi 5694 mesi, e cioè il 203% delle durate originarie limitate a 2.804 mesi, nonché il 149% delle durate originarie incrementate dalle opzioni previste nei contratti (3.827 mesi).
In sostanza, l'indagine ha rilevato il dato medio di 73 mesi di proroghe «tecniche», pari a poco più di 6, con picchi di proroghe pari a al 300% della durata iniziale e di un contratto inizialmente di 12 mesi, prolungato a 158, oltre 13 volte la durata originaria.
L'Anac ha analizzato anche le cause principali del ricorso alle proroghe, riscontrando che circa nel 70% dei casi è la difficoltà nel predisporre gli atti di gara (in particolare capitolati e progetti) a indurre le stazioni appaltanti a rinviare sine die le nuove gare, prolungando la durata dei contratti già in corso. Non mancano casi di proroghe «tecniche» dovute a modifiche normative nazionali o, soprattutto, regionali. Molto più contenuto (l'1% del totale) è il caso di proroghe dovute a contenziosi.
Un utilizzo così esteso dell'istituto della proroga, spiega l'Anac, costituisce un vulnus evidente al sistema degli appalti. Infatti, spiega l'autorità, la proroga non può che avere carattere temporaneo e non eccedere di certo, nella sua durata, quella iniziale, trattandosi di un strumento che dovrebbe finalizzarsi esclusivamente «ad assicurare il passaggio da un regime contrattuale a un altro».
La regola normale impone che le amministrazioni pongano in essere una nuova gara per l'affidamento delle prestazioni, quando un contratto sia scaduto. Le proroghe sono un sistema per eludere l'ordinario modo di procedere, violando i principi di apertura del mercato e della concorrenza.
L'indagine dimostra anche lo scarso e inefficiente utilizzo del sistema della programmazione, come strumento per assicurare tempestivamente l'avvicendamento degli operatori economici affidatari dei vari appalti. Il che porta al paradosso della concessione di proroghe «tecniche» al contratto già in essere, in vista di nuove procedure di gara che in realtà non vedono mai la luce, anche per difficoltà operative nella redazione di progetti e capitolati e, ancora, la diffusissima tendenza degli enti oggetto dell'indagine a sconvolgere molto di frequente gli assetti organizzativi.
Così, le procedure passano con eccessiva rapidità di mano in mano, senza memoria storica, perdendo efficienza nella gestione (articolo ItaliaOggi del 20.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Indagine sugli affidamenti in deroga alle convenzioni Consip di energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento, telefonia mobile (comunicato del Presidente 04.11.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Oggetto: art. 11, comma 13, d.lgs. 163/2006 - stipula dei contratti d'appalto “in forma elettronica” (comunicato del Presidente 04.11.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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L’Autorità, in data 13.02.2013, ha adottato la Determinazione n. 1, recante “Indicazioni interpretative concernenti la forma dei contratti pubblici ai sensi dell’art. 11, comma 13, del Codice”.
In considerazione della sopravvenienza normativa di cui all’art. 6, comma 6, del D.L. 23.12.2013, n. 145, c.d. “Destinazione Italia”, convertito nella legge 21.02.2014, n. 9, ad integrazione e modifica del contenuto della Determinazione n. 1/2013, si forniscono alle stazioni appaltanti le seguenti indicazioni.
Il legislatore, prevedendo un differimento dei termini relativi all'entrata in vigore delle disposizioni dell'art. 11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, applicabili a fare data dal 30.06.2014 per i contratti d’appalto pubblico stipulati in forma pubblica amministrativa e a far data dal 01.01.2015 per quelli stipulati mediante scrittura privata, ha manifestato la volontà di comminare la sanzione della nullità a tutti i casi di mancato utilizzo della “modalità elettronica”, la quale deve ritenersi obbligatoria sia per la forma pubblica amministrativa del contratto sia per la scrittura privata.
Pertanto, anche la scrittura privata conclusa tramite scambio di lettere, ai sensi dell’art. 334, comma 2, del d.p.r. n. 207/2010, e relativa al cottimo fiduciario nei servizi e nelle forniture, dovrà essere redatta in modalità elettronica.

APPALTI: Appalti, l’analisi dei rischi dal bando alla verifica finale. Anticorruzione. L’aggiornamento del piano nazionale Anac.
Gli appalti sono uno degli ambiti più a rischio per i fenomeni corruttivi e per queste ragioni le misure di prevenzione devono essere strutturate in modo puntuale, sulla base di un’accurata valutazione.

La determinazione 28.10.2015 n. 12 ANAC sull’aggiornamento del piano nazionale anticorruzione contiene un’ampia analisi dell’area di rischio dei contratti pubblici, focalizzando l’attenzione su tutte le fasi del percorso di acquisizione di lavori, servizi e forniture, e individuando per ciascuna rischi potenziali e possibili misure preventive.
Il presupposto per l’impostazione di misure efficaci è la completa mappatura dei processi, associata però a un’autoanalisi organizzativa, che deve “fotografare” la situazione, permettendo di individuare criticità e punti di forza. I processi devono essere presi in esame per ciascuna delle macro-fasi che compongono la sequenza per la realizzazione di un appalto, rilevando i possibili eventi rischiosi e le anomalie significative, e componendo un sistema di indicatori di rischio e definendo misure specifiche.
L’Anac sollecita le amministrazioni ad analizzare le problematiche della programmazione, che, soprattutto per i beni e i servizi, è trascurata dalle stazioni appaltanti e, per i lavori, se non ben impostata lascia spazio all’intervento “spontaneo” del privato con strumenti spesso impropri. In questa fase, tra gli eventi rischiosi l’Autorità rileva la possibilità che siano inserite nel programma triennale opere volte a premiare interessi particolari, destinate ad essere realizzate da determinati operatori economici.
Anche la progettazione ha molteplici rischi, tra i quali la nomina di un responsabile unico del procedimento in situazione di contiguità con l’esecutore uscente o la fuga di notizie rispetto alla predisposizione della gara, tale da anticipare solo ad alcuni operatori la volontà di bandire la gara o il contenuto dei documenti regolatori della procedura.
Nella fase di selezione del contraente l’Anac configura come elementi rischiosi le possibili manipolazioni della gara al fine di pilotarne l’aggiudicazione,come l’applicazione distorta dei criteri di valutazione per favorire un certo operatore o la nomina di componenti delle commissioni giudicatrici in conflitto di interesse.
Le anomalie significative sono molte e possono sostanziarsi nell’assenza di pubblicità della procedura o nella mancanza di criteri motivazionali sufficienti a rendere trasparente l’iter seguito per la valutazione delle offerte. In questa fase l’Anac individua più volte tra le misure utilizzabili il ricorso all’audit interno su singole sub-fasi.
Anche la verifica dell’aggiudicazione e la stipula del contratto presentano rischi importanti, primo tra tutti l’alterazione o l’omissione dei controlli sui requisiti.
Rispetto alla fase dell’esecuzione del contratto, invece, l’Anac rafforza una posizione più volte espressa, che individua come situazione di forte rischio la carenza di controlli sull’effettivo stato di avanzamento dell’appalto. A questa si associa la nota criticità dell’utilizzo improprio delle varianti, il cui numero nell’ambito dell’appalto potrebbe essere rapportato a un indicatore specifico.
L’Anac evidenzia infine la necessità di analizzare i potenziali rischi anche per la fase relativa alla rendicontazione dei contratti, ad esempio per evitare che alcuni pagamenti sfuggano alla tracciabilità dei flussi finanziari
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Gare, le fasi a rischio corruzione. Un antidoto è la programmazione delle amministrazioni. Determina dell'Anac per prevenire le anomalie nella gestione degli appalti pubblici.
Insufficiente programmazione, nomina di responsabili del procedimento in rapporto di contiguità con le imprese esecutrici; mancata comunicazione delle varianti, frequente ricorso alle procedure negoziate o in deroga
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Sono queste alcune delle principali anomalie che l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha individuato per il settore degli appalti pubblici con la determinazione 28.10.2015 n. 12 e per le quali ha fornito indicazioni ai fini della predisposizione e gestione delle misure di prevenzione della corruzione (aggiornamento 2015 del piano nazionale anticorruzione).
L'Anac ha evidenziato un elenco esemplificativo di aree di rischio, prevalentemente attinenti alla definizione dell'oggetto dell'affidamento, alla individuazione dello strumento e istituto per l'affidamento, ai requisiti di qualificazione e di aggiudicazione, alla valutazione e verifica dell'anomalia delle offerte, alla gestione delle procedure negoziate e di affidamento diretto, alla revoca del bando, alla redazione del cronoprogramma, all'adozione di varianti, al subappalto e all'utilizzo di rimedi di risoluzione delle controversie alternativi a quelli giurisdizionali durante la fase di esecuzione del contratto.
L'Anac ha sottolineato in primo luogo come l'insufficiente attenzione alla fase di programmazione o l'utilizzo improprio degli strumenti di intervento dei privati nella programmazione costituiscano una delle principali cause dell'uso distorto delle procedure che può condurre a fenomeni corruttivi.
In questa fase quindi le amministrazioni dovrebbero prestare particolare attenzione ai processi di analisi e definizione dei fabbisogni, alla redazione e all'aggiornamento del programma triennale per gli appalti di lavori e a tutti i processi che prevedono la partecipazione di privati alla fase di programmazione.
Uno dei punti fondamentali messi in evidenza dalla determina è quello della trasparenza in ogni fase del procedimento di approvvigionamento, ivi inclusa la fase di esecuzione dei contratti.
Le anomalie più significative da evitare riguardano comunque il ritardo o la mancata approvazione degli strumenti di programmazione, l'eccessivo ricorso a procedure di urgenza o a proroghe contrattuali, la reiterazione di piccoli affidamenti aventi il medesimo oggetto ovvero la reiterazione dell'inserimento di specifici interventi, negli atti di programmazione, che non approdano alla fase di affidamento ed esecuzione, la presenza di gare aggiudicate con frequenza agli stessi soggetti o di gare con unica offerta valida costituiscono tutti elementi rivelatori di una programmazione carente e, in ultima analisi, segnali di un uso distorto o improprio della discrezionalità.
Fra i possibili eventi rischiosi viene poi indicata la nomina di responsabili del procedimento in rapporto di contiguità con imprese concorrenti (soprattutto esecutori uscenti) o privi dei requisiti idonei e adeguati ad assicurarne la terzietà e l'indipendenza.
Problemi sono stati individuati anche nella fase delle varianti, con casi di abusivo ricorso alle varianti al fine di favorire l'appaltatore per recuperare i ribassi d'asta. Così come è molto frequente l'approvazione di modifiche sostanziali degli elementi del contratto definiti nel bando di gara o nel capitolato d'oneri che, se previsti fin dall'inizio, avrebbero consentito un confronto concorrenziale più ampio.
In fase di controllo dell'appalto rappresenta infine un elemento di elevato rischio quello legato all'affidamento dell'incarico di collaudo a soggetti compiacenti per ottenere il certificato di collaudo pur in assenza dei requisiti (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).

APPALTI: Gare, basta cauzioni col rating.
È illegittimo chiedere cauzioni con il rating per la partecipazione ad appalti pubblici; si violano i principi di concorrenza e si penalizzano le piccole e medie imprese.

È quanto afferma il parere di precontenzioso 21.10.2015 n. 171 Anac (l'Autorità nazionale anticorruzione)  con riguardo a una gara di appalto per l'affidamento del servizio di taglio del manto erboso e servizi accessori, il cui disciplinare di gara aveva previsto che per la produzione della cauzione provvisoria i concorrenti dovessero fare riferimento a compagnie assicurative che rilasciano le garanzie fideiussorie dotate di rating, rilasciato da una delle principali società di rating, non inferiore al corrispondente punteggio BBB rilasciato da Standard & Poor's.
In base alla normativa vigente la cauzione provvisoria può essere costituita anche sotto forma di fideiussione bancaria o assicurativa o rilasciata da intermediari finanziari purché questi siano iscritti nell'albo di cui all'articolo 106 del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da parte di una società di revisione iscritta nell'albo previsto dall'articolo 161 del decreto legislativo 24.02.1998, n. 58.
L'Autorità presieduta da Raffaele Cantone ha nella sostanza, sia pure in estrema sintesi, ripreso i contenuti della propria determinazione n. 1 del 29.07.2014 che si era espressa nel senso che la richiesta di rating, pari o superiore ad un determinato minimo, attribuito dalle società di certificazione internazionale si ponesse «in violazione dei principi di cui all'art. 2, dlgs 163/2006 in quanto introduce restrizioni non previste dal Codice che non appaiono neppure correlate e proporzionate con gli obiettivi che si intende perseguire, potendo introdurre ostacoli elevati alla partecipazione alle gare soprattutto per le piccole e medie imprese».
Nel provvedimento di oltre un anno fa si ponevano diversi aspetti di illegittimità: la mancata accettazione di garanzie da parte degli intermediari finanziari; la richiesta di un contratto autonomo di garanzia e, infine, il problema del rating che, con questo parere di precontenzioso viene di nuovo bocciato, nonostante sia molto spesso richiesto (articolo ItaliaOggi del 24.11.2015).

INCARICHI PROGETTUALI: Concorsi di progettazione, incarichi indicati nel bando. Delibera n. 12 dell'Autorità presieduta da Raffaele Cantone.
Deve essere prevista nel bando di concorso la facoltà di affidare al vincitore del concorso di progettazione gli sviluppi progettuali.

Lo ha affermato l'Anac (autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone) nella delibera 21.10.2015 n. 105.
La vicenda riguardava un professionista che aveva vinto un concorso di progettazione (e ricevuto un premio di 8 mila euro) e successivamente aveva ricevuto incarichi di progettazione in forma frazionata (per 460 mila euro di compensi) non relativi al completamento dell'intero progetto del concorso.
Trattandosi di affidamenti successivi che superavano l'importo di applicazione della soglia Ue, si poneva il problema della loro legittimità attraverso il ricorso allo strumento del concorso di progettazione, nel caso specifico in cui il bando non aveva espressamente specificato se sarebbe stato affidato o meno l'incarico di progettazione al vincitore del concorso. L'amministrazione, infatti, si era riservata di effettuare tale scelta in un momento successivo.
Per affrontare tale profilo l'Anac premette alcune considerazioni generali sulla finalità del concorso che è quello di «acquisire un prodotto di ingegno, giudicato migliore da un'apposita commissione, in luogo del ricorso a un appalto di servizi di progettazione nel quale l'oggetto del contratto è una prestazione professionale tesa a uno specifico risultato, per cui lo scopo della procedura è individuare un progettista e implica, quest'ultima procedura, la richiesta di requisiti ed esperienze specifiche che non appaiono stringenti nel caso di un concorso di progettazione».
Ciò detto, però va tenuto presente che, se nel bando si ammette l'affidamento di sviluppi progettuali al vincitore del concorso vanno sempre indicati i requisiti necessari a svolgere tali prestazioni (come prevede l'articolo 99, comma 5 del codice dei contratti pubblici).
Date queste differenze fra concorso e gara di progettazione l'Autorità richiama la determinazione n. 5/2010 nel passaggio in cui considera a facoltà di affidare al vincitore i servizi di ingegneria, per ribadire che la necessità che tale facoltà sia sempre esercitata nel bando di gara. Sul punto la stessa determina 5 rinviava a un altro atto dell'Avcp (delibera 307/2002 dove si specificava che l'amministrazione deve indicare nel bando la facoltà di affidare al vincitore l'incarico della progettazione «ma non può discrezionalmente riservarsi la facoltà di affidare o meno l'incarico di progettazione definitiva ed esecutiva al vincitore del concorso di progettazione».
Per l'Anac la normativa vigente non offre interpretazioni diverse per cui la possibilità di affidare l'incarico «non può essere intesa come riserva dell'amministrazione di affidare a suo insindacabile giudizio». La norma, ha chiarito l'Anac, ha lo scopo di rendere palese a tutti i partecipanti se verranno affidati o meno servizi di ingegneria collegati con il concorso così da valutare l'eventuale partecipazione al concorso stesso.
Ma si tratta, ha detto l'Authority, di garantire anche la libera concorrenza e trasparenza quindi non si può affidare «alla discrezionalità della stazione appaltante la scelta in un secondo momento se affidare o meno al vincitore i servizi di ingegneria» (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Oggetto: Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113 del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni (comunicato del Presidente 21.10.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Integrazione del Comunicato del Presidente del 01.07.2015
Ad integrazione del Comunicato del Presidente del 01.07.2015 relativo a «Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113 del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni» si rappresenta che la Banca d’Italia, con nota del 30.09.2015, ha informato l’Autorità sulle modifiche recentemente introdotte nel proprio sito internet nella parte relativa alle finanziarie per tener conto del mutato quadro normativo di riferimento.
L’Autorità, condividendo con la Banca d’Italia l’obiettivo di contrasto all’abusivismo nel rilascio di garanzie, nel richiamare le stazioni appaltanti sui rischi derivanti da garanzie fideiussorie emesse da soggetti non autorizzati, invita le stesse, in caso di dubbi sulla natura dell’intermediario finanziario che presta la garanzia, a consultare le seguenti pagine del sito della Banca d’Italia:
vigilanza/intermediari/index.html 
vigilanza/avvisi-pub/garanzie-finanziarie/ 
vigilanza/avvisi-pub/soggetti-non-legittimati/Intermediari_non_abilitati.pdf 
Inoltre, accertata anche la diffusione del fenomeno del rilascio di polizze fideiussorie da parte di imprese di assicurazioni non autorizzate, si invitano le stazioni appaltanti e gli operatori economici a consultare gli Elenchi delle imprese italiane ed estere ammesse ad operare in Italia (in cui sono riportati anche i rami autorizzati), il Registro unico degli intermediari assicurativi e l’Elenco degli intermediari dell’Unione Europea e gli avvisi relativi a “Casi di contraffazione o società non autorizzate”, accessibili sul sito internet dell’IVASS nella pagina denominata “per il consumatore”: ivass.it/ivass/imprese_jsp/HomePage.jsp

LAVORI PUBBLICI: Project financing, la durata delle concessioni va limitata nel tempo.
Con la determinazione 23.09.2015 n. 10, l'Autorità nazionale anticorruzione ha emanato le nuove linee guida per l'affidamento delle concessioni di lavori pubblici e di servizi ai sensi dell'articolo 153 - «Finanza di progetto» - del dlgs 163/2006 (cosiddetto «Codice degli Appalti»).
L'Autorità ha proceduto, quindi, alla revisione e aggiornamento delle determinazioni n. 1 del 14.01.2009 (Linee Guida sulla finanza di progetto dopo l'entrata in vigore del «terzo correttivo») e n. 2 dell'11.03.2010 (Problematiche relative alla disciplina applicabile all'esecuzione del contratto di concessione di lavori pubblici), al fine di effettuare una ricognizione delle problematiche presenti in materia di finanza di progetto, anche alla luce dei recenti interventi normativi, ivi compresa la Direttiva europea n. 23 del 2014.
Proprio in relazione a quest'ultima, dal tenore delle Linee guida si evince come, secondo l'Autorità, sia indispensabile anticiparne i contenuti, ancor prima del recepimento nel nostro ordinamento entro il 16.04.2016, relativamente a tre tematiche principali: 1) l'effettivo trasferimento del rischio al concessionario privato; 2) le modalità di calcolo del valore del contratto; 3) la durata della concessione.
I primi due punti sono affrontati nel capitolo terzo del documento. Per quanto riguarda il primo, l'articolo 5 della Direttiva specifica con chiarezza che il contenuto necessario del contratto di concessione, sia essa di lavori o di servizi, è il trasferimento del rischio operativo legato alla gestione al concessionario privato: si è, quindi in presenza di tale fattispecie quando al concessionario non è garantito, in condizioni operative normali, il recupero degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti per l'operazione. Qualora tali requisiti vengano meno, non si configura un contratto di concessione, ma di appalto.
Tale differenza rileva anche sotto il profilo del bilancio dell'amministrazione coinvolta: mentre le opere realizzate in Partenariato pubblico privato (Ppp) non incidono, infatti, sui bilanci delle amministrazioni, potendo essere contabilizzate off balance, ciò non vale per quanto riguarda i contratti di appalto, per i quali i relativi costi debbono essere integralmente contabilizzati nei bilanci della stazione appaltante.
Venendo, poi, al secondo punto, la determina richiama la novità contenuta nell'articolo 8 della Direttiva in merito al calcolo del valore dei contratti: il valore di una concessione è costituito, infatti, dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell'Iva, stimato dall'amministrazione aggiudicatrice quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie.
L'Autorità chiarisce espressamente nel testo del documento la necessità, per le amministrazioni aggiudicatrici, di conformarsi fin da subito alle indicazioni contenute nella Direttiva. Tale indicazione ha come obiettivi, da un lato quello di arginare il fenomeno delle concessioni sottostimate al fine di aggirare le gare europee, e dall'altro quello di perseguire, attraverso la corretta determinazione del valore stimato delle concessioni, i principi di concorrenza tra i competitors per la partecipazione alle gare.
Il tema della durata della concessione è affrontato nel Capitolo sesto delle Linee Guida, nel quale viene richiamato l'articolo 18 della Direttiva: oltre a confermare il principio secondo cui la durata della concessione è limitata nel tempo e deve essere stabilita in funzione dei lavori o servizi richiesti al concessionario, la Direttiva specifica che, nelle concessioni ultraquinquennali, la durata massima della concessione non debba superare il periodo di tempo in cui è possibile prevedere ragionevolmente che il concessionario recuperi gli investimenti effettuati e ottenga un adeguato ritorno del capitale investito.
Accanto alle suddette indicazioni dal tenore tassativo dettate nelle Linee guida, l'Autorità si propone di fornire alle amministrazioni una sorta di guida operativa sulla finanza di progetto. Sotto questo profilo, sono vari i contenuti toccati nel documento, a seconda delle varie fasi di un'operazione in finanza di progetto. Dapprima, l'Anac insiste sull'utilità di costituire uno «Special Purpose Vehicle» nelle operazioni di finanza di progetto, al fine di garantire indipendenza finanziaria al progetto e fornire all'amministrazione maggiori garanzie circa l'esecuzione del progetto stesso.
In merito alla fase di programmazione, le Linee guida dedicano attenzione alla necessità di informare, tramite una sorta di débat public, il mercato e il territorio prima dell'elaborazione e della messa a gara dello studio di fattibilità, al fine di contenere il rischio politico di contestazioni e opposizioni che possano determinare ritardi nella fase di esecuzione dei lavori e, di conseguenza, incremento dei costi (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).

NEWS

ENTI LOCALI - VARI: Accesso alla p.a. semplificato. Pin unico per tasse, conti correnti, previdenza, fisco. Entro dicembre i primi cittadini e le imprese otterranno l'identità digitale unica Spid.
Un solo Pin per tasse, conto corrente online e fisco. Parliamo di Spid, la password che permetterà a cittadini e imprese di accedere ai servizi online della pubblica amministrazione. Entro dicembre i primi cittadini e le imprese avranno gratis una identità digitale unica, con cui accedere a molti servizi online (il pagamento delle tasse comunali, l'Inps e così via). Per l'uso dell'identità Spid non è obbligatorio l'uso di alcun lettore di carte, ma potrà essere utilizzata in diverse modalità (es. Pc, smartphone, tablet, etc.). Il cittadino e l'impresa saranno liberi di scegliere la soluzione che offre il mercato e cambiarla quando vorranno.

È con la determinazione 28.07.2015 n. 44 dell'Agenzia per l'Italia digitale che sono stati emanati i quattro regolamenti previsti dall'articolo 4, commi 2, 3 e 4, del Dpcm 24.10.2014.
Il regolamento che norma le modalità di accreditamento è entrato in vigore il 15.09.2015, data dalla quale i soggetti interessati possono presentare domanda di accreditamento all'Agenzia. L'Agid, dal 15 settembre, ha 180 giorni di tempo massimo, quindi marzo 2016, per analizzare le richieste che arriveranno. Spid è la nuova «infrastruttura paese» che permetterà a cittadini e imprese di accedere con un'unica identità digitale ai servizi online della p.a. e dei privati che aderiranno.
Dopo l'iscrizione al registro Spid del primo soggetto accreditato, le p.a. avranno 24 mesi di tempo per abbandonare gli attuali sistemi d'identificazione degli utenti dei servizi online e consentire l'accesso tramite Spid.
Tre saranno i servizi di sicurezza in base ai servizi alla tipologia di servizi a cui si vorrà accedere. Agenzia delle entrate, Inail, Inps, regione Piemonte, Friuli Venezia e Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Marche permetteranno già l'accesso ai propri servizi tramite Spid.
Richiesta Spid. Per richiedere lo Spid si dovrà contattare un identity provider di quelli accreditati presso l'Agenzia. Diverse le modalità per contattarli. Di persona, presso uno sportello fisico. Con una procedura via web cam, in cui mostreranno i documenti in video a un addetto. Con l'invio di un modulo di richiesta online (allegando i documenti).
Domanda accreditamento. La domanda di accreditamento redatta in lingua italiana, è predisposta in formato elettronico, sottoscritta con firma digitale o firma elettronica qualificata dal legale rappresentante del richiedente, ed è inviata alla casella di posta elettronica certificata dell'agenzia.
La domanda di accreditamento si considera accolta qualora non venga comunicato al richiedente il provvedimento di diniego entro centottanta giorni dalla data di presentazione della stessa. L'Agenzia avrà la facoltà di svolgere verifiche presso le strutture dedicate allo svolgimento delle attività di gestore di identità. Il gestore dell'identità digitale accreditato, ottenuta l'iscrizione nell'apposito registro, potrà qualificarsi come tale nei rapporti commerciali e con le pubbliche amministrazioni.
Protezione. Spid protegge i dati personali più di una smart-card. Con le carte elettroniche i dati personali utili a verificare l'identità in rete saranno tutti disponibili al service provider. Con Spid, sebbene l'utente sarà sempre autenticato con assoluta certezza, saranno forniti al service provider, previa autorizzazione dell'utente, solo i dati strettamente necessari per la specifica transazione.
Per esempio, per i servizi che necessitano solo di verificare la maggiore età del soggetto o di conoscere un indirizzo email, l'identity provider fornirà al service provider solo le informazioni strettamente necessarie.
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Verifica secondo diverse modalità.
Le identità digitali sono rilasciate, a domanda dell'interessato, dal gestore dell'identità digitale, previa verifica dell'identità del soggetto richiedente e mediante consegna in modalità sicura delle credenziali di accesso. Nell'ambito della propria struttura organizzativa, i gestori delle identità digitali individuano il responsabile delle attività di verifica dell'identità del soggetto richiedente. La verifica dell'identità del soggetto richiedente e la richiesta di adesione avvengono in uno dei seguenti modi:
- identificazione del soggetto richiedente che sottoscrive il modulo di adesione allo Spid, tramite esibizione a vista di un valido documento d'identità e, nel caso di persone giuridiche, della procura attestante i poteri di rappresentanza;
- identificazione informatica tramite documenti digitali di identità, validi ai sensi di legge, che prevedono il riconoscimento a vista del richiedente all'atto dell'attivazione, fra cui la tessera sanitaria-carta nazionale dei servizi o carte a essa conformi;
- identificazione informatica tramite altra identità digitale Spid di livello di sicurezza pari o superiore a quella oggetto della richiesta;
- acquisizione del modulo di adesione allo Spid sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale;
- identificazione informatica fornita da sistemi informatici preesistenti all'introduzione dello Spid che risultino aver adottato, a seguito di apposita istruttoria dell'agenzia, regole di identificazione informatica caratterizzate da vari livelli di sicurezza.
Al ricevimento della richiesta, il gestore dell'identità digitale procede all'identificazione del soggetto richiedente, che consiste nell'accertamento delle informazioni sufficienti a identificare il soggetto richiedente sulla base di documenti forniti dallo stesso.
Tale processo è effettuato da personale qualificato e opportunamente formato. Il gestore dell'identità digitale, per una corretta e sicura attuazione del processo fornisce l'informativa sul trattamento dei dati, si assicura che il richiedente sia consapevole dei termini e delle condizioni associati all'utilizzo del servizio di identità digitale, si assicura che il richiedente sia consapevole delle raccomandazioni e delle precauzioni da adottare per l'uso delle identità digitale e acquisisce i dati necessari alla dimostrazione di identità.
Nel caso di identificazione informatica tramite documenti digitali di identità, si procede con l'acquisizione del modulo di richiesta di adesione in formato digitale, messo a disposizione in rete dal gestore dell'identità digitale, compilato e sottoscritto elettronicamente. Questa modalità di identificazione si basa su una presunzione di correttezza relativa al processo di identificazione espletato dal gestore che ha precedentemente rilasciato un documento digitale di identità (articolo ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).

PATRIMONIO-VARI: Notariato. Vincoli destinazione No a tributi.
Il Notariato piccona la giurisprudenza in tema di imposizione indiretta sui vincoli di destinazione. Tre ordinanze della Cassazione (3735/3737/3886 del 04/02/2015) hanno ritenuto configurabile un'autonoma imposta, nell'ambito del tributo successorio e donativo, gravante sulla costituzione del vincolo.

Una simile interpretazione, secondo lo studio 01-02.10.2015 n. 132-2015/T del Consiglio nazionale del notariato, determinerebbe però l'applicazione del tributo ad ogni fattispecie di vincolo di destinazione, anche di natura non traslativa ed indipendentemente dal carattere oneroso o liberale, comportando un notevole aggravio di tassazione nel settore delle imposte indirette. Inoltre l'impostazione giurisprudenziale risulterebbe contraria ai prevalenti orientamenti interpretativi, elaborati da dottrina, giurisprudenza e prassi.
Nei casi oggetto di giudizio da parte della Cassazione (tutti relativi a ipotesi di trust, rispettivamente, auto dichiarato avente funzione di garanzia, auto dichiarato con funzione di fondo patrimoniale e di scopo), l'Agenzia delle entrate aveva applicato l'imposta sulle successioni e donazioni al momento della costituzione del vincolo con aliquota dell'8%.
La Corte ha dunque cassato con rinvio le sentenze delle diverse commissioni tributarie, che avevano invece accolto, con motivazioni differenti in relazione a ciascuna fattispecie, le ragioni dei contribuenti, nel senso della sola imposizione fissa di registro sulla costituzione del vincolo, e ha ritenuto applicabile l'imposizione in misura proporzionale dell'8%. L'interpretazione della Corte si fonda sulla tesi che, con il dl 262/2006, si sia realizzata l'introduzione di una «imposta nuova», ossia l'«imposta sulla costituzione di vincolo di destinazione».
Il contenuto economico della destinazione patrimoniale sarebbe dunque sufficiente a manifestare la capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost., essendo irrilevante l'eventuale trasferimento patrimoniale connesso al vincolo destinatorio. Il Cnn ritiene invece la tesi della Consulta censurabile, auspicando un revirement interpretativo (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA: All'azienda il Suap costa uguale. Paga il comune.
Diritti di istruttoria e procedimenti Suap: nessun aggravio per le imprese dai procedimenti informatizzati. Il dpr 160/2010 consente all'ente locale la facoltà di individuare eventuali oneri connessi all'attività svolta dal Suap; ma a condizione che l'onere complessivo da sostenere non risulti maggiore rispetto a quello che avrebbe sostenuto nel caso di gestione non informatizzata del procedimento.

È quanto ha comunicato all'Anesv Agis, l'associazione alla quale aderiscono gli operatori dello spettacolo viaggiante, il Ministero dello sviluppo economico, divisione IV promozione della concorrenza e semplificazioni per le imprese, con la nota 17.11.2015 n. 243917 di prot. e diretta per conoscenza anche all'Anci.
L'opportunità di coinvolgere l'associazione dei comuni deriva dal fatto che il Mise, per sua stessa ammissione, non ha alcun potere di intervento in ordine a decisioni amministrative riguardanti enti locali, e la questione non è di poco conto in relazione al fatto che i diritti di segreteria che alcuni comuni (per esempio, quello di Venezia) hanno previsto per l'istanza di concessione di suolo pubblico sono particolarmente onerosi.
E ciò, senza trascurare, lamenta l'Anesv, che l'attività delle imprese dello spettacolo viaggiante comporta l'istruzione di un numero considerevole di procedimenti che, quindi, determinano un esborso considerevole a carico delle imprese del settore.
Sta di fatto che, in base al vigente ordinamento, non esiste alcuna fonte normativa la quale stabilisca la possibilità per i comuni di individuare autonomamente diritti di istruttoria, se non per procedimenti connessi all'edilizia ed urbanistica. Ma in quest'ultimo caso la fonte è contenuta nell'articolo 10, comma 10, del dl 18.01.1993, n. 8 (conv. legge 68/1993).
Complessa, peraltro, l'evoluzione normativa, connessa all'istituzione del Suap. Se, infatti, il dpr 447/1998, all'articolo 10, comma 4, lasciava ai comuni la possibilità di prevedere, in relazione all'attività propria della struttura responsabile del procedimento, la riscossione di diritti di istruttoria, nella misura stabilita con delibera del consiglio comunale, tale disposizione è stata nel frattempo abrogata (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Vigili stagionali, assunzioni facili.
I cinque mesi nell'anno solare entro il quale i comuni possono assumere agenti di polizia municipale «stagionali» decorrono dalla data della loro effettiva assunzione nel corso del 2015 e non dal primo gennaio 2015.

L'Anci, sollecitata da molte amministrazioni locali, ha elaborato la nota 26.11.2015 di lettura di quanto dispone l'articolo 5 del decreto legge 78/2015, convertito con modificazioni nella legge 125/2015, e in particolare del comma 6. Tale norma contiene due distinte previsioni. Una è la sanatoria per i contratti a tempo determinato stipulati successivamente all'entrata in vigore del decreto legge, che conteneva un divieto totale ed assoluto di effettuare assunzioni di agenti di polizia municipale anche stagionale.
L'altra disposizione invece dà facoltà ai comuni di effettuare assunzioni per funzioni di polizia locale «esclusivamente per esigenze di carattere strettamente stagionale e comunque per periodi non superiori a cinque mesi nell'anno solare, non prorogabili».
La formulazione della norma, come troppo spesso avviene, non è felicissima e pone il problema di chiarire se i cinque mesi nell'anno solare nel 2015 vadano computati a partire dall'entrata in vigore del decreto (20.06.2015), oppure se si debbano considerare anche i mesi di lavoro già svolti a partire dal primo gennaio 2015.
Una prima chiave di lettura potrebbe consistere nel ritenere che l'articolo 5, comma 6, del dl 78/2015, convertito in legge 125/2015, si sia riferito alla nozione di «anno civile». In questo caso, allora, l'anno decorre dal 1° gennaio al 31 dicembre: pertanto, i 5 mesi sarebbero comprensivi di mensilità lavorative poste in essere anche prima dell'entrata in vigore del decreto.
La seconda, opposta, interpretazione induce a ritenere l'espressione «anno solare» come periodo di 365 giorni decorrenti dalla data della stipula del contratto a tempo determinato, successivo comunque alla data di entrata in vigore del decreto legge n. 78/2015.
L'Anci ritiene di rigettare la prima ipotesi e che sia più corretto riferirsi all'accezione di anno solare come sequenza di 365 giorni.
Solo questa lettura, secondo l'Anci, è rispettosa del tenore letterale dell'articolo 5, comma 6, del «decreto enti locali», poiché essa fa chiaro riferimento alle assunzioni di personale di polizia locale per esigenze strettamente stagionali successive alla propria entrata in vigore (anche se antecedenti alla legge di conversione).
In questo modo si evita di «bruciare» mensilità lavorative realizzate quando il decreto enti locali, ed il connesso divieto di effettuare assunzioni a qualsiasi titolo comprese quelle a tempo determinato, non era vigente e, dunque, gli enti locali non potevano essere in grado di programmare le assunzioni necessarie alla funzionalità delle attività di polizia locale (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

APPALTI: Opere, il comune può spendere. Libertà di evitare il Mepa per acquisti sotto i mille euro. Deroga al patto di stabilità per gli investimenti in conto capitale degli enti locali.
Deroga al patto di stabilità per investimenti in conto capitale degli enti locali; utilizzo del fondo di coesione 2007-2013 per finanziare interventi di prevenzione del rischio idrico nelle città; allentamento dei vincoli di ricorso alle centrali di committenza per gli enti locali con popolazione fino a 10 mila abitanti; libertà di evitare il Mepa fino a mille euro di spesa.

Sono queste alcune delle misure previste dalla legge di stabilità 2016, approvata al senato, per il rilancio della spesa in investimenti.
In primo luogo un intervento atteso da molto tempo è quello legato alla possibilità di deroga al patto di stabilità per gli enti locali. Il meccanismo prevede che le regioni autorizzino gli enti locali del proprio territorio a peggiorare il saldo (che di regola non deve essere negativo, in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese finali) per consentire esclusivamente un aumento degli impegni di spesa in conto capitale, purché sia garantito l'obiettivo complessivo a livello regionale mediante un contestuale miglioramento, di pari importo, del saldo dei restanti enti locali della regione e della regione stessa.
Saranno poi le regioni e le province autonome a definire criteri di virtuosità e modalità operative e gli enti locali, da aprile prossimo, dovranno indicare gli spazi finanziari di cui necessitano per effettuare esclusivamente impegni in conto capitale, ovvero gli spazi finanziari che sono disposti a cedere.
La legge di stabilità prevede anche come ci si debba regolare per gli enti locali che cedono spazi finanziari e, in questo caso, la «regia» spetta al ministero dell'economia e delle finanze. Sulla stessa linea, dal punto di vista degli obiettivi, si pone anche la norma che stabilisce la non applicazione dei vincoli derivanti dal patto di stabilità per la quota di cofinanziamento utilizzata dagli enti locali relativamente ai mutui nell'edilizia scolastica erogati dalla Bei.
Importante, sempre sul fronte degli investimenti, è poi la norma che riguarda gli interventi per la prevenzione sui territori a rischio di esondazione dei corsi d'acqua nell'ambito delle città metropolitane (si pensi a Genova): si prevede che le regioni utilizzino il Fondo sviluppo e coesione 2007-2013 per finanziare i progetti, con possibilità di arrivare all'approvazione di eventuali varianti urbanistiche fino a dicembre 2016, data entro la quale si dovranno assumere «obbligazioni giuridiche vincolanti».
Un'altra misura che agevolerà gli enti locali è quella che prevede di utilizzare le risorse ottenute ma non ancora erogate tramite mutui con la Cassa depositi e prestiti (finalizzati all'edilizia giudiziaria) per la realizzazione di opere di ricostruzione, ristrutturazione, sopraelevazione, ampliamento, restauro o rifunzionalizzazione di edifici pubblici da destinare a finalità anche differenti dall'edilizia giudiziaria. Se invece il mutuo è stato estinto l'immobile potrà essere destinato dall'amministrazione interessata a finalità diverse dall'edilizia giudiziaria.
La legge di stabilità conferma poi nel testo finale la deroga per i comuni con popolazione inferiore ai 10 mila abitanti per la stipula dei contratti di importo fino a 40 mila euro che quindi potranno essere affidati direttamente senza ricorso a soggetti aggregatori della domanda (centrali di committenza variamente organizzate e denominate).
Rimane invece fermo l'obbligo di effettuare acquisti di beni e servizi mediante il prioritario ricorso agli strumenti elettronici quali ad esempio il Mepa.
Il legislatore ha però introdotto anche una deroga per i gli acquisti di modesta entità, di importo inferiore a mille euro, per i quali si potrà evitare il ricorso a strumenti elettronici (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTICase da demolire sotto torchio. Atti di cessione nel mirino dell'agenzia delle entrate.
Continua l'attività accertativa del fisco riguardo gli atti di cessione dei c.d. fabbricati da demolire. Sia ai fini delle dirette, che ai fini dell'imposta di registro. Con l'Agenzia delle Entrate supportata anche dalle segnalazioni che pervengono dai comuni.

Sulla base della ormai nota risoluzione ministeriale n. 395/E/2008, in presenza di alcune circostanze che caratterizzano il trasferimento, l'amministrazione fa “scattare” la riqualificazione di tali atti in cessioni di terreni fabbricabili. Con l'effetto di far emergere in capo ai privati venditori, in ogni caso e indipendentemente dal periodo di possesso, plusvalenze tassabili come redditi diversi ex art. 67, comma 1, lettera b), dpr 917/1986.
Le specifiche circostanze prese in considerazione dagli uffici per riqualificare il contratto e presumere la effettiva volontà delle parti di cedere un'area edificabile anziché un fabbricato, superando quindi la qualificazione catastale, riguardano tutta una serie di situazioni, quali lo stato del fabbricato (in abbandono, fatiscente, di scarso valore economico o comunque non più utilizzabile), l'esistenza in Comune di atti amministrativi (permessi, denunce o comunicazioni), le caratteristiche dell'acquirente (tipicamente una impresa operante nel settore delle costruzioni), l'attività predisposta subito dopo il rogito (demolizione e costruzione di nuovi fabbricati, ecc.), le potenzialità edificatorie dell'area superiori a quelle espresse dal fabbricato (es. possibilità del piano casa).
Ai fini delle imposte dirette, la giurisprudenza della Cassazione (4150/2014; 15629/2014; 15631/2014) ha stabilito che non costituiscono redditi diversi le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni su cui insiste un fabbricato, in quanto da ritenersi terreni già edificati e, quindi, non rientranti nel novero dei terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria (da edificare).
Ciò che rileva è l'oggetto dichiarato della vendita, quale risulta dalla natura oggettiva del bene trasferito e dalla volontà delle parti manifestata nell'atto pubblico. Nello stesso senso, anche la recente giurisprudenza di merito (Ctp Bergamo 455/2015; Ctr Emilia Romagna 933/2015; Ctr Liguria 91/2014; Ctr Bari 2161/2014; Ctp Milano 271/2013).
In alcuni casi la Cassazione ha riconosciuto la riqualificazione dell'oggetto dell'atto di cessione (da fabbricato in area fabbricabile), ma occorre precisare che nelle fattispecie prese in esame l'oggetto dell'atto era un “area di terreno con in parte sovrastante fabbricato” (Cass. 16983/2015; Cass. 12294/2015) o un'”area con insistente fabbricato uso deposito in procinto di demolizione” (Cass. 7613/2014).
Per quanto riguarda le imposte indirette, la questione in passato non sembrava prestarsi a controversie in quanto secondo l'Amministrazione finanziaria l'atto oggetto di valutazione rimane l'atto di cessione del fabbricato (rm 2/E/2009; cm 28/E/2011).
In particolare, ai fini Iva, occorre avere esclusivo riferimento alla natura giuridica del bene oggetto della cessione e non la destinazione del bene che sarà data dall'acquirente. Lo stesso per l'imposta di registro, imposta d'atto per la quale l'oggetto della compravendita deve essere valutato nel momento in cui gli effetti traslativi si verificano e quindi la sua destinazione catastale al momento del rogito.
Tuttavia, ai fini dell'imposta di registro, la Cassazione con la sentenza 24799/2014, sulla base della circostanza che il fabbricato venduto era obsolescente, che immediatamente dopo la cessione era stata presentata domanda di concessione edilizia per la demolizione del fabbricato e la realizzazione di uno nuovo ed, infine, che l'acquirente era un'impresa di costruzioni, ha ritenuto che lo scopo effettivo della cessione fosse quello di trasferire le potenzialità edificatorie del terreno sottostante e, quindi, sulla base dell'art. 20 del dpr 131/1986, ha stabilito legittima la riqualificazione dell'atto compiuta dal Fisco (articolo ItaliaOggi del 26.11.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI: Nella nota prestazioni dettagliate. Ingegneri-ctu.
Ctu tenuti ad elencare i dettagli della prestazione per la liquidazione del compenso. Per la compilazione della nota devono essere indicati sia gli articoli del dm 30.05.2002 a cui si riferisce la prestazione, sia verificata la presenza di condizioni di eccezionale importanza o particolare complessità, sia elencate le spese sostenute per svolgere l'incarico e, infine, precisato l'importo richiesto al netto dell'Iva e del contributo previdenziale.

Queste le indicazioni contenute nella circolare 20.11.2015 n. 630 del Consiglio nazionale degli ingegneri in tema di onorari, indennità e spese dei periti e dei Ctu.
Con il dm 30.05.2002 è stata regolamentata la tipologia delle prestazioni e i relativi compensi dovuti ai Ctu . Si tratta però di tetti minimi e massimi o di percentuali sul valore della causa, che hanno finora lasciato ampia discrezionalità ai giudici e creato dubbi interpretativi sulla corretta applicazione della normativa.
Per determinare i compensi in modo univoco e trasparente, il consiglio nazionale degli ingegneri propone quindi l'adozione di un protocollo con indicazioni di esempi tipici di prestazioni di eccezionale importanza, complessità e difficoltà. Il protocollo dovrebbe prevedere anche il versamento anticipato delle somme necessarie per indagini strumentali alla prestazione previa autorizzazione e presentazione del preventivo. Il protocollo, sostiene il Cni, dovrebbe anche fare chiarezza nei metodi per la determinazione del compenso.
Attualmente sono tre i metodi utilizzati. Il primo prevede onorari variabili da un minimo a un massimo e presuppone quindi valutazioni sulla difficoltà, la completezza e il pregio della prestazione, che dovrebbero essere svolte secondo parametri comuni. Il secondo metodo prevede onorari a percentuale, che vanno calcolati sul valore della causa.
In questo caso il Cni ritiene che il giudice debba sempre accertare il valore della causa anche utilizzando gli accertamenti del Ctu. Il terzo metodo prevede onorai a tempo, da utilizzare solo se il ricorso agli altri due metodi risulta impossibile e basandosi sul sistema delle vacazioni (articolo ItaliaOggi del 26.11.2015).

LAVORI PUBBLICIVia alla convenzione-tipo per ridurre i rischi della Pa. Infrastrutture. Presentato lo schema di concessione di costruzione e gestione.
Il ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, auspica che possa diventare «punto di riferimento» per tutte le operazioni future di partenariato pubblico-privato, per svolgere un’allocazione ottimale dei rischi e «minimizzare il rischio di revisione di progetti da off a on balance».
Al tempo stesso, la convenzione-standard per operazioni di concessione di costruzione e gestione a canone pagato direttamente dalla Pa, presentata ieri al Mef (e anticipata dal Sole 24 Ore l’11 novembre scorso), va considerata «un documento aperto alle proposte di correzione che arriveranno dalla consultazione che avvieremo subito sul sito del Mef». Senza trascurare l’inevitabile impatto che arriverà sulla proposta dal «momento di transizione che attraversiamo per il recepimento delle direttive europee e del nuovo quadro regolativo».
L'obiettivo della convenzione-tipo redatta da un gruppo di lavoro interistituzionale coordinato da Grazia Sgarra (Rgs) è quello di creare uno standard che aiuti le amministrazioni pubbliche a strutturare operazioni di Ppp su “opere fredde”, allocando i rischi in modo corretto sul concessionario e minimizzando il rischio di revisione del piano economico-finanziario.
Per ridurre i rischi, tre “consigli” fondamentali alle Pa: costituire la società di progetto, mettere a gara il progetto definitivo, circoscrivere i casi in cui è ammessa la revisione del Pef. Tra gli obiettivi della Ragioneria c’è, ovviamente, anche quello di ridurre le ripercussioni sui conti pubblici di operazioni che partono come “private”, ma dal Mef arriva soprattutto un segnale (anche politico) di grande attenzione a uno strumento che, se usato con rigore e correttezza, può non solo sopperire al minore impegno della finanza pubblica sul fronte infrastrutturale, ma anche dare efficienza alla spesa della Pa. Il documento contiene, per altro, una «matrice dei rischi che -ha detto Sgarra- dovrebbe essere sempre lavorata e sempre allegata a una convenzione di questo tipo».
Apprezzamento per la convenzione-standard anche da Ida Angela Nicotra, consigliere dell’Autorità nazionale anticorruzione, che ha confermato la collaborazione dell’Anac (presente informalmente e solo nella fase finale al gruppo di lavoro durato due anni). Alla fine del percorso non è escluso che la convenzione-tipo possa rientrare in quella soft regulation che la legge delega sugli appalti attribuisce all'Anac.
Nicotra si è anche detta d'accordo con Alessandra Dal Verme, ispettore capo per gli affari economici alla Rgs, che aveva proposto una estensione alla concessione e un più generale rafforzamento del “dialogo competitivo”. Dal Verme ha messo in guardia «dalla sfera di alea e incertezza» che può derivare dall’interpretazione di due norme: l'articolo 5 della direttiva Ue 2014/23 che, prevedendo l'allocazione del rischio operativo sul concessionario, sembra tuttavia limitarne la portata alla presenza di «normali condizioni di mercato»; l'articolo 143 del codice appalti (comma 8-bis) là dove prevede una revisione del piano economico-finanziario per variazioni «non imputabili al concessionario». L'elenco tassativo dei casi non basterebbe a ridurre i rischi di revisione del piano, bisognerebbe anche definire limiti quantitativi.
Dal canto suo, Gabriele Pasquini (Dipe-Presidenza del Consiglio) ha detto che la Pa deve fare un salto culturale -la convenzione-tipo può aiutare- soprattutto nell’uso degli indicatori economico-finanziari che devono caratterizzare qualunque operazione di partenariato pubblico-privato. Con riferimento al lavoro Dipe su dati Cresme (si veda Il Sole 24 del 9 settembre scorso), Pasquini ha ricordato come «su un campione selezionato di 961 operazioni, ben 752 non presentano alcun indicatore economico-finanziario mentre solo 30 presentano un paniere sufficiente di indicatori e solo sei presentano tutti gli indicatori».
Ance (costruttori) e Abi (banche) hanno apprezzato l'iniziativa ma hanno chiesto un tavolo in cui poter esprimere osservazioni e proposte. L’obiezione che implicitamente viene mossa alla convenzione-tipo è di tutelare eccessivamente l’amministrazione concedente a scapito del partner privato, creando uno squilibrio che conduce a scarso realismo, per esempio quando viene allocato per intero sul concessionario il rischio amministrativo e, nello specifico, il rischio legato all'attività di esproprio.
Claudio Lucidi (Anci) è tornato a porre la questione della sottovalutazione dell'attività di gestione rispetto a quella di costruzione, invitando a ricercare «strumenti che oggi non abbiamo e che ci consentano» di approfondire questo tema
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un altro anno senza assumere. Chance alla ricollocazione dei dipendenti provinciali. LEGGE DI STABILITA' 2016/ Lo scenario per la p.a. delineato dall'intreccio di norme.
Un altro anno di assunzioni sostanzialmente bloccate si prefigura per le amministrazioni, anche se il contingente del personale in sovrannumero delle province si è drasticamente (almeno sulla carta) ridotto a poco meno di 2 mila dipendenti.
La legge di Stabilità per il 2016 come approdata alla camera non pare allineata in maniera adeguata alla sofferta evoluzione del processo di ricollocazione dei dipendenti soprannumerari di province e città metropolitane. Infatti, non prevede alcun allentamento della morsa alle nuove assunzioni ed, anzi, in particolare a partire dal 2017, torna a stringere in maniera molto forte le maglie dei vincoli.
Infatti, il comma 126 del maxiemendamento abbassa drasticamente il tetto al turnover, portato per tutti gli anni 2016, 2017 e 2018 al solo 25% della spesa del personale non avente qualifica dirigenziale (le assunzioni dei dirigenti sono sostanzialmente bloccate dal maxiemendamento) cessato l'anno precedente.
Tuttavia, il medesimo comma conferma la vigenza del regime di sostanziale blocco delle assunzioni stabilito dall'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, finalizzato alla ricollocazione del personale provinciale in sovrannumero, contestualmente precisando che nel 2016, ultimo anno di applicazione del regime straordinario di cui al citato articolo 1, comma 424, resta ferma la percentuale dell'80% della spesa del personale cessato l'anno precedente.
In realtà, tuttavia, tale percentuale può salire al 100%, proprio perché il comma 424, non intaccato dalla legge di Stabilità 2016, continua a disporre che «esclusivamente per le finalità di ricollocazione del personale in mobilità le regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante percentuale della spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del personale soprannumerario». Quindi, nel 2016 in realtà, nonostante la «stretta» prevista dalla legge di Stabilità, le amministrazioni potranno continuare a destinare alla ricollocazione dei dipendenti provinciali il 100% delle risorse del turnover, relative all'anno 2015.
Oggettivamente, il comma 126 non brilla per chiarezza e sistematicità e sarà fonte probabile di intoppi operativi ed interpretativi. Soprattutto, mantiene, come detto, un regime di blocco delle assunzioni che appare sproporzionato al numero di lavoratori in sovrannumero. Tanto più in regioni come il Veneto, dove i dipendenti provinciali sono stati tutti assorbiti dalla regione, ad eccezione degli addetti ai servizi per il lavoro (in via transitoria rimasti per il 2016 alle dipendenze delle province, ma con costi a carico di regione e stato per effetto dell'accordo della Conferenza stato regioni del 30.07.2015) e degli addetti alla polizia provinciale, che resteranno definitivamente negli organici provinciali.
Sta di fatto che fino a quando non si sarà concluso il processo di ricollocazione dei poco meno di 2 mila dipendenti provinciali ancora in sovrannumero (secondo la recente rilevazione di Palazzo Vidoni), nel 2016 gli enti locali avranno ancora in sostanza la possibilità di destinare a tali ricollocazioni il 100 della spesa delle cessazioni avvenute nel 2016, detratte (se vi sono) le spese per assunzioni di vincitori di concorsi appartenenti a graduatorie vigenti o approvate alla data dell'01/01/2015.
Invece, le assunzioni non riferite al personale delle province in sovrannumero potranno essere finanziate con le risorse del triennio 2012-2014 ancora disponibili (ma, in realtà le risorse del 2014 dovrebbero essere state erose dalle esigenze di ricollocazione del personale provinciale del 2015). Oppure, con il 25% della spesa del personale cessato, l'anno precedente che finanzia nella sostanza le assunzioni ammesse dal combinato disposto della deliberazione della Sezione Autonomie della Corte dei conti 19/2015 e dell'articolo 4 del dl 78/2015: di fatto, le figure da adibire ai servizi sociali e dell'istruzione, caratterizzati da profili infungibili o titoli di studio del tutto peculiari (educatori asili nido e assistenti sociali).
Se nel 2016 si chiuderà definitivamente la vicenda della ricollocazione, allora si ripristineranno le vecchie regole: niente più congelamento delle assunzioni, ma il limite sarà quello del 25% della spesa del personale cessato nel 2015.
Occorre ricordare che il comma 126 disapplica ma per i soli anni 2017 e 2018, il «bonus» concesso agli enti virtuosi dall'articolo 3, comma 5-quater, del dl 90/2014, a mente del quale agli enti locali la cui incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25%, è consentito effettuare assunzioni a tempo indeterminato entro il 100% del turnover. Tale incentivo dovrebbe, dunque, considerarsi utilizzabile nello scorcio del 2016 eventualmente utile, laddove la ricollocazione del personale provinciale si chiuda entro la fine dell'anno (articolo ItaliaOggi del 25.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIEx dipendenti, e-mail chiusa. Tocca al datore di lavoro informare i soggetti terzi. Provvedimento del Garante privacy boccia la condotta tenuta da una piccola azienda.
La email dell'ex dipendente va chiusa. Per evitare di perdere comunicazioni aziendali, il datore di lavoro dovrà informare i terzi della avvenuta chiusura dell'indirizzo, segnalando un account aziendale utile. Il codice privacy vieta, invece, di tenere aperto l'account con il nome del lavoratore cessato, e di disporre l'inoltro automatico dei messaggi alla casella di un altro dipendente in servizio.

Lo precisa il garante privacy con il provvedimento 30.07.2015 n. 456.
Alcuni ex dipendenti di una società hanno proposto reclamo al garante, contestando il fatto che il proprio ex datore di lavoro avesse tenuto in piedi gli indirizzi di posta elettronica loro assegnati e avesse inserito la funzione di reindirizzo dei medesimi presso un utente dell'azienda. Gli ex dipendenti hanno anche contestato l'uso dei messaggi in transito sugli account dei lavoratori cessati.
La società si è difesa sostenendo che dopo le dimissioni dei lavoratori ha tenuto aperti gli account aziendali degli ex dipendenti e ha trattato le e-mail in arrivo per scopi di tutela del patrimonio aziendale (anche se, invero, raccolti per il diverso scopo di assicurare la continuità e l'efficienza dei sistemi aziendali). Nel corso degli accertamenti d'ufficio, il garante ha appurato che la società ha raccolto e successivamente prodotto in giudizio copia di e-mail scambiate su account di posta elettronica, individualizzati con nome e cognome dei dipendenti.
In particolare, la società ha acquisito copia di comunicazioni elettroniche recanti l'indicazione sia di dati esterni (nominativi di mittenti e destinatari; indirizzi e-mail aziendali e privati; data e ora delle comunicazioni) che relativi al contenuto di e-mail inviate e ricevute anche prima delle loro dimissioni e da terzi. La società non ha adottato una policy interna sull'utilizzo della posta elettronica aziendale.
Quanto agli account degli ex dipendenti la società ha loro comunicato che sarebbero stati chiusi, ma senza farlo effettivamente. Anzi, le comunicazioni ricevute sono state inoltrate automaticamente a un altro indirizzo aziendale e monitorate per un periodo significativo. Tutto ciò senza informare gli ex dipendenti. Il garante ha bocciato l'operato della società. È vero che il datore di lavoro ha la facoltà di verificare l'esatto adempimento della prestazione lavorativa ed il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro da parte dei dipendenti.
Tuttavia il datore di lavoro deve informare in modo chiaro e dettagliato il lavoratore su come può utilizzare gli strumenti aziendali e sui controlli che effettuerà. Senza la policy aziendale, il lavoratore matura l'aspettativa di confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione.
Inoltre dopo la cessazione del rapporto di lavoro, gli account con il nome dell'ex dipendente devono essere rimossi previa disattivazione degli stessi e contestuale adozione di sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a fornire a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all'attività professionale del datore di lavoro.
Non è, invece, corretto reindirizzare automaticamente i messaggi in transito sugli account riferiti a dipendenti, il cui rapporto di lavoro sia cessato su indirizzi di posta elettrica aziendale attribuiti ad altri dipendenti (articolo ItaliaOggi del 24.11.2015).

ENTI LOCALI: Taglio per 23 prefetture. Sforbiciata anche su questure e vigili del fuoco. Uno schema di dpr prevede la riduzione degli uffici da 103 a 80.
Verso il taglio di 23 prefetture, questure e strutture periferiche dei vigili del fuoco - secondo un processo di soppressione o accorpamento che dovrà avvenire entro il 31 dicembre 2016. Per un risparmio calcolato in un milione di euro a prefettura. Si passerà dalle attuali 103 prefetture ad 80.

È con la bozza di decreto del presidente della repubblica che vengono previsti i diversi tagli delle prefetture e questure e anche la riorganizzazione del ministero dell'interno.
Il dpr, deciso nell'ambito dei decreti attuativi di prossima emanazione relativi alla riforma della pubblica amministrazione (c.d. riforma Madia) prevede l'accorpamento delle seguenti prefetture: Teramo (accorpata a L'Aquila), Chieti (accorpata a Pescara), Vibo Valentia (accorpata a Catanzaro), Benevento (Avellino), Piacenza (Parma), Pordenone (Udine), Rieti (Viterbo), Savona (Imperia), Sondrio (Bergamo), Lecco (Como), Cremona (Mantova), Lodi (Pavia), Fermo (Ascoli Piceno), Isernia (Campobasso), Asti (Alessandria), Verbano-Cusio-Ossola (Novara), Biella (Vercelli), Oristano (Nuoro), Enna (Caltanissetta), Massa-Carrara (Lucca), Prato (Pistoia), Rovigo (Padova), Belluno (Treviso).
Il decreto mantiene i cinque dipartimenti in cui è organizzato il ministero: Affari interni e territoriali, Pubblica sicurezza, Libertà civili e immigrazione, Vigili del fuoco, soccorso pubblico e difesa civile, Amministrazione generale, politiche del personale.
Dotazione complessiva. Nello schema di dpr viene stabilita la dotazione organica complessiva del personale dell'amministrazione civile del ministero dell'interno: 116 prefetti, 700 viceprefetti, 572 viceprefetti aggiunti, mentre saranno 200 i dirigenti di prima e seconda fascia e 20.549 quelli addetti alle aree funzionali. Sicuramente i prefetti interessati ai tagli verranno destinati ad altro incarico.
Nuova struttura del ministero dell'interno. Presso il ministero dell'interno nasceranno un «organismo indipendente di valutazione della performance» sulle grandi opere e un «comitato per il coordinamento dell'alta sorveglianza delle grandi opere».
L'ufficio centrale interforze per la sicurezza personale confluirà poi nell'ufficio per il coordinamento e la pianificazione delle forze di polizia, mentre continueranno a dipendere dal dipartimento della pubblica sicurezza la Dia, direzione investigativa antimafia, e la scuola superiore di polizia per la formazione, la qualificazione e l'aggiornamento dei funzionari, nonché la scuola di perfezionamento per l'alta formazione e l'aggiornamento dei funzionari e degli ufficiali.
La tempistica. Il provvedimento detta infine le regole applicative. «Nelle more del processo di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni -stabiliscono le disposizioni transitorie- delle forze di polizia e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, le prefetture, le questure e le strutture periferiche del corpo nazionale dei Vigili del fuoco, cessano di esercitare le loro funzioni secondo un piano di gradualità definito con decreto del ministro dell'Interno e comunque non oltre il 31.12.2016» (articolo ItaliaOggi del 24.11.2015).

ENTI LOCALI - TRIBUTIStop agli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente. Preventivi. Le novità da considerare nell’approvazione dei nuovi conti.
La programmazione finanziaria degli enti locali deve tenere conto del blocco degli aumenti di tributi e addizionali disposto dallo schema della Legge di stabilità 2016. Muta inoltre l’assetto delle entrate correnti: l’esenzione della tassazione immobiliare per i possessori di abitazione principale comporterà infatti una riduzione del gettito Tasi e Imu a fronte di maggiori importi a titolo di fondo di solidarietà comunale.
Con la definitiva abrogazione dell’articolo 11 del Dlgs 23/2011 (giunta dopo vari rinvii) viene poi confermata la presenza in bilancio della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, del canone di occupazione di spazi ed aree pubbliche, dell’imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni e del canone per l’autorizzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari.
Sul fronte della spesa, le novità giungeranno dal terzo decreto correttivo del Dlgs 118/11 in corso di emanazione. Gli enti locali potranno dare copertura finanziaria agli investimenti imputati agli esercizi successivi a quello in corso utilizzando nuove leve finanziarie (come anticipato sul Sole 24 Ore del 16 novembre). Sarà infatti possibile utilizzare la quota consolidata del saldo positivo di parte corrente, nuove o maggiori aliquote fiscali (che però risultano bloccate da quanto detto sopra) e riduzioni permanenti di spese correnti. Mentre le entrate da permessi di costruire non potranno essere destinate al finanziamento della parte corrente.
Altro capitolo variato è quello dei vincoli di finanza pubblica. Al posto del Patto di stabilità interno, Regioni, Comuni (compresi quelli con meno di mille abitanti che non erano soggetti al Patto), Province e Città metropolitane dovranno rispettare il pareggio di bilancio, basato sugli equilibri finali di competenza.
Lo schema della legge di stabilità 2016 che è stato approvato al Senato e inizia ora il proprio cammino alla Camera declina infatti le nuove regole del pareggio di bilancio come obbligo del conseguimento di un saldo non negativo (zero o maggiore di zero), in termini di competenza, fra le entrate finali (Titoli 1, 2, 3, 4 e 5 del bilancio armonizzato) e le spese finali (Titoli 1, 2 e 3 del medesimo schema di bilancio). Restano fuori quindi accensione e rimborsi prestiti, anticipazioni di tesoreria e partite di giro oltre che avanzo e disavanzo.
Inoltre le previsioni di spesa per fondo crediti di dubbia esigibilità e fondi spese non rileveranno ai fini del pareggio. Per il solo 2016 nelle entrate e nelle spese finali è considerato il fondo pluriennale vincolato, di entrata e di spesa, al netto della quota rinveniente dal ricorso all’indebitamento. Le nuove regole potranno consentire agli enti una più ampia programmazione dei lavori pubblici grazie ai “margini” generati dal rimborso prestiti e dagli accantonamenti.
Tutti gli enti dovranno redigere un bilancio di competenza di durata triennale e di cassa per il primo esercizio. Nel rispetto delle regole sui nuovi equilibri finanziari, disciplinati dall’articolo 162, comma 6, del Tuel, il fondo di cassa finale non potrà essere negativo e occorrerà istituire il fondo di riserva di cassa, da allocare nella missione “Fondi e Accantonamenti”, all’interno del programma “Fondo di riserva”, per un importo non inferiore allo 0,2 per cento delle spese finali
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.11.2015).

SICUREZZA LAVORODelega sicurezza, scelta duplice. L'atto deve essere accettato perché è ammesso il rifiuto. Lo ribadisce la commissione degli interpelli in merito all'attribuzione delle funzioni.
La delega di funzioni sulla sicurezza del lavoro deve essere accettata dal delegato, altrimenti non è valida.

Lo ribadisce la commissione degli interpelli sulla sicurezza del lavoro, nell'
interpello 02.11.2015 n. 7/2015, spiegando inoltre la differenza con il conferimento d'incarico, il quale implica invece l'impossibilità del rifiuto. Pertanto, aggiunge la commissione, la delega presuppone una possibilità di non accettazione da parte del destinatario.
La delega. Il T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008) disciplina la delega stabilendo che essa, da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti limiti e condizioni:
a) che risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
Inoltre, il T.u. stabilisce:
• che alla delega deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità;
• che la delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite.
Infine, il T.u. ammette che il soggetto delegato possa, a sua volta, previa intesa con il datore di lavoro, delegare specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro alle medesime condizioni previste dalla delega principale (commi 1 e 2 dell'art. 16). Anche in questo caso, la subdelega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale sia stata conferita la subdelega non può, a sua volta, delegare le funzioni delegate.
La delega di funzioni in tema di sicurezza sul lavoro rientra nel fenomeno cosiddetto di ripartizione organizzativa, al fine di attribuire autonomi poteri decisionali a un soggetto che non ne sia titolare. In altre parole, con la delega vengono trasferiti compiti originariamente gravanti sul soggetto posto in posizione apicale a soggetti materialmente e tecnicamente capaci di adempierli, rendendo così il sistema più efficiente.
In ogni caso, ai fini della sicurezza, la delega non può sortire alcun effetto rispetto a quei compiti che la legge considera non delegabili, dovendo essere assolti personalmente dal titolare degli stessi. In tal senso, la delega conferita per l'adempimento degli obblighi indelegabili (previsti dall'art. 17 del T.u.) è da considerarsi nulla e quindi improduttiva di effetti giuridici (al pari di quella priva dei necessari presupposti di sostanza e di forma), laddove tale nullità determina la riconduzione delle responsabilità penali connesse agli obblighi che si volevano trasferire alla sfera giuridica del datore di lavoro.
Si tratta, in particolare, dei compiti di valutazione dei rischi ed elaborazione del relativo documento, nonché di designazione del responsabile servizio di prevenzione e protezione dai rischi, che il T.u. pone a carico esclusivamente del datore di lavoro.
I requisiti di validità. Il T.u. (articolo 16) individua i requisiti essenziali della delega di funzioni. Sul piano formale, è necessario che sussista:
• atto di delega scritto recante data certa;
• adeguata e tempestiva pubblicità della delega;
• accettazione per iscritto del delegato.
In relazione all'ultimo requisito, l'unione sindacale di base vigili del fuoco ha chiesto di sapere «se esiste l'obbligo di accettazione della delega da parte del soggetto delegato individuato dal datore di lavoro e se il soggetto delegato può rifiutare tale delegata».
Sul piano sostanziale, inoltre, occorre che la delega sia effettuata nei seguenti termini:
• a soggetto in possesso di requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
• con attribuzione di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
• con attribuzione dell'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate.
Atto scritto, con data certa. Quanto ai requisiti formali, pur non essendo richiesto l'atto pubblico, la necessità che la delega sia dotata di data certa comporta l'esigenza di effettuare normalmente la sottoscrizione autenticata della firma in calce alla delega e alla relativa accettazione.
Ciò serve, evidentemente, a dare certezza circa l'efficacia della delega, trattandosi di individuare con precisione i soggetti responsabili sul piano penale in relazione al momento di consumazione del reato. In questo modo, il T.u. ha introdotto una forma specifica obbligatoria alla delega, cioè ab substantiam, laddove invece, in precedenza quando non c'era una disposizione in tal senso, la giurisprudenza aveva ammesso, in alcuni limitati casi, che la delega potesse essere provata anche per fatti concludenti (Cassazione, sezione penale, sentenza n. 12360/1995) o per testimoni (Cassazione, sezione penale, sentenza n. 3255/1999).
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Accettazione anche successiva.
L'accettazione può essere effettuata sia contestualmente, e perciò in calce all'atto di delega, sia con atto successivo con le forme richieste per la delega da comunicarsi al delegante (atto recettizio).
Tale requisito appare conforme alla natura della delega che è un atto recettizio. Del resto, già prima del T.u. la giurisprudenza aveva stabilito che colui al quale viene conferita dovesse accettare in modo espresso (con firma) la delega, e che dovesse essere consapevole di che cosa accettava (Cassazione sentenza n. 22326/2001).
La novità è dunque un'altra: mentre prima del T.u. era richiesto che il delegato manifestasse il proprio consenso, anche in forma tacita, alla delega stessa (tra le tante, Cassazione, sezione penale, sentenza n. 3045/1997), dopo il T.u. è inderogabilmente richiesta l'accettazione esplicita in forma scritta.
In merito alla necessità dell'accettazione, l'unione sindacale di base vigili del fuoco ha chiesto di sapere «se esiste l'obbligo di accettazione della delega da parte del soggetto delegato individuato dal datore di lavoro e se il soggetto delegato può rifiutare tale delegata».
Prima di tutto, il ministero spiega che la disposizione (citato art. 16 del T.u. sicurezza) prevede, per il datore di lavoro, la possibilità di delegare i propri obblighi a eccezione della valutazione dei rischi e relativo documento e la designazione del responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp), ad altro soggetto dotato dei requisiti di professionalità ed esperienze che sono richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate.
Poi spiega che, affinché la delega sia efficace, è necessario che abbia «tutte» le caratteristiche previste dalla norma (art. 16), quali la forma scritta, la certezza della data, il possesso da parte del delegato di tutti gli elementi di professionalità ed esperienza richiesti dalla natura specifica delle funzioni delegate e, infine, la possibilità da parte dello stesso delegato di disporre di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni a lui delegate.
In conclusione, a risposta del quesito, precisa che la delega deve essere accettata dal delegato per iscritto. Infatti, aggiunge, «tra le caratteristiche indicate nell'art. 16, comma 1, il legislatore ha espressamente previsto, alla lettera e) del decreto, che la delega “sia accettata dal delegato per iscritto”, elemento che la distingue dal conferimento di incarico, il che implica la possibilità di una non accettazione della stessa».
- La pubblicità. Altro requisito formale della delega è la pubblicità. Per esso va intesa la diffusione della delega in ambito aziendale, in maniera tale che possano essere immediatamente riconoscibili, per coloro che operano all'interno dell'organizzazione e per i terzi che vengano a contatto con la stessa, i soggetti preposti a determinate funzioni.
- I requisiti sostanziali. In merito ai requisiti di professionalità ed esperienza richiesti in capo al soggetto delegato, il T.u. non specifica quali debbano essere. Ciò dipende dalla molteplicità di ambiti e funzioni in cui può operare la delega: si tratta evidentemente di valutare i titoli e l'esperienza del singolo in relazione all'attività svolta dall'organizzazione aziendale nel suo complesso e allo specifico settore affidato alla competenza del delegato.
Per quanto concerne il contenuto della delega, il T.u. stabilisce che il delegato deve godere di ampi poteri decisionali (oltre che di adeguati poteri di spesa) commisurati al tipo di attività delegata e al tipo di interventi che si possono rendere necessari. Infine, il delegato deve avere la necessaria autonomia di spesa, deve cioè essere messo nelle condizioni di gestire il settore o servizio che gli è delegato anche sotto il profilo economico della disponibilità dei mezzi (articolo ItaliaOggi Sette del 23.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Gestione rifiuti semplificata. Riorganizzate le norme su tracciamento, Raee e scavi. In arrivo da parlamento e governo snellimenti per alcuni adempimenti ambientali.
Nuove regole semplificate per gestione di terre e rocce da scavo, tracciamento dei rifiuti e ritiro dei Raee.

È quanto promettono tre provvedimenti in materia ambientale in avanzato stato d'esame da parte del legislatore, coincidenti rispettivamente con: lo schema di decreto approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri il 06.11.2015 e destinato a riorganizzare la normativa sulla gestione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti, rifiuti e non rifiuti; il disegno di legge cosiddetto «Green economy», licenziato dal senato il 04.11.2015 (e ora di nuovo all'esame della camera) che alleggerisce tenuta di registri di carico/scarico rifiuti, formulario di trasporto, Mud e Sistri a favore di determinati operatori; lo schema di decreto Minambiente vidimato dal consiglio di stato in sede consultiva il 06.10.2015 recante le «modalità semplificate» per gestione dei piccoli tecno-rifiuti ritirati dai distributori di nuove apparecchiature nella formula «uno contro zero».
Gestione terre e rocce da scavo. Il decreto in itinere integra la disciplina ex dlgs 152/2006 dettando una precisa definizione di «terre e rocce da scavo» (quali «suolo e il sottosuolo, con eventuali presenze di materiale di riporto conforme» e «derivanti da attività finalizzate alla realizzazione di un'opera») declinando le sottese nuove prescrizioni da osservare in base alla grandezza degli operatori interessati, ossia: cantieri di piccole dimensioni (in cui sono prodotte terre e rocce da scavo in quantità non superiori a 6 mila metri cubi, anche nel corso di attività o opere soggette a valutazione di impatto ambientale o autorizzazione integrata ambientale, cosiddette Via e Aia); cantieri di grandi dimensioni non soggetti a Via/Aia (produzione superiore a 6 mila metri cubi); cantieri di grandi dimensioni soggetti a Via/Aia (per dimensioni come i precedenti, ma sottoposti alle particolari autorizzazioni in vista delle opere da realizzare).
In relazione alle terre qualificabili come sottoprodotti (e dunque gestibili fuori dal regime dei rifiuti), il nuovo provvedimento specifica i requisiti da osservare ex articolo 184-bis, comma 1, del dlgs 152/2006, sancendo in linea generale: il riutilizzo in ossequio a un prodromico piano di riutilizzo confermato da successiva dichiarazione di avvenuto impiego (con semplificazioni burocratiche progressive in base alla grandezza dei cantieri); il rispetto di requisiti di qualità (specificando anche gli eventuali e ammessi trattamenti di «normale pratica industriale»); le modalità di «deposito intermedio» in attesa di utilizzo (che deve avvenire presso i siti di produzione, destinazione o altri della stessa classe d'uso, nei limiti temporali previsti dal citato piano, in modo separato, segnalato e autonomo rispetto ad altri rifiuti come a eventuali terre e rocce da scavo oggetto di differenti piani); la necessaria documentazione di corredo al trasporto (per siti di grandi dimensioni sub Via/Aia, rappresentato da apposita modulistica, per altro dal già previsto documento di trasporto o copia del relativo contratto).
Prescrizioni particolari anche per il «deposito temporaneo» delle rocce da scavo qualificabili (invece) come rifiuti ai sensi del dlgs 152/2006, in relazione alle quali il decreto impone: limiti temporali (1 anno) e quantitativi (massimo 4 mila metri cubi, 800 se pericolosi); accorgimenti ad hoc per quelle contenenti «Cov» (composti organici volatili); rispetto delle norme dettate per le sostanze pericolose in caso di rifiuti ad alto rischio. Per le terre escludibili ex articolo 185, dlgs 152/2006 dal regime dei rifiuti (in quanto non contaminate e destinate a essere utilizzate nel sito di produzione) è dal dpr in itinere invece imposto un preventivo controllo qualora provenienti da opere sottoposte a Via.
Per le terre prodotte in luoghi oggetto di bonifica e non conformi alle «concentrazioni soglia di contaminazione» ex dlgs 152/2006 ma comunque inferiori a quelle «di rischio» è invece imposta come condizione di riutilizzo la preventiva autorizzazione delle autorità competenti, ai fini dell'esclusivo loro impiego nella stessa area o sub-area e con rispetto di particolari procedure di caratterizzazione.
Tracciamento semplificato rifiuti. Il primo snellimento previsto dal ddl «Green economy» riguarda la tenuta del formulario di trasporto rifiuti da parte di imprenditori agricoli, delegabile alle cooperative agricole di cui sono soci e che abbiano messo a loro disposizione un sito di deposito temporaneo.
Ancora, semplificazioni per i registri di carico/scarico dei rifiuti prodotti nella manutenzione di impianti idrici, con la possibilità per operatori del settore e gestori degli impianti connessi di tenerli presso le sedi di coordinamento organizzativo o equivalente centro previa comunicazione alle autorità di controllo. Novità, infine, per il tracciamento dei rifiuti a rischio infettivo da parte di specifici operatori. L'ex «Collegato» conferma infatti la vigenza, innovandole e allargandole alle imprese agricole, delle disposizioni di favore previste («pre Sistri») dal dl 201/2011 per servizi dei saloni di barbiere e parrucchiere, istituti di bellezza, attività di tatuaggio e piercing.
In materia si sancisce infatti come i suddetti produttori di rifiuti speciali (compresi quelli individuati da codice Cer 18.01.03) coincidenti con aghi, siringhe e oggetti taglienti usati, possano: trasportarli in conto proprio fino a 30 kg al giorno a impianti di smaltimento; adempiere agli obblighi di tenuta dei registri carico/scarico, Mud e «controllo della tracciabilità dei rifiuti» (ossia, Sistri) attraverso la compilazione e conservazione dei formulari di trasporto (presso la loro sede o tramite associazioni imprenditoriali interessate o società di servizi di diretta emanazione, mantenendo copia dei dati trasmessi).
Gestione semplificata Raee ritirati «one on zero». Il regolamento del Minambiente arriverà in attuazione dell'articolo 11, comma 3, del dlgs 49/2014, introducendo le «modalità semplificate» (ossia, parzialmente escluse dal regime autorizzativo ex dlgs 152/2006) per ritiro, deposito e trasporto da parte dei distributori di nuove Aee (apparecchiature elettriche ed elettroniche) dei Raee (i rifiuti derivanti da tali apparecchiature) conferiti dagli utilizzatori nella formula «uno contro zero».
Il dlgs 49/2014 prevede infatti a monte l'obbligo di ritiro a titolo gratuito di piccolissimi Raee (di dimensioni esterne inferiori a 25 centimetri) provenienti da nuclei domestici senza il contestuale acquisto di nuove Aee a carico di distributori con superficie di vendita di Aee superiore ai 400 metri quadri. Per godere del regime semplificato (al quale potranno accedere anche i distributori che adottano volontariamente l'«uno contro zero»), i soggetti in questione dovranno innanzitutto informare l'utenza sulla gratuità del ritiro e promuovere campagne informative al fine di incentivarlo.
Le modalità di ritiro dovranno essere fondate sull'allestimento di idonei luoghi all'interno dei locali dei punti vendita o in loro immediata prossimità, con predisposizione di appositi contenitori a disposizione degli utilizzatori, facilmente accessibili e individuabili, riparati da agenti atmosferici, tali da tutelare salute e sicurezza e impedire che soggetti terzi possano asportare quanto conferito. Lo svuotamento dei contenitori dovrà avvenire almeno ogni 6 mesi e comunque al raggiungimento dei 1.000 kg di Raee, al fine del loro successivo raggruppamento nel luogo di «deposito preliminare».
Il citato deposito preliminare alla raccolta dei Raee per il loro successivo invio a impianti di trattamento dovrà invece essere condotto nel rispetto di condizioni tecniche che consentano la protezione dei Raee, il divieto di accesso a soggetti non autorizzati, la separazione dei Raee «one on zero» dagli altri flussi di tecno-rifiuti, il prelievo dei materiali secondo la tempistica/quantità sopra menzionata.
Al fine di alleggerire gli oneri per i distributori, lo schema di dm prevede altresì la possibilità di effettuare detto deposito sia nel luogo di raggruppamento sopra citato sia presso l'analogo luogo previsto per i Raee ritirati nella formula «one on one» (previo rispetto delle particolari regole per quest'ultimo dettate dal dlgs 49/2014). Il trasporto agli impianti di trattamento potrà essere effettuato dagli stessi distributori come da soggetti terzi, in entrambi i casi previa iscrizione all'Albo gestori ambientali (nella speciale categoria semplificata «3-bis» o nelle ordinarie «4» e «5»).
Gli obblighi relativi a registri di carico/scarico e formulario di trasporto potranno infine essere soddisfatti tramite la tenuta di una specifica e semplificata modulistica, sulla falsariga di quanto già previsto per la gestione dei Raee ritirati nella storica formula «uno contro uno» (articolo ItaliaOggi Sette del 23.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Un regolamento edilizio unico. Sarà cartaceo, online e applicabile in tutta Italia. ItaliaOggi anticipa le linee di un decreto del Mininfrastrutture, di concerto con Anci e regioni.
Verso il regolamento edilizio-unico applicabile sull'intero territorio nazionale. Con una modulistica standard per presentare la domanda di titoli edilizi. Nel modello ci saranno parti fisse uguali per tutto il territorio nazionale e parti variabili, che necessariamente dovranno tenere conto della legislazione regionale.
Il modello sarà cartaceo ma soprattutto online, dove a seconda dei contenuti che dovranno essere indicati si apriranno varie finestre da compilare.
Queste le novità in materia di regolamento edilizio unico di cui ItaliaOggi è in grado di anticiparne le linee guida a cui sta lavorando il ministero delle infrastrutture, in concerto con le Regioni e l'Anci. Il decreto, contenente il regolamento edilizio unico è attuativo del decreto-legge del 12.09.2014 n. 133 detto «sblocca Italia», coordinato con la legge di conversione 11.11.2014 n. 164, recante «Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive» (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'11.11.2014 n. 262).
Differenti procedure edilizie. L'elevata differenziazione delle procedure edilizie tra un comune e l'altro è causata anche dalle diverse normative tecniche contenute negli oltre 8 mila regolamenti edilizi esistenti. La nuova azione in materia edilizia prevede, in coerenza con le previsioni dello «Sblocca Italia» l'individuazione delle metodologie di lavoro, di ricognizione della normativa vigente e delle modalità di coinvolgimento delle amministrazioni e dei soggetti interessati (associazioni di categoria, ordini professionali ecc.) e la predisposizione di uno schema tipo di regolamento edilizio che andrà a sostituire i regolamenti edilizi ora in vigore, semplificando e uniformando le procedure edilizie.
Modello standard. Il modello standard sarà suddiviso in tre diverse parti:
- individuazione del richiedente, qualificazione, localizzazione e altri dati fondamentali dell'intervento e onerosità delle opere;
- identificazione dei soggetti coinvolti nella realizzazione dell'opera (titolari, progettisti, incaricati tecnici, eventuali altre imprese esecutrici);
- asseverazione da parte del progettista, identificazione delle superfici e dei volumi, della classificazione urbanistica; dichiarazioni sul superamento delle barriere architettoniche e in generale sulla sicurezza.
Riferimento per i Comuni. Il decreto Sblocca Italia ha previsto che il Governo, le Regioni e le autonomie locali concludano in sede di conferenza unificata accordi o intese per adottare uno schema di regolamento edilizio-tipo. Il regolamento edilizio-tipo rappresenterà il riferimento a cui i Comuni dovranno attenersi e dal quale non potranno discostarsi significativamente nell'adozione della regolamentazione di carattere locale.
Saranno però gli accordi che deterranno i tempi di adeguamento. Il nuovo regolamento unico richiederà ai comuni anche un'importante attività di coinvolgimento rispetto alle previsioni, terminologiche, contenute nei propri strumenti urbanistici.
Semplificazioni adottate. Ricordiamo che ad oggi sono stati adottati in conferenza unificata i modelli unici semplificati per la comunicazione di inizio lavori e per la comunicazione di inizio lavori asseverata per l'edilizia libera. Attualmente tutte le regioni a statuto ordinario hanno adottato la nuova modulistica.
Dal 16 marzo i cittadini e le imprese hanno in ogni caso il diritto a utilizzare la nuova modulistica. È stata raggiunta l'intesa in Conferenza Unificata, il 16.07.2015, sul modello unificato per la Dia alternativa al permesso di costruire (articolo ItaliaOggi del 21.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sta finendo la truffa del massimo ribasso negli appalti pubblici.
«Chi più spende, meno spende», dice il vecchio adagio. Comprensibilmente non lo si è mai voluto applicare alle gare d'appalto pubbliche, dove stato, enti locali e pubbliche amministrazioni tentano di spendere il meno possibile per acquistare beni e servizi attraverso, appunto, le procedure competitive.
Ma per riuscirci, cos'hanno fatto finora, in concreto? Hanno adottato diffusamente, nelle gare, il criterio aberrante del «massimo ribasso» dei prezzi di gara. Un modo per dire: noi appaltanti non vogliamo scegliere, non utilizziamo alcuna discrezionalità, facciamo i notai, ci limitiamo a constatare chi chiede meno e a lui diamo l'appalto.
L'imminente riforma del Codice degli appalti pare intenda sanare questo criterio. Forse, dalla primavera del 2016, verrà cancellato dall'ordinamento. Sarebbe ora. E pare che il merito di questa svolta sia da ascrivere soprattutto a Raffaele Cantone, il magistrato voluto da Matteo Renzi al vertice dell'Autorità anticorruzione (Anac). Il quale ha messo il dito sulla piaga: se per offrire il prezzo più basso, i fornitori concorrenti a una gara millantano un'efficienza che non hanno, che cosa accade? Accade che, se vincono l'appalto, per riuscire a espletarlo guadagnandoci, o riducono la qualità dei servizi o dei prodotti offerti al di sotto di quanto prescritto dal capitolato contando di farla franca e abbattendo i costi; o, nel caso dell'edilizia, una volta avviati i cantieri li fermano chiedendo integrazioni di prezzo, con l'implicita minaccia di lasciarli, se non accontentati, incompiuti per anni e di non consegnare l'opera.
Insomma, una clausola introdotta perché fungesse da salvaguardia dell'interesse pubblico si è spesso tradotta in un varco per le peggiori truffe. E c'è di più: sul concetto stesso di massimo ribasso si è incardinata una fitta e maleodorante giurisprudenza sulle cosiddette «offerte anomale», denunciate dai concorrenti sconfitti da questo tipo di offerte.
Gente che, vedendosi battuta da prezzi chiaramente impraticabili perché non remunerativi, ha cercato di smascherare in giudizio le asseribili cattive intenzioni dei vincitori. Anche per questo, secondo le statistiche dell'Autorithy di controllo sui contratti con la pubblica amministrazione, soppressa da Renzi, il contenzioso sugli appalti pubblici negli ultimi anni ha raggiunto l'80% del totale!
Insomma: non è per decreto che si può ottenere l'onestà di chi gestisce potere in nome del popolo. C'è un solo modo per ottenerla, si chiama controllo sociale, democrazia e ricambio e lo si esercita attraverso le elezioni. Facile a dirsi, meno a farsi. Ma è l'unica strada: altro che «massimi ribassi» (articolo ItaliaOggi del 20.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: A Salerno incarichi a dirigenti in pensione per esautorare gli esistenti.
I primi effetti negativi dell'ambigua normativa che consente di attribuire incarichi ai dirigenti in pensione si sono manifestati nel comune di Salerno.

La comandante del corpo dei vigili urbani, impegnata da tempo in una vertenza sindacale avviata dagli agenti componenti il corpo, si è dimessa, dopo essere stato di fatto esautorata da un «mediatore» nominato dal comune, per giungere al componimento della negoziazione sindacale.
Tale «mediatore», figura del tutto inesistente nell'ordinamento locale ma anche nel sistema giuridico amministrativo, è stato scelto dal comune nella persona dell'ex dirigente, in pensione, addetto alla gestione del personale.
È evidente che il comune si è avvalso della facoltà concessa alle pubbliche amministrazioni di incaricare, attribuendo incarichi dirigenziali o consulenze e collaborazioni, dipendenti pensionati, prevista dall'articolo 5, comma 9, del dl 95/2012, convertito in legge 135/2015, di recente modificato dall'articolo 17, comma 3, della legge 124/2015.
Unica condizione è che detti incarichi siano a titolo gratuito, come espressamente imposto dalla norma. Era facile immaginare, tuttavia, che simili incarichi potessero contribuire a creare una sorta di «apparato parallelo» a quello operativo. Gli incarichi previsti dalla norma del 2012 sono visti e considerati sostanzialmente come fiduciari e rientrano, dunque, nel novero dello spoil system all'italiana.
Potenzialmente, il ricorso a consulenze di ex dirigenti in pensione potrebbe determinare esattamente il cortocircuito verificatosi a Salerno, cioè mettere un dirigente di ruolo «sotto tutela», da parte di un dirigente pensionato scelto fiduciariamente dall'amministrazione. Nel caso di specie, il ruolo di «mediazione» affidato dal comune all'ex dirigente in pensione appare assai particolare e poco in linea con l'ordinamento.
Una «mediazione» contrattuale a un soggetto esterno all'ente appare in evidente contrasto con l'articolo 5, comma 2, del dlgs 165/2001 e l'articolo 107 del dlgs 267/2000 che attribuiscono ai dirigenti la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti assegnati alle loro strutture in via esclusiva, dunque a esclusione dell'ingerenza di organi di governo o di soggetti terzi. Esiste, per altro, una giurisprudenza pacifica anche ordinaria, secondo la quale le contrattazioni decentrate non possono essere condotte in presenza di «consulenti» esterni.
La sovrapposizione delle funzioni della dirigente di ruolo operata con l'incarico al mediatore ha comportato la conseguenza delle dimissioni dell'interessata. Ma, contestualmente, mette a nudo i gravi problemi organizzativi al fondo della disciplina che consente di incaricare dirigenti pensionati, per altro in chiarissimo contrasto con ogni velleità di introdurre nella p.a. staffette generazionali di sorta (articolo ItaliaOggi del 20.11.2015).

LAVORI PUBBLICIAppalti, l'obiettivo è zero varianti. Revisione del ruolo della p.a.: programmazione e controllo. Punta su progetto e qualificazione delle imprese la riforma dei contratti pubblici approvata alla camera.
Centralità del progetto e innovazione della fase progettuale per avere meno varianti e riserve; più programmazione e controllo da parte delle amministrazioni pubbliche; revisione del sistema di qualificazione delle imprese con l'introduzione di criteri reputazionali sull'affidabilità in fase di esecuzione dei contratti.
Sono questi alcuni dei punti cardine intorno ai quali è stata immaginata la riforma del sistema degli appalti pubblici approvata dalla camera martedì sera, con il disegno di legge delega che dovrà recepire le direttive del 2014 (si veda Italia Oggi del 18 novembre).
In particolare, il disegno di legge, che peraltro contiene alcuni punti contraddittori da rivedere in sede di coordinamento tecnico, punta con forza, come peraltro fece la legge Merloni del 1994, sul rilancio della fase di progettazione e sul miglioramento del sistema di qualificazione delle imprese come elementi determinanti per rendere più efficiente ed efficace l'iter di realizzazione delle opere pubbliche.
Nel primo caso la valorizzazione della fase progettuale affronta anche questioni di particolare valenza innovativa come è il riferimento all'utilizzo della metodologia Bim (Building information modelling), già adottata a livello internazionale e nel settore privato. Ma, dal punto di vista della riscrittura delle regole affidata al governo, si richiama l'esigenza di promozione dell'uso dei concorsi di progettazione, oggi strumento molto residuale nelle procedure di affidamento di progettazione, per elevare il livello qualitativo del progetto. Sulla stessa linea, ma riferito alle gare di servizi di ingegneria, si colloca l'indicazione di prevedere l'obbligo di affidamento attraverso il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, con l'espresso divieto di utilizzo del prezzo più basso, in attuazione degli indirizzi contenuti nelle direttive europee.
Strumentale alla centralità del progetto è anche l'introduzione del débat public, i cui risultati dovranno essere accolti nel progetto definitivo: anche in questo caso l'obiettivo è quello di limitare al massimo la possibilità di varianti, o meglio di ricondurre in quell'alveo fisiologico che oggi rappresenta l'eccezione dal momento che in più del 60% degli appalti si registrano varianti e aumenti di costo. Si arriva anche a prevedere la possibilità di rescissione del contratto oltre determinate soglie di importo.
Il punto più rilevante riguarda la necessità di arrivare all'affidamento dei lavori con progetti definiti e dettagliati che diano poco spazio a riserve e a varianti; e a tale proposito il testo approvato martedì prevede espressamente il divieto di affidare appalti sulla base del progetto preliminare.
Sulla stessa direzione si muove la scelta di limitare l'appalto integrato (appalto di progettazione esecutiva e costruzione) che non potrà più essere messo in gara sulla base del progetto preliminare e che dovrà essere limitato radicalmente «tenendo conto in particolare del contenuto innovativo o tecnologico delle opere oggetto dell'appalto o della concessione in rapporto al valore complessivo dei lavori e prevedendo di norma la messa a gara del progetto esecutivo».
Sul fronte dell'organizzazione della macchina amministrativa la scelta di valorizzare la progettazione finisce per incidere non poco: da un lato si prevede la revisione delle funzioni del ruolo della pubblica amministrazione da indirizzare verso la programmazione e il controllo dell'appalto; dall'altro lato si rivede la disciplina dell'incentivo del 2% dell'importo dei lavori di competenza dei tecnici della p.a. che sarà indirizzato sulla programmazione e sul controllo e non sulla progettazione.
Sulla qualificazione delle imprese il legislatore delegato dovrà rivedere profondamente il sistema che, in un primo momento, si pensava potesse non fare più affidamento sulle Soa, invece confermate perno del sistema di attestazione delle imprese di costruzioni. Nel testo è prevista la stretta sulle norme che disciplinano la sospensione e la decadenza delle attestazioni (delicata la materia dei fallimenti e dei concordati), ma anche di quelli che sono gli elementi sulla base dei quali dovranno essere attestate le imprese.
In questo contesto va letto il riferimento ai criteri reputazionali con i quali si dovrebbero misurare, oltre che su dati quantitativi, l'affidabilità e la serietà della impresa.
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L'Anac vigilerà sui requisiti di partecipazione. Più aste telematiche. Sospeso il performance bond.
Contro la corruzione verranno unificate le banche dati.

Semplificazione delle procedure, maggiore ricorso ai sistemi elettronici di affidamento, unificazione delle banche dati, più trasparenza nei «settori speciali», sospensione delle norme sul performance bond, disciplina ad hoc per i beni culturali e i contratti segretati, soccorso istruttorio senza sanzioni per le irregolarità formali. Sono questi alcuni dei punti significativi del disegno di legge delega sugli appalti pubblici approvato martedì dalla camera.
Per l'accesso alle procedure di gara si punta molto sul maggiore impiego delle aste telematiche e su norme che tutelino la partecipazione delle pmi anche premiando chi associa tali imprese in raggruppamento.
Viene prevista una più che logica unificazione delle banche dati concernenti elementi per la verifica dei requisiti di partecipazione alle procedure di gara che saranno convogliate presso l'Anac (autorità anticorruzione), anche se il sistema di verifica dei requisiti dell'Avcpass, che dovrà essere semplificato e aggiornato, passerà al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Importante è l'indicazione sul soccorso istruttorio che dovrà essere sempre possibile sulle irregolarità formali, ma senza sanzioni.
Viene poi di fatto sospesa l'applicazione delle norme sul performance bond a partire dall'approvazione della legge delega e, per i contratti in corso, non si procederà allo svincolo automatico delle cauzioni. Una particolare attenzione, sotto il profilo della trasparenza e della piena apertura e «contendibilità» dei mercati, viene mostrata alla disciplina dei cosiddetti «settori speciali» (acqua, energia e trasporti) per i quali occorrerà indicare puntualmente le disposizioni applicabili.
La delega prevede che venga introdotta una specifica disciplina per i contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza, sottoponendo tali affidamenti al controllo della Corte dei conti e individuando le circostanze che ne giustificano il ricorso e, ove possibile, le modalità realizzative. Per questi contratti dovrà essere assicurata nelle procedure di affidamento la partecipazione di un numero minimo di operatori economici, nonché prevedere l'adeguata motivazione dell'affidamento.
Previsto anche il riordino delle norme sugli appalti relativi a beni culturali, nel senso di garantire trasparenza e pubblicità. Una chiara indicazione viene fornita anche per le modalità di individuazione delle offerte anomale con particolare riguardo agli appalti sottosoglia (inferiori a 5 milioni), fascia di affidamenti per i quali la delega prevede forme di garanzia di trasparenza e concorrenza con l'obbligo di invito di almeno cinque operatori economici e applicazione del principio di rotazione (articolo ItaliaOggi del 20.11.2015).

APPALTIAppalti, sì della Camera alla riforma. Più poteri all’Anticorruzione, stretta su varianti e deroghe - Semplificazione senza il regolamento generale.
Contratti pubblici. Il testo torna ora al Senato per l’ultimo esame (senza modifiche) - Delrio: il nuovo codice sarà operativo entro giugno.

A un anno esatto dalla presentazione in Parlamento la riforma degli appalti compie un passo decisivo alla Camera. Al termine di 100 votazioni, in molti casi appoggiate anche dall'opposizione, con 343 si, 78 contrari e 25 astenuti Montecitorio ha approvato il testo (Atto Camera n. 3194) che consegna al governo il compito di riformare gli appalti, sulla base di ben 75 criteri direttivi. Si tratta di un'approvazione praticamente definitiva. I tempi stretti per il recepimento delle nuove direttive europee (18.04.2016), non lasciano spazio per ulteriori modifiche in terza lettura al Senato.
«È una buonissima notizia per il sistema dei lavori pubblici italiani -ha commentato il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio-. È una riforma che vuol dire trasparenza, efficacia, buon utilizzo dei soldi pubblici e non più zone opache». Per il ministro Delrio il nuovo codice sarà operativo entro giugno. «Abbiamo introdotto diversi miglioramenti rispetto al testo del Senato -segnala il presidente della commissione Lavori pubblici Ermete Realacci-. Tra questi anche il rafforzamento del ruolo del Parlamento nell’esercizio della delega da parte del governo».
Il dialogo aperto tra maggioranza e opposizione ha garantito un’approvazione rapida, nonostante l’Aula abbia apportato più di 40 modifiche al testo uscito dalla commissione. Tra queste, l’emendamento che lascia al governo due strade per attuare la delega, attraverso la commissione di esperti nominata dal ministro Delrio (presieduta dal capo dipartimento di Palazzo Chigi Antonella Manzione ) al lavoro già da alcune settimane.
Due le ipotesi. La prima è un’attuazione sdoppiata. Con un primo decreto mirato a recepire le direttive entro il 18.04.2016 e un secondo decreto (da varare entro 31 luglio) per riformare l’intero sistema sulla base dei principi contenuti nella delega. La seconda opzione, forse più logica e al momento quella più gettonata dal governo, è quella di approvare un unico decreto che assolva ad entrambi gli obiettivi, mandando subito in pensione il codice. Nessun passo indietro sull'addio al vecchio (ed elefantiaco) regolamento appalti sostituito da linee guida proposte dall'Anac e approvate con un decreto delle Infrastrutture. «Così il nuovo codice sarà il primo caso italiano di soft law», ha sottolineato Delrio.
Altra correzione rilevante riguarda il punto, molto discusso, dei lavori gestiti in house dalle concessionarie autostradali. Un emendamento votato in Aula raddoppia da 12 a 24 mesi i tempi entro i quali le concessionarie potranno adeguarsi al nuovo obbligo di affidare con gara l'80% (invece che il 60%) dei lavori.
Tra le modifiche dell'ultim'ora anche l'alleggerimento dei vincoli sull'appalto integrato di progetto e lavori (salta il paletto che ne limitava il ricorso agli appalti con contenuto tecnologico superiore al 70%) e nuove misure per il pagamento diretto delle Pmi coinvolte nei subappalti. Arriva poi un'ulteriore stretta sui ricorsi al Tar. In particolare il giudice dovrà tenere conto già nella fase cautelare dei casi in cui l'annullamento dell'aggiudicazione comporta l'inefficacia del contratto. Viene poi introdotto un rito speciale per la risoluzione immediata del contenzioso relativo alle esclusioni dalla gara per carenza dei requisiti, rendendo impossibile contestare dopo i provvedimenti della stazione appaltante relativi a questa fase di gara.
L'ultima novità di giornata riguarda la qualificazione delle imprese, con la previsione di una disciplina specifica per la decadenza e la sospensione dei certificati Soa che abilitano al mercato dei lavori pubblici. Con la delega arriva poi la sospensione del performance bond sulle grandi opere e l'ok alla clausola sociale nei call center.
Il cuore della riforma resta comunque l'estensione e il rafforzamento dei poteri affidati all'Anac di Cantone. Un passaggio in cui non è difficile intravedere il riflesso delle tante inchieste sulla corruzione che hanno attraversato il mondo degli appalti negli ultimi mesi. L’Anac viene dotata di poteri di intervento cautelari (possibilità di bloccare in corsa gare irregolari). I suoi atti di indirizzo (e i bandi-tipo) diventano vincolanti. Saranno poi gestiti dall’Autorità il sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti, l’albo dei commissari di gara, le banche dai di settore, i controlli sulle varianti.
Confermata la scelta di puntare sulla qualità dei progetti, cancellando la possibilità di bandire le gare su elaborati preliminari e vietando la possibilità di assegnare gli incarichi al massimo ribasso. Con la preferenza per l’offerta più vantaggiosa (rapporto costo/qualità) il prezzo più basso diventa un criterio residuale anche per lavori pubblici. Rimane la stretta sulle varianti, causa dell’aumento dei costi di due grandi opere su tre e sulle deroghe possibili solo per emergenze di protezione civile. Inoltre le grandi opere dovranno essere capaci di guadagnarsi il consenso sul campo («débat public»).
Molte anche le misure destinate -in linea teorica- a favorire l'accesso dei professionisti e delle Pmi al mondo degli appalti. E a garantire trasparenza anche ai contratti di importo inferiore alle soglie Ue (5,2 milioni per i lavori). Una zona grigia dove si annida una corruzione diffusa, più difficile da snidare rispetto a quella che fa da contorno alle grandi opere. Indicazioni di principio che spetterà poi al Governo tradurre in norme efficaci
 (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2015).

APPALTI: Gare, stop al massimo ribasso. Divieto di deroghe negli appalti, se non per calamità. La Camera ha approvato il ddl di riforma che ora torna al Senato per il sì definitivo.
Stop alle gare con massimo ribasso: sarà premiata l'offerta economicamente più vantaggiosa, anche sotto il profilo della qualità. Divieto di norme in deroga negli appalti, se non per eventi calamitosi. Rafforzamento del ruolo dell'Autorità nazionale anti corruzione: i commissari di gara saranno scelti a rotazione da un albo costituito proprio presso l'Anac. Limitazioni all'appalto integrato. Valorizzazione della fase progettuale. Eliminazione dell'incentivo per i progettisti della pubblica amministrazione.

Sono queste alcune delle novità contenute nel disegno di legge delega sugli appalti
(Atto Camera n. 3194) che è stato approvato ieri dalla Camera con 348 voti favorevoli, 78 contrari e 25 astenuti e che adesso dovrà tornare al Senato per l'approvazione definitiva.
Novità che dovranno sostanziarsi in base agli oltre 70 criteri direttivi per il recepimento delle direttive su appalti e concessioni e la riforma del codice degli appalti pubblici. L'approvazione di ieri porta peraltro una importante novità: l'operazione di riforma potrà essere effettuata con un decreto unico entro aprile 2016 (di recepimento e di contestuale riforma del codice), o con due decreti delegati, uno per attuare le direttive entro il 18.04.2016 e un altro (entro il 31.07.2016) per riformare il codice dei contratti pubblici riordinando tutta la materia; poi seguiranno le linee guida Anac che sostituiranno il regolamento.
Nel merito dei numerosi criteri di delega, innanzitutto verrà «superata» la disciplina della legge obiettivo e sarà previsto il divieto, negli appalti in corso, di affidare il compito di responsabile e direttore dei lavori allo stesso contraente generale o a soggetti ad esso collegati.
Uno dei punti più delicati era anche quello degli appalti dei concessionari, oggi obbligati ad affidare i lavori in gara per almeno il 60% (e il 40% in house) e liberi al 100% di utilizzare le società in house per le forniture e per i servizi. La norma approvata ieri prevede che l'obbligo di affidamento a terzi, senza ricorso a società in house salga, entro due anni, all'80% (con il 20% di in house) e si applichi a tutte le tipologie di attività, quindi non solo ai lavori ma anche a servizi e forniture.
Un perno centrale del disegno di legge delega è rappresentato dall'Autorità nazionale anticorruzione cui si assegnano poteri di vigilanza e controllo con particolare riguardo alla fase di esecuzione dei contratti, nonché il compito di gestire l'albo dei commissari di gara e di procedere alla redazione delle linee guida che sostituiranno l'attuale regolamento del codice dei contratti pubblici.
Per arginare quanto avvenuto in passato, la delega impone al Governo di definire una disciplina ad hoc per gli appalti connessi alle situazioni di emergenza di protezione civile, che coniughi le esigenze di tempestività con quelle tese ad avere adeguati meccanismi di controllo e pubblicità successiva. In questo ambito la delega prevede espressamente il divieto di affidare contratti con procedure diverse da quelle ordinarie, fatta eccezione per «singole fattispecie connesse a particolari esigenze collegate a situazioni emergenziali». Introdotte anche misure a tutela dei rapporto di lavoro nei casi di successione di imprese nei contratti di appalti, alle medesime condizioni economiche e normative previste dalla contrattazione collettiva.
Una particolare attenzione, in diversi passi della delega viene data al tema della sostenibilità energetica e ambientale negli appalti, prendendo anche lo spunto dalle novità introdotte dalle direttive del 2014 in cui è stato introdotto il criterio dei costi sul ciclo di vita, da utilizzare come parametro di aggiudicazione e come elemento premiale. Per i comuni non capoluogo vi sarà l'obbligo di ricorrere a centrali di committenza per gli appalti superiori a 100 mila euro. Una importante novità riguarda anche l'incentivo del 2% dell'importo dei lavori di competenza dei tecnici della pubblica amministrazione, che sarà indirizzato sulla programmazione e sul controllo e non sulla progettazione, le funzioni che dovranno essere prioritarie per la p.a..
Viene prevista anche una più che logica unificazione delle banche dati concernenti elementi di interesse ai fini della partecipazione a procedure di gara che saranno convogliate presso l'Anac, anche se il sistema di verifica dei requisiti dell'Avcpass, che dovrà essere semplificato e aggiornato, passerà al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Importante l'indicazione sul soccorso istruttorio che dovrà essere sempre possibile sulle irregolarità formali, ma senza sanzioni.
Prevista una limitazione dell'appalto integrato (appalto di progettazione esecutiva e costruzione) che non sarà più possibile sulla base del progetto preliminare e consentito quando vi siano lavori di notevole contenuto innovativo o tecnologico e in particolare per le opere puntuali (articolo ItaliaOggi del 18.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALITutta la p.a. in un data base. Archivio unico con i dati fiscali, amministrativi e sanitari. Presentata l'Anagrafe nazionale della popolazione residente. Orlandi: risparmi per i cittadini.
Un unico gigantesco archivio che contiene tutti i dati e tutte le informazioni di ogni cittadino, da quelle fiscali a quelle amministrative fino a quelle sanitarie.

Questo lo scopo dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), che partirà a breve in via sperimentale in 27 comuni italiani (tra cui Roma, Milano e Torino) e che secondo la numero uno dell'Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, potrebbe essere già in funzione «in pochi mesi» in tutto il Paese.
Il progetto, presentato ieri a Roma, punta a far convergere in un unico archivio «monstre» le informazioni di tutte le principali banche dati italiane, dagli oltre 8 mila comuni all'Inps, dall'Inail alla Motorizzazione civile, per fare in modo che alla fine del percorso ciascun cittadino con il proprio Pin e la propria carta d'identità elettronica possa avere accesso a tutte le posizioni che lo riguardano: da quelle fiscali a quelle amministrative a quelle lavorative o sanitarie.
L'Archivio nazionale prevede l'istituzione di una sorta di «domicilio digitale», ossia un indirizzo di posta elettronica certificata che ogni cittadino può indicare come esclusivo mezzo di comunicazione con la pubblica amministrazione, sulla falsariga di quanto accade a imprese e professionisti che già ricevono le comunicazioni tramite l'indirizzo Pec.
Capofila del progetto sarà il ministero dell'interno. Sogei attuerà le procedure e Agid, l'Agenzia per l'Italia digitale, coordinerà tutte le attività.
«Il Viminale dovrà diventare l'hub fondamentale a disposizione di tutte le pubbliche amministrazioni», ha dichiarato il ministro dell'interno Angelino Alfano. «La vita privata dei cittadini deve viaggiare alla velocità degli smartphone e della banda larga», ha aggiunto Alfano «non può andare a velocità rallentata. Possedere i dati e' un elemento di potere e metterli in condivisione significa perdere un pezzetto di potere in favore di una sovranità superiore. In questo ha prevalso lo spirito di collaborazione tra amministrazioni».
«E' una rivoluzione cui stiamo lavorando da tempo», ha commentato la numero uno dell'Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, «perché significa realizzare un unico data base che conterrà tutte le informazioni in un identificativo certo. Teoricamente tutti gli atti della pubblica amministrazione saranno sul personal computer di casa, con un risparmio di tempo per il cittadino e un risparmio consistente per la pubblica amministrazione». «Grazie all'archivio unico», ha spiegato Orlandi, «una volta che tutti i comuni saranno entrati nel sistema, le informazioni anagrafiche saranno complete, standardizzate e prive di duplicazioni» e «arriveranno all'Anagrafe tributaria non più dalle singole anagrafi comunali, ma direttamente da quella nazionale», per le comunicazioni relative a nascita, decessi e variazioni di residenza.
Inoltre, con l'Agenzia nazionale «avremo a disposizione anche i dati relativi alla famiglia anagrafica di appartenenza di ciascun cittadino residente, raccolte in una unica base dati, completa e aggiornata».
Con il completamento dell'Anpr, «l'Agenzia delle entrate e il ministero dell'interno potranno realizzare, in collaborazione, servizi integrati verso tutti gli enti e le amministrazioni, per un sistema unitario di verifica e di interrogazione di dati anagrafici e di codici fiscali. Questo favorirà un'ottimizzazione degli scambi di dati e un abbattimento di costi nella fruizione dei servizi per tutta la pubblica amministrazione», ha concluso Orlandi.
L'operazione «ha certamente un costo», ha osservato il sottosegretario all'economia, Pier Paolo Baretta, «e in un periodo di difficoltà sappiamo che reperire risorse è un problema. Ma questo e' un investimento che e' assolutamente necessario fare, non si possono cercare alibi».
«L'anagrafe nazionale diventa la banca dati di riferimento per tutte le altre», ha commentato il presidente e amministratore delegato di Sogei, Cristiano Cannarsa. «Con l'anagrafe nazionale della popolazione residente e il 730 precompilato, abbiamo un motivo in più per implementare la banda larga» (articolo ItaliaOggi del 13.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGOA Campobasso un dirigente apicale al posto del segretario comunale.
Al comune di Campobasso si anticipano gli effetti della riforma Madia: si fa a meno del segretario comunale a vantaggio di un dirigente «di vertice» di fiducia del sindaco.
Non lo si può definire tecnicamente «direttore generale», perché il comune di Campobasso ha meno di 100.000 abitanti, né «dirigente apicale» perché ancora la riforma Madia non è vigente, ma la sostanza è che questo dirigente di vertice ha di fatto esautorato il segretario comunale, tanto che il titolare della sede di segreteria si è dimesso lo scorso ottobre, visto che le funzioni di coordinamento dell'attività comunale sono state svolte dal dirigente fiduciario.
La vicenda dimostra che la legge 124/2015 a ben vedere non ha tanto lo scopo di innovare l'ordinamento modificando la disciplina della dirigenza pubblica, anche attraverso l'abolizione dei segretari comunali, quanto soprattutto di fornire un ombrello normativo alla tendenza sempre più forte degli organi di governo di costruirsi una dirigenza strettamente a sé affine, individuata per via fiduciaria e senza concorsi, a svantaggio della dirigenza di ruolo.
Quanto si è verificato a Campobasso trova origine già alla fine del gennaio 2015, quando il sindaco ha conferito l'incarico dirigenziale extra dotazione organica, ai sensi dell'articolo 110, comma 2, del dlgs 267/2000 di direzione dell'Area «indirizzo organizzazione e controllo» del comune. Un incarico che pur non inquadrando il destinatario in maniera esplicita come «direttore generale» nella sua stessa sinterizzazione evidenzia che il contenuto sia esattamente identico, posto che ai sensi dell'articolo 108 del dlgs 267/2000 il direttore generale attua gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, sovrintendendo alla gestione dell'ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza.
Che si trattasse, in effetti, dell'assegnazione di funzioni di dirigente di vertice, «dirigente apicale» si direbbe ai sensi della legge delega 124/2015, lo hanno dimostrato i fatti, che hanno portato il segretario a dimettersi. Il comune, dunque, anticipando i tempi della riforma si ritrova, adesso, senza segretario e con una sorta di «dirigente apicale», assunto esattamente secondo le modalità selettive solo in apparenza che delinea la riforma Madia.
Infatti, l'incaricato come «super manager» del comune è stato scelto a seguito di una selezione pubblica, nell'ambito della quale una commissione nominata dal sindaco ha preselezionato 4 nominativi di candidati, qualificandoli tutti come «idonei» a ottenere l'incarico. La commissione, dunque, non ha redatto una graduatoria di merito e, quindi, la scelta finale è stata compiuta dal sindaco sulla base di proprie valutazioni dei curriculum dei quattro preselezionati. Tra i quali c'era il destinatario, il quale era stato in precedenza dal 2000 al 2009 direttore generale del comune, quando il sindaco era espressione del centro sinistra.
Dal 2009 al 2014, con maggioranza di centro-destra, ha saltato un giro e il sistema di selezione dei dirigenti a contratto, che la legge Madia sostanzialmente estenderà ai fini dell'assegnazione degli incarichi ai dirigenti di ruolo, ha consentito alla maggioranza nuovamente di centro-sinistra del comune di Campobasso di richiamare in forza l'ex direttore generale sotto diversa veste e a dire addio, per ora, al segretario comunale.
Un addio che potrebbe divenire, con la vigenza dei decreti legislativi attuativi della legge 124/2015, definitivo (articolo ItaliaOggi del 13.11.2015).

APPALTIAppalto, se è verde c'è lo sconto. Cauzioni ridotte. Certificazione ambientale aiuta in graduatoria. Le novità del disegno di legge sulla green economy approvato al senato. Obblighi per l'Anac.
Sconti sulle cauzioni e titoli preferenziali per gli appaltatori in possesso di qualificazioni ambientali; obbligo per le stazioni appaltanti di indicazione nel bando di gara del metodo di misurazione dei costi del «ciclo di vita» del progetto e dei criteri ambientali minimi che dovranno essere previsti anche nei bandi-tipo dell'Anac; offerta economicamente più vantaggiosa da valutare anche in riferimento alla sostenibilità ambientale.

Sono queste alcune delle novità contenute nel disegno di legge sulla green economy (Atto Senato n. 1676) approvato la scorsa settimana al senato e adesso all'esame della camera in terza lettura, che prevede alcune norme innovative riguardanti la disciplina degli appalti pubblici.
Un primo intervento del provvedimento approvato al senato attiene alla disciplina delle garanzie a corredo dell'offerta nei contratti pubblici, di cui si modificano gli articoli 75 e 83 del Codice dei contratti pubblici.
Potrà essere concessa la riduzione dell'importo della garanzia e del suo eventuale rinnovo agli operatori economici in possesso di specifiche qualificazioni ambientali.
Viene previsto che il bando, nel caso di previsione del criterio relativo al «ciclo di vita», indichi, tra l'altro, il metodo che l'amministrazione aggiudicatrice utilizza per la valutazione dei relativi costi inclusa la fase di smaltimento e recupero.
È poi stabilito che siano da considerarsi titolo preferenziale nella formulazione delle graduatorie, oltre alla registrazione al sistema comunitario di ecogestione e audit (Emas), anche il possesso di altre certificazioni, in via alternativa o aggiuntiva: la certificazione ambientale ai sensi della norma Uni En Iso 14001; la certificazione Iso 5001, relativa a un sistema di gestione razionale dell'energia; il possesso del marchio di qualità ecologica Ecolabel Ue ai sensi del regolamento (Ce) n. 66/2010 per un proprio prodotto o servizio da parte delle organizzazioni pubbliche e private interessate.
Un'assoluta novità è l'introduzione nel codice dei contratti pubblici (con il nuovo articolo 68-bis nel codice dei contratti) dei «criteri ambientali minimi» (Cam) che dovranno essere inseriti nei bandi di gara per gli appalti pubblici di diverse forniture e di servizi (per esempio il verde pubblico), nell'ambito delle categorie previste dal piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione (Pan-Gpp).
Molto significativo è il fatto che siano integrati i criteri di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, richiamando espressamente i profili attinenti alle caratteristiche ambientali e al contenimento dei consumi energetici e delle risorse ambientali, e specificando che tali criteri devono riferirsi anche al servizio, e non solo al lavoro e al prodotto.
Il provvedimento assegna inoltre all'osservatorio dei contratti pubblici il monitoraggio dell'applicazione dei criteri ambientali minimi disciplinati nei relativi decreti ministeriali e del raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione (Pan Gpp).
Importanti indicazioni vengono previste anche per l'Autorità nazionale anti corruzione (Anac) che ha il compito (confermato anche dal ddl delega appalti pubblici) di redigere i bandi-tipo, sulla base dei quali sono predisposti i bandi di gara da parte delle stazioni appaltanti: nella messa a punto di questi format l'Anac dovrà infatti inserire indicazioni per l'integrazione dei criteri ambientali minimi (articolo ItaliaOggi del 13.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Il fascicolo sanitario elettronico arriva all’ultimo «passaggio». Salute. In «Gazzetta» il regolamento.
Pronti, partenza, via. Con la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» di ieri del Dpcm 178/2015, prende ufficialmente il via l’utilizzo su tutto il territorio nazionale del fascicolo sanitario elettronico (Fse).
Ogni cittadino italiano dalla nascita e per tutto il corso della vita avrà un fascicolo personale digitale che raccoglierà tutti i dati e le informazioni sanitarie e socio-sanitarie che costituiscono la storia clinica e di salute di tutti gli italiani. Ogni prescrizione, ogni accertamento clinico-diagnostico, visita medica e ogni eventuale ricovero, tutto, proprio tutto presto sarà tracciato e finirà nel faldone digitale personale.
Un’evoluzione importante, perché garantirà vantaggi concreti al sistema sanitario nazionale, al cittadino, ai medici e alle strutture. La tracciabilità prevista dal Dpcm potrà far ridurre sprechi e inefficienze attraverso le statistiche, l’incrocio dei dati e una maggiore trasparenza degli stessi. Il che, tradotto in pratica, significa ottenere miglioramenti in termini di programmazione, controllo e valutazione del sistema sanitario nel suo complesso, in un contesto sia italiano che europeo. E innumerevoli saranno i vantaggi per i cittadini, che nel rispetto delle regole sulla privacy potranno tenere sott’occhio per tutta la vita gli alti e i bassi della propria salute, migliorando anche il «self empowerment» del proprio benessere.
Quando il percorso sarà completato i medici, dal canto loro, potranno leggere i referti e ricostruire il percorso clinico di ogni paziente che non sarà più un perfetto sconosciuto.
Nulla potrà sfuggire, ogni acciacco, ogni pillola assunta, indipendentemente se il paziente sia nato a Cefalù o a Pordenone, mentre il dottore lo sta visitando a Genova. E anche la ricerca epidemiologica e statistica ne potranno giovare perché avrebbero dati freschi su tutta la popolazione, ovviamente nei limiti delle regole della privacy, perché ogni utilizzo potrà avvenire soltanto per le finalità indicate e potrà essere realizzato esclusivamente con il consenso dell’assistito e sempre nel rispetto del segreto professionale.
Ma ovviamente se tutto fosse così già da domani sarebbe troppo bello. In realtà il regolamento in «Gazzetta» contiene la cornice normativa, fissa le regole per tutte le Regioni, ma non è, né può esserne ancora l’avvio concreto.
Bisognerà infatti aspettare il 31 dicembre quando tutte le 21 Regioni dovranno aver elaborato con l’Agenzia digitale (Agid) un sistema unificato in grado di assicurare la piena e concreta interoperabilità su tutto il territorio nazionale, seguendo le schede tecniche che l’Agid ha pubblicato il 6 maggio scorso.
L’operazione Fse è già costata anni di lavoro. Inizialmente sembrava pura utopia mettere in grado di funzionare 21 fascicoli digitali regionali con diversi sistemi di codifica digitale. Poi sono arrivati i protocolli digitali e step-by-step si sono andati a definire nel dettaglio la struttura del messaggio, del framework e dei dataset dei servizi base di ciascun sistema
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2015).

VARI: Fascicolo sanitario digitale al via dal 26 novembre.
Al via il Fascicolo sanitario elettronico, che rende più semplice per i cittadini l'esercizio del diritto alla salute. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 263 di ieri è stato pubblicato il dpcm 178/2015 che entrerà in vigore il 26 novembre e che disciplina il Fascicolo inteso come l'insieme di dati e documenti digitali di tipo sanitario e socio-sanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti l'assistito, che ha come scopo principale quello di agevolare l'assistenza al paziente, offrire un servizio che può facilitare l'integrazione delle diverse competenze professionali, fornire una base informativa consistente, contribuendo al miglioramento di tutte le attività assistenziali e di cura.
Il Fascicolo (si veda ItaliaOggi del 4 settembre scorso) consentirà non solo al paziente di poter disporre facilmente di tutte le notizie relative al suo stato di salute ma permetterà al medico di accrescere la qualità e tempestività delle decisioni da adottare.
Il modello di Fascicolo punta inoltre di evitare, attraverso i resoconti, l'incrocio dei dati e la trasparenza, a migliorare la programmazione, il controllo e la valutazione del sistema sanitario nel suo complesso, in un contesto sia italiano che europeo (articolo ItaliaOggi del 12.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, un unico modello. La procedura si completa sul sito del gestore di rete. Dal 24 novembre in vigore il meccanismo studiato per installare i pannelli sui tetti.
Dal 24 novembre per l'installazione del fotovoltaico sul tetto basterà un modello unico. Con il nuovo modello unico l'intero iter procedurale avviene attraverso il sito del gestore di rete. Il modello potrà essere utilizzato per gli impianti sotto ai 20 kW in bassa tensione, sul tetto e in scambio sul posto.
È con il decreto del MiSe del 19.05.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27.05.2015) che è stato approvato il
modello unico per il fotovoltaico e stabilita al 24 novembre l'entrata in vigore per l'utilizzo dello stesso.
Il modello conterrà esclusivamente i dati anagrafici del proprietario (o di chi ne abbia titolo a presentare la comunicazione), l'indirizzo dell'immobile, la descrizione sommaria dell'intervento e la dichiarazione del proprietario di essere in possesso della documentazione di conformità dell'intervento alla regola d'arte e alle normative di settore.
Due le parti del modello unico proposto dal MiSe: la prima finalizzata alla comunicazione preliminare alla realizzazione dell'impianto fotovoltaico, alla richiesta di connessione, alla comunicazione del codice Iban per all'addebito dei costi di connessione e l'accredito dei proventi che deriveranno dallo scambio sul posto, alle dichiarazioni di possedere tutti i requisiti necessari per accedere alle procedure semplificate e al conferimento (al gestore di rete) del mandato.
La seconda finalizzata alla comunicazione di fine lavori di realizzazione dell'impianto di produzione, alla dichiarazione di corretta esecuzione dei lavori e alla dichiarazione di avvenuta presa visione del format del regolamento d'esercizio (articolo ItaliaOggi del 12.11.2015).

APPALTI: Comuni, Cantone ferma gli appalti non aggregati. Spending. Nei municipi non capoluogo vietati i contratti in proprio.
Niente manutenzione stradale o acquisti di materiale d’ufficio in autonomia. L’entrata in vigore dell’obbligo di aggregare gli appalti -in risposta agli obiettivi della spending review- ora rischia di inceppare davvero la macchina dei piccoli comuni, bloccando la possibilità di ricorrere agli appalti per le città non capoluogo.
L’Autorità Anticorruzione, presieduta da Raffaele Cantone, ha sospeso il rilascio dei codici di identificazione delle gare (Cig) necessari all’avvio delle procedure di assegnazione dei contratti da parte degli enti locali che non ricorrono a una delle formule di aggregazione degli appalti (soggetti aggregatori, province, Consip, unioni o consorzi di comuni) prevista dal codice.
Il rifiuto a rilasciare i codici è un atto dovuto da parte dell’Anac, dopo che il primo novembre è finalmente entrato in vigore l’obbligo di aggregazione degli appalti dei comuni non capoluogo, rinviato per ben sei volte consecutive a causa dei ritardi accumulati nel processo di aggregazione delle gare da parte delle amministrazioni (vedi l’anticipazione sul «Sole 24 Ore» del 28 ottobre).
È questo uno dei capitoli della spending review che punta all’aggregazione dei soggetti appaltanti. Un altro capitolo che sta per decollare è quello che individua 35 «soggetti aggregatori» della spesa pubblica cui è affidato il compito di gestire tutte le gare per beni e servizi in specifiche categorie individuate da un Dpcm che la Presidenza del Consiglio sta per varare.
Nello schema di Dpcm messo a punto dalla task force guidata da Yoram Gutgeld e da Palazzo Chigi si individuano -oltre agli acquisti che riguardano il settore sanitario- tre categorie di acquisti che dal 1° gennaio dovranno passare per i «soggetti aggregatori»: pulizie, assicurazioni e facility management. Anche su questo fronte ha un ruolo importante l’Anac che ha selezionato i 35 «soggetti aggregatori» e ora ne dovrà verificare il mantenimento dei requisiti necessari per restare iscritti al relativo albo.
Sugli appalti dei comuni non capoluogo un comunicato spiega la decisione dell’Anac.
Per questi scatta la tagliola prevista dal Governo Monti nel 2012 e poi sempre rinviata: per risparmiare e permettere di controllare meglio la spesa le gare vanno accorpate, mentre ai singoli comuni è vietato di promuovere appalti in autonomia. Un principio, corretto da ultimo con il decreto Irpef (Dl 66/2014), che vale per beni e servizi, ma anche per i lavori pubblici. Nel Paese degli 8mila campanili però finora poco o nulla si è mosso sul fronte della centralizzazione degli appalti.
Da oggi (ma il comunicato fa riferimento al primo novembre) il blocco riguarda due tipologie di appalti. Il codice necessario ad avviare le procedure non sarà rilasciato ai comuni non capoluogo che tenteranno di bandire gare in autonomia per valori superiori a 40mila euro. Allo stesso modo saranno rispedite al mittente le richieste di avviare le procedure di affidamento sotto i 40mila euro da parte dei comuni con meno di diecimila abitanti. Un blocco, quest’ultimo, che resterà in vigore però solo due mesi, visto che la legge di Stabilità cancella (a partire dal primo gennaio 2016) il vincolo di centralizzare le gare sotto i 40mila euro per i piccoli comuni.
Questo doppio binario, che rischia di mandare in tilt anche l’attività ordinaria (per non dire spicciola) dei piccoli enti, era alla base anche dell’ultima richiesta di proroga sollecitata dai comuni per bocca del presidente dell’Anci Piero Fassino. L’obiettivo: spostare al primo gennaio 2016 l’obbligo di aggregazione delle gare oltre 40mila euro per allineare le due scadenze, senza rischiare di fermare per due mesi i microcontratti dei comuni sotto i 10mila abitanti. Il veicolo per inserire una proroga era stato individuato nel decreto sulla Finanza locale varato venerdì scorso dal Governo. Alla fine la proroga annunciata non è passata. Ma non è detto che non rispunti nel corso dell’esame parlamentare per convertire in legge il provvedimento.
Non c’è nessuna possibilità di aggirare gli obblighi. In ossequio alle norme anti-criminalità, il codice di gara deve infatti essere inserito in ogni fattura per permettere la tracciabilità dei pagamenti. E come ricorda lo stesso presidente Anac nel comunicato «il mancato rilascio del codice identificativo di gara, comporta quale sanzione accessoria espressamente prevista dalla legge 136/2010 in tema di lotta alla criminalità organizzata, la nullità assoluta dei contratti stipulati per violazione della disposizioni sulla tracciabilità dei flussi finanziari»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Catasto, metri quadri al debutto. La superficie entra nelle visure. Ma solo ai fini Tari. L'Agenzia delle entrate ha annunciato la novità in vigore da ieri per 57 milioni di immobili.
Nessun dubbio sulle superfici catastali degli immobili. La grandezza in metri quadri di abitazioni, ville, uffici pubblici e privati, scuole, ospedali, box, negozi, magazzini, laboratori e cantine comparirà nelle visure catastali. E non sarà più oggetto di discussione ai fini della Tassa rifiuti (Tari), un terreno su cui spesso insorgono controversie tra i comuni e i proprietari.

La novità, annunciata dall'Agenzia delle entrate, interessa 57 milioni di immobili appartenenti ai gruppi catastali A, B e C, (su un totale di 61 milioni).
Per il fisco immobiliare si tratta di una piccola rivoluzione, perché realizza, di fatto, uno dei cardini della riforma del catasto momentaneamente accantonata dal governo, ossia il passaggio dai vani ai metri quadri. Anche se, per ora, potrà avere effetti solo sulla Tassa rifiuti. Le rendite, che costituiscono la base di calcolo degli altri tributi immobiliari (Imu e Tasi) non cambieranno. Resteranno quelle attuali, calcolate sui vani anziché sui metri quadri, fino a quando non andrà in porto la riforma del catasto. E proprio per portarsi avanti sulla revisione degli estimi, l'Agenzia delle entrate ha provveduto a esaminare le planimetrie e calcolare le superfici, arrivando a coprire più del 90% del totale.
All'appello mancano ancora 4 milioni di immobili oggetto di ulteriori verifiche perché l'Agenzia ha ravvisato dati incompleti o «incoerenti». Fuori dalla mappatura delle Entrate anche gli immobili non dotati di planimetria, in quanto risalenti agli albori del catasto edilizio urbano quando non era obbligatorio depositare in catasto una piantina. Per questi immobili i proprietari potranno presentare all'Agenzia una dichiarazione di aggiornamento catastale con procedura Docfa, (quindi con l'ausilio di un professionista abilitato) per l'inserimento in atti della planimetria catastale.
Ma cosa si leggerà nelle nuove visure, effettuate a partire da ieri? Oltre ai dati identificativi dell'immobile (comune, sezione urbana, foglio, particella, subalterno) e ai dati catastali (zona censuaria, categoria catastale, classe, consistenza, rendita), compariranno altre due informazioni: la superficie catastale, determinata ai sensi dell'allegato C del dpr 138/1998 e quella ai fini Tari. Due grandezze differenti da tenere ben distinte. La prima rappresenta, infatti, la cosiddetta superficie lorda o commerciale che, oltre ai muri, ricomprende anche balconi e terrazzi, ma anche soffitte, cantine, scale, ascensori e rampe. La seconda, invece, valevole solo per le unità abitative, tiene conto solo della superficie netta e dei muri, ma non delle aree scoperte di pertinenza.
Sarà quest'ultimo dato quello da prendere in considerazione per il pagamento della Tari che oggi invece i comuni calcolano sulla base della superficie autocertificata dai proprietari. Se le due grandezze coincideranno, nessun problema. In caso contrario, i proprietari potranno comunque inviare le proprie osservazioni attraverso il sito dell'Agenzia (articolo ItaliaOggi del 10.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico con modello unico. Semplificazione dal 24 novembre per gli impianti fino a 20 kW sui tetti degli edifici.
Autorizzazioni. Procedura ridotta a due adempimenti verso il gestore della rete elettrica: la comunicazione di inizio e fine lavori.

Una procedura semplificata, più snella e veloce. Per realizzare, connettere e avviare i piccoli impianti fotovoltaici aderenti o integrati sui tetti degli edifici. Dal 24 novembre si potrà utilizzare il modello unico, approvato dal ministero dello Sviluppo economico con il decreto del 19.05.2015.
Si tratta di una prima importante razionalizzazione dell’iter, prevista dal Dlgs 91/2014 e dedicata agli impianti installati presso clienti finali già dotati di punti di prelievo in bassa tensione (dove non ci sia ulteriore produzione fotovoltaica) e per i quali sia anche richiesto l’accesso al regime di scambio sul posto. Gli impianti devono avere potenza nominale fino a 20 kw e comunque non superiore a quella già disponibile in prelievo.
Il modello è “unico” perché sostituisce tutti quelli eventualmente adottati dai Comuni, dai gestori di rete e dal Gse, riducendo i diversi adempimenti finora previsti a due soli passaggi (comunicazione preliminare e di fine lavori), verso un’unica interfaccia: l’impresa distributrice sulla cui rete insiste il punto di connessione esistente.
«Se ricorrono tutti i requisiti previsti, l’utente dovrà ora dialogare soltanto con il gestore di rete, ad esempio, l’Enel -riassume Davide Valenzano, responsabile affari regolatori del Gse (Gestore dei servizi energetici)- sarà poi quest’ultimo a interagire con Comuni e Regioni per quanto concerne l’iter autorizzativo, con Terna per la registrazione anagrafica dell’impianto sul portale Gaudì, e con il Gse per l’attivazione del servizio di scambio sul posto».
La semplificazione riguarda gli impianti aderenti o integrati nei tetti con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda, per i quali l’installazione –si legge nel decreto- «non è subordinata all’acquisizione di atti amministrativi di assenso, comunque denominati, ivi inclusa l’autorizzazione paesaggistica». «Sono gli impianti realizzati con le modalità previste dall’articolo 7-bis, comma 5, del Dlgs 28/2011 -specifica Valenzano- cioè con interventi di edilizia libera o soggetti a denuncia di inizio attività».
La procedura
Il modello si compone di due parti e va trasmesso online al gestore di rete, che deve aggiornare il proprio portale entro il 24 novembre. La prima parte, da inviare prima dell’inizio dei lavori, contiene i dati catastali e dell’impianto e i dati anagrafici del richiedente (proprietario, titolare di altro diritto reale di godimento, amministratore di condominio su mandato dell’assemblea, o altro delegato).
Entro 20 giorni lavorativi dalla ricezione, il gestore di rete verifica che la domanda sia compatibile con le condizioni richieste e che per la connessione siano previsti lavori semplici, limitati all’installazione del gruppo di misura (contatore). L’esito positivo comporta l’avvio automatico dell’iter. Il gestore informa a quel punto il richiedente, che è tenuto a versare il corrispettivo per la connessione: una quota fissa di 100 euro (delibera Autorità energia 400/2015/R/eel).
Al termine dei lavori va poi inviata la seconda parte del documento, che comprende dati tecnici sull’impianto, la dichiarazione di conformità dell’impianto alle disposizioni normative di riferimento e la presa visione e accettazione del regolamento di esercizio e del contratto di scambio sul posto con il Gse. L’impresa distributrice attiva la connessione entro 10 giorni lavorativi dalla ricezione.
«Oltre a semplificare e velocizzare la tempistica, il modello unico può evitare al proprietario anche l’eventuale extra-costo richiesto dall’installatore per il supporto amministrativo», osserva Damiano Cavallaro, ricercatore dell’Energy strategy group del Politecnico di Milano.
«Il corrispettivo standard è inoltre contenuto. Tuttavia, nei casi in cui per la connessione ci sia bisogno di lavori complessi o lavori semplici non limitati al gruppo di misura, pensiamo ad esempio a un collegamento alla rete non diretto, il gestore informa il richiedente e predispone il preventivo per la connessione. E si applicano tutte le tempistiche e le modalità definite dall’Autorità in materia di connessioni»
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondi decentrati tagliati dai recuperi. Personale. Possibile l’uso dei risparmi da riorganizzazione.
Il recupero delle risorse illegittimamente inserite nei fondi per la contrattazione decentrata entro un numero di anni non superiore a quello in cui il fenomeno si è verificato deve essere effettuato da tutte le amministrazioni locali e regionali. Esso non è subordinato al possesso di parametri di virtuosità.
Sull’applicazione di questa disposizione non vi sono dubbi particolarmente significativi, che invece sussistono ancora sulla sanatoria del recupero delle somme illegittimamente erogate ai dipendenti fino alla fine del 2012.
La fissazione del tetto del recupero sulle somme illegittimamente inserite nel fondo entro un numero di anni non superiore a quello in cui questi errori sono stati compiuti colma un vuoto della legislazione. Il Dlgs 150/2009 stabiliva infatti che il recupero dovesse essere fatto nella sessione contrattuale successiva. Ma l’entrata in vigore di questa disposizione era espressamente rinviata alla stipula del nuovo contratto nazionale. Sulla base dei principi generali questa disposizione non si applica ai recuperi già avviati dalla singole amministrazioni prima della entrata in vigore del Dl 16/2014.
Il recupero delle somme illegittimamente inserite nel fondo è un obbligo e, nella sua effettuazione, non maturano interessi. Gli enti non possono superare il numero di esercizi in cui l’illegittimità è stata compiuta, ma non hanno specifici obblighi di ripartizione nel corso di questi esercizi. Spetta alle amministrazioni decidere la quantità di risorse da prelevare annualmente: la scelta è oggetto di informazione ai soggetti sindacali.
Il recupero può essere effettuato in tre modi. In primo luogo, con la sottrazione di risorse dal fondo per le risorse decentrate: queste risorse vanno considerate spese. In secondo luogo, applicando le previsioni sul prepensionamento previste dai Dl 95/2012 e 101/2013. Quindi dichiarando in sovrannumero i dipendenti che avrebbero già maturato o maturerebbero entro la fine del 2016 i requisiti per il collocamento in quiescenza sulla base dei requisiti precedenti alla legge cd Fornero. Il risparmio è pari alla differenza di trattamento economico dei dipendenti tra il momento del collocamento in quiescenza e la data in cui lo sarebbero stati sulla base delle norme attualmente in vigore. Il terzo strumento per effettuare il recupero è limitato alle sole amministrazioni che hanno rispettato il Patto: si consente di destinare a questo scopo tutti i risparmi derivanti dai piani di razionalizzazione.
I principali errori che hanno determinato l’inserimento in modo illegittimo di risorse nel fondo sono i seguenti: utilizzazione errata dell’articolo 15, comma 5, del contratto nazionale del 01.04.1999 e, per i dirigenti, dell’articolo 26, comma 3, del contratto nazionale del 23.12.1999 (cioè delle integrazioni al fondo per l’aumento del personale e/o per l’attivazione di nuovi servizi); utilizzazione errata dell’articolo 15, comma 2, del contratto nazionale del 01.04.1999 (che consentono l’aumento del fondo fino allo 1,2% del monte salari 1997); uso illegittimo delle norme che consentivano alle amministrazioni virtuose di inserire risorse nel fondo; calcolo errato del monte salari; mancata decurtazione del trattamento economico accessorio in godimento da parte del personale Ata; mancata decurtazione per il finanziamento del reinquadramento dei vigili e dei dipendenti delle vecchi prima e seconda qualifica.
Tra gli errori si deve segnalare anche quello del mancato finanziamento del differenziale delle progressioni, cioè degli aumenti disposti dai contratti nazionali sulle singole posizioni, un errore che priva il fondo di risorse che legittimamente andavano inserite
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ecoreati, si valuta la condotta. La Corte sugli illeciti ambientali: sulla bilancia ravvedimento e intensità della colpa.
In materia di reati ambientali il ravvedimento dell'imputato, così come la regolarità della sua pregressa condotta e l'applicabilità al fatto commesso del minimo edittale previsto, possono far scattare, sussistendo gli altri requisiti di legge, l'«esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto» prevista dal nuovo articolo 131-bis del codice penale.

Arrivano con la produzione giurisprudenziale della Corte di cassazione dell'ultimo semestre i primi orientamenti operativi sul nuovo istituto introdotto dal dlgs 28/2015 ed in vigore dallo scorso 02.04. 2015.
Chiamata (in virtù del principio del favor rei) a pronunciarsi sull'applicabilità della nuova disciplina a diversi procedimenti in corso il giudice di legittimità indica però anche gli elementi ostativi al riconoscimento della «non punibilità», come la commissione di reati della stessa indole e il profilo di rilevanza dell'elemento psicologico del reato.
L'istituto. Il meccanismo di non punibilità previsto dall'articolo 131-bis, del codice penale è applicabile concorrendo due condizioni, ossia:
- il reato è sanzionato con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla prima (dunque, sempre dentro il predetto periodo temporale);
- sussistano congiuntamente i requisiti (da valutare ex articolo 133, c.p.) della «particolare tenuità dell'offesa» e della «non abitualità della condotta»; tali requisiti sono poi dall'articolo 131-bis ulteriormente ristretti, laddove la «particolare tenuità» deve considerarsi esclusa per gli illeciti commessi con crudeltà, sevizie, commessi per motivi abietti o futili, approfittando della minorata difesa della vittima, o da cui siano derivate la morte o la lesione gravissima di persone, e la «non abitualità» non sussistente, invece, in presenza di autore dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, in caso di recidiva o di commissione di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Il requisito della «particolare tenuità dell'offesa». Con sentenza 19.10.2015 n. 41850 la Cassazione ha ritenuto soddisfatto il requisito anche per l'aver il giudice di merito applicato il minimo edittale previsto per il reato.
La fattispecie posta all'esame della Suprema corte verteva sulla cessione a titolo gratuito da parte del titolare di una autofficina di rifiuti pericolosi costituiti da materiali ferrosi (tra cui parti di motore e marmitte di veicoli fuori uso) a soggetto non autorizzato.
In linea con tale pronuncia, la precedente sentenza 08.06.2015 n. 24358 della stessa Corte ha invece rilevato non sussistente lo stesso requisito poiché nel giudizio di merito il fatto, sebbene ritenuto «modesto» con conseguente applicazione delle sola pena pecuniaria (prevista in alternativa a quella detentiva), era stato comunque punito con un ammontare superiore al minimo edittale (dunque, valutandolo di un certo rilievo).
La fattispecie verteva in questo caso sull'attività di recupero di rifiuti svolta in violazione delle prescrizioni dell'Ente competente, che imponevano sia il preventivo controllo dei residui gestiti che la realizzazione di opere infrastrutturali preliminari all'avvio delle attività.
È utile ricordare (benché relativa alla violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro) che con sentenza 27.05.2015 n. 22381 il giudice di legittimità ha altresì ritenuto non sussistente il requisito in parola per l'esser l'elemento psicologico del reato, sebbene coincidente con colpa non gravissima (espressamente esclusa ex 131-bis dalla non punibilità), comunque di obiettiva rilevanza, ostando dunque alla configurabilità della particolare tenuità.
La fattispecie verteva sull'omessa fornitura da parte del datore di lavoro dei necessari dispositivi di protezione individuale al lavoratore rimasto poi infortunato durante lo svolgimento della propria attività.
Condannato ex articolo 590 c.p., al datore di lavoro non è stata riconosciuta l'applicazione del 131-bis c.p. essendo le lesioni occorse al lavoratore a causa di colpa comunque «grave» (punite altresì nel giudizio di merito, sebbene tramite la sola pena pecuniaria, con il massimo edittale della sanzione prevista).
La «non abitualità della condotta». Con la stessa e citata sentenza 41850/2015 in tema di gestione illecita di rifiuti, la Cassazione ha ritenuto integrato il criterio sussistendo favorevoli elementi (rilevati nel giudizio di merito) quali la concessione delle attenuanti generiche, lo stato di incensuratezza del reo, la regolarità della sua pregressa condotta individuale e sociale, l'essersi lo stesso soggetto successivamente alla contestazione attivato per allineare la propria condotta a quella di legge (avviando a corretto smaltimento i residui intercettati e restituitigli dalle forze dell'ordine).
Con precedente sentenza 30.06.2015 n. 27135 la Cassazione ha invece ritenuto non integrato il requisito in parola nel caso di condanna per due distinti reati della «stessa indole» (ossia, a mente dell'articolo 101 del codice penale, accomunati dai fatti che li costituiscono o motivi che li determinano).
Ciò in relazione ad attività (poste in essere, secondo il giudice del merito, anche con elevata rimproverabilità sotto il profilo dell'elemento psicologico) di gestione senza autorizzazione di rifiuti pericolosi (con concentrazioni di arsenico superiori al consentito) e di miscelazione degli stessi con altri rifiuti pericolosi e non pericolosi.
In particolare, erano stati rinvenuti nel sito (sprovvisto di autorizzazione al trattamento) rifiuti in vetro artistico e proveniente fa tubi catodici, accumulati insieme senza alcuna precauzione per evitarne il mescolamento (risultandone un depositato incontrollato) al fine di avviarli successivamente a fonderie per creazione di materia prima secondaria.
In tema è utile ricordare (sebbene non vertente in materia ambientale) che con sentenza 13.07.2015 n. 29897 la Cassazione ha altresì escluso la soddisfazione del requisito in caso di reati uniti dal vincolo della «continuazione» (ossia posti in essere con più azioni od omissioni parte di un medesimo disegno criminoso, puniti con minor severità dall'Ordinamento rispetto all'ordinario concorso materiale di reati).
L'applicabilità ai reati ambientali. Dal nuovo istituto della «non punibilità per la particolare tenuità» ex articolo 131-bis del codice penale restano ex lege esclusi, poiché fuori dalla stretta cornice edittale delle sanzioni più sopra precisata, i delitti di combustione illecita di rifiuti pericolosi e di attività organizzata per il traffico illecito dei rifiuti ex articoli 256-bis e 260 del dlgs 152/2006, così come i nuovi delitti dolosi di «inquinamento ambientale» doloso «disastro ambientale», traffico o abbandono materiale ad alta radioattività previsti dagli articoli 452-bis e seguenti del codice penale.
Tecnicamente rientranti nel range sanzionatorio previsto dall'istituto appaiono invece essere sia gli altri nuovi e «minori» delitti ambientali ex codice penale, come l'impedimento di controlli ambientali e l'omessa bonifica, che le più generali fattispecie di «getto pericoloso di cose» e «danneggiamento» dello stesso Testo.
Così come appaiono astrattamente non punibili ex nuovo articolo 131-bis del codice penale gli altri reati ex codice ambientale in materia di Aia, Via, tutela di suolo, acque e aria, gestione illecita di rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 09.11.2015).

APPALTIAppalti, stop a nuove gare Asmel.
Consiglio di Stato. La sospensiva della delibera Anac vale solo per i vecchi procedimenti, in attesa della pronuncia del Tar Lazio.

Appalti in corso salvi, ma niente più gare per conto dei Comuni, fino alla nuova pronuncia del Tar Lazio.
Dal Consiglio di Stato arriva una rassicurazione insieme a una nuova tegola per l’Asmel, rete cui aderiscono 2.017 enti locali, che offre anche servizi di centrale appalti attraverso la piattaforma Asmecomm.
Il ruolo di Asmel come centrale di committenza è al centro di un braccio di ferro con l'autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che ha rifiutato la richiesta del consorzio di far parte dei 35 soggetti aggregatori, incaricati tra l’altro di raccogliere gli appalti dei comuni non capoluogo (lavori, beni e servizi ai sensi dell'articolo 33, comma 3-bis, del codice appalti).
Il provvedimento di Cantone (delibera n. 32 del 30.04.2015) ha bocciato l’operato della società dichiarando «prive del presupposto di legittimazione» tutte le gare promosse per conto degli enti locali. Una decisione che mette a rischio la validità delle oltre mille gare gestite da Asmel per conto degli 882 comuni aderenti alla centrale di committenza Asmecomm. Per questo la delibera è stata subito impugnata da Asmel.
In prima battuta il Tar Lazio ha dato ragione all'Anac. Mentre il Consiglio di Stato a settembre ha riaperto la partita, sospendendo l’efficacia della bocciatura di Cantone e chiedendo al Tar Lazio di pronunciarsi di nuovo nel merito della questione, una volta scaduta la proroga che ha congelato l'obbligo di servirsi delle centrali di appalto per i Comuni non capoluogo (termine scaduto il 1° novembre).
Agli occhi dell’Anac la sentenza di Palazzo Spada lasciava dei dubbi sull’ambito di applicazione della sospensiva del provvedimento dell’Autorità che dichiara le gare illegittime: è da considerare valida solo per le procedure in corso o anche per le eventuali nuove gare? Di qui la richiesta di chiarire nel dettaglio i termini della sentenza («ricorso per ottemperanza»).
La risposta è arrivata con l’ordinanza 04.11.2015 n. 5042 con cui Palazzo Spada -Sez. VI- chiarisce che «la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato dell'Autorità ha avuto ad oggetto esclusivamente la sua incidenza sulle procedure di gara in corso e non anche sulla futura attività amministrativa di Asmel, che rimane regolata dal suddetto provvedimento nelle more della decisione nel merito della controversia».
Un dispositivo che salva le vecchie gare del consorzio, ma allo stesso tempo, blocca la possibilità di gestire nuove procedure per conto dei Comuni fino alla nuova pronuncia del Tar Lazio, fissata per il 2 dicembre. Dunque alt alle nuove gare, come chiedeva Cantone. Uno stop accolto senza drammi da Asmel che teneva innanzitutto al salvataggio delle gare svolte finora e dunque «accoglie con grande soddisfazione l’ordinanza del Consiglio di Stato e attende fiduciosa la decisione nel merito da parte del Tar»
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamento degli assenteisti. È possibile solamente se si cambia lo status dei dirigenti. Nella pubblica amministrazione. La riforma Brunetta del 2009 lo permette ma è inapplicata.
Sulla necessità di licenziare i dipendenti pubblici che falsificano la timbratura dei cartellini affermata dal ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, non si può che concordare. Si tratta di una violazione gravissima dei doveri d'ufficio, tanto più intollerabile perché posta in essere da servitori dello Stato.
Appare, tuttavia, altrettanto indubbio che il medesimo titolare di Palazzo Vidoni, con buona parte del Governo, nell'affermare l'ovvia necessità di punire i dipendenti pubblici imbroglioni stia soprattutto tentando di intestarsi una campagna già vista e perseguita molto a fondo anni addietro da Renato Brunetta.
Il messaggio che sta riempiendo i media da quando sono emersi i fatti del comune di Sanremo, è che occorre attendere l'attuazione della legge delega di riforma della Pa, la legge 124/2015, per poter riuscire in modo celere ad attivare procedimenti che consentano di licenziare i dipendenti infedeli. In effetti, la legge delega contiene l'indicazione al legislatore delegato di semplificare e velocizzare i procedimenti disciplinari. Filtra dalle indiscrezioni di stampa che sarebbe intenzione del Governo prevedere una durata massima di 100 giorni per giungere anche al licenziamento, nei casi previsti.
Quello che molti media non aggiungono è che già oggi e da ormai il 2009, da quando è entrata in vigore la riforma-Brunetta, nella Pa è possibile e doveroso licenziare per un elenco molto fitto di comportamenti giudicati infedeli, tra i quali è espressamente contemplato proprio l'alterazione della presenza in servizio. Non solo: il procedimento disciplinare, sempre per effetto della riforma-Brunetta, può e deve essere portato avanti indipendentemente dalla pendenza del processo penale e la sua durata massima, nel caso del licenziamento, è di 120 giorni.
Senz'altro 100 giorni sono meno di 120, ma affermare che oggi non sia possibile licenziare perché mancano le norme che consentano alle amministrazioni di allontanare dal servizio i dipendenti che non rispettino le regole minime imposte a qualsiasi lavoratore, appare oggettivamente una forzatura.
Ben venga se l'attuazione della legge delega per la riforma della Pa sarà capace di rendere ancor più lineare il percorso da seguire. I problemi, tuttavia, ai fini dell'applicazione delle regole che già esistono o che esisteranno sono legati al noto fattore della responsabilità erariale. Laddove, infatti, un lavoratore licenziato ottenesse dal giudice del lavoro l'annullamento del licenziamento e il reintegro nel posto di lavoro, con condanna al risarcimento degli stipendi arretrati e della rivalutazione, il pagamento di queste somme sarebbe considerato come danno erariale, da recuperare a carico dell'autore del licenziamento.
Piuttosto che pensare solo alla continua modifica delle regole di disciplina del procedimento disciplinare, sarebbe invece necessario cercare di allineare davvero la figura del dirigente al datore di lavoro privato. Il quale non sopporta certo il rischio di una condanna da parte della Corte dei conti.
Si dovrebbe aprire, quindi, un ragionamento serio sull'applicabilità del Jobs Act, cioè delle regole privatistiche del lavoro, anche al pubblico impiego, con specifico riferimento alla riforma dell'articolo 18.
Ma, anche in questo caso si assiste a un paradosso. Il testo unico del pubblico impiego, il d.lgs. 165/2001, all'articolo 51, comma 2, prevede espressamente che al lavoro pubblico si estendano le norme dello Statuto dei lavoratori e ogni loro modifica e integrazione. È il Governo, sin dai tempi della riforma-Fornero, a considerare che l'articolo 18 dello Statuto, più volte riformato dal 2012, non sia applicabile alla Pa, nonostante la chiarissima e contraria previsione legislativa.
Se non si risolvono, allora, i nodi della responsabilità erariale e della definitiva e chiara armonizzazione della disciplina del lavoro pubblico rispetto a quella privata, resteranno comunque zone d'ombra che non faciliteranno l'applicazione delle semplici regole di fedeltà imposte dal contratto di lavoro subordinato, ma non per assenza di procedure disciplinari, bensì per confusione del quadro normativo nel suo complesso (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).

VARI: Decurtazione dei punti al Gdp. Codice strada.
Tutti i provvedimenti sanzionatori previsti dal codice stradale sono di competenza del giudice di pace. Anche la decurtazione di punteggio e la conseguente revisione della licenza per azzeramento del credito disponibile. Resta di competenza del tribunale amministrativo solo la revisione della patente disposta per motivi tecnici in caso di dubbi sulle capacità del conducente.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la nota 28.10.2015 n. 24867 di prot..
La revisione della patente per esaurimento punti è un provvedimento vincolato che viene adottato dalla motorizzazione all'esito delle vicende sanzionatorie stradali. A parere dei giudici del palazzaccio (che si sono espressi a Sezioni unite con le ordinanze nn. 15689 e 15690/2015) la competenza in caso di ricorso contro questa determinazione burocratica resta in capo al giudice ordinario.
A differenza della revisione per evidenti dubbi sulla permanenza dei requisiti tecnici o fisici prevista e regolata dall'art. 128 del codice, infatti, la misura sanzionatoria prevista dall'art. 126-bis cds è un atto dovuto. Per ribadire le conseguenze di queste importanti decisioni dei giudici del palazzaccio il ministero ha quindi diramato istruzioni ad hoc agli uffici.
La mancata conoscenza della decurtazione di punteggio viene spesso utilizzata nei ricorsi dai destinatari dei provvedimenti, specifica il ministero. Non è pertanto sufficiente produrre in giudizio solo la stampa dell'estratto del ced per dimostrare la decurtazione consapevole. Occorre allegare una copia dei verbali muniti di regolare relata di notifica, specifica la circolare.
Non basta neppure affermare che la decurtazione discende dalla multa. Anche la contestazione circa il tardivo inserimento delle decurtazioni da parte della polizia, prosegue la nota, «viene meno a fronte della dimostrazione della conoscenza della decurtazione tramite la produzione in giudizio del verbale notificato».
Spetta dunque agli uffici della motorizzazione acquisire copia delle multe presso gli organi di polizia stradale in caso di ricorso con una provvedimento di revisione della patente di guida per azzeramento dei bonus disponibili (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Utility, paletti al lavoro flessibile. P.a. senza staff leasing. Precari per esigenze eccezionali. Le società che gestiscono servizi locali sono soggette ai limiti previsti per la controllante.
Con la recente riforma del lavoro è stata riscritta la maggior parte delle norme che disciplinano le diverse tipologie contrattuali, fra cui desta un certo interesse per le società pubbliche quella relativa alla somministrazione di lavoro. Le società che gestiscono servizi pubblici locali a rilevanza economica sono infatti spesso soggette a picchi stagionali di lavoro che rendono tale forma contrattuale particolarmente utile. Basti pensare, per esempio, al servizio di raccolta dei rifiuti svolto in territori a forte vocazione turistica, in cui nel periodo estivo i rifiuti urbani crescono esponenzialmente, obbligando i gestori del servizio a dotarsi di maggiore forza lavoro.
Il contratto di somministrazione è attualmente disciplinato dall'art. 30 del dlgs 81/2015, che lo definisce come il contratto, a tempo determinato o indeterminato, con il quale un'agenzia di somministrazione autorizzata mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore.
Il dlgs 81/2015 ha confermato che si può ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato a prescindere dall'esistenza o meno di una concreta esigenza di carattere transitorio in capo all'utilizzatore (la cosiddetta «acausalità») e ha esteso tale possibilità anche al contratto di somministrazione a tempo indeterminato (il cosiddetto «staff leasing»).
Inoltre, l'utilizzo della somministrazione a tempo determinato incontra solo i limiti eventualmente previsti dalla contrattazione collettiva, anche di secondo livello, mentre si può ricorrere alla somministrazione a tempo indeterminato solo nel limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipula del contratto. La contrattazione collettiva, anche decentrata, può comunque prevedere limiti diversi.
L'utilizzo della somministrazione da parte delle società pubbliche merita tuttavia qualche riflessione: infatti, in base al vigente art. 18, comma 2-bis, del dl 112/2008, le aziende speciali, le istituzioni e le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo devono rispettare il principio di riduzione dei costi del personale, attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale.
Per garantire ciò, l'amministrazione pubblica controllante è tenuta a definire, con proprio atto d'indirizzo, i criteri e le modalità con cui ogni organismo partecipato può raggiungere tale obiettivo, tenuto conto del settore in cui ciascun soggetto opera. Nel definire tali indirizzi l'amministrazione pubblica controllante deve però tenere conto «delle disposizioni che stabiliscono a suo carico divieti o limitazioni alle assunzioni di personale», previsione che ci porta ragionevolmente a ritenere che sia oggetto d'indirizzo anche il ricorso o meno alla somministrazione di lavoro.
Infatti, come sostenuto anche dalla Corte dei conti - sez. regionale di controllo per la Puglia (delib. n. 1/2015), la previsione di cui al comma 2-bis dell'art. 18 è finalizzata al contenimento della spesa pubblica per il personale e, pertanto, assumendo un carattere generale, non può che ricomprendere tutte le forme contrattuali riconducibili a tale tipologia di spesa.
È quindi necessario che l'amministrazione pubblica controllante, in sede di formulazione degli indirizzi agli organismi partecipati (attività che nella prassi può avvenire anche attraverso l'approvazione di documenti di programmazione nei quali sia esplicitata la politica del personale che la società intende adottare nell'anno o nel triennio successivo), tenga conto dei limiti previsti per la p.a. al ricorso alle forme di lavoro flessibile, fra cui possiamo ricordare:
1) l'impossibilità di ricorrere alla somministrazione a tempo indeterminato (il cosiddetto «staff leasing»), in quanto l'art. 31, comma 4, del dlgs 81/2015 impedisce alla pubblica amministrazione tale possibilità;
2) il limite previsto all'art. 36, comma 2, del dlgs 165/2001, secondo il quale le pubbliche amministrazioni possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale solo per rispondere a «esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale»; occorrerà quindi valutare caso per caso se sussistono tali presupposti;
3) l'impossibilità di ricorrere alla somministrazione di lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali;
4) il vincolo previsto all'art. 9, comma 28, del dl 78/2010 che prevede che, a decorrere dal 2011, gli enti locali devono conformarsi alla previsione secondo cui il ricorso al personale a tempo determinato o in convenzione o con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, è consentito entro il limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nel 2009, salvo che l'ente non sia in regola con l'obbligo di progressiva riduzione della spesa del personale (art. 11, comma 4-bis, dl 90/2014).
Tale vincolo, fra l'altro, viene esteso dal successivo comma 29 anche alle società non quotate inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione elaborato annualmente dall'Istat, che siano controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche. Circa il perimetro di applicazione di quest'ultima previsione, secondo alcune sezioni di controllo della Corte dei conti non può essere data un'interpretazione esclusivamente letterale alla norma, finendo così per ricomprendere nel suo ambito soggettivo di applicazione tutte le società pubbliche, ancorché non indicate nominativamente nell'elenco Istat degli enti inseriti nel conto economico consolidato;
5) i vincoli tuttora esistenti per le autonomie regionali e locali in materia di riduzione della spesa per il personale e di contenimento della dinamica retributiva e occupazionale (art. 1, comma 557, della legge 296/2006).
Una volta ricevuto l'atto d'indirizzo, la società pubblica avrà cura di selezionare l'agenzia di somministrazione con procedura a evidenza pubblica e di fare in modo che questa selezioni il personale somministrato rispettando i princìpi sanciti dai commi 1 e 2 del dl 112/2008 (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl collegato ambientale passa in Senato. Ambiente. Via libera al testo, che ora dovrà ritornare alla Camera.
Dopo il via libera di ieri da parte del Senato, il cosiddetto “Collegato ambientale” (Atto Senato n. 1676) approderà ora nuovamente alla Camera.
Il Ddl si compone di 79 articoli, è suddiviso in 11 capi e si occupa di molti settori ambientali, fra cui: acque (sversamenti di idrocarburi in mare, contratti di fiume); appalti e acquisti verdi della Pa (spinta dell’obbligo del Gpp – Green public procurement); contabilità ambientale (istituzione del Comitato per il capitale naturale); danno ambientale e bonifiche (ripristino ambientale nei siti di interesse nazionale – Sin); energia (impianti ibridi alimentati da rifiuti, impianti termici); imballaggi (shopper biodegradabile intesi come ammendanti e modifiche della gestione degli imballaggi nel “Codice ambientale”); rifiuti (registri di carico e scarico per i piccoli produttori, imprenditori agricoli e formulario, obiettivi di raccolta differenziata, compostaggio aerobico).
Tra le numerose disposizioni alcune appaiono particolarmente interessanti. In particolare:
- in caso di incidenti in mare con sversamento di idrocarburi, il proprietario del carico deve munirsi di apposita assicurazione a copertura integrale dei rischi anche potenziali;
- è prevista la possibilità di istituire parchi marini o riserve marine in Banchi Graham, Terribile, Pantelleria e Avventura nel canale di Sicilia;
- diventa obbligatorio il Gpp per gli “acquisti verdi” della Pa per alcuni settori, mentre per altri l'obbligo si limita al 50% delle forniture. La norma interviene anche sul “Codice appalti” (Dlgs 163/2006);
- per le bonifiche dei Sin, si aggiunge l’articolo 306­bis al Dlgs 152/2006, che reca nuove regole per la determinazione delle misure per il risarcimento del danno ambientale e il ripristino ambientale dei Sin con l’introduzione di una proposta transattiva che il ministero dell’Ambiente valuterà;
- si introduce un credito d’imposta (50% delle spese sostenute) per i titolari di reddito d’impresa che nel 2016 daranno luogo a bonifiche di amianto su beni e strutture produttive in Italia con investimenti non inferiori a 20mila euro;
- in materia di dragaggio nei siti di bonifica la norma precisa che tutte le casse, vasche e strutture in cui i materiali possono essere refluiti vanno realizzate con l’applicazione delle migliori tecniche disponibili (Mtd) e in linea con i criteri di progettazione formulati da accreditati standards tecnici internazionali;
- l’Ispra dovrà approvare i criteri tecnici che consentano il collocamento dei rifiuti in discarica senza preventivo trattamento “discariche”;
- è abrogato il divieto previsto dal Dlgs 36/2003 di conferire in discarica rifiuti con Pci (potere calorifico inferiore) superiore a 13mila kJ/kg, previsto sin dal 01.01.2007 ma sempre prorogato;
- le miscelazioni di rifiuti non vietate ai sensi dell’articolo 187 del “Codice ambientale” non devono essere autorizzate e, anche se effettuate da soggetti autorizzati ai sensi degli articoli 208, 209 e 211 «non possono essere sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori rispetto a quelle previste per legge»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATATerra e rocce di scavo, pronto il Dpr. Semplificazioni. Verso il Consiglio dei ministri.
La gestione delle terre e rocce di scavo si avvia a profondi cambiamenti e inaugura il percorso della consultazione pubblica per l’approdo della legislazione tecnica in materia ambientale.

Già nel Consiglio dei ministri di domani potrebbero, infatti, essere vagliati i 31 articoli e gli 8 allegati che compongono lo schema di Dpr, i quali dopo il via libera governativo dovranno essere sottoposti alla consultazione pubblica di 30 giorni prevista nell’articolo 8, comma 1-bis, del Dl 133/2014 (legge 164/2014).
Nei successivi 30 giorni il Minambiente pubblicherà eventuali controdeduzioni alle osservazioni pervenute. Lo schema si avvia a ridisegnare la disciplina in materia di terre e rocce di scavo ed è stato predisposto sulla base della delega conferita dal Parlamento al Governo dal citato articolo 8.
Nella relazione illustrativa si legge che il Dpr «si propone di semplificare l’intera disciplina vigente in materia di terre e rocce da scavo, riducendola ad un unico testo, integrato, autosufficiente e internamente coerente».
Lo schema si presenta però come un provvedimento ricco di ombre e con alcune luci. Fra le ombre si pone l’articolo 1 che amplia surrettiziamente il campo di applicazione della disciplina sui rifiuti. Infatti, il riutilizzo nello stesso sito di terre e rocce come previsto dalla normativa Ue e dall’articolo 185, comma 1, lett. c), del Dlgs 152/2006, configura l’ipotesi di materiali esclusi totalmente dall’ambito dei rifiuti, indipendentemente dalla loro natura e provenienza.
Ora lo schema, se provenienti da piccoli cantieri li conduce tra i sottoprodotti; pertanto, dovranno seguirne le prescrizioni; il che, invece, non è richiesto né dal “Codice ambientale” né dalle norme Ue.
Inoltre, il testo evidenzia problematiche che in parte ripropongono gli affanni pregressi e ne aggiungono altri. Si pensa immediatamente ai materiali di riporto che ora sono ridefiniti, ma senza alcuna citazione dell’articolo 3, del Dl 2/2012 (norma di rango superiore al Dpr) che finora li ha identificati.
Inoltre, il testo reintroduce il limite massimo “
del 20% in massa” dei materiali di origine antropica: si tratta di un criterio di calcolo che non è realizzabile, soprattutto se riferito ad uno scavo in banco che ha caratteristiche di eterogeneità, dovute proprio alla natura del suolo. L'articolo 21 non semplifica, inoltre, la normativa attuale, ma la complica, poiché le comunicazioni diventano dichiarazioni sostitutive di atto notorio; i termini per la presentazione di modifiche al piano di utilizzo sono ridotti da 30 a 15 giorni.
Tra le note positive, si segnala l'eliminazione dell’obbligo di comunicazione preventiva all'autorità per ogni trasporto di terre e rocce qualificate sottoprodotti (allegato VI, Dm 161/2012). Per le terre e rocce da scavo generate nei cantieri di grandi dimensioni e qualificate sottoprodotti è previsto che il proponente, dopo 90 giorni dalla presentazione del piano di utilizzo possa gestirle nel rispetto del piano purché rispetti alcuni requisiti (articolo 9).
Si elimina così la preventiva approvazione del piano modificato. Ora inizieranno a decorrere i termini (30 giorni per l'invio di comunicazione e di lì, i 30 giorni per le eventuali controdeduzioni ministeriali alle osservazioni pervenute
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2015).

APPALTIAsmel, bocciate solo le gare in corso. Consiglio di Stato.
La sospensione della delibera Anac 32/2015 riguarda solo le gare in corso e non anche quelle nuove bandite dall’Asmel.
Lo afferma il Consiglio di Stato -Sez. VI- con l’ordinanza 04.11.2015 n. 5042 nella vicenda che ha coinvolto la società consortile Asmel, nata per aggregare gli appalti dei Comuni, da mesi al centro di una intricata controversia sulla sua legittimità.
Sono 882 i Comuni aderenti alla centrale di committenza, che ha sviluppato un fatturato per quasi un miliardo di euro (secondo la società). La vicenda nasce nel 2013 da numerosi esposti.
Ad aprile scorso l’Anac (delibera 32/2015) boccia in pieno il “sistema Asmel”: non ha i requisiti per essere un soggetto aggregatore e quindi non può bandire le gare. A giugno il Tar Lazio, con l’ordinanza 2544/2015, conferma il provvedimento dell’Anac ma a settembre il Consiglio di Stato inverte la rotta sospendendo l’efficacia della delibera Anac.
L’Autorità chiede ai giudici di chiarire l’ambito di validità dell’ordinanza 4016 del 09.09.2015. Il Consiglio ha precisato «l’incidenza sulle procedure di gara in corso e non anche sulla futura attività amministrativa di Asmel, che rimane regolata dal suddetto provvedimento nelle more della decisione nel merito».
Il Tar Lazio ha fissato l’udienza di merito al 2 dicembre. La società consortile ha escluso che nella compagine possano entrare soggetti privati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Fino a 150 euro di multa a chi getta in terra i mozziconi. Via libera dal senato al collegato ambientale che adesso passa alla camera in terza lettura.
Proibito (e punito con multe da 30 a 150 euro) gettare in strada «chewing gum», fazzolettini, mozziconi di sigaretta e altri rifiuti di ridotte dimensioni: il nuovo divieto arriva con il via libera, ieri al senato, a un disegno di legge, il collegato ambientale (
Atto Senato n. 1676).
Il testo, che è passato all'esame dei deputati, contiene una serie di novità che vanno dalla mobilità alla cosiddetta «green economy», e apre anche alla possibilità che un incidente occorso a un lavoratore in bicicletta possa essere ritenuto «infortunio in itinere», con conseguente chance di ottenere un risarcimento da parte dell'Inail; il via libera è arrivato con 156 voti favorevoli, 85 contrari e 14 astenuti.
La seconda lettura a palazzo Madama del provvedimento, che era nato sotto il governo di Enrico Letta come collegato alla manovra economica, ha impresso alcune virate particolarmente significative; fra le norme (alcune di grande impatto sociale) introdotte, quella che impone il divieto di tagliare l'acqua agli utenti morosi e di effettuare il pignoramento degli animali domestici.
Ampio (e variegato) il capitolo del ddl relativo ai rifiuti, nel quale spicca l'introduzione in via sperimentale (per un anno, e su base volontaria del singolo esercente) del sistema del «vuoto a rendere» su cauzione per gli imballaggi contenenti birra, o acqua minerale serviti al pubblico da alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri punti di consumo; l'opportunità di riutilizzo verrà disciplinata attraverso un decreto del ministro dell'ambiente «entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore» del testo, in cui non soltanto verranno fissate le modalità dell'iniziativa, ma saranno anche messe nero su bianco delle forme di incentivazione per indurre il maggior numero possibile di negozianti a aderirvi.
Al termine della fase sperimentale si valuterà, sulla base degli esiti dello speciale test e sentite le categorie interessate, se confermare e se estendere il sistema del «vuoto a rendere» ad altri tipi di prodotto, nonché ad altre tipologie di consumo.
Come già sottolineato, il testo sancisce pure la nascita dell'altolà all'abbandono di materiali di piccole dimensioni «sul suolo, nelle acque, nelle caditoie e negli scarichi»: se, però, per uno scontrino accartocciato e buttato sull'asfalto il legislatore ha individuato pene che vanno da 30 a 150 euro di multa per i responsabili di simili gesti, i fumatori che lasceranno in giro le «cicche» di sigaretta rischieranno sanzioni «aumentate del doppio» rispetto a quelle cifre.
La norma, inoltre, stabilisce che il 50% delle risorse frutto del pagamento delle multe venga utilizzato per «apposite campagne di informazione da parte degli stessi comuni, volte a sensibilizzare i consumatori sulle conseguenze nocive per l'ambiente derivanti dall'abbandono dei mozziconi dei prodotti da fumo», ma parte dei fondi sarà destinata alla «pulizia del sistema fognario urbano», laddove spesso finiscono tali piccoli rifiuti.
Con l'intenzione di dare una spinta «green» all'economia e alla società, come spiegato dal ministro dell'ambiente Gianluca Galletti, il collegato «interviene con determinazione nel contrasto al dissesto idrogeologico col fondo per la progettazione, e con oltre 10 milioni di euro ai comuni che vogliono abbattere edifici abusivi in zone a rischio».
Inoltre, una dotazione di 35 milioni andrà alla mobilità sostenibile, mentre si affronta «il tema degli appalti verdi, con i criteri ambientali minimi cui le pubbliche amministrazioni devono attenersi per gli acquisti» di beni e servizi (articolo ItaliaOggi del 05.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Stessa modulistica in tutti i Suap. Semplificato l'avvio attività, tutor per imprese e servizi. Dal ministero dello sviluppo economico la riforma degli sportelli unici per le attività produttive.
Modulistica Suap unica e semplificata a livello nazionale per l'avvio di attività produttive e delle specifiche tecniche per l'interoperabilità dei sistemi. Adeguamento, dove necessario, della modulistica unificata alle specificità regionali e alle tipologie di attività di impresa. Predisposizione di linee guida condivise, allegate alla modulistica, che agevolino le imprese nella presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni al Suap.

Questo è il perimetro in cui si muove la riforma dello sportello unico delle attività produttive a cui sta lavorando il ministero dello Sviluppo economico di cui ItaliaOggi anticipa i contenuti. L'art. è attuativo dell'articolo 24 del decreto legge n. 90 del 2014, che prevede l'adozione previa intesa in conferenza unificata dei moduli unici per la presentazione di istanze, segnalazioni e altre dichiarazioni.
La standardizzazione e semplificazione dei modelli utilizzati per l'avvio dell'attività d'impresa è indispensabile per agevolare l'informatizzazione delle procedure e la trasparenza nei confronti di cittadini e imprese.

Punto d'accesso unico. Il Suap costituisce l'unico punto di accesso per il richiedente in relazione ai procedimenti che abbiano ad oggetto l'esercizio di attività produttive e di prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di localizzazione, realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o riconversione, ampliamento o trasferimento nonché cessazione o riattivazione delle suddette attività.
Il Suap fornisce una risposta telematica unica e tempestiva in luogo degli altri uffici comunali e di tutte le pubbliche amministrazioni coinvolte nel procedimento medesimo, ivi comprese quelle preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità. I comuni possono esercitare le funzioni inerenti al Suap in forma singola o associata tra loro, o in convenzione con le camere di commercio.
Esclusioni. Sono esclusi dall'ambito di applicazione del Suap gli impianti e le infrastrutture energetiche, le attività connesse all'impiego di sorgenti di radiazioni ionizzanti e di materie radioattive, gli impianti nucleari e di smaltimento di rifiuti radioattivi, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, nonché le infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi.
Assistenza e tutoraggio alle imprese e ai prestatori di servizi. L'assistenza alle imprese e ai prestatori di servizi è fornita dal Suap, dall'agenzia per le imprese. Essa consiste nella raccolta e diffusione, anche in via telematica, delle informazioni concernenti l'insediamento e lo svolgimento delle attività produttive, l'avvio e lo svolgimento delle attività di servizi nel territorio regionale, l'impiego delle procedure telematiche per la presentazione delle istanze, le normative applicabili, gli strumenti agevolativi e l'attività del Suap, nonché le informazioni concernenti gli strumenti di agevolazione contributiva e fiscale a favore dell'occupazione dei lavoratori dipendenti e del lavoro autonomo, i requisiti applicabili ai prestatori, in particolare quelli relativi alle procedure e alle formalità da espletare per accedere alle attività di servizi ed esercitarle, i dati necessari per entrare direttamente in contatto con le autorità competenti, compresi quelli delle autorità competenti in materia di esercizio delle attività di servizi e i mezzi e le condizioni di accesso alle banche dati e ai registri pubblici relativi ai prestatori e ai servizi (articolo ItaliaOggi del 05.11.2015).

GIURISPRUDENZA

LAVORI PUBBLICI: Sul procedimento sanzionatorio ai sensi dell'art. 40, co. 9-quater, del d.lgs. 163/2006.
E' illegittimo il procedimento sanzionatorio ai sensi dell'art. 40, co. 9-quater, del d.lgs. 163/2006 e s.m.i. nei confronti dell'operatore economico atteso che le verifiche in ordine alla veridicità della documentazione spetta in capo agli organismi di attestazione.
Gli eventuali errori in ordine alle modalità con le quali i controlli vengono svolti, non possono ricadere in danno degli operatori economici che hanno confidato nel diligente operato dei soggetti responsabili: le società organismo di attestazione e l'Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC). La colpa "grave", quale elemento soggettivo dell'illecito deve incentrarsi in concreto sul comportamento specifico dell'agente.
L'art. 40, c. 9-quater, del d.lgs. n. 163/2006 chiarisce, infatti, che l'ANAC deve svolgere un'indagine, nel riscontrare dolo o colpa grave, che deve essere fondata sulla rilevanza o gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione.
Sono dunque i "fatti" specifici ad essere oggetto dell'indagine non l'astratta configurabilità di un mancato controllo, sia pure nell'ambito dei requisiti professionali che connotano l'esercizio dell'impresa, sui dati delle certificazioni in sé considerabili, altrimenti dovendosi configurare sempre e comunque, in presenza di mancata corrispondenza tra documentazione e certificazione, un'ipotesi di gravità della colpa, con esclusione quindi di ogni graduazione e di ogni approfondimento istruttorio specifico che la norma su riportata non sembra prevedere, lasciando invece un margine di discrezionalità all'Autorità di settore che però deve essere reso esplicito sulla base degli specifici fatti alla sua attenzione.
Sebbene in tema di qualificazione delle imprese valgano comunque i principi generali di responsabilità e di diligenza degli operatori economici deve comunque ragionevolmente ritenersi che tali principi operino in massimo grado soltanto in relazione ai fatti e alle circostanze che siano nella diretta conoscenza e disponibilità dell'impresa.
Al contrario, nelle ipotesi in cui tali fatti e circostanze risultino solo indiretti e de relato, può certamente considerarsi conforme ai canoni della diligenza in concreto esigibile in capo all'operatore economico il fatto che quest'ultimo abbia fatto affidamento sulla correttezza ed attendibilità dell'operato di un soggetto particolarmente qualificato come la SOA. Del resto, l'art. 70, c. 1, lett. f), del d.P.R. 207/2010 impone alle SOA di "verificare la veridicità e la sostanza delle dichiarazioni, delle certificazioni e delle documentazioni, di cui agli articoli 78 e 79, presentate dai soggetti cui rilasciare l'attestato, nonché il permanere del possesso dei requisiti di cui all'articolo 78".
In altri termini laddove sussiste un'attestazione rilasciata da un organismo specificamente preposto non può, in linea generale e in assenza di specifici elementi sintomatici o di allarme, pretendersi che l'azienda interessata svolga un'ulteriore verifica della documentazione che ha consentito il rilascio delle medesime attestazioni.
Pertanto, nel caso di specie, l'impresa ricorrente poteva ben ritenere che i titoli specifici in base ai quali aveva ottenuto le precedenti attestazioni fossero stati correttamente valutati dal soggetto a ciò deputato, quale la società di attestazione SOA (TAR Lazio-Roma, Sez. III, sentenza 02.12.2015 n. 13653 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Tutte le imprese che partecipano alle gare di appalto devono possedere, a pena di esclusione, i requisiti generali soggettivi di affidabilità morale e professionale, rendendo obbligatoriamente le pertinenti dichiarazioni.
In base all'ordinamento di settore (artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, codice dei contratti pubblici nel testo ratione temporis vigente), tutte le imprese che partecipano alle gare di appalto, incluse quelle raggruppate in a.t.i. o indicate quali ausiliarie in sede di avvalimento, devono possedere, a pena di esclusione, i requisiti generali soggettivi di affidabilità morale e professionale, rendendo obbligatoriamente le pertinenti dichiarazioni.
La formulazione letterale del menzionato art. 46, co. 1-bis, impone di applicare la sanzione dell'esclusione alla violazione dell'art. 38, co. 2, cit., relativo alla presentazione delle dichiarazioni attestanti l'assenza delle relative condizioni ostative (quand'anche queste fossero in concreto inesistenti) e giustifica l'applicazione della sanzione espulsiva sia nelle ipotesi in cui la lex specialis di gara la preveda come conseguenza della sola assenza oggettiva dei requisiti di moralità (e non anche della loro mancata attestazione), sia quando (come verificatosi nel caso di specie) la stazione appaltante determini in modo puntuale le modalità dell'obbligo dichiarativo, scegliendo fra la dichiarazione "diretta" di cui all'art. 47, c. 1, t.u. n. 445 del 2000 e quella "indiretta" per conto terzi, prevista dal comma 2 del medesimo articolo.
In presenza di dichiarazioni richieste a pena di esclusione e radicalmente mancanti, resta precluso all'amministrazione l'esercizio del potere sul "soccorso istruttorio" (che si risolverebbe in una lesione del principio della par condicio): invero, la mancata allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, in applicazione del cd. "dovere di soccorso" di cui al più volte menzionato art. 46 e non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali.
Tale principio a maggior ragione si applica quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara, potendosi al più ammettere in tale contesto l'integrazione solo quando i vizi sono chiaramente imputabili ad errore materiale, ma sempre che riguardino dichiarazioni o documenti non richiesti a pena di esclusione, non essendo, in quest'ultima ipotesi, consentita la sanatoria o l'integrazione postuma, che si tradurrebbe in una violazione dei termini massimi di presentazione dell'offerta e, in definitiva, in una violazione del principio di parità delle parti, che deve presiedere ogni procedura ad evidenza pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.12.2015 n. 5458 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, la Cassazione chiarisce quando un reato urbanistico è penale.
La consistenza dell'intervento abusivo è solo uno dei parametri.
La consistenza dell'intervento abusivo -tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione ai fini dell'applicazione dell'articolo 131-bis del Codice penale per le violazioni urbanistiche e paesaggistiche.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 27.11.2015 n. 47039.
GLI ALTRI ELEMENTI DA CONSIDERARE. “Riguardo agli aspetti urbanistici –sottolinea la Cassazione- assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento”.
Per la suprema Corte “Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, (...) la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali)” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Asti, con sentenza del 13/04/2015 ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Al.DE. per essere il reato a lui ascritto non punibile per particolare tenuità.
Il predetto era chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 181 d.lgs. 42/2004 e 44, lett. c), d.P.R. 380/2001, per aver eseguito, in assenza del permesso di costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, su terreno di proprietà comunale, una tettoia poggiante su un immobile di proprietà di Pi.LA. ed oggetto di ordine di demolizione e su tre pilastri in legno di cm. 20x20 imbullonati nella pavimentazione, con copertura di onduline, con occupazione di circa m. 5,15 per 6,00, con altezza di intradosso centrale di m. 3,50 circa e di intradosso laterale di m. 2,83 circa, nonché di una tettoia poggiante sull'immobile e cinque pilastri in legno di cm. 10x10 imbullonati, con occupazione di m. 4,50x6,00 circa, altezza di intradosso interno m. 2,45, altezza di intradosso esterno m. 2,05 circa (in Carmagnola, nel febbraio 2013, accertamento in sede di sopralluogo il 25/07/2013).
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un unico motivo di ricorso lamenta l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione, rilevando, in primo luogo, che il giudice del merito avrebbe pronunciato sentenza ai sensi dell'art. 469 cod. proc. pen. nonostante la motivata opposizione del Pubblico Ministero, ritenendo erroneamente non riferibile al comma 1-bis della menzionata disposizione codicistica la previsione di cui al primo comma, che subordina la pronuncia della sentenza predibattimentale alla non opposizione delle parti.
Per tali ragioni, rileva, emettendo sentenza predibattimentale nonostante l'opposizione di una delle parti, il Tribunale sarebbe incorso in una nullità di cui all'art. 178 cod. proc. pen..
Rileva, poi, che la sentenza sarebbe caratterizzata da una non corretta valutazione dei presupposti di applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., che sarebbero mancanti in considerazione della natura e consistenza dell'opera realizzata e della abitualità del comportamento desumibile dalla permanenza della condotta posta in essere.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
19.
Per ciò che concerne, in particolare, le violazioni urbanistiche e paesaggistiche, che qui interessano, deve ritenersi che la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione.
Riguardo agli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è, inoltre, come si è accennato in precedenza, la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
20. Date tali premesse, deve rilevarsi come la valutazione operata dal giudice del merito nel riconoscere la particolare tenuità del fatto risulta limitata e parziale, in quanto si sofferma, come rilevato anche in ricorso, esclusivamente sulle caratteristiche costruttive e dimensionali delle opere e sulla loro destinazione. La verifica effettuata, inoltre, tralascia completamente di considerare alcuni dati fattuali individuabili dalla mera lettura dell'imputazione, la cui sussistenza non viene posta in discussione e rispetto ai quali la motivazione della sentenza impugnata si pone palesemente in contraddizione.
21. Sebbene assuma aspetto decisivo, ai fini del giudizio di particolare tenuità della condotta, per le ragioni dianzi dette, la contestuale violazione della disciplina urbanistica e paesaggistica, per il fatto che la contestazione dell'art. 181 d.lgs. 42/2004 sia stata del tutto ignorata, va anche rilevato che, a fronte della positiva valutazione sulla non particolare modificazione del territorio e sulla destinazione dell'intervento, nulla si dice sul fatto che, nell'imputazione, viene precisato che le opere sono state eseguite su area di proprietà comunale, né si considera che l'imputazione medesima specifica che le tettoie sono state realizzate in adiacenza di immobile (di proprietà di altro soggetto) oggetto di ordine di demolizione e, pertanto, verosimilmente abusivo.
Si tratta, anche in questo caso, di un dato non indifferente, che avrebbe dovuto essere oggetto di specifica valutazione, atteso che,
secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve, in generale, ritenersi preclusa ogni possibilità di intervento su immobili abusivi non condonati o sanati, perché essi, anche quando siano riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente (Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014, Rossignoli e altri, Rv. 261330; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014, Stewart e altro, Rv. 259665; Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.M. in proc. Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi, Rv. 235382; Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano, Rv. 234472). Una simile condotta, pertanto, si risolverebbe in un ulteriore aggravamento di un abuso preesistente.
22. In ricorso viene, infine, correttamente censurata anche
la errata qualificazione delle opere realizzate come precarie, come evidenzia il riferimento del giudice del merito alla loro «provvisorietà», dedotta sulla base delle caratteristiche costruttive, essendo tali, invece, quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità (cfr. art. 6 d.P.R. 380/2001), ciò in quanto tale precarietà risulta esclusa dalla stabile destinazione alle esigenze abitative riconosciuta dal Tribunale e stigmatizzata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.11.2015 n. 47039).

INCARICHI PROFESSIONALI: Pari competenze tecniche, contributi dovuti. Sentenza della corte di cassazione respinge il ricorso di un geometra.
La Cassa previdenziale incassa i contributi anche sui redditi prodotti in seguito ad attività che, seppur non professionalmente tipiche, richiedono le stesse competenze tecniche.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza 27.11.2015 n. 24303, ha respinto il ricorso di un geometra al quale l'ente aveva chiesto il pagamento dei contributi sui redditi prodotti come perito assicurativo.
L'uomo aveva impugnato la cartella notificata dalla Cassa obiettando che nulla avrebbe dovuto in relazione a quanto guadagnato nella veste di consulente. La tesi non aveva fatto breccia presso il tribunale e la Corte d'appello di Roma. Ora i supremi giudici hanno reso definitiva la decisione.
Sul punto in sentenza si legge che il concetto di esercizio della professione, rilevante ai fini di stabilire se i redditi prodotti da un libero professionista siano qualificabili come redditi professionali soggetti come tali, alla contribuzione dovuta alla Cassa previdenziale di categoria, deve intendersi, alla luce della lettura adeguatrice data dalla Consulta con la sentenza 402/1991, comprensivo oltre che dell'espletamento delle prestazioni tipicamente professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti negli appositi albi) anche l'esercizio di attività che, pur non professionalmente tipiche, presentino, tuttavia, un nesso con l'attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell'esercizio dell'attività professionale e nel cui svolgimento, quindi, mette a frutto anche la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipo logicamente propria della sua professione, derivandone, di conseguenza, che il parametro dell'assoggettamento alla contribuzione è la connessione fra l'attività da cui il reddito deriva e le conoscenze professionali, ossia la base culturale su cui l'attività stessa si fonda, connessione che trova esclusivamente il limite dell'estraneità dell'attività stessa alla professione.
Anche la procura generale del Palazzaccio aveva sollecitato al collegio di legittimità di respingere il ricorso del professionista (articolo ItaliaOggi del 28.11.2015).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Contratti pubblici: "no" del Consiglio di Stato all'automatica revisione periodica del prezzo.
L'iter procedimentale bifasico per il compenso revisionale nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture.
Per tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture è prevista l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione.
In particolare, sia l'abrogato art. 6, comma 4, della legge 23.12.1993 n. 537 (come modificato dall'art. 44 della legge 24.12.1994 n. 724), che il vigente art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, prevedono per la revisione prezzi un’istruttoria da parte dei dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi, sulla base in primo luogo dei dati forniti dalla sezione centrale dell'Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture e dall'ISTAT.
Conseguentemente sono nulle le clausole contrattuali che escludono la revisione del canone, ma questo principio non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti.

È questo il principio sancito dalla V Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 27.11.2015 n. 5375 sulla cui base il Collegio ha affermato che l’iter procedimentale in subiecta materia è bisafico, cioè caratterizzato da due distinte fasi di diversa natura.
La giurisprudenza è, infatti, pacifica, nel rilevare che a fronte dell'interesse legittimo dell'appaltatore a richiedere di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, c'è la correlata facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante che deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di spesa da un lato, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato.
I risultati del procedimento di revisione prezzi sono quindi espressione di facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge.
La posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo dopo che l'Amministrazione, in base alle risultanze istruttorie, abbia riconosciuto la sua pretesa, vertendosi solo allora in tema di “quantum” del compenso revisionale.
Da quanto sopra consegue che la mancata impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza di revisione rende l’appello inammissibile non potendo la relativa azione essere azionata nel termine decennale di prescrizione con la richiesta della declaratoria del relativo diritto (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
6.2- Passando alla disamina delle censure dedotte dalle appellanti, il Collegio rileva che la prospettazione di parte appellante si fonda sulla asserita titolarità di un diritto soggettivo alla revisione periodica in virtù del contratto stipulato tra Co.gei ed il Comune di Frascati in data 26.01.1994.
Il Comune non disporrebbe di alcun potere autoritativo con la conseguenza che la controparte contrattuale potrebbe agire in giudizio entro il termine di prescrizione decennale, in quanto il suddetto art. 6, comma 4, della l. n. 537/1993 sancirebbe il diritto al compenso revisionale.
Tale assunto non può essere condiviso, in quanto il provvedimento dell’amministrazione comunale di Frascati non può essere qualificato atto paritetico e come tale impugnabile entro il termine prescrizionale a tutela dell’asserito diritto vantato degli appellanti.
Parte appellante omette di considerare che
l’iter procedimentale in subiecta materia è bisafico, cioè caratterizzato da due distinte fasi di diversa natura.
In proposito si osserva che
l’art. 44, 4° comma, della L. n. 724/1994, di cui parte appellante deduce la violazione prevede, per tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture, l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione.
Conseguentemente sono nulle le clausole contrattuali che escludono la revisione del canone e si verifica l'eterointegrazione della disciplina di gara ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cc., ma questo principio non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti.

In tal senso si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, sentt. 22.12.2014, n. 6275 e 24.01.2013 n. 465, TAR sez. III Milano n. 222/2015, TAR Campania-Napoli, Sez. I, 21.10.2010, n. 20632), rilevando che
la posizione dell'appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante (Cass. SS.UU. 31.10.2008 n. 26298), che deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di spesa da un lato, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato.
I risultati del procedimento di revisione prezzi sono quindi espressione di facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge.
La posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo dopo che l'Amministrazione, in base alle risultanze istruttorie, abbia riconosciuto la sua pretesa, vertendosi solo allora in tema di “quantum” del compenso revisionale.
Sia l'abrogato art. 6, comma 4, della legge 23.12.1993 n. 537 (come modificato dall'art. 44 della legge 24.12.1994 n. 724), che il vigente art. 115 del d.lgs. n. 163/2006 prevedono per la revisione prezzi un’istruttoria da parte dei dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi, sulla base in primo luogo dei dati forniti dalla sezione centrale dell'Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture e dall'ISTAT (art. 7, comma 4, lett. c), e comma 5, del d.lgs. n. 163/2006).
In base alle suesposte considerazioni
non è configurabile alcuna contraddizione nelle pronunce del giudice amministrativo, che sanciscono, sotto un primo profilo, la sussistenza dell'obbligo di inserzione della clausola e quindi del corrispondente diritto della parte contraente (problematica esulante però dalla vicenda di cui è causa, in quanto la revisione era contrattualmente prevista) e, sotto un distinto e cronologicamente successivo profilo, ritengono che la situazione soggettiva dell'appaltatore in relazione alle modalità ed ai risultati della revisione sia di interesse legittimo in ragione della discrezionalità dell'Amministrazione sull'an debeatur (Cons. Stato, Sez. V, 24.01.2013, n. 465).
Tali considerazioni portano a disattendere entrambe le censure prospettate dagli appellanti, in quanto la mancata impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza di revisione rende l’appello inammissibile, non potendo la relativa azione essere azionata nel termine decennale di prescrizione con la richiesta della declaratoria del relativo diritto.
Infatti parte appellante ha impugnato la nota dell’08.11.1999 dell’Ufficio Tecnico Ambiente, avente carattere di atto interno ed infraprocedimentale senza alcun valore dispositivo, contenente un semplice parere del funzionario in base ai risultati dell’indagine conoscitiva effettuata in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla normativa per la concessione della revisione del canone originariamente previsto in sede contrattuale per l’espletamento del servizio di raccolta di rifiuti solidi urbani, ma non ha invece proceduto all’impugnazione del formale provvedimento di diniego del Dirigente del IV Settore n. 25875 dell’11.11.1999, mai ritualmente impugnato.
7.- L’appello va pertanto respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.11.2015 n. 5375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione: anche per i dipendenti pubblici si applica l’art. 18.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 26.11.2015 n. 24157, ha dichiarato che
l’art. 18, così come modificato, è applicabile anche per i dipendenti pubblici.
I Giudici rilevano infatti che l’inequivocabile tenore dell’art. 51 cpv d.lgs. 165/2001 prevede l’applicazione anche al pubblico impiego cd. contrattualizzato della L. 300/1970 e “successive modificazioni ed integrazioni” indipendentemente dal numero dei dipendenti.
Pertanto, sulla base di tale assunto, per i Giudici di Palazzo Spada, è innegabile che il nuovo testo dell’art. 18 della legge n. 300/1970, come novellato dall’art. 1 legge n. 92/2012, trovi applicazione ratione temporis al licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge c.d. Fornero.
Il caso riguardava il licenziamento disciplinare di un dirigente di un consorzio pubblico siciliano, il ricorrente poneva la questione dell’estensione dell’art. 18 al pubblico impiego, chiedendo, in caso di risposta negativa, di promuovere la questione di legittimità costituzionale del suddetto articolo.
La Corte di Cassazione, affermando l’applicabilità del nuovo testo dell’art. 18 al pubblico impiego, non ha nemmeno ritenuto necessario porre la questione di legittimità costituzionale richiesta dal ricorrente.
In merito alla questione dell’applicabilità o meno della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, la Corte quindi rileva l’applicabile della suddetta tutela in caso di licenziamento intimato al pubblico impiegato in violazione di norme imperative, quali l’art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, trattandosi di nullità prevista dalla legge (commento tratto da www.giurdanella.it).
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MASSIMA
5- Il terzo motivo è infondato, sebbene correggendosi ex art. 384 ult. co. c.p.c. nei sensi che seguono la motivazione sul punto adottata dalla Corte territoriale.
È pur vero che l'inequivocabile tenore dell'art. 51 cpv. d.lgs. n. 165/2001 prevede l'applicazione anche al pubblico impiego cd. contrattualizzato della legge n. 300/1970 "e successive modificazioni ed integrazioni", a prescindere dal numero di dipendenti.
Dunque,
è innegabile che il nuovo testo dell'art. 18 legge n. 300/1970, come novellato dall'art. 1 legge n. 92/2012, trovi applicazione ratione temporis al licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge cd. Fornero di cui parla l'impugnata sentenza.
Ma proprio il nuovo testo dell'art. 18, co. 1°, Stat., come modificato dalla legge n. 92/2012, ricollega espressamente (oltre alle ulteriori ipotesi in esso previste) la sanzione della reintegra (e non quella meramente indennitaria) anche ad altri casi di nullità previsti dalla legge.
Ed è indubbio che fra le nullità previste dalla legge vi sia anche quella per contrarietà a norme imperative (v., ancora, art. 1418, co. 1°, c.c.) e in tale novero rientra, come s'è detto, il cit. art. 55-bis, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001.
La tutela meramente indennitaria è invece prevista, sempre dal nuovo testo dell'art. 18 Stat., in ipotesi differenti da quelle verificatasi nel caso in oggetto (ad esempio, in quella in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge 15.07.1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300/1970 o della procedura di cui all'art. 7 della legge 15.07.1966, n. 604, e successive modificazioni).
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commento
Procedimento disciplinare e contenzioso – Applicabilità art. 18 Statuto dei Lavoratori al pubblico impiego – Riforma Madia.
Per il pubblico impiego la riforma dell'articolo 18 non vale, perché c'è una differenza sostanziale rispetto al privato, rappresentata dal tipo di datore di lavoro: il datore privato ragiona con risorse sue, quello pubblico ragiona con risorse della collettività. Nel Testo unico sul pubblico impiego chiariremo anche questo aspetto in modo esplicito”.
Questo quanto affermato dal Ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, intervenendo sul dibattito aperto dalla Cassazione che, con la sentenza n. 24157/2015, si è pronunciata per l'estensione automatica dell'articolo 18 agli uffici pubblici, in quanto prevista dal testo unico sul pubblico impiego (articolo 51 del d.lgs. 165/2011).
Tornano, dunque, alla ribalta le posizioni contrastanti già sorte in sede di approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, quando già, anche diversi esponenti del Governo, avevano sottolineato come nel quadro normativo vigente non sia possibile sostenere l'inapplicabilità della riforma al pubblico impiego.
Del resto, come ampiamente illustrato da Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, “Le riforme dell'articolo 18 si applicano anche al pubblico impiego perché una norma speciale di esclusione non c'è. Certo, il governo può sempre ripensarci, anche se non se ne vede la ragione dal momento che le tutele crescenti sarebbero la soluzione ideale per la stabilizzazione dei molti precari che hanno maturato anni di servizio nelle Pa. In ogni caso non può farlo nei decreti attuativi della riforma della Pa, perché la delega non ha una riga sulla disciplina del recesso. Quello che va fatto, e che la delega consente, è definire le opportune procedure interne del licenziamento disciplinare e di quello per motivo oggettivo, che ne assicurino la dovuta ponderazione imparziale, ma al tempo stesso lo rendano effettivamente praticabile”.
E’ facile, dunque, prevedere ulteriori sviluppi sul tema, presumibilmente da parte del Governo con un intervento normativo specifico, come annunciato dal Ministro.
In ogni caso, nell’attesa di scoprire in che modo evolverà la vicenda, ad oggi non può farsi altro che prendere atto dell’unico dato certo, rappresentato dal principio fissato dalla giurisprudenza della Cassazione (link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i nuovi edifici, ricadenti, come quello di che trattasi, in zone diverse dalla zona A, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, condizione indispensabile per potersi applicare il regime garantistico della distanza minima dei dieci metri, è l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui almeno una finestrata.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre, precisato, che la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n. 1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie.

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Col primo motivo si deduce che erroneamente il giudice di prime cure avrebbe escluso la sussistenza della denunciata violazione dell’art. 9 del D.M. 02/04/1968 n. 1444.
Si afferma, infatti, che il progetto dei sig.ri D’Al. e Ca. prevede la realizzazione, al primo piano dell’immobile, di un corpo di fabbrica, caratterizzato da uno sporto di metri 1,30 (destinato secondo le tavole progettuali a “letto” e “bagno”), la cui parete laterale dista solo 3 metri dalla porta-finestra dell’appellante.
La doglianza è infondata.
L’art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i nuovi edifici, ricadenti, come quello di che trattasi, in zone diverse dalla zona A, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, condizione indispensabile per potersi applicare il regime garantistico della distanza minima dei dieci metri, è l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui almeno una finestrata (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 31/03/2015 n. 1670, sulle modalità di calcolo delle distanze, si veda Cons. Stato, IV Sez., 11/06/2015 n. 2861).
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre, precisato, che la regola del rispetto della distanza dei dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere (Cons. Stato, Sez. IV, 04/09/2013 n. 4451 e 22/01/2013 n. 844; Cass. Civ., Sez. II, 30/04/2012 n. 6604).
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n. 1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.11.2015 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Messi sotto torchio. Le ricerche? In tutto il comune. Per la Cassazione notifica ko se la scusa è generica.
Senza prova del previo espletamento delle ricerche del destinatario dell'atto, non solo al suo indirizzo ma nell'ambito dell'intero comune, da parte del messo notificatore, la pretesa fiscale è da considerarsi nulla.

La Corte di Cassazione con ordinanza 25.11.2015 n. 24082, torna sulle vessata questione dell'onere probatorio in capo al messo notificatore in ipotesi di irreperibilità del destinatario affermando la necessità di non utilizzare in sede di relata di notifica, frasi generiche non idonee ad attestare le effettive infruttuose ricerche effettuate. La ricorrente eccepiva la violazione dell'art. 148 c.p.c. e dell'art. 60, lett. e), del dpr n. 600/1973 nella parte in cui la Commissione tributaria regionale ritenendo legittimo il ricorso alla procedura notificatoria di cui all'art. 60 predetto, riteneva lecita la redazione della relata di notifica all'indirizzo di residenza anagrafica del destinatario, nonostante quest'ultimo sarebbe stato qualificato come «sconosciuto in loco».
Ebbene, secondo la ricorrente, tale annotazione non sarebbe idonea a dare atto del compimento delle doverose ricerche da parte dell'agente notificatore, e rappresenterebbe una formula generica, non atta a soddisfare i requisiti richiesti dall'art. 148 c.p.c. e non suscettibile di contestazione mediante una querela di falso.
La Corte, con riguardo alla previa acquisizione di notizie e/o al previo espletamento delle ricerche, rileva che nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute, né quali espressioni verbali e in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche.
Ma dalla mera attestazione «sconosciuto ai microfoni» e «sconosciuto in loco» non emerge, se il messo notificatore abbia effettuato ricerche di sorta per pervenire alla conclusione che il destinatario della notifica fosse «sconosciuto in loco».
La Corte concludendo per l'accoglimento del ricorso, rileva che le ricerche devono avere ad oggetto la presenza del destinatario non solo nell'indirizzo ove è richiesta la notifica, ma nell'intero comune (Cass. 1440/2013 e Cass. 4925/2007) (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIRicerca nell’intero Comune per la notifica della cartella. Cassazione/2. Solo la verifica della presenza del destinatario nel territorio di residenza «salva» l’atto.
Il notificatore deve sempre verificare la presenza del destinatario sia all’indirizzo dove è stata richiesta la notifica sia nell’intero Comune. Infatti egli deve sempre verificare quanto già risulta dai registri pubblici. Poi non è sufficiente attestare sulla relata «sconosciuto sui citofoni» per fare presumere lo svolgimento di ricerche in grado di individuare il destinatario come «sconosciuto in loco». Infine la relata di notifica non ha valore di fede privilegiata per i meri giudizi formulati senza indicare i fatti su cui si fondano.
Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 25.11.2015 n. 24082 (Pres. Cicala, Rel. Cosentino).
Grazie alla notifica di un’intimazione di pagamento, un uomo apprende dell’avvenuta notifica di una cartella effettuata tempo prima dal concessionario. Egli contesta in Ctp il debito tributario in quanto non gli è mai stata precedentemente notificata la cartella.
Nello specifico la relata lo indica come soggetto sconosciuto presso la sua residenza anagrafica, senza che questa annotazione provi l’effettivo svolgimento di ricerche idonee per individuare la sua effettiva residenza che in quel momento era stata appena trasferita.
Ma per il concessionario la relata compilata in base al tentativo di notifica basta per attestare validamente la sua irreperibilità assoluta, in quanto non risulta il suo nominativo sul citofono presso l’indirizzo ancora indicato sul registro anagrafico.
Il giudice di primo grado accoglie la tesi del contribuente e il concessionario si rivolge così in appello, dove il giudice, in riforma della sentenza opposta, sancisce invece la validità della notifica. Ma la Cassazione accoglie per contro il ricorso dell’uomo per i seguenti motivi: il tentativo di notifica presso la residenza anagrafica per attestare l’irreperibilità assoluta del destinatario ai sensi dell’articolo 60, lett. e), Dpr 600/1973, non basta, perché anche se è ignoto il nuovo indirizzo del destinatario è compito del notificante verificare la presenza del destinatario sia all’indirizzo dove è stata richiesta la notifica che nell’intero comune; la relata «sconosciuto sui citofoni» non basta per fare presumere l’effettuazione di ricerche al fine di indicare il destinatario come «sconosciuto in loco», perché l’acquisizione di notizie e/o effettuazione di ricerche, pur non essendo regolata da alcuna norma, deve essere compiuta per giustificare il percorso logico inteso a ricondurre correttamente il tentativo di notifica; infine, la fede privilegiata attribuita alla relata di notifica fino a querela di falso, riguarda le sole attestazioni positive dell’ufficiale giudiziario e non anche le attestazioni negative formulate senza dare conto dei fatti su cui vengono basati i giudizi indicati
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: L’antenna dei cellulari paga Ici e Imu. Cassazione/1. I giudici di legittimità riconoscono l’accatastamento degli impianti in categoria «D».
Le antenne di telefonia mobile sono da accatastare in categoria D e quindi sono soggette a Ici e a Imu.
È questa l’importante conclusione cui è pervenuta la Corte di Cassazione -Sez. V civile- con la sentenza 25.11.2015 n. 24026 che ha visto vincere il comune ricorrente assistito dall’Anutel.
La sentenza è importante perché, da un lato, conferma l’applicazione di principi già utilizzati in casi similari, quali gli impianti eolici, e, dall’altro lato, interviene a ridosso di pronunce di merito che non sembrano far tesoro della funzione nomifilattica della Corte. È emblematico che per un caso identico, relativo a un’antenna telefonica posseduta dallo stesso contribuente oggetto della sentenza di Cassazione, la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 09.11.2015 n. 425 abbia ritenuto che l’antenna vada accatastata in categoria E.
La Cassazione conferma l’operato del catasto, che già con circolare 16.05.2006, n. 4 si era occupata in modo dettagliato dell’accatastamento delle antenne della telefonia mobile, distinguendo il caso delle antenne istallate su edifici esistenti da quello su aree di terreno all’uopo destinate.
Nel primo caso si tratta di antenne ancorate ai muri o sostenute da piccoli tralicci e dai relativi impianti elettrici ed elettronici. Se le apparecchiature elettroniche sono custodite nell’ambito di locali già esistenti, allora, ad avviso dell’Agenzia, non si configura un obbligo di accatastamento. Se, invece, le apparecchiature elettroniche vengono ospitate in specifiche aree e locali, preesistenti o di nuova costruzione, i manufatti devono essere dichiarati in catasto o in forma autonoma o come variazione della preesistente unità immobiliare.
Nel caso invece, come quello analizzato dalla Cassazione, di antenne collocate in un’area di terreno, di solito recintata, all’interno della quale è installato su platea di calcestruzzo un traliccio cui sono fissate le antenne, sussiste l’obbligo di procedere all’accatastamento.
Le indicazioni dell’agenzia del Territorio non sono state però integralmente recepite da parte della giurisprudenza di merito che ha continuato a ritenere corretto l’accatastamento in categoria E in ragione di una supposta preordinazione a un’esigenza pubblica svolta dalle antenne. Motivazioni queste che erano state già escluse con riferimento agli impianti eolici (Cassazione n. 4030/2012; n. 4498/2012; n. 1979/2015), in quanto ininfluenti ai fini di un corretto accatastamento, anche alla luce di quanto previsto dall’art. 2, comma 4, del Dl n. 262/2006, il quale prevede che nella categoria catastale E non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale. Ad avviso della Corte, la norma stabilisce una sorta di intrinseca incompatibilità tra la destinazione ad uso commerciale o industriale di un immobile e la possibile classificabilità in categoria E.
Peraltro, la Corte aveva già scrutinato la natura dell’antenna di telefonia nella sentenza n. 25837/2008, osservando che «il traliccio in questione ed annessa cabina, alla stregua dall’art. 873 c.c. e della consolidata giurisprudenza di questa Corte, 7285/2005-12045/2002-2228/2001, debbano considerarsi a tutti gli effetti costruzioni: ossia opere aventi caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015).
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MASSIMA
Con i motivi dal quinto al decimo, è posto in discussione, sotto vari aspetti -talvolta inammissibilmente trattandosi di censure fondate sull'errato presupposto che non si applichi nella specie la novella relativa all'art. 360, c. 5, cod. proc. civ.- quanto affermato dalla sentenza impugnata circa l'esistenza del presupposto impositivo e la pretesa classificazione in E/9 delle antenne di telefonia mobile in questione.
Sul punto la sentenza impugnata stabilisce in modo limpido (non adeguatamente censurato) che «
i ripetitori di telefonia mobile devono essere classificati nella categoria "D", in quanto trattasi di struttura stabilmente infissa al suolo, recintata, all'interno della quale è stato installato, su platea di calcestruzzo, un traliccio cui sono state fissate le antenne. Tale tipo di struttura, deve essere accatastata così come previsto dall'art. 4 del r.d.l. n. 652/1939. Tant'è che l'immobile oggetto del gravame in data 10.12.2008 veniva accatastata dall'Agenzia del territorio di Foggia in categoria "D7", con una rendita catastale di Euro 818,900, notificata in data 25/02/2009. La classificazione catastale nella categoria "D" è, inoltre, prevista dalla circolare dell'Agenzia del Territorio n. 4/2006, riferita alle centrali eoliche, che può essere applicata per analogia anche alle stazioni della telefonia mobile, così come previsto dall'art. 2 D.M. 02.01.1998, n. 28».
Quest'ultima osservazione non è del tutto esatta in quanto la circolare 4/2006 non si limita a considerare le centrali eoliche, ma fa uno specifico riferimento anche ai "ripetitori e impianti similari".
La circolare osserva: «
Rilevante importanza hanno assunto nel tempo anche le costruzioni tese ad ospitare impianti industriali mirati alla trasmissione o all'amplificazione dei segnali destinati alla trasmissione (via cavo o etere) ... la categoria da attribuire agli immobili che le ospitano è da individuare nel gruppo D. ... Tra le diverse tipologie dei manufatti in esame ha registrato negli ultimi anni una significativa diffusione sul territorio quella destinata ad ospitare gli impianti per la diffusione della telefonia mobile ...».
Peraltro, ad ulteriore conferma, può osservarsi che questa tipologia di manufatti non compare nella descrizione che la circolare n. 4/2007 detta per la identificazione delle costruzioni classificabili in categoria E. Salvo la surriferita marginale inesattezza circa la limitazione del riferimento operato dalla circolare n. 4/2006 alle sole centrali coliche, la sentenza qui in esame centra il problema:
la richiamata classificazione catastale è espressamente prevista come quella spettante per i "ripetitori" del tipo di quello oggetto del giudizio e la classificazione in concreto attribuita all'immobile in discussione non è stata impugnata.
Né risulta che lo sia stata nei confronti del solo soggetto legittimato sotto il profilo passivo, ossia l'Agenzia del territorio, né che quest'ultima sia stata evocata nel presente giudizio. Sicché l'imposizione ai fini ICI adottata dal Comune si palesa del tutto legittima.

APPALTI: Sull'efficacia delle direttive europee nell'ordinamento interno, prima del loro recepimento e, in ogni caso, prima della scadenza del termine a quel fine assegnato agli Stati membri (inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 63 della dir. n. 2014/24).
L'art. 63 della direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici là dove impone la sostituzione del soggetto sulla cui capacità ha fatto affidamento l'operatore economico (nelle ipotesi in cui sussistano, per il primo, motivi obbligatori di esclusione) e, quindi, impedisce, in tale situazione, l'automatica estromissione dalla procedura dell'impresa concorrente (che si è avvalsa dei requisiti di un'impresa ausiliaria, che, tuttavia, non li possiede), non è immediatamente applicabile nell'ordinamento nazionale prima della sua trasposizione nell'ordinamento interno e in pendenza del termine per il suo recepimento.
Prima della scadenza del termine per il recepimento delle direttive resta inconfigurabile qualsiasi efficacia diretta nell'ordinamento interno e, in particolare, nei c.d. rapporti verticali delle direttive europee (che, quindi, non possono essere qualificate, in tale situazione, come self-executing), per quanto dettagliate e complete, e che, nondimeno, le stesse conservano un'efficacia giuridica, ancorché limitata, che vincola sia i legislatori sia i giudici nazionali ad assicurare, nell'esercizio delle rispettive funzioni, il conseguimento del risultato voluto dalla direttiva.
Quanto ai contenuti di tale ridotta efficacia, si è, in particolare, chiarito che, in pendenza del termine per il recepimento, il rispetto del principio di leale collaborazione sancito all'art. 4, par. 3, del Trattato UE impedisce, per un verso, al legislatore nazionale l'approvazione di qualsiasi disposizione che ostacoli il raggiungimento dell'obiettivo al quale risulta preordinata la direttiva e impone, per un altro, ai giudici nazionali di preferire l'opzione ermeneutica del diritto interno maggiormente conforme alle norme eurounitarie da recepire, di guisa che non venga pregiudicato il conseguimento del risultato voluto dall'atto normativo europeo. Non solo, ma è stato anche escluso che possa riconoscersi qualsivoglia efficacia alle direttive non ancora recepite, che introducono nell'ordinamento un istituto nuovo, che, come tale, esige una compiuta disciplina normativa interna, necessariamente riservata in tutti i suoi aspetti al legislatore nazionale.
Ovviamente, perché possa utilmente invocarsi il limitato effetto della c.d. interpretazione giuridica conforme, nei termini sopra precisati, risulta necessario che la direttiva che viene invocata come vincolante criterio ermeneutico sia stata pubblicata sulla G.U.U.E. prima dell'adozione dell'atto impugnato, posto che, in ogni caso, il giudizio della legittimità di quest'ultimo dev'essere comunque formulato alla stregua della normativa vigente al momento della sua assunzione.
La regola dell'interpretazione giuridica conforme risulta del tutto inconfigurabile nei riguardi di previsioni della direttiva finalizzate ad introdurre negli ordinamenti nazionali istituti del tutto innovativi, che, come tali, esigono la coerente declinazione dei loro elementi costituivi e dei pertinenti presupposti di applicabilità. Anche a fronte di una disciplina europea sufficientemente dettagliata ed esauriente, risultano, infatti, necessarie la previsione di disposizioni (nazionali) di coordinamento con la normativa vigente e, soprattutto, l'adozione di un regime intertemporale, che chiarisca i tempi di operatività della nuova disciplina, rispetto (ad esempio) alle gare già bandite al momento del recepimento della direttiva (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.11.2015 n. 5359 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Le prescrizioni di un piano urbanistico attuativo (tale è il piano di lottizzazione) finalizzato alla disciplina in maniera dettagliata di una porzione del territorio sono vincolanti e devono essere rispettate da tutti i lottizzanti e loro aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino all’intervento di un nuovo piano urbanistico essendo, peraltro, del tutto irrilevante che sia decorso il termine decennale previsto dall’art. 28 della legge Urbanistica n. 1150 del 1942, atteso che detto termine riguarda gli interventi edilizi autorizzati dal piano di lottizzazione ma non riguarda la disciplina del territorio e la destinazione delle aree, che rimane inalterata fino all’intervento di un nuovo atto di pianificazione.
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Osserva il Collegio, a riguardo che, il Consiglio di Stato ha affermato il principio secondo cui le prescrizioni di un piano urbanistico attuativo (tale è il piano di lottizzazione) finalizzato alla disciplina in maniera dettagliata di una porzione del territorio sono vincolanti e devono essere rispettate da tutti i lottizzanti e loro aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino all’intervento di un nuovo piano urbanistico (in tal senso da ultimo Cons. Stato, Adunanza plenaria 20.07.2012, n. 28; conforme Cons. Stato, V, 20.03.2008, n. 1216; IV 27.10.2009, n. 6572), essendo, peraltro, del tutto irrilevante che sia decorso il termine decennale previsto dall’art. 28 della legge Urbanistica n. 1150 del 1942, atteso che detto termine riguarda gli interventi edilizi autorizzati dal piano di lottizzazione ma non riguarda la disciplina del territorio e la destinazione delle aree, che rimane inalterata fino all’intervento di un nuovo atto di pianificazione (in terminis, Cons. Stato, IV, 353 del 2013; 2045 del 2012; VI, n. 305 del 2012; IV, 27.10.2009, n. 6572)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 24.11.2015 n. 13283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condizione imprescindibile per l’applicabilità dell’istituto di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 è la sussistenza della cosiddetta “doppia conformità”: l’opera eseguita deve essere, cioè, conforme sia alle norme vigenti al momento della sua realizzazione, sia a quelle vigenti alla presentazione della domanda.
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Vale, tuttavia, precisare che, ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 06.06.2001 n. 380 “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso … il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Condizione imprescindibile per l’applicabilità dell’istituto in questione, dunque, è la sussistenza della cosiddetta “doppia conformità”: l’opera eseguita deve essere, cioè, conforme sia alle norme vigenti al momento della sua realizzazione, sia a quelle vigenti alla presentazione della domanda.
Pur dando atto della sussistenza di diversi orientamenti giurisprudenziali, ritiene, infatti, il Collegio di aderire alla scelta ermeneutica più rigorosa, deponendo in tale senso la stessa lettera della norma, come sopra specificato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.04.2006 n. 2306; Sez. V, 25.02.2009 n. 1126; Sez. IV, 02.11.2009 n. 6784; TAR Reggio Calabria, n. 861 del 2015; TAR Lombardia, Brescia 23.06.2003 n. 870; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.06.2006 n. 1352; TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 15.01.2004 n. 16; TAR Emilia-Romagna, Parma 13.12.2007 n. 620; TAR Piemonte, Sez. I, 18.10.2004 n. 2506; 20.04.2005 n. 1094; TAR Liguria, Sez. I, 23.02.2007 n. 364; TAR Catania, Sez. I, 09.01.2009 n. 5; TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 07.05.2008 n. 3501; Sez. VI, 04.08.2008 n. 9723 e Sez. III 19.11.2008 n. 19875; Cass. pen., Sez. III, 26.04.2007 n. 24451, 21.10.2008 n. 42526, 21.09.2009 n. 36350 e 21.01.2010 n. 9446)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 24.11.2015 n. 13283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn base all'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 “Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti,
è configurata una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre “la destinazione a scopo edificatorio”, mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. “materiale”, o anche solo “negoziale” e tali da giustificare l’adozione di severe misure repressive (art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, “ove non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva –figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive)– non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca casistica giurisprudenziale,
una lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di complessi ad uso commerciale o direzionale– previa suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento –programmato o in corso di realizzazione– ma alle finalità ed alle conseguenze dello stesso, in termini di “peso insediativo” sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici.
La norma di riferimento, sopra riportata
, per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di un’ampia porzione di territorio (“di terreni”), non esclude in sé che la lottizzazione possa avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in una situazione, che rende oggettivamente più difficile la configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001.
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Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed assorbenti, nel caso di specie, le censure riferite ad omessa puntuale individuazione dei presupposti della lottizzazione abusiva, quali desumibili dal citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla citata norma “
Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti,
è configurata una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre “la destinazione a scopo edificatorio”, mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. “materiale”, o anche solo “negoziale” e tali da giustificare l’adozione di severe misure repressive (art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, “ove non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva –figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive)– non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca casistica giurisprudenziale,
una lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di complessi ad uso commerciale o direzionale– previa suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento –programmato o in corso di realizzazione– ma alle finalità ed alle conseguenze dello stesso, in termini di “peso insediativo” sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici (cfr. in senso sostanzialmente conforme, tra le tante, Cons. Stato, VI, 29.01.2015, n. 410; 07.08.2015, n. 3911, 26.05.2015, n. 2649).
La norma di riferimento, sopra riportata, per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di un’ampia porzione di territorio (“di terreni”), non esclude in sé che la lottizzazione possa avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in una situazione, che rende oggettivamente più difficile la configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nella situazione in esame non è contestata la preesistenza di due immobili, su cui risulta effettuata una ristrutturazione con mutamento di destinazione d’uso, con nuove opere di urbanizzazione che appaiono, tuttavia, limitate alla realizzazione di parcheggi (oltre all’ammodernamento di altre infrastrutture già esistenti), in un contesto che già sotto tale profilo non avalla, con la necessaria consistenza di elementi indiziari, l’ipotesi lottizzatoria, non emergendo la finalità caratteristica di sottoporre a nuova edificazione terreni non urbanizzati, corrispondenti a porzioni di un certo rilievo del territorio.
La stessa Amministrazione, con la prima ordinanza di sospensione dei lavori n. 396 del 05.05.2009, preannunciava ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 (comunicazione di avvio del procedimento) l’adozione di “provvedimenti sanzionatori” e –non senza intrinseca contraddittorietà– ingiungeva la demolizione di quanto realizzato, senza però contestare la lottizzazione. Il giudice di primo grado interpretava quindi l’atto in questione come mero ordine di sospensione dei lavori, ormai privo di efficacia.
La misura tipica, di cui all’art. 30 del T.U., veniva quindi emessa con l’impugnata ordinanza n. 30 del 25.01.2010, cui faceva seguito la mera ricognizione di intervenuta acquisizione dell’area, con atto n. 36057 del 24.06.2010.
Nella citata ordinanza n. 30 del 2010, in particolare, appaiono recepite le conseguenze di un’ipotesi di reato (lottizzazione abusiva) emersa in sede penale, ma che in via amministrativa non appare suffragata da nuovi accertamenti, in quanto la descrizione dell’intervento coincide con quella, già in precedenza formulata per la sospensione dei lavori.
Non modifica sostanzialmente tale stato di fatto la generica enunciazione secondo cui –sulla base di non meglio precisati “approfondimenti e valutazioni tecniche”– le opere realizzate sarebbero apparse “riconducibili ad opere di urbanizzazione che per la loro entità, o, in altri termini, per le loro caratteristiche dimensionali e funzionali” avrebbero comportato “uno stravolgimento dei luoghi, finalizzato allo svolgimento di attività incompatibili con la normativa vigente”; tali opere pertanto, “nella loro complessità”, avrebbero determinato una “trasformazione edilizia ed urbanistica tale, da configurare una lottizzazione abusiva”.
La motivazione così sintetizzata, in effetti, appare in buona parte tautologica e tale da non evidenziare i concreti elementi in base ai quali le edificazioni preesistenti, con l’aggiunta di parcheggi e nella nuova dimensione direzionale, avrebbero tanto profondamente modificato l’assetto del territorio da essere equiparabili all’introduzione di un nuovo insediamento in area non ancora urbanizzata (come avrebbe potuto ritenersi, ad esempio, in presenza di un centro direzionale o commerciale di consistenti dimensioni, realizzato in località inedificata, o interessata in precedenza da sporadiche costruzioni rurali, con esigenze infrastrutturali del tutto diverse).
Molto meno incisiva, rispetto a quella in astratto descritta, è la situazione sottoposta a giudizio, in cui non è contestato che i fabbricati, resi oggetto di mutamento di destinazione d’uso, fossero già in precedenza estranei all’uso agricolo dei terreni, così come non è contestato che gli stessi non siano stati radicalmente trasformati, rispetto all’originaria consistenza e che fossero già serviti –tranne per quanto riguarda i parcheggi– da opere di urbanizzazione primaria.
In tale contesto –pur restando salvi i provvedimenti che l’Amministrazione è tenuta ad adottare, in presenza di opere edilizie sprovviste dei necessari titoli abilitativi e non assentibili– il Collegio ritiene che non siano stati adeguatamente rappresentati i presupposti della lottizzazione abusiva, con conseguente illegittimità dei provvedimenti impugnati e con assorbimento di ogni ulteriore motivo di gravame.
L’appello può dunque essere accolto, con le conseguenze precisate in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.11.2015 n. 5328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'autorizzazione paesaggistica costituisce “atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” (art. 146, comma 4, del Codice per i beni culturali e paesaggistici): il parametro normativo di riferimento per la valutazione della Soprintendenza non va quindi individuato nella disciplina urbanistico-edilizia, ma nella specifica disciplina del vincolo paesistico, contenuta nel provvedimento impositivo o, come nella specie, nella normativa dettata con il piano paesistico.
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Il potere dell’Autorità competente alla tutela del vincolo paesistico di esprimere il giudizio in ordine alla compatibilità di un intervento rispetto al vincolo medesimo è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità.
Di conseguenza, l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela –da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.– “è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile”

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3. – I motivi d’appello, tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, sono infondati.
3.a - Come rilevato dalla sentenza impugnata, l’apprezzamento della Soprintendenza –proprio perché formulato in relazione alle prescrizioni del piano paesistico– risulta condotto alla stregua del corretto parametro normativo di riferimento.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce infatti “atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” (art. 146, comma 4, del Codice per i beni culturali e paesaggistici): il parametro normativo di riferimento per la valutazione della Soprintendenza non va quindi individuato nella disciplina urbanistico-edilizia, ma nella specifica disciplina del vincolo paesistico, contenuta nel provvedimento impositivo o, come nella specie, nella normativa dettata con il piano paesistico.
3.b - Quanto invece alla sindacabilità -da parte del giudice amministrativo- delle valutazioni espresse con tale parere, la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che il potere dell’Autorità competente alla tutela del vincolo paesistico di esprimere il giudizio in ordine alla compatibilità di un intervento rispetto al vincolo medesimo è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità.
Di conseguenza, ritiene la giurisprudenza, l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela –da esercitarsi, come si sottolinea nella sentenza impugnata, in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.– “è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile” (Cons. Stato, VI, 14.10.2015, n. 4747; della medesima Sezione, ex plurimis, 02.03.2015, n. 1000; 03.07.2014, n. 3360; 22.04.2014, n. 2019; 01.04.2014, n. 1557).
Con riguardo alla specie, il giudizio espresso dalla Soprintendenza in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento non mette in luce profili di incoerenza e di illogicità di tale evidenza da far emergere l’inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta, ma risulta congruo rispetto ai parametri di discrezionalità tecnica cui deve presiedere una valutazione paesaggistica (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.11.2015 n. 5327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROIl sindaco omette l’ordinanza? Rischia l’omicidio colposo. Cassazione. Le conseguenze dell’incidente nella zona di un cantiere.
Il sindaco che non firma un’ordinanza urgente per chiudere ai cittadini una zona interessata da lavori pubblici può essere condannato per omicidio colposo, oltre che per lesioni e omissione di atti d’ufficio, se capita un incidente. E se l’incidente si rivela mortale per più persone, la pena può arrivare a 15 anni di carcere, come prevede l’articolo 589 del Codice penale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, che nella sentenza 23.11.2015 n. 46400 ha scritto un altro capitolo nella complicata vicenda giudiziaria nata dalla «tragedia del 1° maggio», quando otto anni fa a Sorrento due donne furono uccise dalla caduta del cestello di una gru, mentre alcuni operai addobbavano con le luminarie la chiesa di Sant’Antonino.
La lunga storia giudiziaria ha fatto scattare la prescrizione per le lesioni e l’omissione di atti d’ufficio, mentre la Corte d’appello di Napoli dovrà tornare a occuparsi del caso per rideterminare alla luce di questi sviluppi la pena applicata all’omicidio colposo.
Al di là del caso sorrentino, sono i princìpi generali indicati dalla Cassazione a fissare il perimetro per l’attività dei sindaci. Anche se la ditta incaricata dei lavori non presenta una richiesta di intervento, resta il fatto che il sindaco «non poteva non essere consapevole» del pericolo creato dal cantiere. In questo caso, il principio è rafforzato dal fatto che l’ufficio del sindaco si trova nella stessa piazza del cantiere. Con questa premessa, scatta l’obbligo di adottare in modo tempestivo tutti gli atti necessari «a tutelare l’incolumità dei cittadini», come prevede l’articolo 54 del Testo unico degli enti locali.
Questo contesto di urgenza, aggiunge la Corte, fa sì che per la legittimità dell’atto occorra solo «l’effettiva esistenza di una situazione di pericolo» e non servono «formule o formalità o procedure sacramentali». Ma non è solo l’ordinanza urgente a tradurre in pratica il dovere del sindaco, che può manifestarsi con qualsiasi «atto idoneo» a evitare il pericolo, allertando la polizia o i vigili del fuoco oppure imponendo misure di sicurezza alla ditta. È l’inerzia, invece, a condannarlo
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2015).
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MASSIMA
9. Quanto al ricorso di Fi.Ma. (proposto con distinti atti di impugnazione dei suoi due difensori) valgono le considerazioni che seguono.
Giova premettere che il Sindaco è a capo della struttura comunale, ne coordina le attività, provvede con ogni mezzo a sua disposizione ad aiutare la propria cittadinanza ad uscire dalle difficoltà dell'emergenza. E' un richiamo assai generico ad una funzione che invece secondo alcuni avrebbe avuto bisogno del conferimento di ampi e ben delineati poteri.
Ai sensi dell'art 54 Decreto Legislativo 18.08.2000 n. 267, c.d. TUEL (nel testo vigente pro tempore) (Attribuzioni del Sindaco nei servizi di competenza statale), il Sindaco, quale ufficiale del Governo, oltre a sovraintendere ad alcune materie che il Comune tratta per conto dello Stato, "adotta, con atto motivato e nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini; per l'esecuzione dei relativi ordini può richiedere al prefetto, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica" (non si parlava di "sicurezza urbana", introdotta nel 2008). Ne consegue che nel potere del Sindaco non sono più ravvisabili le limitazioni per materia (sanità, etc.) già previste dal testo unico del 1915 e dalla legge n. 142 del 1990 (Cons. di Stato Sez. I del 20.02.2002).
Il Sindaco si limita dunque a "sovrintendere" al lavoro dei dipendenti, ed in generale a tutte le attività che oggi sono fondamentalmente assegnate alla struttura comunale e ai responsabili dei servizi; adotta invece (prendendosene in carico tutta la responsabilità civile e penale senza possibilità -se non parziale- di trasferirla su altri soggetti), i provvedimenti contingibili ed urgenti necessari a tutelare l'incolumità dei cittadini.
Orbene, è chiaro come l'attribuzione dei reati di omicidio colposo e lesioni al Fi. sia collegata in buona parte a quello di cui all'art. 328, comma 1, c.p. sub capo c).
Il delitto di omissione di atti d'ufficio è un reato di pericolo la cui previsione sanziona il rifiuto non già di un atto urgente, bensì di un atto dovuto che deve essere compiuto senza ritardo, ossia con tempestività, in modo da conseguire gli effetti che gli sono propri in relazione al bene oggetto di tutela (fattispecie in cui Corte ha ritenuto che legittimamente la decisione impugnata avesse escluso la configurabilità del reato con riferimento alla mancata adozione di un'ordinanza sindacale contingibile e urgente, in relazione al pericolo cagionato ai pedoni e ad un'abitazione da una frana insistente sulla sede stradale, cui si sarebbe potuto ovviare anche con la chiusura della strada ad opera dei Vigili del Fuoco) [Cass. pen. Sez. VI, n. 33857 del 07.05.2014 Rv. 262076].
Inoltre,
ai fini della configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d'ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento "contra ius", senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione.
Infine, è bene precisare che
il rifiuto di un atto d'ufficio si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un'urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell'atto, in modo tale che l'inerzia del pubblico ufficiale assuma, per l'appunto, la valenza del consapevole rifiuto dell'atto medesimo.
Ciò premesso, se è vero che il ricorrente non fu investito della specifica richiesta d'intervento in relazione ai lavori posti in essere dalla ditta Do., di certo egli non poteva non essere consapevole della situazione di effettivo e concreto pericolo per la pubblica incolumità pedonale e veicolare in cui versava l'attività posta in essere dalla ditta Do., avvertita nettamente dalla comunità cittadina e persino dal Vice-Sindaco Fi.Ro. (pag. 26 sent.) sia per il contatto con Di Ma.Ro. il giorno precedente ai fatti e l'eloquente reazione comportamentale avuta dall'imputato a seguito dell'esplicita doglianza rappresentata dalla donna (pag. 27 sent.) in relazione alle modalità dei lavori in questione, sia per l'ubicazione del suo ufficio -ove si recava assiduamente-posto nella Piazza S. Antonino di fronte al luogo del sinistro nelle immediate adiacenze della Basilica. Per non dire degli accertati frequenti contatti tra il sindaco e i Do., anche nella stessa piazza (pag. 27 sent.), in occasione dei quali non potette non rendersi conto delle modalità esecutive dei lavori per le luminarie.
Sicché è innegabile sia la consapevolezza di Fi.Ma. dell'incombente pericolo sia la sua oggettiva inerzia a fronte dell'immediata necessità di prevenire o eliminare il medesimo.
Orbene,
nelle ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi dell'art. 54 c. 2 TUEL, rientra una tipologia di provvedimenti amministrativi aventi un contenuto non previamente determinabile e quindi di atti del tutto atipici ed eccezionali che presuppongono una situazione di estrema gravità dipendente dai fattori più disparati i quali, però, non possono ricondursi solo a fenomeni di dimensioni bibliche (quali terremoti, frane, valanghe, inondazioni, etc.), bensì anche ad eventi più modesti, ma comunque idonei a porre in pericolo l'incolumità di un numero indeterminato di persone.
Né può ritenersi che l'adozione di tali ordinanze presupponga formule o formalità o procedure sacramentali proprio a cagione dell'estrema urgenza che le impone, contando ai fini della legittimità dell'atto precipuamente l'effettiva esistenza di una situazione di pericolo imminente al momento di adozione dell'ordinanza
(Cons. di Stato, n. 125 del 04.02.1998).
Né la presenza in Sorrento del Commissariato di P.S., competente per il rilascio della necessaria autorizzazione (ex art. 110 R.D. n. 635/1949 della quale non risulta, prima della data del fatto, essere mai stata avanzata richiesta: v. pag. 13 sent. di primo grado) per i lavori concernenti le luminarie che doveva effettuare la ditta Do., implicava l'esclusione dalle prerogative del Sindaco della competenza attribuitagli dall'art. 54, c. 2, TUEL sopra richiamato.
Invero,
la sicurezza pubblica non coincide con l'incolumità pubblica, anche se sovente i due termini siano adoperati impropriamente in via cumulativa o alternativa. La prima ha portata certamente più vasta ed attiene ad ogni possibile attentato a qualsiasi bene giuridico o materiale facente capo ai cittadini (è stata definita come "quella funzione che consente agli individui di vivere in tranquillità nella società e di agire in essa per manifestare la loro individualità e per soddisfare i loro interessi"), mentre la seconda si riferisce esclusivamente alla preservazione delle condizioni fisiche degli stessi (ovvero anche dell'integrità fisica della popolazione).
Sicché sotto tale profilo
è innegabile che il Sindaco, al quale il capo d'imputazione ascrive espressamente anche la mancanza di diligenza e, quindi, la colpa generica, dovesse comunque attivarsi, quale massimo rappresentante dell'Ente Comunale e della collettività cittadina, non solo e non necessariamente con l'adozione di un'ordinanza ad hoc bensì con qualsiasi altro atto amministrativo o comportamentale (allertamento delle Forze dell'ordine, dei Vigili del Fuoco o della stessa Polizia municipale che da lui dipende, imposizione alla ditta Do. delle opportune e palesemente omesse cautele) idoneo a prevenire il pericolo per la pubblica incolumità e gl'infortuni sul lavoro, con adozione di ogni mezzo appropriato (almeno transennando la zona ed impedendo il traffico pedonale e veicolare in prossimità ed, ancor più, nello spazio sottostante la piattaforma mobile).
Si deve, infine, rammentare che
non è mai deducibile in sede di legittimità la questione relativa alla pretesa eccessività della somma di denaro liquidata a titolo di provvisionale e comunque il provvedimento di liquidazione della provvisionale (Cass. pen. Sez. IV, n. 24791 del 23.06.2010, Rv. 248348; Sez. H n. 36536 del 20.06.2003, Rv. 226454).
Se, dunque, in merito al reato sub a) deve ritenersi l'infondatezza dei ricorsi presentati nell'interesse del Fiorentino, si deve al contempo, ai sensi dell'art. 129, 1° comma c.p.p. rilevare che i reati di cui agli artt. 590 c.p. (capo b) e 328 c.p. (capo c) ascritti al Fi. sono rimasti estinti per l'intervenuto decorso del termine prescrizionale all'11.5.2014, in assenza di periodi di sospensione per una durata utile alla data odierna e di cause di inammissibilità, né risultando gli estremi evidenti per l'assoluzione di merito ai sensi dell'art. 129, 2° comma, c.p.p..
10. Consegue, nei confronti di Fi.Ma., l'annullamento della sentenza impugnata relativamente al reato di cui al capo b) perché estinto per prescrizione con rinvio per la determinazione ed eliminazione della relativa pena applicata ex art. 589, ultimo comma, c.p., ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli. La sentenza impugnata dev'essere, invece, annullata senza rinvio in ordine al reato di cui al capo c) perché estinto per prescrizione con eliminazione della relativa pena di mesi quattro di reclusione.
Residua il rigetto del ricorso di Fi.Ma. nel resto.
11. Quanto al ricorso del responsabile civile Comune di Sorrento, dalla lettura del decreto di citazione a giudizio notificato si rileva la sua sostanziale completezza e correttezza essendo stati trascritti a sufficienza nel corpo di esso gli elementi relativi all'allegato di cui si lamenta la mancanza e non rilevandosi peculiari violazioni previste dall'art. 83 c.p.p..
Ma, in ogni caso, la pretesa nullità della citazione dovrebbe comunque ritenersi sanata dalla comparizione e costituzione in primo grado del responsabile civile Comune di Sorrento ai sensi dell'art. 184 c.p.p. trattandosi di nullità a regime intermedio e non risultando che la relativa eccezione sia stata sollevata se non in sede di discussione del giudizio di primo grado, tramite la memoria all'uopo depositata.
Inoltre,
non può escludersi la responsabilità solidale del Comune di Sorrento in relazione alla residuata posizione del Sindaco.
Questi, oltre che essere imputato quale Ufficiale del Governo, rappresenta in ogni caso anche, e soprattutto, l'organo di vertice dell'amministrazione Comunale ed in tale veste ha omesso di attivarsi tempestivamente ed adeguatamente per scongiurare l'incombente e visibile pericolo per la pubblica incolumità.

Del resto, non va sottaciuto che "Le questioni concernenti l'eventuale esclusione della parte civile o l'ammissibilità della citazione del responsabile civile, che già siano state poste e risolte nel giudizio di primo grado, non possono essere oggetto di mera riproposizione nel processo di appello, dovendosi considerare in tal caso irrevocabili le deliberazioni adottate in argomento nella fase antecedente di giudizio" (Cass. pen. Sez. IV, n. 7291 del 21.11.2002, Rv. 225727): a fortiori, deve aggiungersi, non può esserne consentita l'ulteriore riproposizione in sede di legittimità.

CONDOMINIOAmministratore condannato per l’«inerzia». Manutenzione. Reato di lesioni colpose.
L’amministratore è «garante» per il condominio. E risponde di lesioni colpose se non si è attivato per prevenire un pericolo anche se non ha il via libera dell’assemblea e non dispone di fondi.

La Corte di Cassazione - Sez. IV penale, con la sentenza 23.11.2015 n. 46385, ricorda che l’amministratore riveste una posizione di garanzia in virtù della quale risponde anche penalmente per le conseguenze delle sue omissioni.
Partendo da questo principio la Suprema corte, respinge il ricorso di un amministratore condannato per lesioni colpose (articolo 590 del Codice penale) a causa delle ferite riportate da un bambino colpito dai calcinacci. Una responsabilità che il ricorrente ritiene di non avere perché non era mai stato messo al corrente di un concreto pericolo di crollo, le assemblee da lui convocate andavano regolarmente deserte e, per finire, le casse erano vuote perché la maggior parte dei condomini era morosa.
Nessuna giustificazione è però utile a salvarlo dalla condanna. La Cassazione si allinea alle conclusioni della Corte di merito e ricorda che l’amministratore ha l’obbligo di rimuovere le situazioni che mettono a rischio l’incolumità di terzi, eventualità che, nel caso esaminato, era insita nello stato del rivestimento dell’edificio. Un dovere di controllo sulla parti comuni dell’edificio che esiste anche al di fuori degli atti cautelativi e urgenti e che è non subordinato a un preventivo ok dell’assemblea o all’esistenza di una segnalazione di pericolo (articolo 1130, n. 4, del Codice civile).
Per quanto riguarda invece le opere di manutenzione straordinaria, che rivestono il carattere d’urgenza, l’amministratore ha la facoltà di intervenire informando l’assemblea in un secondo momento (articolo 1135 del Codice civile ultimo comma). Nel caso esaminato l’intervento di manutenzione doveva essere considerato urgente anche a tutela dell’incolumità dei passanti. I giudici sottolineano che non impedire un evento, per chi ha l’obbligo giuridico di farlo, equivale a cagionarlo (articolo 40, comma 2, del Codice penale).
È la situazione in cui si è venuto a trovare l’amministratore condannato, titolare dell’obbligo di garanzia attribuito dalle norme civilistiche e gli obblighi di compiere atti di manutenzione e gestione sulle cose comuni e di atti di amministrazione straordinaria anche senza il sì dell’assemblea. Né la cassa vuota e la morosità dei condòmini può essere considerata una scusante per l’inerzia.
Eliminare il pericolo, precisano i giudici, non vuol dire necessariamente far eseguire interventi di manutenzione, ma anche semplicemente seguire la strada della prevenzione adottando delle cautele. L’amministratore avrebbe, infatti, evitato la condanna se avesse provveduto a far transennare la zona o a far rimuovere le mattonelle che rischiavano di cadere
 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGONell’ambito del rapporto di pubblico impiego, rilevano, ai fini della configurabilità dell’esercizio di mansioni superiori e della loro rilevanza ai fini retributivi, quali presupposti imprescindibili, lo svolgimento di fatto, in modo continuativo e prevalente di funzioni rientranti nella qualifica superiore, il conferimento mediante atto formale delle mansioni stesse, l’esistenza di un posto che risulti vacante nel relativo organico.
Viene impugnata la sentenza n. 1037/2009 del Tar per la Calabria, sede di Catanzaro, con la quale si rigetta la domanda volta ad ottenere il riconoscimento formale delle mansioni superiori svolte e delle connesse differenze retributive per il periodo 01.02.1993 al 12.11.1996.
Sostiene la ricorrente che il Tar non avrebbe tenuto conto degli atti esistenti a fascicolo, comprovanti la sua assegnazione alla qualifica superiore di capo-sala, rispetto a quella giuridicamente ed economicamente rivestita di infermiera professionale.
Cita l’interessata tra i vari documenti:
• una comunicazione del Primario del Pronto Soccorso del presidio Ospedaliero dell’Ospedale di Paola, nella quale si afferma che la dipendente rivestirà le mansioni superiori di Capo-Sala presso il locale Pronto Soccorso;.
• una turnazione settimanale, riguardante il personale paramedico nella quale la ricorrente è sempre menzionata come capo-sala;
• un verbale d’intesa tra la Direzione Sanitaria e le OO.SS. del Presidio Ospedaliero del 06.06.1994 in cui si chiede al Coordinatore Sanitario la revoca delle funzioni di capo-sala;
• una comunicazione datata 29.06.1995 in cui il Primario disponeva il rientro dalle ferie della capo-sala Ri.Fr..
Dal che si evincerebbe in modo inequivocabile, secondo l’appellante, l’attribuzione in modo stabile alla medesima delle mansioni superiori.
Erroneamente poi il Tar avrebbe affermato l’insussistenza presso il citato Pronto Soccorso di posti vacanti di capo-sala, in quanto l’Azienda Sanitaria nella nota 09.02.2009 dichiarava risultante nella P.O. definitiva l’esistenza di un posto di “collaboratore professionale sanitario esperto” che corrisponde alla vecchia figura di capo-sala.
Si osserva al riguardo che ai fini della configurabilità dell’esercizio di mansioni superiori e della loro rilevanza ai fini retributivi, costituiscono presupposti imprescindibili: lo svolgimento di fatto, in modo continuativo e prevalente di funzioni rientranti nella qualifica superiore, il conferimento mediante atto formale delle mansioni stesse, l’esistenza di un posto che risulti vacante nel relativo organico.
Ora, a prescindere dalla valenza probatoria della documentazione prodotta dalla ricorrente circa l’effettivo svolgimento delle mansioni superiori, appare evidente l’insussistenza delle ulteriori condizioni e cioè: un atto formale di conferimento dell’incarico e il posto vacante in organico.
Quanto al primo aspetto, sia dagli accertamenti istruttori sia dalla documentazione versata in atti, non è emerso alcun provvedimento formale di assegnazione della ricorrente alle superiori mansioni.
Quanto al secondo punto si rileva dall’istruttoria che all’epoca dei fatti non risultavano in organico posti vacanti con funzioni di capo-sala.
Consegue a quanto detto l’infondatezza dell’appello con conseguente conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 23.11.2015 n. 5303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Comune vieta impianti troppo tecnologici nel traffico.
Il TAR ha negato l'autorizzazione all'installazione di monitor giganti predisposti alla riproduzione di immagini pubblicitarie in alta definizione sui palazzi delle strade del centro abitato cittadino. Si rischia infatti di interferire con la sicurezza della circolazione stradale creando distrazione agli automobilisti ed ai pedoni.

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... per l'annullamento del provvedimento p.g. 163393/2015 in data 18.03.2015, di rigetto della domanda di autorizzazione all'installazione di 2 impianti di riproduzione e/o trasmissione immagini da posizionare su parete in Milano, Corso Buenos Ayres n. 92;
...

Con ricorso depositato in data 21.04.2015 Town Group S.r.l. ha impugnato, chiedendone la sospensione in via incidentale, il diniego all’installazione di due impianti pubblicitari di riproduzione e/o trasmissione di immagini deducendone l’illegittimità sotto plurimi profili.
In particolare, Town group s.r.l. ha evidenziato la violazione della Delibera della Giunta comunale n. 1187 del 06.06.2014, secondo la quale il parere viabilistico della Polizia locale dovrebbe essere richiesto solo in caso di impianti di trasmissione dinamica continua; ha censurato altresì la violazione dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, avendo il comune convenuto respinto la sua istanza in base a motivazione diversa da quella contenuta nel preavviso di rigetto, e l’errata applicazione dell’art. 23 del d.lgs. n. 285/1992.
Sotto quest’ultimo profilo, la società ricorrente ha evidenziato che il parere negativo della polizia locale al quale il provvedimento di diniego aveva sostanzialmente rinviato per relationem, avrebbe di fatto travisato i presupposti di legge necessari per la legittima collocazione di impianti pubblicitari.
Town Group ha infine dedotto un profilo di disparità di trattamento per contraddittorietà esterna nel diniego impugnato.
Si è costituito il comune, che ha chiesto la reiezione del ricorso, e la causa è stata trattenuta in decisione, dopo la fissazione del merito ex art. 55, comma 10 c.p.a., alla pubblica udienza del 04.11.2015.
Il ricorso è da respingere, per quanto di ragione.
Quanto ai primo due motivi, il Collegio ritiene che essi siano palesemente infondati, sulla base delle seguenti considerazioni:
- la Delibera della Giunta comunale n. 1187 del 06.06.2014 non ha escluso la possibilità per il comune di richiedere il parere di viabilità alla polizia locale per qualsiasi ipotesi di nuova installazione di impianti di riproduzione o trasmissioni immagini, stante il disposto di cui all’art. 23 del Codice della Strada;
- l’art. 10-bis della legge sul procedimento amministrativo è stato rispettato, in quanto il secondo parere chiesto alla polizia locale ha semplicemente confermato, con una motivazione meno criptica, quanto già espresso nel primo parere, sul quale la società ricorrente era stata messa in grado di interloquire con la precedente comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Altresì chiaramente infondato è l’ultimo motivo di ricorso, basato su una presunta disparità di trattamento da parte dell’amministrazione comunale, in relazione alla quale però non sono stati forniti elementi di prova sufficienti o comunque sintomatici del vizio rilevato da parte della ricorrente, ferma restando la necessità ineludibile per l’amministrazione di rispettare le norme regolatrici della materia, con conseguente eventuale necessità di revoca futura delle autorizzazioni illegittime concesse, e non, al contrario, automatico rilascio di nuove autorizzazioni a loro volta illegittime.
Venendo al nucleo fondamentale e sostanziale delle censure svolte da Town Group (violazione dell’art. 23, comma 1 del codice della strada, oltre che dell’art. 8 del regolamento comunale sulla pubblicità), è possibile formulare le seguenti osservazioni.
La società ricorrente sostiene che il parere viabilistico della polizia locale non avrebbe esplicitato il percorso logico-valutativo che ha condotto alla conclusione negativa, non risultando comprensibile, secondo la deduzione di parte, se ed in quali termini fossero stati valutati quei parametri (dimensioni, forma, colori, disegni e ubicazione) che soltanto potrebbero determinare il divieto di collocazione di impianti pubblicitari.
Il Collegio osserva che, nel provvedimento impugnato, il comune resistente ha rilevato il contrasto con le norme sopra citate (art. 23 del Cds e art. 8 del regolamento), in quanto “le posizioni degli impianti a parete proposti sull’immobile di Corso Buenos Aires 92 (…) sarebbero collocati in prossimità di uno dei nodi più complessi e trafficati della città. La posizione degli impianti potrebbe distrarre l’attenzione dell’utenza veicolare e pedonale con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione (…)”.
La motivazione risulta congrua e fondata, in relazione alle norme cui rimanda.
In particolare, l’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 285/1992 stabilisce che “lungo le strade o in vista di esse è vietato collocare insegne, cartelli, manifesti, impianti di pubblicità o propaganda, segni orizzontali reclamistici, sorgenti luminose, visibili dai veicoli transitanti sulle strade, che per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione (…) arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l'attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione”.
Non vi è dubbio che il comune, nel pervenire al suo diniego, abbia valutato sia la posizione (ubicazione) dei cartelli da autorizzare sia l’effetto visivo sugli utenti della strada.
Si tratta di valutazione tecnico-discrezionale che può essere sindacata soltanto per manifesta illogicità o travisamento dei presupposti di fatto; nel caso di specie, non ricorrono né l’una né l’altra ipotesi, essendo pacifica tra le parti l’ubicazione dei cartelli rispetto alla strada e la particolare complessità di traffico pedonale e veicolare della zona in cui avrebbero dovuto essere installati. Tale complessità comporta la deduzione logica di un potenziale pericolo da “distrazione” per la circolazione stradale.
Come già in altre occasioni ribadito, infatti, il bene primario protetto dalla norma del Cds è quello della sicurezza stradale, che deve essere tutelato da lesioni anche solo astrattamente ipotizzabili (si veda, tra le altre, sent. n. 1395/2013 emessa dalla Sezione).
Di conseguenza, il provvedimento è legittimo anche sotto questo profilo (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.11.2015 n. 2454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAChi può impugnare il permesso di costruire?
Impugnare il permesso di costruire: il Consiglio di Stato chiarisce che oltre al proprietario confinante può farlo anche un operatore economico che risulti realmente danneggiato.

Il Consiglio di Stato con la sentenza 19.11.2015 n. 5278 fornisce ulteriori indicazioni su chi è legittimato a impugnare il permesso di costruire e sul concetto di “vicinitas” .
Nel caso in esame, il titolare di una struttura alberghiera impugna il permesso di costruire con cui una società aveva ottenuto l’autorizzazione a riqualificare un vicino complesso industriale dismesso, attraverso la demolizione e realizzazione di 3 nuovi edifici, uno dei quali destinato ad uso turistico-alberghiero.
Ritenendo detto permesso illegittimo e soprattutto lesivo dei propri interessi (la costruzione di un nuovo albergo nelle vicinanze lo avrebbe danneggiato), il titolare dell’attività avanza ricorso al Tar Abruzzo chiedendo l’annullamento del titolo edilizio.
Sia il Comune che parte resistente sostengono, tra le altre cose, l’illegittimità a procedere da parte del ricorrente.
Il Tar, respingendo le eccezioni sollevate dal Comune e dalla società titolare del permesso di costruire, accoglie il ricorso e annulla il permesso di costruire.
La società resistente e il Comune ricorrono a loro volta al Consiglio di Stato che accoglie il ricorso.
Il Consiglio di Stato si sofferma sulla nozione di “vicinitas”: ad impugnare il permesso di costruire può essere il proprietario di un immobile confinante, adiacente o prospiciente su quell’oggetto dell’intervento assentito oppure da altri soggetti che si trovano in una situazione di “stabile collegamento” con la zona.
Nel corso degli anni il concetto di “vicinitas” si è via via affinato, fino a riconoscere una più ampia platea di soggetti abilitati al ricorso: anche agli operatori economici è consentito far ricorso contro un permesso di costruire cui è correlata un’autorizzazione commerciale, a condizione che siano in grado di dimostrare che l’intervento autorizzato comporterebbe una lesione dei loro diritti.
L’impugnazione del permesso di costruire non deve essere un modo per ostacolare la concorrenza e la libertà di stabilimento e deve essere supportata da valide motivazioni da valutare caso per caso.
Se il nuovo insediamento commerciale serve in tutto o in parte lo stesso bacino di clientela circoscrivibile in un determinato ambito spaziale, può rappresentare un danno per l’operatore alberghiero già presente; se, invece, il bacino di clientela non è facilmente determinabile, il ricorso deve essere considerato come un tentativo di porre limiti alla libera concorrenza.
Nel caso in esame, quindi, in base a una serie di considerazioni, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso e conferma la validità del permesso di costruire (commento tratto da www.acca.it).
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MASSIMA
3. Osserva in via preliminare il collegio, in coerenza con la costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo e per tutte Ad. Plen. 25.02.2014 n. 9), come l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo sia soggetta a tre condizioni fondamentali: il c.d. titolo o possibilità giuridica dell'azione (cioè la posizione giuridica configurabile in astratto da una norma come di interesse legittimo, ovvero come altri dice la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all'esercizio del potere amministrativo) ; l'interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c.) ; la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva, discendente dall'affermazione di colui che agisce in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo) .
Tutte le condizioni dell'azione giudiziale anzidette, quindi, devono necessariamente sussistere anche nel caso di impugnativa di titoli edilizi.
Infatti,
è ormai ius receptum come l'art. 10 della legge n. 765 del 1967 (che ha novellato in parte qua l'art. 31, comma 9, della legge n. 1150 del 1942) non abbia introdotto un'azione popolare (che consentirebbe a qualsiasi cittadino di impugnare il provvedimento che prevede la realizzazione di un'opera per far valere comunque l'osservanza delle prescrizioni che regolano l'edificazione), ma abbia più semplicemente voluto riconoscere una posizione qualificata e differenziata in favore di chi si trovi in una specifica situazione giuridico-fattuale rispetto all'intervento edilizio assentito, per cui il provvedimento impugnato venga oggettivamente ad incidere la sua posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e attuale.
E tale assunto, giova evidenziarlo, risulta in oggi ancora più corroborato a seguito dell'intervenuta abrogazione del richiamato art. 31 della legge n. 1150/1942, ad opera dell'art. 136, comma 1, lettera a), del Testo Unico dell'Edilizia.
3.1. Così la giurisprudenza amministrativa ha elaborato al riguardo la nozione di vicinitas riconoscendo, in linea di principio, la legittimazione a contestare in sede giurisdizionale i titoli edilizi, solo a chi sia titolare di immobili nella zona in cui è stata assentita l'edificazione e a coloro che si trovino in una situazione di “stabile collegamento” con la stessa.
La richiamata nozione di vicinitas, peraltro, è stata nel tempo affinata e più adeguatamente specificata nella sua concreta portata attraverso significativi e sostanziali correttivi .
Da un lato, infatti, dopo le prime pronunce tendenti a circoscrivere la legittimazione ad agire ai soli proprietari frontisti, si è progressivamente estesa la platea dei soggetti abilitati al ricorso, riconoscendo un più ampio interesse di zona con riguardo, altresì, alla posizione degli operatori economici che intendano contrastare un titolo edilizio a cui si accompagni una contestuale autorizzazione di natura commerciale.
Dall'altro lato, però, si è sempre più avuto modo di precisare come il semplice dato materiale della vicinitas, non sempre costituisca oggettivo ed incontrovertibile elemento di individuazione della legittimazione e dell'interesse ad agire, dovendosi comprovare il reale pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale misura il provvedimento impugnato incida la posizione sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale.
Infatti, una diversa posizione che non tenga conto di una più attenta e oculata disamina della situazione dedotta in causa, al di là della rappresentazione formulata dal ricorrente, finirebbe per avallare una inammissibile sorta di azione popolare nei confronti dell'operato dell'amministrazione, per conseguire l'annullamento di ogni provvedimento che consenta interventi non graditi da parte dei vicini.
3.2.
Allo stato attuale, quindi, va osservato come la nozione di vicinitas vada diversamente apprezzata, quanto meno con riguardo alla circostanza per cui :
a) ad impugnare il permesso di costruire sia o meno il titolare di un immobile confinante, adiacente o prospiciente su quello oggetto dell'intervento assentito;
b) ad impugnare il permesso di costruire cui è correlata un'autorizzazione commerciale, sia un operatore economico.

3.3. Invero, nel caso di cui alla lettera a) che precede, la giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte precisato con un indirizzo assolutamente prevalente che, ai fini della legittimazione a impugnare un titolo edilizio da parte del proprietario confinante (o di chi si trovi in una posizione analoga), è sufficiente la semplice vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in linea di principio la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore.
Tale pregiudizio, infatti, deve ragionevolmente ritenersi sussistente “in re ipsa in quanto consegue necessariamente dalla maggiore tropizzazzione (traffico, rumore), dalla minore qualità panoramica, ambientale, paesaggistica e dalla possibile diminuzione di valore dell'immobile” ( cfr. da ultimo e per tutte Cons. Stat. Sez IV, 22.09.2014 n. 4764 ed i richiami giurisprudenziali ivi operati) .
Diversamente,
nel caso in cui ad impugnare il titolo edilizio non sia il proprietario confinante (o un soggetto che si trovi in posizione analoga) la medesima giurisprudenza, ed in particolare quella di questa Sezione che il collegio pienamente condivide, ha precisato con indirizzo pressoché univoco che il mero criterio della vicinitas riguardato in senso solo materiale non può di per sé radicare la legittimazione al ricorso giurisdizionale “prescindendo dal generale principio dell'interesse ad agire in relazione alla lesione concreta, attuale e immediata della posizione sostanziale dell'interessato…….., presupponendo altresì la detta legittimazione la specificazione, con riferimento alla situazione concreta e fattuale del come, del perché ed in quale misura il provvedimento impugnato si rifletta sulla propria posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale (Sez. IV 5.11.2004 n. 7245; 17.09.2012 n. 4924; 27.01.2012 n. 420; 30.11.2010 n. 8364; 04.12.2007 n. 6157) .
Ed al riguardo è stato aggiunto “
che la sussistenza dell'interesse ad agire deve essere valutata in astratto, con riferimento al contenuto della domanda, e non secundum eventum litis, e che requisiti imprescindibili per la configurazione di questa condizione dell'azione sono il suo carattere personale, la sua attualità e la sua concretezza…… per cui la lesione arrecata dal provvedimento impugnato deve essere effettiva, nel senso che dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta un danno certo alla sfera giuridica della ricorrente,ovvero potenziale, intendendosi come tale, però, quello che sicuramente (o molto probabilmente) si verificherà in futuro” (Sez. IV 30.11.2010 n. 8364) .
Infatti, ”
al fine di evitare il proliferare di ricorsi non effettivamente rispondenti al principio della tutela di un interesse qualificato……… in concreto devono ritenersi titolati alla impugnativa solo i soggetti che possono lamentare una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso……. in termini, ad esempio, di deprezzamento del valore del bene o di concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente” (Sez. IV 17.09.2012 n. 4924) .
Ed in questo senso, la giurisprudenza della Sezione ha avuto modo di precisare ulteriormente che
mentre la comprovata vicinitas è elemento sufficiente a legittimare l’impugnativa di un titolo edilizio da parte del proprietario confinante, non può viceversa “ambire alla stessa tutela il proprietario confinante con l'edificio a sua volta confinante con quello oggetto di intervento edilizio, in quanto ciò determinerebbe una vera e propria sostituzione processuale, in violazione dell'articolo 181 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere in giudizio in nome proprio un editto altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge (Sez. IV 01.07.2013 n. 3543) .
3.4. Nel caso in cui ad impugnare il permesso di costruire correlato ad una autorizzazione commerciale sia un operatore economico, il requisito della vicinitas ha poi subito una peculiare elaborazione da parte della giurisprudenza di questo Consiglio .
In particolare
il criterio dello stabile “collegamento territoriale” che deve legare il ricorrente all'area di operatività del controinteressato per poterne qualificare la posizione processuale e conseguentemente il diritto di azione, deve essere riguardato in un'ottica più ampia rispetto a quella usuale.
Così il concetto di vicinitas nella contestazione di una struttura commerciale, “si specifica identificandosi nella nozione di stesso bacino d'utenza della concorrente, tale potendo essere ritenuto anche con un raggio di decine di chilometri (cfr. tra le tante Cons. St. Sez. IV 12.09.2007 n. 4821; 20.11.2007 n. 6613) .
Pertanto,
nell'ipotesi in cui ad impugnare il permesso di costruire sia il titolare di una struttura di vendita, affinché il suo interesse processuale possa qualificarsi personale, attuale e diretto, deve potersi ravvisare la coincidenza, totale o quanto meno parziale, del bacino di clientela, tale da poter oggettivamente determinare un'apprezzabile calo del volume d'affari del ricorrente.
In sostanza,
l'insediamento commerciale realizzato ex novo nella zona può considerarsi pregiudizievole e radicare un interesse tutelabile, quando venga a servire oggettivamente in tutto o in parte uno stesso bacino di clientela, oggettivamente circoscrivibile in un determinato ambito spaziale.
Così,
la legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di stabilimento.
E ciò in coerenza con la funzione svolta dalle condizioni dell'azione nei processi di parte, innervati come sono dal principio della domanda e dal suo corollario rappresentato dal principio dispositivo; sul punto va richiamata la tesi (corroborata dalla più recente giurisprudenza nelle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, cfr. 22.04.2013 n. 9685), secondo cui
tali condizioni (ed in particolare il titolo e l'interesse ad agire), assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l'aspetto di un controllo di meritevolezza dell'interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali rilevanti, desumibili dagli articoli 24 e 111 della Costituzione.
Ne consegue che
il riconoscimento della legittimazione ad agire non è genericamente ammesso nei confronti di tutti gli esercenti commerciali, ma è subordinato al riconoscimento di determinati presupposti, e ciò al fine di poter ritenere giuridicamente rilevante, nonché qualificato e differenziato, l'interesse all'impugnazione.
Pertanto,
è necessario che l’operatore economico che intende impugnare un titolo edilizio a cui accede una valida e formale autorizzazione commerciale eserciti nelle immediate adiacenze, che l’attività commerciale esercitata sia dello stesso tipo in tutto o in parte di quella relativa ai provvedimenti in contestazione, e che le due attività vengano a servire uno stesso bacino di clientela oggettivamente circoscritto o comunque circoscrivibile con sufficiente certezza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.11.2015 n. 5278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti dall’intestatario della concessione o da colui al quale essa è volturata e relativi eredi, ovvero da chi esegue le opere di trasformazione urbana, ma non anche dall’acquirente dell’immobile.
Ai sensi dell'art. 16, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è, in particolare, un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse; fatto costitutivo di detta obbligazione è il rilascio del permesso di costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo.
Il contributo di urbanizzazione è invece commisurato al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi concretamente nella zona, e differisce dal contributo da pagare all'atto del rilascio della concessione di costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per il conferimento al privato della facoltà di edificazione e dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della trasformazione; trattandosi di due istituti diversi ne derivano oneri diversi, l'uno relativo al costo sostenuto per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area, l'altro relativo ad un contributo, di carattere tributario, volto alla realizzazione del generale assetto urbanistico del territorio comunale.
Secondo una ricostruzione diffusa in sede giurisprudenziale trattasi, per entrambi gli oneri, di obbligazioni reali, dotate, in quanto tali, di ambulatorietà passiva. Si afferma, infatti, che il presupposto di esigibilità dell'onere relativo al costo di costruzione non risiede solo nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella concreta fruizione del titolo e comunque le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano sull'acquirente.
Tale orientamento è stato propugnato anche in seconde cure, nel senso quindi che trattasi in sostanza di obbligazioni connotate dall'inerenza alla cosa, anziché alla persona cui è rilasciato il permesso di costruire, sicché tutti coloro che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli oneri in questione.
Ritiene il Collegio, tuttavia, di aderire al diverso orientamento giurisprudenziale, secondo cui è più coerente con il complessivo assetto della normativa oltre che intrinsecamente più razionale affermarsi che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti dall’intestatario della concessione o da colui al quale essa è volturata e relativi eredi, ovvero da chi esegue le opere di trasformazione urbana, ma non anche dall’acquirente dell’immobile.
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... per l'annullamento:
1) ordinanza ingiunzione prot. 42850 del 22.06.2015, dell’importo rispettivamente di € 88.196,08, per omesso e/o ritardato pagamento del costo di costruzione relativo al permesso di costruire nr. 07/2007 rilasciato in favore del sig. Ca.Gi. e poi volturato in favore dei signori Mo.An.Ma. e Za.Gi. ed il permesso di costruire in sanatoria nr. 139/2009;
...
Con ricorso notificato il 18.09.2015 e ritualmente depositato il 14 ottobre successivo, la sig.ra Im.Sc. ha impugnato l’ordinanza, meglio distinta in epigrafe, con la quale il Comune di Battipaglia le ingiungeva il pagamento di € 88.196,08, per omesso e/o ritardato versamento del costo di costruzione relativo al permesso di costruire nr. 07/2007 rilasciato in favore del sig. Ca.Gi. e poi volturato in favore dei signori Mo.An.Ma. e Za.Gi. ed il permesso di costruire in sanatoria nr. 139/2009. Avverso tale atto l’istante ha dedotto i seguenti vizi:
1) violazione e falsa applicazione artt. 7 e 8 L. n. 241/1990 e dell’art. 16 del T.U. edilizia. Violazione del principio del contraddittorio;
2) violazione art. 3 L. 07.08.1990 n. 241. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e falso presupposto; per difetto di istruttoria per carenza assoluta di motivazione.
In particolare, la ricorrente ha rilevato che, essendo acquirente a titolo particolare mercé rogito notarile del 16/07/2010) di un appartamento posto all’interno del fabbricato già realizzato, la pretesa del Comune, peraltro mai precedentemente avanzata nei suoi riguardi, sarebbe infondata, in quanto non sarebbe soggetto obbligato al pagamento degli oneri di urbanizzazione dovuti al momento del rilascio della concessione edilizia.
Il Comune di Battipaglia, ancorché ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio.
All’odierna camera di consiglio del 05.11.2015, il ricorso, è stato trattenuto in decisione semplificata, rese edotte le parti, sussistendone i presupposti di legge.
Il ricorso è fondato.
L’impugnato provvedimento postula la responsabilità solidale della ricorrente, quale attuale proprietaria di uno dei cespiti realizzati in virtù dei titoli edilizi su menzionati, al pagamento dei relativi oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Occorre premettere che, ai sensi dell'art. 16, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio (Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1504).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è, in particolare, un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse; fatto costitutivo di detta obbligazione è il rilascio del permesso di costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo (Consiglio di Stato, sez. V, 30.04.2014, n. 2261).
Il contributo di urbanizzazione è invece commisurato al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi concretamente nella zona, e differisce dal contributo da pagare all'atto del rilascio della concessione di costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per il conferimento al privato della facoltà di edificazione e dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della trasformazione; trattandosi di due istituti diversi ne derivano oneri diversi, l'uno relativo al costo sostenuto per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area, l'altro relativo ad un contributo, di carattere tributario, volto alla realizzazione del generale assetto urbanistico del territorio comunale (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4685).
Secondo una ricostruzione diffusa in sede giurisprudenziale trattasi, per entrambi gli oneri, di obbligazioni reali, dotate, in quanto tali, di ambulatorietà passiva. Si afferma, infatti, che il presupposto di esigibilità dell'onere relativo al costo di costruzione non risiede solo nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella concreta fruizione del titolo e comunque le obbligazioni per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano sull'acquirente (TAR Napoli, sez. VIII, 16.04.2014, n. 2170).
Tale orientamento è stato propugnato anche in seconde cure, nel senso quindi che trattasi in sostanza di obbligazioni connotate dall'inerenza alla cosa, anziché alla persona cui è rilasciato il permesso di costruire, sicché tutti coloro che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli oneri in questione (Cons. Stato, sez. V, n. 6333, del 12.07.2011).
Ritiene il Collegio, tuttavia, di aderire al diverso orientamento giurisprudenziale, secondo cui è più coerente con il complessivo assetto della normativa oltre che intrinsecamente più razionale affermarsi che gli oneri di urbanizzazione sono dovuti dall’intestatario della concessione o da colui al quale essa è volturata e relativi eredi, ovvero da chi esegue le opere di trasformazione urbana, ma non anche dall’acquirente dell’immobile (TAR Napoli, Sez. III, 12.04.2007/18.07.2007, n. 6793).
Il ricorso va conclusivamente accolto, ritenuta assorbita ogni altra censura, di guisa che dell’atto impugnato, nei limiti di interesse, occorre disporre l’annullamento (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 19.11.2015 n. 2453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio esclusiva di stato. La Consulta: i criteri li fissa il governo.
In tema di condono edilizio «straordinario» spettano alla legislazione statale e non a quella regionale, le scelte di principio sul versante della sanatoria amministrativa, la decisione sul se disporre, nell'intero territorio nazionale, di un condono straordinario e l'individuazione delle volumetrie massime condonabili.

Questo è il principio espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 19.11.2015 n. 233 di in merito alla legittimità costituzionale sollevate dal presidente del consiglio dei ministri degli articoli 25, 26 e 27 della legge n. 65/2014 della Regione Toscana.
Ricordano i giudici della corte costituzionale che si è in presenza di una normativa riferibile ad opere e interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla stessa legge regionale Toscana, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente alla materia «governo del territorio» nel cui ambito alle regioni spetta l'adozione di una disciplina legislativa di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.
In particolare, per tali opere e interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli articoli 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale l'applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie, per le ipotesi in cui la valutazione discrezionale dell'autorità comunale competente per territorio conduca ad escludere la persistenza di un interesse attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle somme corrispondenti alle sanzioni amministrative pecuniarie (differenziate a seconda dell'epoca di realizzazione e ultimazione delle opere e degli interventi edilizi, e ricadenti all'esterno della perimetrazione dei centri abitati) «non determina la legittimazione dell'abuso» (articolo ItaliaOggi del 21.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEsula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato».
A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale.

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SENTENZA
... nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 25, 26, 27, 207 e 208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9-15.01.2015, depositato in cancelleria il 13.01.2015 ed iscritto al n. 3 del registro ricorsi 2015.
...
1.2.– Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri censura gli artt. 207 e 208 della legge della Regione Toscana n. 65 del 2014.
Le norme censurate disciplinano le conseguenze di opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati, in assenza di titolo abilitativo o in difformità dal medesimo, rispettivamente in data anteriore al 01.09.1967, ossia al momento dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.942, n. 1150), o in data anteriore al 17.03.1985, corrispondente all’entrata in vigore della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), sul primo condono edilizio.
In particolare, il citato art. 207 differenzia la disciplina a seconda della collocazione degli immobili. Se essi ricadono all’interno della perimetrazione dei centri abitati (come definita all’epoca della realizzazione della condotta), si prevede che il Comune possa valutare la persistenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità urbanistica violata mediante rimessione in pristino: in caso di esito positivo di tale scrutinio, è disposta l’applicazione delle sanzioni, ripristinatorie e pecuniarie, di cui agli artt. 196, 199, 200 e 206 della medesima legge regionale; in caso di valutazione negativa in ordine alla persistenza dell’interesse pubblico, si prevede esclusivamente l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in misura ridotta per le opere e gli interventi conformi agli strumenti urbanistici comunali attualmente vigenti, e con la possibilità di consentire, con apposito piano operativo, ulteriori interventi su tali immobili.
Se, invece, gli immobili ricadono all’esterno della perimetrazione dei centri abitati (sempre come definita all’epoca della realizzazione dell’opera), si prevede che siano considerati «consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
L’art. 208, per le opere e gli interventi edilizi anteriori al 17.03.1985, detta una disciplina analoga a quella innanzi descritta, ma differenziando le sanzioni pecuniarie a seconda che le opere o gli interventi siano stati realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo, ed escludendo, questa volta, distinzioni tra manufatti ricadenti o non all’interno della perimetrazione dei centri abitati.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene, in primo luogo, che tali disposizioni, in quanto limitanti l’applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 196, 199, 200 e 206 della legge regionale impugnata alle sole opere per le quali sia ritenuto persistente l’interesse pubblico alla rimessione in pristino e, se anteriori al 01.09.1967, solo se ricadenti all’interno del perimetro del centro abitato, si porrebbero in contrasto con gli artt. 27, 31, 33, 34 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia – Testo A), che configurano l’esercizio del potere comunale di vigilanza e repressione degli abusi edilizi come un obbligo e non come una facoltà, senza che sia necessario accertare la ricorrenza attuale di ragioni di pubblico interesse e senza prevedere alcun termine di decadenza o di prescrizione per l’esercizio dei poteri repressivi comunali.
Di qui la prospettata violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi fondamentali nella materia del governo del territorio.
Considerati i descritti effetti conservativi legati all’irrogazione di mere sanzioni pecuniarie, la medesima norma costituzionale sarebbe stata violata, a giudizio dell’Avvocatura generale dello Stato, anche per l’introduzione di una «surrettizia forma di condono», con conseguente invasione della competenza legislativa statale, essendo sottratta alla potestà legislativa regionale qualsiasi forma di sanatoria straordinaria delle opere abusive.
Per tale ragione, le norme censurate interferirebbero con le disposizioni in materia di sanzioni civili e penali previste dal testo unico sull’edilizia in tema di reati edilizi, e violerebbero così anche l’art. 117, secondo comma, lettera s) (rectius: lettera l), Cost., che riserva alla potestà legislativa esclusiva statale la materia «ordinamento civile e penale».
...
3.– Il secondo motivo di ricorso è fondato, poiché gli impugnati artt. 207 e 208 della legge regionale n. 65 del 2014 sono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.– È opportuno sottolineare preliminarmente che il tenore letterale delle disposizioni impugnate consente agevolmente di definire l’oggetto dell’intervento legislativo regionale e l’ambito materiale cui questo risulta ascrivibile. Infatti, le rubriche delle due disposizioni, e, in particolare, i commi 1 e 4 dell’art. 207 ed il comma 1 dell’art. 208 fanno esplicito riferimento a «sanzioni ed opere per interventi edilizi abusivi», e ad opere ed interventi edilizi eseguiti ed ultimati «in assenza di titolo abilitativo o in difformità dal medesimo».
Si è in presenza di una normativa riferibile ad opere e interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla stessa legge regionale, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente alla materia «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis e da ultimo, sentenze n. 272 e n. 102 del 2013), nel cui ambito alle Regioni spetta l’adozione di una disciplina legislativa di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (sentenze n. 167 del 2014 e n. 401 del 2007).
In particolare, per tali opere ed interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli artt. 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale (delineata sulla falsariga di quella prevista in generale dalle norme statali del testo unico sull’edilizia), l’applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie, per le ipotesi in cui la valutazione discrezionale dell’autorità comunale competente per territorio conduca ad escludere la persistenza di un interesse attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle somme corrispondenti alle sanzioni amministrative pecuniarie –differenziate a seconda dell’epoca di realizzazione ed ultimazione delle opere e degli interventi edilizi, con esclusione di quelli anteriori al 01.09.1967 e ricadenti all’esterno della perimetrazione dei centri abitati– «non determina la legittimazione dell’abuso» (comma 3 di entrambi gli articoli), le norme impugnate producono due evidenti effetti sostanziali.
Il primo di essi consiste −in considerazione dell’esclusione della sanzione demolitoria (e della succedanea acquisizione gratuita delle aree al patrimonio comunale, in caso di inadempimento dell’ordine di demolizione), in generale prevista per gli immobili abusivi dal testo unico sull’edilizia e dalle corrispondenti norme della stessa legge della Regione Toscana− nella conservazione, in mano privata, del patrimonio edilizio esistente.
Il secondo effetto, di non minore portata, consiste nella possibilità di eseguire ulteriori interventi edilizi –sotto forma di «demolizione e ricostruzione, mutamento della destinazione d’uso, aumento del numero delle unità immobiliari, incremento di superficie utile lorda o di volume» (attività rispettivamente previste dai commi 7 e 6 degli artt. 207 e 208)– previa emanazione di appositi piani operativi, che diventano addirittura superflui per gli immobili ultimati al di fuori dei centri urbani e prima del 01.09.1967. Anzi, il comma 4 dell’art. 207 si spinge a definire tali ultimi manufatti quali «consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
La combinazione di queste due conseguenze produce, per tutti gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti tipici di un «condono edilizio straordinario», che si differenzia, in quanto tale, dall’istituto a carattere generale e permanente del «permesso di costruire in sanatoria», disciplinato dagli artt. 36 e 45 del testo unico sull’edilizia.
In tema di condono edilizio “straordinario”, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che spettano alla legislazione statale, oltre ai profili penalistici (integralmente sottratti al legislatore regionale: sentenze n. 49 del 2006, n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004), le scelte di principio sul versante della sanatoria amministrativa, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum: la decisione sul se disporre, nell’intero territorio nazionale, un condono straordinario, e quindi la previsione di un titolo abilitativo edilizio straordinario; quella relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria; infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili (nello stesso senso, sentenze n. 225 del 2012 e n. 70 del 2005).
Nel rispetto di tali scelte di principio,
competono alla legislazione regionale l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale (sentenze n. 225 del 2012, n. 49 del 2006 e n. 196 del 2004).
Ne consegue che le norme impugnate si pongono in contrasto con i consolidati princìpi espressi dalla giurisprudenza costituzionale in materia.
Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della sanatoria» (sentenza n. 290 del 2009) oppure, ancora, di «allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto stabilito dalla legge dello Stato» (sentenza n. 117 del 2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria straordinaria per il solo territorio regionale.
Il che è appunto quanto si verifica in applicazione delle norme impugnate.
Esse producono un effetto di sanatoria amministrativa straordinaria di immobili abusivi, non solo senza alcuna limitazione volumetrica, ma anche al di là delle modalità e, soprattutto, dei tempi disciplinati dalle precedenti normative statali.
Il riferimento, in particolare, è alla legge n. 47 del 1985, la cui efficacia è stata estesa dall’art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), cui ha fatto seguito l’art. 32 del decreto-legge 30.09.2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24.11.2003, n. 326, pure contenente misure di regolarizzazione di immobili abusivi.
In applicazione di tali norme statali, ben sarebbe stato possibile procedere, nei tempi e nei modi da quelle previsti, alla sanatoria delle stesse opere e degli stessi interventi edilizi oggetto della disciplina censurata. Sicché, consentirlo invece ora, alla luce delle disposizioni regionali impugnate, significa introdurre un nuovo condono extra ordinem, al di fuori di qualsiasi previa e necessaria cornice di principio disciplinata dalla legge statale.
3.2.– Il contrasto delle norme impugnate con i principi che governano il riparto di competenze in materia di condono edilizio “straordinario” non è attenuato dalla subordinazione degli effetti sostanziali, da queste prodotti, alla valutazione discrezionale, che le stesse disposizioni demandano all’amministrazione comunale competente per territorio, in ordine alla sussistenza di un perdurante interesse pubblico alla rimessione in pristino.
La difesa regionale sostiene che, nel corso degli ultimi anni, la rigidità della disciplina statale concernente la repressione degli abusi edilizi sarebbe stata «attenuata dalle previsioni interpretative giurisprudenziali dei giudici amministrativi». Questi ultimi avrebbero seguito il principio secondo cui anche le sanzioni edilizie devono essere applicate previa comparazione e valutazione di prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata rispetto all’affidamento del privato. Sicché, qualora sia trascorso un lungo lasso di tempo tra realizzazione e accertamento dell’abuso, l’irrogazione delle sanzioni sarebbe subordinata ad una motivazione specifica sulla sussistenza di un pubblico interesse attuale alla eliminazione dell’opera.
Il legislatore regionale, per parte sua, avrebbe appunto dettato norme conformi a tale principio, discendente dall’interpretazione giurisprudenziale ritenuta «ormai pacifica» della legge nazionale.
Tale argomento è privo di pregio.
Innanzitutto, l’affermazione relativa alla sussistenza di un “diritto vivente”, nei termini prospettati dalla difesa regionale, è smentita dalla constatazione della coesistenza (se non proprio della prevalenza), nella giurisprudenza amministrativa, di un opposto orientamento, secondo cui l’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio.
Secondo tale indirizzo, non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia ordinata la demolizione di un manufatto, anche quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione. Ciò perché la repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata, non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione (in questi termini, ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 05.01.2015, n. 13; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 30.12.2014, n. 6423; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 01.10.2014, n. 4878; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 28.01.2013, n. 496).
Ma, quand’anche una diversa opzione ermeneutica potesse considerarsi talmente affermata da costituire approdo “pacifico” nella giurisprudenza amministrativa, è assorbente il rilievo per cui un suo eventuale riconoscimento normativo non potrebbe essere rimesso al legislatore regionale, ma solo a quello statale. In relazione a scelte così delicate in materia edilizia, valgono evidenti esigenze di uniforme trattamento sull’intero territorio nazionale (analogamente, sentenza n. 164 del 2012), e solo la legge statale può ovviamente assicurarle.
Per queste ragioni, le questioni di legittimità costituzionale promosse avverso gli artt. 207 e 208 della legge della Regione Toscana n. 65 del 2014 sono fondate, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..
L’accoglimento del ricorso sotto il profilo descritto determina l’assorbimento delle altre censure mosse alle norme impugnate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 207 e 208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio) (Corte Costituzionale, sentenza 19.11.2015 n. 233).

URBANISTICA: Superato il divario tra programma di fabbricazione e piano regolatore generale a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 20.03.1978 n. 23, al primo, finché non è approvato il secondo dall'organo di controllo dell'ente territoriale che lo ha adottato, va riconosciuta la funzione di strumento di sistemazione urbanistica tipico del territorio comunale, anche quanto ad eventuali varianti apportate con conseguente legittimità dei vincoli con esso imposti alla proprietà privata anche in tema di distanze tra costruzioni, costituendo detto programma, a decorrere dalla sua pubblicazione o da quella della variante di esso, parte integramene dei regolamenti edilizi locali, mentre, fino a tale data, i rapporti di vicinato sono disciplinati dalle precedenti norme locali o dall'art. 873 c.c. o dalle leggi speciali, non rilevando l'applicazione delle misure di salvaguardia di cui agli artt. 1 della L. n. 1902/1952 e 3 della L. n. 675/1967, integrativa dell'art. 10 della legge 07.08.1942 n. 1150, poiché la normativa ivi contenuta è destinata ai Sindaci ed ai Prefetti per fini di interesse pubblico e non ha effetti nella regolamentazione dei rapporti tra privati.
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Passando all'esame del ricorso principale, il primo motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, superato il divario tra programma di fabbricazione e piano regolatore generale a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 20.03.1978 n. 23, al primo, finché non è approvato il secondo dall'organo di controllo dell'ente territoriale che lo ha adottato, va riconosciuta la funzione di strumento di sistemazione urbanistica tipico del territorio comunale, anche quanto ad eventuali varianti apportate con conseguente legittimità dei vincoli con esso imposti alla proprietà privata anche in tema di distanze tra costruzioni, costituendo detto programma, a decorrere dalla sua pubblicazione o da quella della variante di esso, parte integramene dei regolamenti edilizi locali, mentre, fino a tale data, i rapporti di vicinato sono disciplinati dalle precedenti norme locali o dall'art. 873 c.c. o dalle leggi speciali, non rilevando l'applicazione delle misure di salvaguardia di cui agli artt. 1 della L. n. 1902/1952 e 3 della L. n. 675/1967, integrativa dell'art. 10 della legge 07.08.1942 n. 1150, poiché la normativa ivi contenuta è destinata ai Sindaci ed ai Prefetti per fini di interesse pubblico e non ha effetti nella regolamentazione dei rapporti tra privati (Cass. n. 2759/1993; n. 20392/2008; n. 19822/2004) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.11.2015 n. 23504).

PATRIMONIO: Se il parco si può dividere uno spazio spetta ai cani. Tar di Brescia.
Il Tar di Brescia bilancia le esigenze degli animali d’affezione rispetto a quelle del turismo, dei cittadini e dei parchi giochi per bambini.
Il Comune di Sarnico aveva genericamente vietato l’accesso dei cani, anche se custoditi, in tre parchi, rispettivamente di 22mila, 2.600 e 1500 metri quadrati. Il parco più esteso, pari al 24% di tutte le aree verdi pubbliche, pur essendo custodito e particolarmente curato per la vicinanza al lago d’Iseo si prestava a essere suddiviso, ricavandovi zone dedicate per i proprietari di animali di affezione.
Stesso ragionamento è stato adottato per un secondo parco, di 2.600 metri quadrati, nel quale era possibile individuare una zona mista; un terzo parco, il minore perché di soli 1.500 metri quadrati, è invece rimasto precluso ai cani, ritenendosi condivisibile la scelta di privilegiare lo spazio per i giochi per bambini.
Il provvedimento del TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 17.11.2015 n. 2098, dà quindi uno stimolo all’amministrazione comunale affinché pianifichi meglio l’utilizzo delle aree verdi, delimitando aree che consentano una più articolata fruizione.
L’ordinanza contiene anche un monito ai proprietari e detentori dei cani, perché qualora questi dimostrassero scarso senso civico creando problemi agli altri utenti, resta ferma la possibilità che il Comune intervenga con specifico potere di ordinanza e con sanzioni.
In situazioni analoghe, altri Comuni hanno adottato divieti generici, subendo, tuttavia, annullamenti integrali e meno elastici (Tar Potenza, 17.10.2013 n. 611; Cagliari 30.11.2012 n. 1080, Catanzaro, 24.05.2011 n. 778; Venezia 15.12.2009 n. 3600)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015).
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MASSIMA
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Sarnico, con deliberazione consiliare n. 3 del 20.04.2015, ha approvato il regolamento per l’uso dei 12 parchi pubblici comunali, che hanno una superficie complessiva pari a 89.600 mq.
2. L’ENPA impugna il regolamento nella parte in cui viene vietato l’accesso con i cani ai parchi Lido Nettuno (22.000 mq), Plan de Cuques (2.600 mq) e Parco Moscatello (1.500 mq).
3. Sul potere dell’amministrazione comunale di interdire l’ingresso dei cani nelle aree verdi pubbliche questo TAR si è già pronunciato nei confronti del Comune di Sarnico, sia in sede cautelare (v. ordinanza n. 902 del 13.11.2014) sia nel merito (v. sentenza n. 1213 del 23.09.2015).
4. Riprendendo in parte quanto già esposto in tali pronunce, si possono formulare le seguenti osservazioni:
(a) in generale, le aree verdi pubbliche devono essere aperte a tutte le forme di uso collettivo consentite dalla naturale destinazione dei luoghi, compreso l’accesso in compagnia degli animali d’affezione, e nello specifico dei cani;
(b) l’amministrazione può introdurre regole maggiormente restrittive qualora la presenza dei cani, nonostante l’obbligo del guinzaglio, renda più difficile ad altri soggetti l’utilizzazione in sicurezza delle aree verdi pubbliche. Questo si verifica, in particolare, quando sia necessario proteggere la salute dei bambini da rischi di natura igienico-sanitaria;
(c) di conseguenza, è possibile individuare all’interno dei parchi di grandi e medie dimensioni alcune zone dedicate, da riservare a soggetti particolari, dove è vietato l’ingresso dei cani. Questa limitazione deve però essere compensata dalla previsione di apposite aree di sgambamento facilmente raggiungibili, in quanto tra i principi che vincolano la pianificazione urbanistica è individuabile anche l’obbligo di utilizzare gli spazi pubblici per assicurare il benessere degli animali d’affezione;
(d) se le aree verdi pubbliche sono di piccole dimensioni, rientra nella discrezionalità dell’amministrazione escludere l’ingresso dei cani, qualora le caratteristiche dei luoghi non consentano di tenere adeguatamente separate le diverse tipologie di utenti;

(e) applicando questi criteri, risulta sproporzionata l’esclusione assoluta dei cani dal Lido Nettuno, che è il parco più esteso (pari a circa il 24% di tutte le aree verdi pubbliche) e quello meglio controllabile, anche per il fatto che l’ingresso è a pagamento (salvo residenti e minori di anni 12).
Il sacrificio imposto ai proprietari e ai detentori di cani (ossia il divieto di utilizzare con i loro animali d’affezione un’area verde particolarmente prestigiosa, per la vicinanza al lago, bene attrezzata e servita dalla viabilità provinciale) è eccessivo, in quanto è possibile creare una zonizzazione interna al parco che soddisfi le esigenze di tutte le tipologie di utenti.
In ogni caso, il suddetto sacrificio non appare compensato dall’abbondanza di parchi dove è consentito l’ingresso ai cani, in quanto si tratta di aree verdi di minore pregio e non attrezzate in modo comparabile;
(f) parimenti, non sembra essere stato adeguatamente individuato un bilanciamento tra le diverse esigenze a proposito del parco Plan de Cuques, tenuto conto, da un lato, della posizione periferica dello stesso (che ne fa il punto di riferimento per quanti abitano in questa porzione del territorio comunale), e dall’altro della possibilità di individuare una zona mista non esclusivamente dedicata ai bambini;
(g) appare invece corretta l’esclusione dei cani dal Parco Moscatello, in quanto le ridotte dimensioni impongono una specializzazione nell’utilizzo, e rientra nella discrezionalità dell’amministrazione la scelta di privilegiare lo spazio-giochi per i bambini rispetto ad altre soluzioni;
(h) qualora i proprietari e i detentori dei cani dimostrassero scarso senso civico creando problemi al resto degli utenti, specie per quanto riguarda la mancata raccolta delle deiezioni animali, il Comune potrebbe comunque intervenire mediante il potere di ordinanza.
I presupposti e i limiti di tale potere sono già stati descritti da questo TAR nelle pronunce sopra indicate. In particolare, è necessario il rispetto del principio di proporzionalità. L’amministrazione può dunque interdire temporaneamente l’ingresso dei cani nei luoghi dove si sono verificati i maggiori inconvenienti, valutando poi i risultati alla successiva ripresa del libero accesso.
5. Sussistono pertanto le condizioni per concedere una misura sospensiva del divieto di ingresso dei cani nei parchi Lido Nettuno e Plan de Cuques, ferma restando la possibilità per il Comune di individuare all’interno di tali parchi delle aree riservate a particolari categorie di soggetti, secondo quanto sopra specificato.

APPALTIFuori dalla gara se manca il requisito del salario minimo. Corte Ue. Appalti di servizi.
Anche a livello europeo, per gli appalti di servizi superiori a 200 mila euro, il bando di gara può imporre che il personale abbia un salario minimo.
Lo afferma la Corte di giustizia di Lussemburgo, con la sentenza 17.11.2015 causa C-115/14 relativa a una lite in materia di distribuzione lettere e pacchi.
La controversia era sorta prima che, in Germania, entrasse in vigore un generico salario minimo (euro 8,50 lordi ad ora, dal 01.01.2015), perché la città di Landau aveva messo a gara la distribuzione postale imponendo, nel bando di gara, l’obbligo di un salario minimo.
Detto obbligo era infatti ritenuto espressione di protezione sociale, ed infatti con identica motivazione è stato condiviso dalla Corte di giustizia. Clausole del genere potranno quindi diffondersi nei bandi a livello comunitario, mentre nel territorio nazionale rimangono applicabili gli articoli 86 e 87 del Dlgs 163 del 2006 in tema di verifica delle offerte anormalmente basse.
Il meccanismo di verifica dell’ anomalia dell’offerta, in Italia, attua lo stesso principio adottato dalla città tedesca, perché individua la soglia minima del costo del lavoro.
Detto livello minimo è desunto (articolo 86, comma 3-bis), da tabelle ministeriali o da contratti collettivi stipulati (articolo 87, comma D) dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Il sistema italiano è più complesso, perché non fa riferimento a una soglia predeterminata (gli euro 8,50 della Germania), ma nella sostanza è equivalente.
Per di più, vi sono due recenti approfondimenti, del Consiglio di Stato (13.10.2015 n. 4699) e della Corte costituzionale (51/2015), che migliorano la soglia di corretta retribuzione del personale. Detta retribuzione è affidata ad un giudizio complessivo sull’offerta, che deve risultare congrua e non bassa in modo anomalo.
La proporzionalità e sufficienza delle retribuzioni, per non risultare basse in modo anomalo, devono far riferimento ai contratti delle sigle sindacali “comparativamente” più rappresentative: ed appunto le citate sentenze consentono di escludere le offerte ancorate a contratti di anomale sigle sindacali. Quando il costo del lavoro, seppur previsto da un contratto sindacale, non è rappresentativo, non può essere utilizzato in sede di gara pubblica, ma genera un’esclusione per anomalia.
Decidendo una gara di gestione di front office telefonico di un’azienda ospedaliera, il Consiglio di Stato ha censurato il contratto Cnai che, pur non potendo ritenersi invalido, non è stato ritenuto un idoneo parametro di riferimento. Un orientamento che trova un’implicita conferma nella sentenza di ieri: la protezione sociale consente alle stazioni appaltanti e gara per gara di ritenere necessarie talune garanzie per i lavoratori
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2015).

APPALTI: Appalti, garantita la tariffa minima.
Un contratto di appalto pubblico può prevedere tra i requisiti il rispetto di una tariffa salariale minima per i lavoratori.

Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea nella sentenza 17.11.2015 causa C-115/14.
Il salario minimo, spiegano i giudici, può essere giustificato dall'obiettivo della protezione dei lavoratori. Di conseguenza, aggiunge la sentenza, è legittima l'esclusione dalla gara di appalto degli offerenti e loro subappaltatori che si rifiutino d'impegnarsi, con una dichiarazione scritta allegata all'offerta, di versare il salario minimo prefissato.
Il dubbio di compatibilità di una predetta clausola con il diritto dell'Unione e, in particolare, con la direttiva 2004/18, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, è stato sollevato dalla magistratura tedesca. Ai sensi della predetta direttiva le amministrazioni aggiudicatrici possono esigere condizioni particolari in merito all'esecuzione dell'appalto, purché compatibili con il diritto comunitario e a condizione che siano precisate nel bando di gara o nel capitolato d'oneri.
Con la sentenza emessa ieri, la Corte dichiara che la direttiva 2004/18 non osta alla normativa che impone agli offerenti e ai loro subappaltatori di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta da allegarsi all'offerta, a versare un salario minimo prefissato al personale assegnato all'esecuzione delle prestazioni. Secondo la Corte, infatti, l'obbligo rappresenta una condizione particolare ammessa dalla direttiva, perché riguarda l'esecuzione dell'appalto, ed è basata su considerazioni di tipo sociale.
La Corte rileva, inoltre, che l'obbligo è trasparente e che non è discriminatorio; e peraltro è compatibile con un'altra direttiva dell'Unione, la 96/71 in merito al distacco dei lavoratori, che prevede una tariffa salariale minima (articolo ItaliaOggi del 18.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
1) L’articolo 26 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30.11.2011, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, che impone agli offerenti e ai loro subappaltatori di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato.
2) L’articolo 26 della direttiva 2004/18, come modificata dal regolamento n. 1251/2011, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, che prevede l’esclusione, dalla partecipazione ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, degli offerenti e dei loro subappaltatori che si rifiutino di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato.

ENTI LOCALI - VARIIl sindaco può vietare i Suv nei centri storici. Il Consiglio di stato dà ragione al comune di Firenze.
Il sindaco può limitare la circolazione nel centro abitato ai veicoli troppo ingombranti e inquinanti come i fuoristrada. I Suv infatti hanno una massa e un diametro ruote notevolmente superiore alle comuni vetture e quindi possono ostacolare il traffico specialmente nei centri storici caratterizzati da una conformazione urbanistica particolare.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 13.11.2015 n. 5191.
Da qualche anno nel comune di Firenze è stata attivata una progressiva limitazione della circolazione nel centro storico specificamente dedicata ai fuoristrada con un diametro delle ruote superiore a 73 cm. Contro questa misura innovativa di contrasto del traffico selvaggio e dell'inquinamento i produttori automobilistici hanno proposto immediatamente ricorso senza successo fino ai giudici di palazzo Spada, lamentando pesanti interferenze con il principio di libertà dell'iniziativa economica privata.
Il primo cittadino della città del premier in realtà ha motivato adeguatamente la sua decisione specificando che le dimensioni ridotte delle strade del centro storico fiorentino impongono scelte radicali anche per la tutela della sicurezza della circolazione e dei manufatti stradali.
I veicoli con ruote grandi, infatti, sono facilitati a salire sui marciapiedi e a rovinare i cordoli. Inoltre inquinano maggiormente essendo più pesanti e ingombranti degli altri.
Il comune, ai sensi degli articoli 6 e 7 del codice, può sicuramente regolare l'uso delle strade scoraggiando i comportamenti meno virtuosi. Il Suv (sport utility vehicle) è una categoria commerciale di veicoli ingombranti molto variegata.
Per questo motivo identificare i fuoristrada sottoposti alla limitazione ztl dalle dimensioni del pneumatico a parere del collegio è un criterio oggettivo apprezzabile. Del resto la dimensione della ruota è necessariamente proporzionata alle caratteristiche del veicolo.
Nell'ambito della discrezionalità amministrativa dunque il primo cittadino ha ampia facoltà di regolare meglio la circolazione stradale ammettendo per esempio alla regolare circolazione i mezzi commerciali e vietando l'accesso al centro storico ai Suv (articolo ItaliaOggi del 17.11.2015).

COMPETENZE GESTIONALI: E' legittima l'ordinanza firmata dal sindaco, e non dal dirigente, circa la limitazione di accesso ai SUV in una Z.T.L..
I provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati che possono essere adottati ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 285/1992 ineriscono alla competenza comunale.
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Il Collegio sulla materia del contendere (competenza sindacale ovvero dirigenziale nel sottoscrivere un'ordinanza limitativa di accesso ai SUV) ritiene senz’altro di attenersi all’impostazione del parere espresso dalla Sez. II di questo Consiglio il 02.04.2003 con il n. 1661, avviso approfonditamente motivato e, del resto, richiamato adesivamente da entrambe le contendenti e dallo stesso tribunale quale punto di riferimento sulla problematica.

Il detto parere, nell’affermare che le misure previste dall’art. 7 del Codice della Strada devono intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della dirigenza comunale, ha però rilevato come una deroga a tale principio valga, sulla scorta dei contenuti dello stesso art. 7, per le misure di maggiore impatto sull’intera collettività locale, per le quali lo stesso articolo del Codice prevede l’intervento di un organo politico.
Conviene difatti ricordare che
il citato art. 7, al suo comma 9, nel riservare alla Giunta il compito di “delimitare le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio”, stabilisce anche che “in caso di urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della deliberazione della giunta.”
Ora,
il provvedimento impugnato si presenta come espressione proprio di quest’ultima, specifica competenza, derogatoria del principio della generalità delle attribuzioni dirigenziali.
L’atto in contestazione, infatti, attesa la sua valenza, contribuisce a definire la disciplina di base connotante la Z.T.L. nella sua interezza, e pertanto si configura quale un suo atto integrativo ai sensi del comma 9 dell’art. 7.
Si tratta, inoltre, di un atto che non è esecutivo della programmazione già esistente, ma appunto la integra, e come tale dovrà ricevere attuazione attraverso la comune attività di gestione.
La sua connotazione quale atto assunto in chiave d’urgenza, infine, si può desumere tanto dagli argomenti addotti dalla sua motivazione, quanto dalla previsione della sua entrata in vigore sostanzialmente immediata.

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8. La prima censura da scrutinare è quella dell’incompetenza sindacale.
8a. Il giudice di prime cure nel respingere la doglianza ha lasciato aperto il problema preliminare della riconducibilità del provvedimento impugnato all’ambito delle competenze statali o invece comunali, esprimendo peraltro la propria propensione, in proposito, per la prima delle due opzioni (cfr. le pagg. 11 e 12 della sentenza in epigrafe).
Con il presente appello questo approccio viene persuasivamente criticato: nondimeno, pur rettificandosi l’impostazione seguita dal TAR, e configurando perciò la competenza di cui si tratta quale competenza comunale, e non statale, si vedrà che la censura d’incompetenza si conferma pur sempre infondata.
8b. Parte ricorrente rileva correttamente come l’ordinanza impugnata richiami gli artt. 6 e 7 del Codice della Strada, e come questi ultimi, nel delineare la possibilità di un intervento in materia del Sindaco, abbiano riguardo al medesimo nella sua qualità di organo comunale, piuttosto che nella sua veste complementare di organo di Governo.
L’art. 6 del Codice è imperniato, infatti, sulle prerogative dell’“ente proprietario della strada”, e quindi si riferisce agli organi dello stesso ente; l’art. 7, dal canto suo, valorizza il tema del riparto di competenze tra sindaco e giunta, tipici organi di governo locale.
A ciò va aggiunto che l’art. 7 è addirittura testuale nell’intestare le attribuzioni connesse alla “Regolamentazione della circolazione nei centri abitati” in capo ai Comuni (cfr. in particolare l’incipit dei suoi commi 1 e 9).
La giurisprudenza di questo Consiglio, infine, ha già avuto modo di precisare che
i provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati che possono essere adottati ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 285/1992 ineriscono alla competenza comunale (cfr. Sez. V, 03.02.2009, n. 596, paragr. 6.3; Sez. II, parere n. 1661 del 02.04.2003).
Sicché in questa materia la competenza comunale può essere affermata senza necessità di approfondimenti ulteriori, tenuto conto anche del fatto che sullo specifico punto non si registra contrasto di vedute tra le parti.
8c. Tanto premesso, ai fini del puntuale scrutinio del motivo in esame la Sezione non può che avere riguardo alla configurazione data a tale mezzo dalle ricorrenti con il loro originario atto introduttivo (non potendo la censura essere estesa a profili ulteriori a distanza di tempo, e tantomeno mediante semplici memorie).
Orbene, con il ricorso di parte il vizio dell’incompetenza sindacale è stato prospettato sotto lo specifico profilo della lesione delle competenze della dirigenza comunale, sul presupposto della natura “meramente gestionale” del provvedimento in contestazione.
8d. Ciò posto,
il Collegio sulla materia del contendere ritiene senz’altro di attenersi all’impostazione del parere espresso dalla Sez. II di questo Consiglio il 02.04.2003 con il n. 1661, avviso approfonditamente motivato e, del resto, richiamato adesivamente da entrambe le contendenti e dallo stesso tribunale quale punto di riferimento sulla problematica.
Il detto parere, nell’affermare che le misure previste dall’art. 7 del Codice della Strada devono intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della dirigenza comunale, ha però rilevato come una deroga a tale principio valga, sulla scorta dei contenuti dello stesso art. 7, per le misure di maggiore impatto sull’intera collettività locale, per le quali lo stesso articolo del Codice prevede l’intervento di un organo politico (per un’impostazione simile cfr. Cass. Civ., Sez. II, 06.11.2006 n. 23622).
8e. Conviene difatti ricordare che
il citato art. 7, al suo comma 9, nel riservare alla Giunta il compito di “delimitare le aree pedonali e le zone a traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul territorio”, stabilisce anche che “in caso di urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della deliberazione della giunta.”
8f. Ora,
il provvedimento impugnato si presenta come espressione proprio di quest’ultima, specifica competenza, derogatoria del principio della generalità delle attribuzioni dirigenziali.
L’atto in contestazione, infatti, attesa la sua valenza, contribuisce a definire la disciplina di base connotante la Z.T.L. nella sua interezza, e pertanto si configura quale un suo atto integrativo ai sensi del comma 9 dell’art. 7.
Si tratta, inoltre, di un atto che non è esecutivo della programmazione già esistente, ma appunto la integra, e come tale dovrà ricevere attuazione attraverso la comune attività di gestione.
La sua connotazione quale atto assunto in chiave d’urgenza, infine, si può desumere tanto dagli argomenti addotti dalla sua motivazione, quanto dalla previsione della sua entrata in vigore sostanzialmente immediata
(non senza rimarcare, in ogni caso, che dal motivo in trattazione, così come ritualmente introdotto a suo tempo in giudizio, esula il profilo del riparto delle competenze tra sindaco e Giunta).
8g. Per quanto precede, la doglianza d’incompetenza sindacale proposta dalle ricorrenti risulta quindi infondata (Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 13.11.2015 n. 5191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle procedure ad evidenza pubblica, finalizzate alla stipulazione di un contratto, la commissione aggiudicatrice non può, a causa di dichiarazioni correttive dell’offerente o in esecuzione di un’indagine volta a delineare la reale volontà dello stesso, manipolare, modificare o adattare l’offerta in assenza di disposizioni in tal senso dirette, contenute nella lex specialis: diversamente, verrebbe leso il principio di par condicio fra i concorrenti, nonché quello di affidamento da essi riposto nelle regole di gara e nella predisposizione delle rispettive offerte economiche.
Non può consentirsi alle commissioni aggiudicatrici la modifica di una delle componenti dell’offerta sostituendosi, anche solo parzialmente, alla volontà dell’offerente e interpretando la sua stessa volontà frutto di scelte insindacabili.
La rettifica dell’offerta, eseguita al fine di ricercare la effettiva volontà dell’offerente, è ammissibile, in adesione ai principi di conservazione degli atti giuridici e di massima partecipazione alle gare pubbliche, purché ad essa si possa pervenire con ragionevole certezza e senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima, né ad inammissibili dichiarazioni integrative dell’offerente.

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1. La questione sottoposta all’esame di questa Adunanza Plenaria concerne l’esatta individuazione del criterio utile a dirimere le incertezze derivanti dall’emersione di discordanze fra le offerte espresse in lettere e quelle espresse in cifre, in sede di esame delle offerte presentate dagli operatori partecipanti ad una gara finalizzata all’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture.
La problematica sorge in conseguenza dell’eventuale sovrapposizione della disciplina contenuta, da un lato, nell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 e, dall’altro lato, nell’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010.
La prima delle disposizioni citate sancisce che “
quando in una offerta all’asta vi sia discordanza fra il prezzo indicato in lettere e quello indicato in cifre, è valida l’indicazione più vantaggiosa per l’amministrazione”.
Diversamente, l’art. 119 d.P.R. n. 207 del 2010 prevede al comma 2 che “
il prezzo complessivo offerto, rappresentato dalla somma di tali prodotti, è indicato dal concorrente in calce al modulo stesso, unitamente al conseguente ribasso percentuale rispetto al prezzo complessivo posto a base di gara. Il prezzo complessivo ed il ribasso sono indicati in cifre ed in lettere. In caso di discordanza prevale il ribasso percentuale indicato in lettere”. Al comma 3 dello stesso art. 119, si ribadisce chenel caso di discordanza dei prezzi unitari offerti prevale il prezzo indicato in lettere”.
Il conflitto tra le disposizioni, dunque, potrebbe sorgere qualora, come nel caso di specie, l’operatore economico proponesse un’offerta in lettere discordante rispetto all’offerta in cifre e quest’ultima fosse maggiormente vantaggiosa per l’Amministrazione.
1.1 Ciò posto, ed in via preliminare rispetto all’esame delle specifica questione sottoposta al vaglio di questa Adunanza, va affermata l’attualità del potenziale conflitto fra le disposizioni, stante la indubbia vigenza dell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924.
In effetti, non è dato rilevare alcun motivo idoneo a revocare in dubbio tale assunto: l’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006, nell’elencare le disposizioni abrogate in seguito all’entrata in vigore del Codice dei contratti, non cita espressamente l’art. 72 r.d. n. 827 del 1924. Tale ultima disposizione, in applicazione dei principi regolatori della successione tra norme, dunque, non può essere oggetto di una interpretazione abrogante, come correttamente evidenziato nell’ordinanza di rimessione e dalla giurisprudenza in essa richiamata.
1.2 Il secondo presupposto da cui il Collegio ritiene di dover prendere le mosse, riguarda l’ammissibilità nonché l’esatta delimitazione dell’ambito applicativo del principio di correzione delle offerte eseguito dalla commissione aggiudicatrice in sede di esame delle stesse.
A ben vedere, per un verso, è pacificamente consentito il superamento di un contrasto fra la proposta espressa in cifre e quella espressa in lettere, in caso di errore materiale facilmente riconoscibile: al ricorrere di tale circostanza, infatti, il consolidato indirizzo giurisprudenziale di questo Consiglio consente di attribuire rilievo agli elementi “diretti ed univoci” tali da configurare un errore meramente materiale o di scritturazione, permettendo alla commissione aggiudicatrice di emendarlo, tramite la priorità conferita all’effettivo valore dell’offerta.
Diverso è il caso in cui, come espresso nell’ordinanza di rimessione, “la discordanza sia tutt’altro che macroscopica ed anzi obiettivamente marginale, di talché non è dato a priori riconoscere con sicurezza quale delle due diverse indicazioni sia frutto di errore”.
In effetti, nelle procedure ad evidenza pubblica, finalizzate alla stipulazione di un contratto, la commissione aggiudicatrice non può, a causa di dichiarazioni correttive dell’offerente o in esecuzione di un’indagine volta a delineare la reale volontà dello stesso, manipolare, modificare o adattare l’offerta in assenza di disposizioni in tal senso dirette, contenute nella lex specialis: diversamente, verrebbe leso il principio di par condicio fra i concorrenti, nonché quello di affidamento da essi riposto nelle regole di gara e nella predisposizione delle rispettive offerte economiche.
Queste ragioni hanno condotto la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. ex multis Sez. III, sent. 17.07.2012 n. 4176; id. 26.03.2012 n. 1699) ad affermare il principio secondo cui non può consentirsi alle commissioni aggiudicatrici la modifica di una delle componenti dell’offerta sostituendosi, anche solo parzialmente, alla volontà dell’offerente e interpretando la sua stessa volontà frutto di scelte insindacabili.
La rettifica dell’offerta, eseguita al fine di ricercare la effettiva volontà dell’offerente, è ammissibile, in adesione ai principi di conservazione degli atti giuridici e di massima partecipazione alle gare pubbliche, purché ad essa si possa pervenire con ragionevole certezza e senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima, né ad inammissibili dichiarazioni integrative dell’offerente (Cons. di Stato, Sez. III, 28.03.2014, n. 1487).
Nella fattispecie oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che l’azione correttiva dell’offerta della Pe.Ap. s.r.l., non abbia avuto come effetto la sovrapposizione di una opzione meramente soggettiva della commissione aggiudicatrice, concernente il quantum proposto, rispetto alla effettiva volontà della ditta concorrente.
Tale conclusione è agevolmente deducibile dalla circostanza per cui la prevalenza attribuita al ribasso percentuale espresso in lettere, è stata il frutto di una scelta imparziale ed omogenea della commissione: lo stesso criterio risolutivo delle discordanze presenti nell’offerta della ditta Pe.Ap., infatti, è stato valorizzato anche nei confronti di altre quattro imprese concorrenti, in presenza delle medesime discrepanze interne tra l’offerta espressa in cifre e quella espressa in lettere.
Questo strumento di risoluzione delle discrasie, in definitiva, è stato utilizzato in esecuzione dei fondamentali principi della massima partecipazione alle gare ed a quello della par condicio fra concorrenti, senza invadere il campo di un’inammissibile ricerca della volontà soggettiva dell’impresa concorrente.
2. Dopo aver delimitato la portata dei principi che vengono in rilievo nel caso di specie, occorre ripercorrere le argomentazioni poste a fondamento delle tesi rispettivamente sostenute dalle parti in causa e accuratamente compendiate nell’ordinanza di rimessione della questione dinanzi a questa Adunanza Plenaria, al fine di individuare la normativa utilmente applicabile al caso di specie.
3. Come già esposto, le problematiche sorgono a causa del conflitto nascente dall’incompatibilità fra i criteri risolutivi delle discrasie, presenti nelle offerte dei concorrenti di una determinata gara pubblica, contenuti nell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 e, rispettivamente, nell’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010.
4. Secondo la tesi prospettata dall’impresa appellante, e condivisa da una parte della giurisprudenza, l’art. 72 dovrebbe assurgere a criterio generale utile alla risoluzione di un conflitto simile a quello integrato nel caso di specie. In tal senso dovrebbe propendersi per molteplici ragioni.
4.1 Innanzitutto, fra le disposizioni in esame dovrebbe ritenersi sussistente una relazione di generalità - specialità: infatti, dal tenore letterale delle disposizioni potrebbe ricavarsi il principio secondo cui, mentre l’art. 72 assurge a norma di carattere generale, espressione di un criterio risolutivo delle discrasie interne all’offerta da utilizzare in assenza di diversi rimedi, l’art. 119, comma 2, concernerebbe esclusivamente le fattispecie di ribassi su prezzi unitari.
Questa soluzione ermeneutica deriva dalla inammissibilità di una interpretatio abrogans dell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924: la norma, in assenza di un’esplicita disposizione diretta in tal senso, non può ritenersi espunta dall’ordinamento e, pertanto, non può essere svuotata di significato in virtù della sola esistenza di una disposizione cronologicamente più recente ma afferente ad una diversa fattispecie.
4.2 A ben vedere, l’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, non può nemmeno considerarsi espressione di un principio innovativo, derivante da originali e mutate tendenze dell’ordinamento: la disposizione in esso contenuta rappresenta la riproduzione di quanto già sancito, dapprima, con l’art. 5 della l. n. 14 del 1973 (“norme sui procedimenti di gara negli appalti di opere pubbliche mediante licitazione privata”), secondo il cui comma 4 “i prezzi unitari sono indicati in cifre ed in lettere: vale, per il caso di discordanza, il prezzo indicato in lettere [...]” e, successivamente, con una disposizione identica all’attuale formulazione, dall’art. 90, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 554 del 1999.
Da ciò, parte della giurisprudenza ha ritenuto di poter ricavare una giustificazione al carattere di norma generale dell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924, il cui ambito di applicazione sarebbe escluso nelle sole ipotesi regolate dall’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010: in effetti, se il criterio di valorizzazione dell’offerta espressa in lettere fosse elevato a soluzione di carattere generale, non si comprenderebbe il motivo per cui tale disposizione non abbia abrogato l’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 (cfr. C.G.A.R.S. 04.09.2014 n. 511; id. 06.02.2014 n. 54).
4.3 La relazione di specialità che connota le due disposizioni in esame potrebbe essere dedotta, altresì, dal dato testuale contenuto nell’art. 119, comma 2: quest’ultimo, in effetti, si riferisce esplicitamente ed in via esclusiva alle gare indette con il criterio dell’offerta a prezzi unitari.
Pertanto, quanto all’aggiudicazione tramite il criterio del prezzo più basso sull’elenco prezzi posto a base di gara, dovrebbe prevalere il criterio imposto dall’art. 72 r.d. n. 827 del 1924. Invero, questa soluzione non può dirsi inficiata dalla presenza dell’art. 118 del d.P.R. n. 207 del 2010 che, seppur disciplinante la medesima fattispecie, non prevede un criterio di risoluzione delle discordanze tra l’offerta espressa in cifre e quella espressa in lettere.
5. Il Collegio ritiene che la tesi sopra esposta, seppur suffragata da valide argomentazioni, tanto sotto il profilo logico-sistematico, quanto da un punto di vista strettamente giuridico, non possa essere condivisa e, dunque, debba considerarsi superata dal differente orientamento giurisprudenziale che considera il criterio enunciato dall’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010 espressione di un principio di portata generale.
5.1 La valorizzazione dell’offerta maggiormente vantaggiosa per l’Amministrazione potrebbe creare delle problematiche nell’ambito delle gare in cui vi sia un meccanismo di esclusione delle offerte anomale. Anche nell’ordinanza di remissione è stato individuato questo aspetto critico, evidenziando l’impossibilità di stabilire ex ante quale sia l’offerta più vantaggiosa per l’Amministrazione: nel contrasto tra offerta espressa in lettere ed offerta espressa in cifre, quella che in astratto può apparire maggiormente vantaggiosa, potrebbe condurre, invece, ad una sua esclusione per anomalia.
Va altresì rilevato che le offerte considerate valide nel corso di una gara, concorrono a determinare il valore medio di quelle presentate dalla totalità dei concorrenti e, in definitiva, a fissare l’entità delle offerte che subiranno gli effetti del c.d. “taglio delle ali”.
Non meno rilevanti appaiono i risvolti che l’applicazione di questo criterio risolutivo genererebbe in relazione al principio di unicità della offerta, di cui all’art. 11, comma 6, d.lgs. n. 163 del 2006: l’errore di scritturazione, qualunque ne sia la causa, che determina discrasia tra l’offerta espressa in lettere e quella espressa in cifre, potrebbe condurre l’Amministrazione a valutare la più vantaggiosa tra le due soltanto in una fase successiva alla individuazione delle offerte degli altri concorrenti, con conseguente lesione del divieto di offerte plurime e della par condicio fra i concorrenti, nonché del buon andamento dell’azione amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.09.2010, n. 6695).
5.2 L’art. 119, comma 2, pur non introducendo una disposizione di carattere innovativo, risponde ad esigenze del tutto differenti rispetto all’art. 72 r.d. n. 827 del 1924: la tutela della concorrenza, infatti, costituisce la più importante ratio ispiratrice dell’intera normativa del settore dei contratti della Pubblica Amministrazione e, in quest’ottica, anche la giurisprudenza di settore deve necessariamente orientarsi.
La effettiva parità tra gli operatori economici che partecipano ad una procedura finalizzata all’affidamento di un appalto, non può considerarsi secondaria rispetto ad altri e diversi interessi, seppur questi rivestano un’importanza considerevole. Il legislatore europeo, prima, e nazionale, poi, nel delineare il corpus normativo afferente alla materia dei contratti, si è orientato nel senso di valorizzare primariamente la par condicio fra operatori economici, quale strumento per rendere virtuoso il sistema economico nel suo complesso.
Ciò posto, dunque, il criterio di cui all’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010 è indubbiamente orientato all’effettiva parità fra coloro che partecipano ad una gara pubblica, poiché impone alla commissione un comportamento univoco, non soggetto a interpretazioni virtualmente difformi. Diversamente, l’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 opera con precipuo riferimento all’interesse economico-finanziario dell’Amministrazione, come dimostra il suo inserimento all’interno di un sistema normativo finalizzato all’"amministrazione del patrimonio” ed alla “contabilità generale dello Stato” e l’intenzione di addossare sull’operatore il costo dell’errore in sede di compilazione dell’offerta.
5.3 Da un punto di vista sistematico, inoltre, nonostante sia vero che l’art. 119 si riferisce esclusivamente alle fattispecie di “aggiudicazione del prezzo più basso determinato mediante offerta a prezzi unitari”, non può escludersi che il criterio, in esso previsto, di superamento delle discrasie tra offerte espresse in lettere ed offerte espresse in cifre, dalle ipotesi in cui l’aggiudicazione venga definita in virtù del massimo ribasso sull’elenco prezzi o sull’importo dei lavori.
Invero, questa possibilità va considerata pienamente ammissibile, anche solo comparando il dato testuale ricavabile dalle disposizioni che disciplinano tali fattispecie: in effetti, l’art. 119, a differenza dell’art. 118, prevede che “il prezzo complessivo ed il ribasso sono indicati in cifre ed in lettere”; inoltre, il criterio della prevalenza del prezzo indicato in lettere è affermato sia nel caso di discordanza riscontrata nel prezzo complessivo o nel ribasso percentuale (comma 2), sia nel caso di incongruenze presenti nei prezzi unitari (comma3). Da ciò si ricava che il criterio della valorizzazione del prezzo indicato in lettere risponde ad un’esigenza di certezza tanto per i concorrenti, quanto per la stazione appaltante (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 01.10.2013 n. 4873; id., Sez. V, 12.09.2011, n. 5095).
La soluzione offerta dall’art. 119 non è riprodotta nell’art. 118, a causa dell’assenza di un’espressa richiesta della doppia indicazione, in cifre ed in lettere, dell’offerta proposta dal concorrente: se si ritenesse, in ossequio ad un’interpretazione strettamente letterale, che il criterio risolutivo di cui alla prima disposizione non possa essere applicato alle fattispecie di cui all’art. 118, parimenti dovrebbe escludersi la validità della previsione, contenuta in un disciplinare di gara, secondo cui l’offerta del singolo partecipante debba indicarsi sia in cifre che in lettere.
5.4 Altrettanto rilevante, secondo il Collegio, risulta il riferimento alla maggior ponderazione che richiede la scritturazione dell’offerta in lettere da parte del concorrente: questa affermazione, lungi dall’essere un’ipotesi astratta e soggettiva, trova riscontro anche in altri ambiti dell’ordinamento (art. 6 r.d. n. 1669 del 1933 e art. 9 r.d. n. 1736 del 1933), a dimostrazione della volontà di attribuire rilievo ad un’esigenza di certezza ed affidamento dei destinatari dei documenti su cui vengono apposti gli importi in cifre ed in lettere.
A ben vedere, la stessa necessità di indicare anche in lettere un determinato importo, implica, a monte, la possibilità di errori di scritturazione della somma in cifre: non risponderebbe ad un criterio di ragionevolezza, ricostruire l’effettiva volontà dello scrivente in modo differente a seconda della tipologia dell’ambito in cui ci si trova; la priorità, in tal senso, attribuita all’indicazione dell’importo trascritto in lettere, consente di porre un criterio univoco ed imparziale, idoneo a superare ogni tipo di contrasto esegetico.
6. In definitiva, se da un lato rimane indubbia la vigenza dell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924, dall’altro lato, la sua compatibilità con l’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010 è giustificata dal diverso ambito applicativo dei due sistemi normativi: al riguardo il criterio di specialità è utile, ma deve applicarsi con riferimento alle due fonti normative complessivamente considerate, e non in rapporto ai soli criteri di risoluzione delle discrasie presenti nelle offerte.
Da ciò deriva che l’organicità, la completezza e la specificità del d.lgs. n. 163 del 2006 (e del relativo Regolamento di esecuzione), destinato a disciplinare “i contratti delle stazioni appaltanti, degli enti aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatari, aventi ad oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori ed opere”, consentono di affermarne la natura derogatoria, nel suo complesso, rispetto alle disposizioni vigenti del r.d. n. 827 del 1924 che ha come obiettivo principale l’equilibrio economico-finanziario dello Stato.
Di conseguenza, il suo ambito applicativo può essere validamente circoscritto alle ipotesi, non ricomprese nell’alveo della disciplina del Codice dei contratti, in cui si renda necessario valorizzare l’interesse economico dello Stato: da ciò, può desumersi che il vantaggio per l’Amministrazione assurge a criterio dirimente in caso di contrasto fra offerta espressa in lettere ed offerta espressa in cifre, laddove occorra massimizzare gli introiti per l’Erario, mentre gli interessi degli operatori economici sono posti in un secondo piano.
In ultima analisi, il criterio di cui all’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 può ritenersi validamente operante, come è stato correttamente evidenziato, nelle ipotesi di procedure ad evidenza pubblica aventi ad oggetto la stipula di contratti passivi, come la vendita o la locazione di beni.
7. Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello della ditta Pe.Ap. s.r.l. deve essere respinto.
L’unico motivo di appello, con il quale è stata riproposta, in sede di impugnazione, la censura rivolta a sindacare la legittimità dell’operato della commissione aggiudicatrice, non può essere condiviso: infatti, quest’ultima nell’attribuire rilevanza, in presenza di discordanze, all’offerta espressa in lettere, ha correttamente applicato il criterio di cui all’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010 che può considerarsi espressione di un principio di carattere generale, da ritenersi valido anche al di fuori dei casi espressamente richiamati dalla norma. La stessa commissione, nel verbale di aggiudicazione provvisorio ha fatto espresso rinvio “a quanto previsto dal Regolamento”, con ciò volendo esprimere il riferimento ai principi in esso previsti.
Secondo il Collegio, in definitiva,
va confermata integralmente la decisione di primo grado, con cui il TAR ha delineato, in modo del tutto corretto, non soltanto i rispettivi ambiti di competenza dei due sistemi normativi in questa sede esaminati, ma, altresì, la legittimità dell’operato della commissione aggiudicatrice (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 13.11.2015 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di "carico urbanistico" deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico:
a) negli «standard» urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni contributo per le opere interne (art. 26 L. n. 47/1985 e art. 4, comma 7, l. 493/1993) che non comportano la creazione di nuove superficie utili, ferma restando la destinazione dell'immobile;
e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L. n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993)".
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L'aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere interne comportanti il mutamento della originaria destinazione d'uso di un edificio.

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8. Sulla nozione di "carico urbanistico", peraltro, vengono fornite puntuali indicazioni, osservando, testualmente, che "(...)questa nozione deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico:
a) negli
«standard» urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni contributo per le opere interne (art. 26 L. n. 47/1985 e art. 4, comma 7, l. 493/1993) che non comportano la creazione di nuove superficie utili, ferma restando la destinazione dell'immobile;
e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L. n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993)
".
Sulla scia di tali condivisibili rilievi, altre decisioni successive hanno ulteriormente delineato i termini della questione, richiamando l'attenzione sulla circostanza che il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche relativamente al carico urbanistico, deve presentare il requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione (Sez. III n. 4745, 30.01.2008; conf. Sez. VI n. 21734, 29.05.2008; Sez. Il n. 17170, 05.05.2010) e chiarendo che, a tal fine, l'abuso va considerato unitariamente (Sez. III n. 28479, 10.07.2009; Sez. III n. 18899, 09.05.2008).
L'aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere interne comportanti il mutamento della originaria destinazione d'uso di un edificio (Sez. III n. 22866, 13.06.2007; conf. Sez. IV n. 34976, 28.09.2010).
Nelle menzionate pronunce vengono, inoltre, indicate ipotesi specifiche di incidenza dei singoli interventi sul carico urbanistico, richiamando, ad esempio:
- il contenuto dell'articolo 41-sexies Legge 17.08.1942, n. 1150 come modificato dalle leggi 122/1989 e 246/2005 che richiede, per le nuove costruzioni ed anche per le aree di pertinenza delle costruzioni stesse, la esistenza di appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione (Sez. III n. 28479/2009, cit.);
- la rilevanza di nuove costruzioni in termini di esigenze di trasporto, smaltimento rifiuti, viabilità etc. (Sez. III n. 22866/2007, cit.);
- l'ulteriore domanda di strutture ed opere collettive, sia in relazione alle prescritte dotazioni minime di spazi pubblici per abitante nella zona urbanistica interessata (Sez. III, n. 34142, 23.09.2005)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.11.2015 n. 45282).

EDILIZIA PRIVATA: Frazionamenti con oneri più cari se è ristrutturazione. Consiglio di Stato. «Vecchi» interventi.
Titoli edilizi più onerosi, a vantaggio dei bilanci comunali, se si altera la distribuzione interna di un edificio per rendere più agevole una destinazione d’uso esistente. Questo quanto meno fino a settembre 2014, quando la «ristrutturazione» ha ceduto il posto alla meno cara «manutenzione».
Lo sottolinea il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 12.11.2015 n. 5184.
Il caso deciso riguarda la sede dell’ufficio Iva di Foggia, che il ministero dell’Economia aveva in locazione: scaduto il contratto, i due piani occupati sono tornati residenziali con l’inserimento di nuovi impianti, la modifica e la ridistribuzione dei volumi. Il risultato finale ha avuto un costo di oltre 40.000 euro di oneri, somma richiesta dal Comune in conseguenza della modifica alla distribuzione interna, dell’alterazione di fisionomia e consistenza fisica dell’immobile causata dalla demolizione di muri divisori, scale, servizi.
L’intervento, per Comune e Consiglio di Stato, è oneroso: va ritenuto di risanamento conservativo, mentre il privato non può pretendere di risparmiare affermando di aver effettuato solo opere di manutenzione straordinaria. La qualificazione dell’intervento come risanamento è derivata dall’inserimento di nuovi impianti, con la modifica e ridistribuzione dei volumi, anche indipendentemente dalla destinazione d’uso, che da residenziale, con l’attivazione della sede Iva era diventata direzionale per poi tornare ancora residenziale.
All’interno di un edificio con volumi già definiti, sono tornati così otto locali commerciali al piano terra, altrettanti autonomi servizi e impianti tecnologici, il vano scala interno è diventato superficie abitabile al primo piano, mentre una serie di divisori ha generato sette unità abitative di oltre 110 metri quadri, con relativi impianti termosanitari. Tutto ciò è ristrutturazione edilizia, perché sono risultati modificati la distribuzione della superficie interna ed i volumi e l’ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell’edificio, indipendentemente dalla destinazione d’uso, che nel caso esaminato è tornata residenziale.
La vicenda risale ai primi anni del 2000 e applica il principio che ricollega l’onerosità dell’intervento al tipo di modifiche e all’entità dei contributi in vigore al momento del rilascio del titolo edilizio (Consiglio di Stato 1513/1998; Tar Torino 3832/2005). Lo stesso intervento, se realizzato dopo il 2014, sarebbe stato possibile con diverse norme sia statali che regionali: la manutenzione straordinaria è infatti diventata più ampia (articolo 3 lettera b, del Dpr 380/2001, modificato dall’articolo 17 Dl 133, legge 164 del 2014) con possibilità di frazionare o accorpare unità, se si mantiene la volumetria complessiva e l’originaria destinazione d’uso.
Dal settembre 2014, l’articolo 17 del Dpr 380/2001 (Dl 133/2014, divenuto legge 164) agevolando la “densificazione” edilizia, avrebbe ridotto di almeno il 20% (rispetto al contributo per le nuove costruzioni), la ristrutturazione e il riutilizzo di immobili dismessi, tutte le volte che non vi sia una variante urbanistica, un permesso in deroga o un cambio di destinazione che generi maggior valore dell’edificio rispetto alla destinazione originaria.
La novità rende più facile frazionare e accorpare con manutenzione, perché le parole «frazionare» e «accorpare» sono state inserite nell’articolo 3, lettera b, dal DL 133/2014 all’interno della manutenzione straordinaria. Prima era possibile frazionare e accorpare ma era una ristrutturazione, ben più onerosa
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2015).

EDILIZIA PRIVATAGli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
In sostanza, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente (nel caso di specie, viene addirittura modificata!), atteso che anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
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Pertanto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, anche un intervento che non determini cambiamento di destinazione d’uso ma sia effettuato (così come è stato effettuato in concreto) con le modalità poco sopra indicate è da considerarsi un intervento di ristrutturazione.
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... per la riforma della sentenza del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE: SEZIONE III n. 5030/2005, resa tra le parti, concernente oneri di urbanizzazione primaria e secondaria.
...
1. Il Collegio ritiene di dover preliminarmente precisare, sotto il profilo delle circostanze in fatto, che la destinazione ad uffici degli immobili per cui è controversia, impressa nel 1972, è rimasta inalterata fino al 2003, quando l’appellante e gli altri comproprietari hanno presentato al Comune di Foggia una richiesta di cambio di destinazione d’uso compatibile, allegando un progetto esecutivo dei lavori da eseguire.
Il progetto prevedeva:
- la demolizione totale delle tramezzature e dei due servizi igienici e la ricostruzione delle stesse per ricavare n. 8 locali commerciali al piano terra, con altrettanti autonomi servizi igienici ed impianti tecnologici;
- l’apertura del caposcala A e B, con aumento della superficie per effetto della trasformazione del vano scala in superficie abitabile, al prima piano;
- la ricostruzione della tramezzatura per ricavare n. 7 unità abitative aventi una superficie media cadauna di oltre mq. 110, sempre al primo piano, con la costruzione di 7 impianti igienici e di altrettanti impianti di riscaldamento autonomi, nonché la realizzazione di 2 verande.

Già dalla semplice descrizione delle opere progettate, emerge all’evidenza l’appartenenza degli interventi al genus della ristrutturazione edilizia, atteso che manifestamente essi producono l’effetto di aumentare permanentemente il carico urbanistico di zona, con la conseguenza che sono dovuti gli oneri richiesti dal Comune.
2. Passando all’esame dettagliato dei motivi di appello, si deve evidenziare preliminarmente che l’errata trascrizione consistente nel richiamo, effettuato dalla sentenza del TAR, all’art. 9, ult. co., della legge n. 19 del 1971, non incide sull’iter motivazionale della decisione, ma costituisce un mero refuso materiale; peraltro, l’appellante nemmeno deduce come tale erroneo richiamo abbia inficiato la logica sottesa alla decisione (logica che è sintetizzabile in ciò: appartenenza dell’intervento al genus della ristrutturazione e, quindi, debenza degli oneri richiesti dal Comune).
3. Nel merito, più in specifico, si osserva che la concessione edilizia n. 74 del 13.06.2003 è stata legittimamente considerata dal Comune di Foggia a titolo oneroso perché i lavori portati in progetto consistevano in una totale ristrutturazione del piano terra e del primo piano, con totale demolizione delle strutture interne (muri divisori, scale, servizi e quant’altro esistente), con cambio di destinazione d’uso, dalla categoria funzionale omogenea direzionale a quella residenziale, e con incremento della superficie abitabile per effetto dell’eliminazione delle scale di collegamento tra il piano terra e il primo piano, nonché con la realizzazione, al primo piano, di due verande ricavate dall’arretramento del muro di prospetto.
Come ha chiarito ancora di recente questo Consiglio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 14.07.2015, n. 3505), gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia; in sostanza, affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente (nel caso di specie, viene addirittura modificata!), atteso che anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie.
Pertanto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, anche un intervento che non determini cambiamento di destinazione d’uso ma sia effettuato (così come è stato effettuato in concreto) con le modalità poco sopra indicate è da considerarsi un intervento di ristrutturazione.
Nel caso di specie, peraltro, l’immobile di cui si tratta è stato sì originariamente progettato per essere destinato alla residenza, quanto al primo piano, e ad attività commerciali quanto al piano terra; tuttavia, con successive varianti approvate in data 08.07.1970 e 15.05.1971, è stato totalmente realizzato e concretamente destinato ed utilizzato ad uffici, possedendone tutte le attitudini funzionali; lo dimostra, peraltro, lo stesso contenuto del progetto presentato da parte ricorrente nel 2003, che prevede, per l’appunto, la totale demolizione delle strutture distributive degli ambienti degli interi due livelli, con la totale ricostruzione delle stesse con le attitudini funzionali per la residenza a primo piano e per uso commerciale al piano terra.
Tale previa diversa destinazione d’uso è altresì dimostrata dal contenuto della relazione tecnica e dei disegni del progetto presentati al Comune in data 11.02.2003, ove si legge che “Gli immobili in oggetto acquistati nel dicembre 1972 furono locati in fase di costruzione al Ministero delle Finanze che, per proprie esigenze li fuse per destinarli ed utilizzarli interamente ad ufficio provinciale IVA”.
Pertanto, il Comune ha fatto corretta e legittima applicazione sia dell’art. 18 del Regolamento edilizio di Foggia, secondo il quale quando l’intervento di conversione d’uso e trasformazione tipologica richiede l’esecuzione di opere edilizie, esso viene assimilato ad un intervento di ristrutturazione; sia dell’art. 10, ult. comma, l. n. 10/1977, con conseguente quantificazione del contributo nella misura massima prevista al momento del mutamento della destinazione d’uso.
4. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.11.2015 n. 5184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIDi Pietro non vale sempre. Affidamenti diretti solo per adeguamenti.
È illegittimo utilizzare l'affidamento diretto al progettista per adeguare il progetto originario alle nuove norme, saltando l'obbligo di gara, per di più oltre la soglia comunitaria.

È quanto ha affermato il Consiglio di stato, Sez. V, con la sentenza 12.11.2015 n. 5182, che ha dichiarato illegittimo l'affidamento diretto per l'adeguamento del progetto (risalente al 1978), per un importo sopra la soglia comunitaria per mancanza dei presupposti che giustificano il ricorso alla procedura negoziata disciplinata dall'articolo 7 del dlgs 157/1995.
La stazione appaltante aveva proceduto ad affidare al progettista del progetto iniziale, con un meccanismo di estensione del contratto basato su quanto disponeva la cosiddetta «circolare Di Pietro» (del 07.10.1996, n. 4488/Ul) che forniva indirizzi operativi e chiarimenti sulla disciplina transitoria di talune norme della legge quadro sui lavori pubblici; era il periodo di passaggio fra la legge 11.02.1994, n. 109 e la legge 02.06.1995, n. 216 (Merloni-bis). L'articolo 9 della circolare prevedeva che «se la progettazione è stata affidata a professionisti esterni all'amministrazione, gli stessi potranno procedere al relativo adeguamento».
Il Consiglio di stato ha negato però la legittimità del riferimento a questa indicazione perché la possibilità prevista nella circolare presuppone un mero adeguamento del progetto che sta per essere appaltato, per evitare di riaffidare un nuovo incarico ritardando i lavori. Nel caso specifico, invece, al progettista (che aveva predisposto gli elaborati nel 1978) era richiesto di adeguare il progetto ai tre livelli di progettazione nel frattempo intervenuti (cioè di rifare l'intera progettazione) per un importo oltre la soglia dei 200 mila euro.
Per i giudici, che confermano la sentenza di primo grado, esclusa la possibilità di utilizzare la «circolare Di Pietro» perché si tratta di progetti risalenti a molti anni prima, occorreva, semmai, verificare se vi fossero gli estremi per un affidamento a trattativa privata ai sensi dell'allora vigente dlgs 157/1995, ma anche in questo caso la fattispecie «non è riconducibile ad alcun caso che eccezionalmente consente l'esperimento della procedura della trattativa privata», ai sensi dell'articolo 7 del dlgs 157/1995 (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).
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MASSIMA
1. Il Collegio ritiene innanzitutto di condividere l’eccezione di irricevibilità del gravame, sollevata dall’appellato sig. Vi.Sc..
Infatti, le speciali disposizioni acceleratorie di cui all'art. 23-bis dell'abrogata l. n. 1034 del 1971 si applicano nei giudizi relativi ai “provvedimenti relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse”, come quello di specie; in base a tale norma, è previsto che "Il termine per la proposizione dell'appello avverso la sentenza del tribunale amministrativo regionale pronunciata nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza".
Nel caso di specie, la sentenza appellata è stata notificata a tutte le controparti, compresa la Regione appellante, a mezzo del servizio postale, in data 30.01.2006 ed è pervenuta al procuratore dell’appellante stessa, ovvero all’Avvocatura Generale dello Stato, in data 02.02.2006, mentre l’atto di appello è stato notificato all’appellato Scaccia in data 03.04.2006.
Peraltro, la sentenza è stata depositata in data 30.05.2005, facendo pertanto decorrere anche i 120 giorni dalla pubblicazione cui si riferisce l'art. 23-bis dell'abrogata l. n. 1034 del 1971.
2. In ogni caso nel merito l’appello è comunque infondato, potendo sinteticamente rilevarsi che:
- la legittimazione al ricorso in tema di affidamento di contratti pubblici spetta ai soggetti che abbiano legittimamente partecipato alla procedura selettiva che si contesta, giacché solo tale qualità permette alla singola impresa di conseguire una posizione sostanziale differenziata e meritevole di tutela, fatte salve alcune deroghe (quali la contestazione della scelta della stazione appaltante di indire una determinata procedura; la denuncia dell'operatore economico di settore che contesta un affidamento diretto o senza gara; l'impugnazione di una clausola escludente) (cfr., da ultimo, ex multis, Consiglio di Stato sez. VI, 10.12.2014, n. 6048);
- la situazione in oggetto rientra proprio nel novero di tali ultime eccezioni, poiché il ricorrente in primo grado, in qualità di operatore economico di settore, ha contestato un affidamento diretto o senza gara;
- l’ipotesi dell’adeguamento del progetto in ragione del sopravvenuto mutato quadro normativo, nell’ipotesi in esame, non è riconducibile ad alcun caso che eccezionalmente consente l’esperimento della procedura della trattativa privata.
3. L’appello deve essere respinto.

ATTI AMMINISTRATIVILe disposizioni dettate dal D.lgs. 14.03.2013 n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (c.d. accesso civico), disciplinano situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli art. 22 e segg. L. 07.08.1990 n. 241, tenuto presente che, col citato D.lgs. n. 33 del 2013, s’intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione, nonché per la realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino.
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L’accesso civico consente ai cittadini e ad enti di controllare democraticamente se un’amministrazione pubblica abbia adempiuto agli obblighi di trasparenza previsti dalla legge, segnatamente se abbia provveduto alla pubblicazione di documenti, informazioni o dati, sicché l’amministrazione destinataria dell’istanza di accesso civico, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del citato D.lgs. n. 33 del 2013, entro trenta giorni, deve pubblicare il documento, informazione o dato richiesto sul sito istituzionale, trasmettendolo contestualmente all’istante, ovvero comunicando a quest’ultimo il collegamento ipertestuale per l’accesso, con la precisazione che in tale ultimo modo la P.A. deve procedere allorché il documento, informazione o dato risulti già pubblicato nel rispetto della normativa vigente.

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... per l'accertamento del diritto alla trasparenza amministrativa relativa agli obblighi di pubblicazione concernenti degli organi di indirizzo politico del comune di Cosenza.
...
- Premesso che le disposizioni dettate dal D.lgs. 14.03.2013 n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (c.d. accesso civico), disciplinano situazioni non ampliative, né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli art. 22 e segg. L. 07.08.1990 n. 241, tenuto presente che, col citato D.lgs. n. 33 del 2013, s’intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto ad una buona amministrazione, nonché per la realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 11.12.2014 n. 3027);
- Ritenuto che l’accesso civico consente ai cittadini e ad enti di controllare democraticamente se un’amministrazione pubblica abbia adempiuto agli obblighi di trasparenza previsti dalla legge, segnatamente se abbia provveduto alla pubblicazione di documenti, informazioni o dati, sicché l’amministrazione destinataria dell’istanza di accesso civico, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del citato D.lgs. n. 33 del 2013, entro trenta giorni, deve pubblicare il documento, informazione o dato richiesto sul sito istituzionale, trasmettendolo contestualmente all’istante, ovvero comunicando a quest’ultimo il collegamento ipertestuale per l’accesso, con la precisazione che in tale ultimo modo la P.A. deve procedere allorché il documento, informazione o dato risulti già pubblicato nel rispetto della normativa vigente (cfr. TAR Lazio, Sez. III-bis, 19.03.2014 n. 3014);
- Ritenuto che la domanda di accesso civico del 22.06.2015, rimasta senza riscontro, riguarda dati ed informazioni sottoposti agli obblighi di cui alla predetta normativa (art. 14), eccezion fatta che per la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, che dev’essere da costoro consentita;
- Considerato che, in conclusione, il ricorso va parzialmente accolto, con conseguente condanna del comune di Cosenza a procedere, entro 30 (trenta) giorni dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza, alla pubblicazione nel sito dei documenti, delle informazione e dei dati richiesti con la domanda di accesso civico del 22.06.2015 avanzata dal ricorrente, eccezion fatta che per la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado (salvo che non sussista autorizzazione in proposito) ed a comunicare al medesimo l’avvenuta pubblicazione, indicando il relativo collegamento ipertestuale (TAR Calabria-Cosenza, Sez. II, sentenza 12.11.2015 n. 1671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La sentenza con firma digitale è valida.
La sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale è valida.

Questo è quanto ha sancito la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 10.11.2015 n. 22871.
Nel caso in esame era stata impugnata una sentenza del Gdp Napoli lamentando la sua inesistenza giuridica ai sensi dell'art. 132, c. 2, n. 5 cpc..
Secondo la ricorrente, poiché la sentenza conteneva soltanto la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice, non era possibile l'identificazione del suo autore. Nell'impugnazione si deduceva che la normativa che ha introdotto nell'ordinamento la firma digitale non è applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti (che, per le sentenze, non è previsto); per di più, nel caso non vi sarebbero nemmeno la certificazione ed il deposito in cancelleria.
Il ricorrente riteneva, quindi, che nell'attuale sistema normativo la sentenza recante la firma digitale sarebbe stata mancante di sottoscrizione ai sensi dell'art. 132 cpc, e perciò inesistente. Secondo il Collegio il motivo è infondato. Infatti, pur rammentando che l'art. 132, cpc prescrive che la sentenza debba contenere «la sottoscrizione del giudice», rileva che è stata notevole 1'elaborazione giurisprudenziale concernente il profilo interpretativo di questa disposizione.
Le conclusioni sono, quindi, che la sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale, ex art. 15, dm 44/2011, non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, sia perché sono garantite l'identificabilità dell'autore, l'integrità del documento e l'immodificabilità del provvedimento (se non dal suo autore), sia perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa, in forza dei principi contenuti nel dlgs 07.03.2005 n. 82 applicabili anche al processo civile, ex art. 4, del dl 193/2009 (articolo ItaliaOggi Sette del 23.11.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: La Cassazione dà il via libera alla sentenza (solo) elettronica. Gli standard di sicurezza ne garantiscono la genuinità.
Nullità. Respinto il ricorso sulla firma del giudice in formato digitale.
La firma digitale sulla sentenza redatta nel (solo) formato elettronico, garantisce l’identificabilità del magistrato sottoscrittore, l’integrità del documento e la non modificabilità del provvedimento deciso.
La III Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza 10.11.2015 n. 22871) avvalla definitivamente la digitalizzazione del processo telematico -respingendo una declaratoria di «inesistenza giuridica» di una sentenza del Tribunale di Napoli- ma lo fa soprattutto scegliendo la strada maestra.
La sentenza “digitale” è da riconoscere, sostiene la Terza, non tanto in via analogico-interpretativa, ma in forza di due leggi che -pur in mancanza di recepimento/coordinamento con il codice di procedura civile- ne fondano i presupposti normativi. Si tratta del decreto legislativo 82 del 2005 («Codice dell’amministrazione digitale») e del decreto legge 193/2009 («Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario»).
Con il corollario che non è neppure necessario il deposito “materiale” in cancelleria (eccepito con un secondo motivo di ricorso) perché il giudice, trasmettendo telematicamente il documento (sentenza) in cancelleria, lo consegna al cancelliere per la pubblicazione, impedendone successive manipolazioni anche da parte del giudice mittente stesso.
La vicenda da cui trae spunto la decisione della Suprema corte era relativa a una sentenza del giudice di pace di Napoli, poi impugnata, per un precetto opposto-opposizione accolta per poche centinaia di euro. Secondo il ricorrente la sentenza (solo) telematica era inesistente dal punto di vista giuridico perché contenente «solo la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice» rendendo «non possibile» la sua identificazione anche perché la normativa che aveva introdotto nell’ordinamento la firma digitale «non sarebbe applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti che per le sentenze non è previsto».
Argomentazioni, queste, respinte in toto dalla Cassazione perché, tra l’altro, il Dpcm 30.03.2009 (G.U. 129/2009) fissa le regole di sicurezza dell’interazione tra la smart card, l’identificazione certa del titolare e il dispositivo di rilascio del provvedimento, garantendo che la chiave privata (un semplice file) non può essere estratta e che il suo sblocco attraverso il pin avvenga solo all’interno del dispositivo (pc) utilizzato per la stesura originaria.
Questi principi generali di sicurezza sono stati poi recepiti nel dl 193/2009 (convertito con modificazioni dalla legge 22.02.2010, n. 24) fondando i presupposti giuridici all’interno del processo telematico
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2015).

APPALTI SERVIZI: L'avvalimento si applica alle concessioni di servizi.
L'istituto dell'avvalimento si applica anche alle procedure di affidamento di concessioni di servizi, nonostante l'art. 30 del codice dei contratti pubblici non lo preveda, in quanto istituto pro concorrenziale; la disciplina delle concessioni è ormai quasi equiparata a quella degli appalti.

Sono questi alcuni dei principi affermati dal Consiglio di Stato -Sez. IV- nella sentenza 09.11.2015 n. 5091 che, rispetto a una procedura di affidamento in concessione di una piscina comunale avviata nel 2013, era chiamato a stabilire la legittimità dell'utilizzo dell'istituto dell'avvalimento (il c.d. prestito di requisiti di partecipazione disciplinato dall'articolo 49 del codice dei contratti pubblici).
I giudici, nel confermare la sentenza di primo grado, premettono l'affidamento di concessioni di servizi a terzi deve sempre avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato Ue e dei principi generali sui contratti ad evidenza pubblica. Il riferimento è ai «principi» e non alle «disposizioni», ma il Consiglio di stato chiarisce che «si devono intendere riconducibili ai principi tutte quelle norme che rappresentino la declinazione dei principi generali della materia e trovino la propria ratio immediata nei medesimi principi».
Ed è questo il caso dell'articolo 49 sull'avvalimento che pur essendo norma non applicabile alle concessioni (visto che l'articolo 30 del codice dei contratti pubblici le sottrae alle disposizioni sugli appalti) deve essere ritenuto invece utilizzabile perché istituto funzionale all'attuazione dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità applicabili alle concessioni.
Non solo: l'avvalimento -dicono i giudici- consente anche di rendere cogente il rispetto dei principi, di libera concorrenza, non discriminazione, proporzionalità e pubblicità, richiamati dall'articolo 2 del codice dei contratti in quanto istituto che favorisce la concorrenza nel settore delle commesse pubbliche. L'articolo 49 deve quindi ritenersi utilizzabile anche nelle concessioni di servizi, «senza sbarramenti rilevanti, per ogni tipo di requisito tecnico, professionale o finanziario».
Tutto ciò vale anche in considerazione del fatto che ormai, dice il Consiglio di Stato, la disciplina delle concessioni è sostanzialmente assimilata a quella degli appalti pubblici (articolo ItaliaOggi del'11.11.2015).
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MASSIMA
6. – Per quanto ammissibile, però, l’appello principale è anch’esso privo di pregio e dev’esser rigettato, per le considerazioni di cui appresso.
Già in primo grado, l’odierna appellante aveva ritenuto non avvalibile e non dimostrato il possesso, in capo alla seconda graduata Ursa Major, del requisito esperienziale, inerente allo svolgimento, nel triennio precedente alla pubblicazione del bando, di attività analoga a quella oggetto di concessione.
A tal riguardo, il TAR ha precisato, con statuizione ben condivisibile, che siffatto requisito era certo posseduto dalla Ursa Major, essendosi avvalsa di quello di altra impresa e che l’avvalimento era stabilito in modo espresso dal § 13) del disciplinare.
A differenza di ciò che opina l’ATI appellante
non è vero che, nelle gare per affidare concessioni, vi sia una preclusione contro l’avvalimento ex art. 49 del Dlgs 163/2006, istituto, invece, che ha efficacia generale ed è ammesso, senza sbarramenti rilevanti, per ogni tipo di requisito tecnico, professionale o finanziario. L’avvalimento serve infatti a garantire la massima partecipazione alle gare ad evidenza pubblica, consentendo ai concorrenti, che siano privi di quelli richiesti dal bando, di parteciparvi ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, così agevolando l'ingresso sul mercato di nuovi operatori e, quindi, la concorrenza fra le imprese (cfr. così Cons. St., III, 13.10.2014 n. 5057).
Si tratta di una precisazione assai rilevante, agli occhi del Collegio, se si considera che dal 2013 (cfr. Cons. St., ad. plen., 07.05.2013 n. 13), questo Giudice interpreta l’esclusione, posta dall’art. 30, c. 3, del Dlgs 163/2006, delle concessioni di servizi dall’ambito delle regole sugli appalti.
L'affidamento di queste ultime, conformemente alla giurisprudenza europea e nazionale, deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato UE e dei principi generali sui contratti ad evidenza pubblica, all’uopo distinguendo tra principi e disposizioni. Si devono allora intendere riconducibili ai primi (e quindi estensibili anche alle concessioni di servizi) tutte quelle norme che, pur configurandosi a guisa di disposizioni legislative specifiche, rappresentino la declinazione dei principi generali della materia e trovino la propria ratio immediata nei medesimi principi: siffatte norme sono, dunque, esse stesse come principi generali della materia. In particolare, l'art. 30 sottrae sì dette concessioni alle disposizioni sugli appalti, ma le assoggetta comunque, in coerenza con il precedente art. 27 (principi relativi ai contratti esclusi), al rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità (arg. ex Cons. St., VI, 16.07.2015 n. 3571).
In aggiunta,
l’art. 2, c. 1, del Dlgs 163/2006 impone alle procedure inerenti alle concessioni de quibus di rispettare i principi, tra l’altro, di libera concorrenza, non discriminazione, proporzionalità e pubblicità, con le modalità indicate nello stesso decreto n. 163. Sicché il ripetuto art. 30 s’inserisce nell'ottica della progressiva assimilazione delle concessioni stesse agli appalti (arg. ex Cons. St., VI, 04.06.2015 n. 2755), nel senso di renderne omogenee le regole di scelta del contraente.
Così l’asserito (dall’ATI appellante) intuitus personae, che a suo dire connoterebbe il regime delle concessioni di servizi, al più è divenuto un concetto se non contrario certo recessivo secondo le norme UE, nella misura in cui
anche l’affidamento in concessione, pur non tollerando la sussunzione in blocco di tutto il Codice degli appalti pubblici, dev’esser preceduto dall’applicazione rigorosa, tra gli altri, dei principi di pubblicità, concorsualità e tutela della concorrenza.
7. –
Se, dunque, l’avvalimento è predicato quale strumento anche per aumentare la libera concorrenza nel mercato delle commesse pubbliche (ossia, della messa a disposizione delle utilità collettive nei confronti delle imprese del settore) poiché consente all'impresa ausiliata d’utilizzare tutti i requisiti di capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria (compresa la certificazione di qualità: cfr. in questi termini Cons. St., IV, 03.10.2014 n. 4958), allora è anch’esso modo con cui in concreto si attua un principio indefettibile tra le regole di detto mercato.
Non sfugge certo al Collegio che, a seconda del tipo di bene pubblico da concedere e della natura e particolare sensibilità degli interessi collettivi coinvolti, la lex specialis di gara potrebbe delineare, negli ovvi limiti di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza, un concorso solo tra soggetti ad alta qualificazione e, quindi, idonei per le loro esclusive qualità a gestire il bene.
Ma nemmeno si può sottacere che una tal vicenda rientra nei poteri discrezionali (si badi, e non arbitrari) d’ogni ente aggiudicatore nella scelta della platea dei possibili concorrenti e dei modi di aggiudicazione, onde essa non è un connotato peculiare delle concessioni.
E pure ad accedere alla tesi restrittiva attorea, non irrazionale è quella clausola della lex specialis, pure per le concessioni e come nella specie, che fissi l’utilizzabilità dell’avvalimento in base alle regole proprie di questo, le quali appunto svolgono in concreto l’attuazione della libera concorrenza.

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza dirigenziale comunale con la quale è stata ordinata la rimozione del cancello posto ad interruzione della viabilità sulla strada vicinale pubblica poiché di competenza sindacale.
L'esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali è attribuito al Sindaco dall'art. 378 della legge 20.03.1865, all. F e dall'art. 15 DL Lgt. 01.09.1918 n. 1446, sottratto, quest'ultimo, all'effetto abrogativo di cui all'art. 2 del DL 22.12.2008 n. 200 (convertito, con modificazioni, nella legge 18.02.2009 n. 9) dall'art. 1, II comma del DLgs 01.12.2009 n. 179.
Né tale potere può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore del DLgs n. 267/2000, atteso che l'art. 107, V comma del predetto testo normativo fa espressamente salve le competenze del Sindaco previste dall'art. 50, III comma e dall'art. 54 (e cioè le competenze espressamente attribuitegli dalla legge in determinate materie e, specificatamente, in materia di ordine e di sicurezza pubblica).
Dunque, l’esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali –quale quello esercitato dall’Amministrazione nel caso in esame– è attribuito al Sindaco.
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 29/205 Reg. Ord., di data 24.06.2015, del Comune di Salzano, con la quale è stata ordinata la rimozione del cancello posto ad interruzione della viabilità sulla strada vicinale pubblica via Dosa, nonché di ogni atto annesso, connesso o presupposto.
...
La censura è fondata.
Come ricordato dal ricorrente, a seguito dell’impugnazione di un primo provvedimento (prot. n. 25252 del 28.12.2009), a firma del Responsabile dell’Area Tecnica del Comune resistente, con il quale era stata ingiunta la riapertura del cancello di cui si discute, posto ad interruzione della viabilità, questo Tribunale, accogliendo il ricorso, aveva rilevato il difetto di competenza del Responsabile dell’Area Tecnica, osservando che “l'esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali è, infatti, attribuito al Sindaco dall'art. 378 della legge 20.03.1865, all. F e dall'art. 15 DL Lgt. 01.09.1918 n. 1446, sottratto, quest'ultimo, all'effetto abrogativo di cui all'art. 2 del DL 22.12.2008 n. 200 (convertito, con modificazioni, nella legge 18.02.2009 n. 9) dall'art. 1, II comma del DLgs 01.12.2009 n. 179. Né tale potere può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore del DLgs n. 267/2000, atteso che l'art. 107, V comma del predetto testo normativo fa espressamente salve le competenze del Sindaco previste dall'art. 50, III comma e dall'art. 54 (e cioè le competenze espressamente attribuitegli dalla legge in determinate materie e, specificatamente, in materia di ordine e di sicurezza pubblica)” (TAR Veneto, sez. I, 11.02.2010, n. 433).
Il Collegio non vede valide ragioni per discostarsi dal riportato orientamento giurisprudenziale, anche di recente confermato (TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 13.02.2014, n. 128), secondo il quale, dunque, l’esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali –quale quello esercitato dall’Amministrazione nel caso in esame– è attribuito al Sindaco.
Tanto chiarito, il ricorso va accolto in relazione al denunciato vizio di incompetenza, dovendo restare assorbite tutte le ulteriori censure formulate in ricorso, alla luce del consolidato indirizzo giurisprudenziale, recentemente ed autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha precisato che “in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus” (Consiglio di Stato, A.P., 27.04.2015, n. 5).
Il ricorso, pertanto, va accolto, nei termini sopra esposti, con conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 09.11.2015 n. 1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIL’antenna di telefonia non deve pagare l’Ici.
Tributi locali. Il palo della compagnia di Tlc non è fissato al terreno ed è assimilabile alle opere di urbanizzazione primaria con finalità pubblica.
È illegittimo l’accertamento Ici sull’impianto di telefonia poiché si tratta di un manufatto non fissato al terreno e assimilabile alle opere di urbanizzazione primaria con finalità pubbliche. Pertanto, sebbene non sia obbligatoriamente accatastabile, può essere incluso nella categoria E tra i fabbricati destinati al servizio della collettività.
Ad affermarlo è la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza 09.11.2015 n. 425/02/2015 (presidente e relatore Crotti).
Una nota compagnia telefonica, proprietaria di una stazione radio per l’espletamento del servizio di telefonia, riceveva un accertamento ai fini Ici, fondato su un atto di attribuzione di rendita catastale adottato dall’agenzia delle Entrate e mai notificato.
La società ricorreva contro il provvedimento, sottolineando che l’impianto è costituito da un palo metallico su cui insistono le antenne, fissato con bulloni su un basamento di cemento realizzato sul terreno e da un prefabbricato metallico destinato al ricovero degli apparati elettronici. La “struttura”, però, non è dotata di alcuna delle caratteristiche previste per l’obbligo di accatastamento e, pertanto, l’imposta non è dovuta. La società, inoltre, evidenziava di non essere proprietaria del terreno su cui insisteva, essendo solo titolare di un diritto d’uso.
Il Comune si costituiva, confermando la legittimità dell’atto: l’Ici era stata liquidata in base alla rendita catastale attribuita d’ufficio dall’Agenzia.
Il collegio emiliano, accogliendo il ricorso, ha innanzitutto rilevato una carente motivazione del provvedimento. L’attribuzione di rendita, oltre a non essere stata debitamente notificata alla contribuente, classificava il bene come un immobile in categoria D, per il quale la norma prevede che l’accatastamento sia operato attraverso una stima diretta e non con l’automatica applicazione delle tariffe.
Il giudice ha poi evidenziato che il legislatore, già da tempo, ha assimilato gli impianti delle reti di comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria (articolo 86, Dlgs 259/2003), poiché risultano direttamente asservite all’insediamento umano e rientrano nel patrimonio indisponibile del Comune. Pertanto, non sono oggetto di accatastamento, dato che non rivestono la qualifica di fabbricati stabili.
Inoltre, gli impianti per le comunicazioni non assolvono alcuna autonoma funzione produttiva, poiché fungono da meri ripetitori di un segnale. Tuttavia, sebbene non esista un preciso obbligo di accatastamento, attesa l’assimilazione alle opere di urbanizzazione, l’unica categoria catastale pertinente potrebbe essere il gruppo E, che include i fabbricati per speciali esigenze pubbliche.
A questo punto, al fine di stabilire l’iscrivibilità di un determinato bene nel gruppo E, oltre alle particolari caratteristiche costruttive, rileva la concreta destinazione collettiva, a prescindere dalla proprietà pubblica o privata del manufatto o dalla finalità lucrativa.
La Ctp di Reggio Emilia ha così concluso che il provvedimento di iscrizione catastale operato d’ufficio era illegittimo e, conseguentemente, anche la pretesa Ici sull’impianto doveva essere annullata
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGOSulla sussistenza dei presupposti necessari per il riconoscimento sia ai fini giuridici che economici della più elevata qualifica di lavoro (mansioni superiori svolte).
Alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il riconoscimento delle mansioni superiori può avere luogo in presenza della triplice e contestuale condizione inerente:
- all’esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello;
- alla previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione delle mansioni superiori da parte dell’organo a ciò competente;
- all’espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell’anno solare.
Non può ritenersi sufficiente l’ordine di servizio datato 11.07.1991, atteso che, secondo la costante giurisprudenza della Sezione ai fini del riconoscimento della pretesa azionata, è necessaria l'esistenza di un puntuale incarico formale, conferito dall'organo competente, requisito che non può essere integrato con tutta evidenza da un mero ordine di servizio.

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... contro Comune di Napoli ... per ottenere il riconoscimento della 5^ qualifica funzionale in relazione alle mansioni superiori asseritamente svolte dal 1973 al 30.03.1999 e delle differenze retributive spettanti a tale titolo, con conseguente condanna dell’amministrazione intimata al pagamento degli importi dovuti oltre ad interessi e rivalutazione monetaria.
...
Come si è anticipato nella parte in fatto, la domanda giudiziale ha ad oggetto il riconoscimento delle mansioni superiori asseritamente svolte dal ricorrente, a partire dal maggio 1973 e fino al marzo 1999, presso il cimitero di Soccavo del Comune di Napoli.
Ad avviso del Collegio il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto, non essendo comprovata la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento sia ai fini giuridici che economici della più elevata qualifica richiesta (V livello retributivo anziché III).
Infatti, alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il detto riconoscimento può avere luogo in presenza della triplice e contestuale condizione inerente: all’esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello; alla previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione delle mansioni superiori da parte dell’organo a ciò competente; all’espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell’anno solare (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. III, n. 5737 del 21.11.2014, n. 5904 del 10.12.2013, n. 768 del 13.03.2012; n. 829 del 16.02.2012; n. 3661 del 21.06.2012; Sez. V, n. 814 del 15.02.2010; Sez. VI, n. 9016 del 16.12.2012; TAR Campania, Napoli, Sezione V, n. 715 del 03.02.2015).
Nella fattispecie in trattazione le prime due condizioni su enumerate non sussistono.
Certamente non ricorre la prima condizione, non essendo stata data dimostrazione alcuna dell’esistenza di un posto vacante nella pianta organica riferito alla posizione funzionale e retributiva richiesta né a detta vacanza è fatto riferimento negli atti di gestione del rapporto di impiego versati in giudizio.
Ma neppure il secondo presupposto risulta sussistente, atteso che non è stato prodotto in giudizio alcun preventivo provvedimento formale ed esecutivo di incarico dell’organo di vertice e di gestione dell’amministrazione comunale, da cui insorga il dovere del dipendente di fornire le prestazioni imposte e le connesse responsabilità e, specularmente, in assenza del quale il dipendente stesso non può ritenersi tenuto ad espletare i compiti rientranti nelle attribuzioni della qualifica superiore.
Al riguardo, non può ritenersi sufficiente l’ordine di servizio datato 11.07.1991, atteso che, secondo la costante giurisprudenza della Sezione (cfr., tra le tante, sentenza del 18.03.2015, n. 1628), dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi, ai fini del riconoscimento della pretesa azionata, è necessaria l'esistenza di un puntuale incarico formale, conferito dall'organo competente, requisito che non può essere integrato con tutta evidenza da un mero ordine di servizio.
Per le considerazioni che precedono il ricorso va conclusivamente respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 06.11.2015 n. 5207 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36 del Dpr 380/2001, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
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Secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).

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La censura è infondata.
L’art. 36 del Dpr 06.06.2001, n. 380, al comma 3, prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che però possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali, i difetti di procedura o la mancanza di motivazione
>> (TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644).
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
Pertanto, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta istanza, valutato come significativo (nonostante, per definizione, risulti privo di motivazione), la tesi della ricorrente per la quale la presentazione di una istanza di sanatoria paralizzerebbe il potere repressivo del Comune sino alla definizione della predetta istanza non è condivisibile.
Sul punto, secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto).
Pertanto le argomentazioni di parte ricorrente nel senso da ultimo precisato, non tengono conto che, ai sensi dell’art. 36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine di settanta giorni dalla presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, si forma il silenzio-diniego ed, in tal caso, è onere del ricorrente impugnare tale silenzio -che a tutti gli effetti costituisce un provvedimento tacito- a pena di inammissibilità o improcedibilità del ricorso proposto avverso i successivi provvedimenti repressivi adottati dall’Autorità comunale (ordinanza di demolizione e/o l’atto di acquisizione al patrimonio comunale, a seconda dello stato di avanzamento del procedimento).
D’altronde, nella fattispecie in esame, l’affermazione della ricorrente secondo cui l’istanza di autorizzazione in sanatoria per i lavori oggetto dell’impugnato provvedimento demolitorio e del successivo accertamento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 37, D.P.R. 380/2001 sarebbe meritevole di accoglimento (con il conseguente diritto ad ottenere il permesso di costruire in sanatoria), in considerazione del fatto che l’immobile insisterebbe in una zona completamente mutata da un punto di vista urbanistico e sarebbe risalente nel tempo risulta poi stata smentita per tabulas dai sopravvenuti provvedimenti di diniego, dalla ricorrente ritualmente impugnati con i primi ed i secondi motivi aggiunti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
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Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento consolidato di questa Sezione in tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa”.
Ed una siffatta impostazione trova il conforto di pacifica giurisprudenza per la quale:
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato;
- In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato.
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio e secondo condivisa giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate.
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito, emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative della commessa trasgressione, rincara la lesione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che, perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
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Anche tale censura è infondata.
In proposito, secondo pacifica e condivisa giurisprudenza: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è connotata dal carattere vincolato e non discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento consolidato di questa Sezione in tema di attività sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che non può confidare sul mantenimento di una situazione contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una specifica motivazione né la valutazione sull’interesse pubblico, che “in re ipsa” (cfr. TAR Campania, sez. III, 03.02.2015, n. 634); ed una siffatta impostazione trova il conforto di pacifica giurisprudenza per la quale: <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745); ed, ancora: <<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); <<La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati, non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della disciplina esistente al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 22.03.2013, n. 354; TAR Veneto n. 1068 del 2013) e secondo condivisa giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045).
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito, emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative della commessa trasgressione, rincara la lesione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che, perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
Nella fattispecie, poi, alle stregua di quanto rilevato nella precedente censura, la valutazione della c.d. doppia conformità urbanistica richiesta dall’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001 -contrariamente a quanto infondatamente dedotto- non può dirsi essere stato omessa dall’Amministrazione atteso che il provvedimento di tacito diniego dell’istanza di sanatoria, pur risultando, per espressa volontà legislativa di per sé privo di motivazione, è impugnabile non per difetto di motivazione, bensì unicamente per il suo contenuto di rigetto (Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 08.06.2004, n. 9278), circostanza questa puntualmente avveratasi nel caso di specie atteso che i sopravvenuti provvedimenti espressi di diniego sono stati impugnati dalla ricorrente con i motivi aggiunti di cui appresso.
Inoltre il su riferito carattere vincolato caratterizzante il potere di irrogazione delle sanzioni in materia urbanistico-edilizie esclude che, in ogni caso, possa trovare ingresso qualsivoglia censura di disparità di trattamento per circostanza dell’identità dell’intervento edilizio in questione rispetto agli altri realizzati nei fondi limitrofi e che, però, non sarebbero stati oggetto di alcun provvedimento sanzionatorio da parte dell’Amministrazione comunale intimante; invero il parametro di riferimento per valutare la legittimità dell’attività repressiva posta in essere dall’Autorità urbanistica resta sempre e soltanto l’ordinamento senza che possa ammettersi il paragone o il confronto con altri casi apparentemente analoghi in relazione ai quali l’atteggiamento della predetta Autorità possa essere apparso più blando o tollerante.
Altrettanto ininfluente ai fine della sussistenza dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso si rivela la dedotta circostanza che la costruzione sarebbe stata effettuata svariati anni prima e sarebbe stata destinata a salvaguardare per preservare, il piano sottostante la stessa dalle intemperie, causa di infiltrazioni continue, atteso che nel nostro ordinamento non ha alcuna cittadinanza il c.d. “abuso di necessità”, apprestando un meccanismo di tutela “oggettivo” che, prescinde cioè dai motivi particolari per i quali è stato commesso l’abuso dovendosi apprestare un sistema sanzionatorio a presidio di beni e valori di assoluto rilievo primario
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa.
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati.
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In una prospettiva sostanzialistica che valga ad impedire che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento diventi un mero adempimento burocratico in grado soltanto di ritardare il corso dell’azione amministrativa, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio del procedimento, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbero introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
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Anche tale censura è infondata
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente da cui il Collegio non ha motivo per discostarsene rileva che: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e non richiede una specifica motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>> TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e la partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
D’altronde, in una prospettiva sostanzialistica che valga ad impedire che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento diventi un mero adempimento burocratico in grado soltanto di ritardare il corso dell’azione amministrativa, il privato non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio del procedimento, ma deve anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbero introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C.di S., sez. V, 02.04.2009, n. 2737)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ribadirsi che il nostro ordinamento non conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini della irrogazione della sanzione urbanistica.
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La censura è infondata.
Con un primo profilo di censura parte ricorrente deduce che, dovendo la costruzione salvaguardare il piano sottostante dalle intemperie, causa infiltrazioni continue e l’edificio sarebbe stato realizzato per scopi di abitazione primaria e non per fini speculativi.
Tuttavia, deve ribadirsi che il nostro ordinamento non conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini della irrogazione della sanzione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se con il termine "sanatoria impropria" vuolsi ammettere la possibilità di ritenere sanabile un’opera conforme allo strumento urbanistico generale anche se tale non lo era all’atto della sua realizzazione, la Suprema Corte ha precisato che è da escludere, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che solo successivamente siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Infatti, “l'attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla cosiddetta sanatoria impropria: tale istituto, elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della l. n. 10 del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia”.
Inoltre se con la c.d. “sanatoria impropria” si intendesse ritenere un piano regolatore generale per la circostanza di risalire a molti anni addietro “ormai superato e caducato e, soprattutto, non più attento ed ubbidiente alle esigenze della popolazione”, non più attuale e vigente.

Ancora, parte ricorrente, richiamandosi alla c.d. doppia conformità urbanistica prevista dall’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, per la quale la sanatoria di un’opera abusiva richiederebbe la conformità della stessa alla strumentazione urbanistica, sia con riferimento al momento della realizzazione dell’opera che al momento della presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, asserisce che la giurisprudenza avrebbe accolto un concetto di sanatoria impropria.
Al riguardo nota il Collegio che, se con tale termine vuolsi ammettere la possibilità di ritenere sanabile un’opera conforme allo strumento urbanistico generale anche se tale non lo era all’atto della sua realizzazione, la Suprema Corte ha precisato che è da escludere, in base all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che solo successivamente siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (cfr. Cass. pen., sez. III, 21/10/2014, n. 47402).
Infatti, “l'attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla cosiddetta sanatoria impropria: tale istituto, elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della l. n. 10 del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia” (cfr. TAR Salerno, sez. II, 27/09/2012, n. 1699).
Inoltre se con la c.d. “sanatoria impropria” si intendesse ritenere un piano regolatore generale per la circostanza di risalire a molti anni addietro “ormai superato e caducato e, soprattutto, non più attento ed ubbidiente alle esigenze della popolazione”, non più attuale e vigente.
Sotto tale profilo irrilevante (e non può invocarsi un concetto di “sanatoria giurisprudenziale impropria”), l’argomento addotto da parte ricorrente per il quale, risalendo il P.R.G. del Comune di San Giuseppe Vesuviano agli anni ‘80 esso dovrebbe considerarsi quasi abrogato per desuetudine, atteso che le previsioni dei piani regolatori generali che abbiano carattere pianificatorio, ossia di mera conformazione del territorio, sono destinati a durare a tempo indeterminato, salvo ovviamente le varianti in corso di vigenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il ricorso proposto contro il solo verbale redatto dai vigili urbani è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza all’adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale atto di accertamento della competente autorità amministrativa.
Il verbale di accertamento di infrazione redatto dal Corpo di Polizia Municipale non è direttamente impugnabile, trattandosi di atto a carattere endoprocedimentale, inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l’effetto dell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione.

In proposito, secondo pacifica e condivisa giurisprudenza: <<Il ricorso proposto contro il solo verbale redatto dai vigili urbani è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza all’adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale atto di accertamento della competente autorità amministrativa>> (ex multis: TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 08.01.2011, n. 25); ed, ancora: <<il verbale di accertamento di infrazione redatto dal Corpo di Polizia Municipale non è direttamente impugnabile, trattandosi di atto a carattere endoprocedimentale, inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l’effetto dell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione>> (TAR Trentino Aldo Adige, Trento, 10.12.2007, n. 183).
Ne deriva che, previa contestazione nel verbale di udienza ai sensi dell’art. 73 c.p.a., i motivi aggiunti in esame sono inammissibili in quanto prodotti avverso un verbale di accertamento di ottemperanza che, in quanto atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione con conseguente inammissibilità originaria del ricorso in esame (cfr. TAR Campania, sez. III, 15.01.2013, n. 28)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di agibilità, a norma dell’art. 24 del T.U. sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti”, come la giurisprudenza, anche della Sezione, ha già precisato.
Il Giudice d’appello ha al riguardo ribadito la delineata funzione già dalla giurisprudenza di prime cure riconosciuta al certificato di agibilità, avendo condivisibilmente puntualizzato la differenza ontologica tra i titoli abilitativi edilizi e il certificato di agibilità, precisando al riguardo che la “funzione del certificato di agibilità è accertare che l'immobile, al quale si riferisce, è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire, n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche”.
La giurisprudenza ha più di recente riproposto la cennata opzione interpretativa avendo ribadito che “Il certificato di agibilità ha la funzione di attestare il conseguimento degli standard minimi e generali di qualità degli edifici. Ai sensi dell'art. 24 n. 1, d.P.R. n. 380 del 2001, esso attiene unicamente agli aspetti della conformità dell'opera ai profili tecnici e igienico-sanitari, non avendo riguardo ai profili più strettamente urbanistici”.
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2.5. Quanto alla dedotta mancata allegazione all’istanza di trasferimento che occupa, di documentazione comprovante la regolarità urbanistico-edilizia del locale proposto, occorrendo infatti altresì corredare la domanda di trasferimento fuori zona di “idonea documentazione che attesta la regolarità urbanistico–edilizia del locale proposto, nonché la relativa destinazione d’uso commerciale” (art. 11, comma 3, D.M. n. 38/2013), come già anticipato in sede cautelare la delineata doglianza è fondata e va pertanto accolta.
Osserva in proposito il Collegio che il certificato di agibilità rilasciato dal Comune di Casamicciola Terme il 20.06.2014 e prodotto alla P.A. dalla controinteressata solo l’08.07.2014, tre giorni prima dell’adozione del provvedimento, a norma dell’art. 24 del T.U. sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti”, come la giurisprudenza, anche della Sezione, ha già precisato (TAR Campania–Napoli, Sez. III, n. 2240/2010; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 17.09.2009 n. 4672).
Il Giudice d’appello ha al riguardo ribadito la delineata funzione già dalla giurisprudenza di prime cure riconosciuta al certificato di agibilità, avendo condivisibilmente puntualizzato la differenza ontologica tra i titoli abilitativi edilizi e il certificato di agibilità, precisando al riguardo che la “funzione del certificato di agibilità è accertare che l'immobile, al quale si riferisce, è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire, n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche” (Consiglio di Stato sez. IV, 26.08.2014 n. 4309).
La giurisprudenza ha più di recente riproposto la cennata opzione interpretativa avendo ribadito che “Il certificato di agibilità ha la funzione di attestare il conseguimento degli standard minimi e generali di qualità degli edifici. Ai sensi dell'art. 24 n. 1, d.P.R. n. 380 del 2001, esso attiene unicamente agli aspetti della conformità dell'opera ai profili tecnici e igienico-sanitari, non avendo riguardo ai profili più strettamente urbanistici” (TAR Valle d’Aosta, 08.08.2015 n. 61).
Va inoltre soggiunto, come pure anticipato in sede cautelare, che il certificato di agibilità è del tutto inidoneo ad attestare la specifica destinazione d’uso commerciale, che, a norma dell’art. 11, comma 3, sopra riportato del D.M. n. 38/2013 deve essere attestata con idonea documentazione da allegare alla domanda di trasferimento della rivendita
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa regola, di matrice giurisprudenziale, secondo la quale l’inosservanza di un termine previsto per la conclusione di un determinato procedimento o per l’adozione di un determinato provvedimento non ne produce l’illegittimità in caso di adozione dell’atto conclusivo oltre il termine stesso, è derogata laddove una specifica norma sancisca la perentorietà del termine ovvero la consumazione del potere amministrativo con lo spirare di esso, essendosi statuito che “il carattere perentorio del termine di adozione di un atto amministrativo, comportante in caso di violazione l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi espressamente da un'apposita norma che qualifica come perentorio il termine o che prescriva la decadenza del potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo”.
Sull’argomento si è recentissimamente espressa anche la Sezione, avendo precisato, in linea con l’orientamento di cui si è testé fatto cenno, che “La violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l'illegittimità del provvedimento finale. Invero, il carattere perentorio del termine di adozione di un atto amministrativo, comportante in caso di violazione l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi espressamente da un'apposita norma che qualifica come perentorio il termine o che prescriva la decadenza del potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo”.
Si era già in tal senso condivisibilmente affermato che “In assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda come perentorio il termine assegnato per la conclusione del procedimento amministrativo, detto termine deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento -se abilita l'interessato ad agire contro l'inerzia dell'amministrazione- non esaurisce il potere di quest'ultima di pronunciarsi e, conseguentemente, non determina di per sé l'illegittimità del provvedimento finale”.

4.3. Non lascia infatti adito a dubbi né riserva in proposito spazi di discrezionalità all’Amministrazione la perentoria disposizione di cui all’ultimo periodo dell’art. 11, comma 4, del D.M. n. 38/2013 del quale è fondatamente dedotta la violazione.
Stabilisce invero tale norma che “4. Per le domande pervenute prive della documentazione di cui ai commi 2 e 3 gli Uffici competenti invitano il richiedente a provvedere alla loro integrazione nel termine di 30 giorni” peraltro indicando in termini tassativi e perentori anche le conseguenze dell’inutile decorso del predetto termine, all’uopo disponendo che “Decorso il termine senza che le stesse siano state integrate, le domande sono dichiarate improcedibili”.
Rammenta in proposito il Tribunale che la regola, di matrice giurisprudenziale, secondo la quale l’inosservanza di un termine previsto per la conclusione di un determinato procedimento o per l’adozione di un determinato provvedimento non ne produce l’illegittimità in caso di adozione dell’atto conclusivo oltre il termine stesso, è derogata laddove una specifica norma sancisca la perentorietà del termine ovvero la consumazione del potere amministrativo con lo spirare di esso, essendosi statuito che “il carattere perentorio del termine di adozione di un atto amministrativo, comportante in caso di violazione l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi espressamente da un'apposita norma che qualifica come perentorio il termine o che prescriva la decadenza del potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo” (TAR Puglia–Lecce, Sez. II, 18.05.2004, n. 3001).
Sull’argomento si è recentissimamente espressa anche la Sezione, avendo precisato, in linea con l’orientamento di cui si è testé fatto cenno, che “La violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l'illegittimità del provvedimento finale. Invero, il carattere perentorio del termine di adozione di un atto amministrativo, comportante in caso di violazione l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi espressamente da un'apposita norma che qualifica come perentorio il termine o che prescriva la decadenza del potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo” (TAR Campania-Napoli, Sez. III 11.06.2015 n. 3168).
Si era già in tal senso condivisibilmente affermato che “In assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda come perentorio il termine assegnato per la conclusione del procedimento amministrativo, detto termine deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento —se abilita l'interessato ad agire contro l'inerzia dell'amministrazione— non esaurisce il potere di quest'ultima di pronunciarsi e, conseguentemente, non determina di per sé l'illegittimità del provvedimento finale” (TAR Firenze, Sez. II, 08.10.2013 n. 1346)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 06.11.2015 n. 5188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICalcolo oneri di sicurezza. Divisi fra stazione appaltante e impresa.
Gli oneri della sicurezza «esterni» devono essere stimati dalla stazione appaltante e il ribasso dell'impresa, in assenza di precisazioni, si applica alla stima dell'appalto con esclusione di tali oneri.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 06.11.2015 n. 5070 che affronta la vicenda relativa all'indicazione degli oneri per la sicurezza.
In particolare, si chiarisce che la determinazione degli oneri di sicurezza cosiddetti esterni compete alla stazione appaltante, diversamente da quanto accade per gli oneri cosiddetti interni o aziendali. La stazione appaltante è quindi tenuta a stimarli fornendo ai concorrenti un'indicazione di cui non possono che tenere conto in sede di formulazione dell'offerta.
La sentenza rammenta che la norma del codice dei contratti che si occupa di questa materia è rappresentata dall'articolo 86, comma 3-bis, ove si stabilisce che il «costo relativo alla sicurezza» debba essere «specificamente indicato» rivolgendosi, per gli oneri cosiddetti esterni, alla stazione appaltante, che chiama a provvedere a questa indicazione in occasione della predisposizione della gara d'appalto e per gli oneri cosiddetti interni (aziendali), alle singole imprese concorrenti in sede di offerta.
Le radicali differenze che investono la natura degli oneri di sicurezza dell'uno e dell'altro tipo escludono che la regola della necessaria indicazione da parte delle concorrenti degli oneri aziendali, possa essere estesa anche agli oneri cosiddetti esterni.
Secondo i giudici, giacché la definizione degli oneri esterni «compete alla sola amministrazione, chiamata a fissarli a monte della procedura, su di essi le imprese concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo, sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a base della procedura».
Da ciò discende che, dal momento che è la lex specialis a stabilire, quantificandoli, gli oneri di sicurezza cosiddetti esterni e il valore economico rispetto al quale i ribassi di gara verranno ammessi, non è possibile dubitare (di regola almeno) che i ribassi presentati in concreto senza precisazioni debbano essere riferiti proprio all'ammontare ammesso a ribasso dalla stessa legge di gara (articolo ItaliaOggi del 13.11.2015).
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MASSIMA
10d - Infondato, infine, è anche il residuo mezzo dell’appello incidentale, che verte in tema di oneri di sicurezza.
10d1 - Il Consorzio ha ricordato che il servizio destinato ad affidamento si connotava per un importo complessivo a base d’asta di euro 2.823.646,76, di cui euro 2.801.151,98 come corrispettivo a base di gara soggetto a ribasso, ed euro 22.494,78 come oneri di sicurezza c.d. esterni, non soggetti a ribasso.
Tanto premesso, il Consorzio si è doluto che la IMPRESUD nell’offrire il proprio ribasso non abbia specificato se la sua offerta era sull’importo globale onnicomprensivo di euro 2.823.646,76 o, invece, sull’importo al netto degli oneri non soggetti a ribasso (euro 2.801.151,98).
L’offerta avversaria, è stato detto, si è limitata a indicare la percentuale di ribasso, senza specificare l’ammontare degli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso da sottrarre all’importo a base d’asta, e perciò senza chiarire su quale base andasse applicato il ribasso offerto.
La censura di parte riguarda, pertanto, i soli oneri di sicurezza c.d. esterni.
10d2 - Il Collegio deve preliminarmente osservare che la problematica che così viene agitata non ha formato oggetto di esame da parte dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio in occasione della sentenza n. 3/2015, la quale ha riguardato la diversa –benché contigua- tematica degli oneri di sicurezza c.d. interni o aziendali, che era stata appunto sollevata con l’ordinanza della Sezione 16.01.2015, n. 88. Benché, quindi, nella decisione dell’Adunanza compaia [nel paragr. 2.9, alla lett. a)], un accenno en passant anche alla considerazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, questo va considerato all’evidenza come un mero obiter dictum, come tale insuscettibile di vincolare ai fini della previsione dell’art. 99, comma 3, C.P.A..
10d3 - Fatta questa premessa, il Collegio deve subito osservare che il ribasso offerto senza la specificazione sulla cui omissione si appunta la doglianza del Consorzio non può che essere inteso alla luce della previsione della lex specialis, già ricordata, indicativa dell’importo a base d’asta ammesso a ribasso: l’offerta dell’IMPRESUD deve, pertanto, essere riferita al (solo) importo soggetto a ribasso in forza della legge di gara.
D’altra parte, non vi è alcuna norma che imponga ai concorrenti (tantomeno, a pena di esclusione) di riprodurre nella loro offerta la quantificazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni già effettuata dall’Amministrazione, un precetto simile non comparendo né nella disciplina positiva, né nella specifica lex specialis.
Il disciplinare esigeva, semmai, nella sua pag. 10, un’apposita dichiarazione delle concorrenti riflettente i “costi di sicurezza aziendali”: ma non è a questi che la censura in esame si riferisce (l’offerta economica di IMPRESUD presentava inoltre puntualmente la precisazione, parimenti richiesta al punto cit., che il ribasso proposto era “al netto del costo del personale e degli oneri per l’attuazione dei piani di sicurezza”).
Né l’adempimento ulteriore preteso dal Consorzio presenterebbe utilità di sorta, proprio per la ragione che la determinazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni compete alla Stazione appaltante (contrariamente a quanto vale per gli oneri c.d. interni o aziendali), che vi procede impartendo un’indicazione di cui i concorrenti non possono far altro che tenere conto all’atto della formulazione delle loro offerte.
Le radicali differenze che investono la natura degli oneri di sicurezza dell’uno e dell’altro tipo (ben scolpite dalla stessa Adunanza Plenaria) escludono, invero, che la regola della necessaria indicazione da parte delle concorrenti degli oneri aziendali, i quali sono appunto loro individualmente propri, possa essere estesa anche agli oneri c.d. esterni, giacché la definizione di questi ultimi compete appunto, per converso, alla sola Amministrazione, chiamata a fissarli a monte della procedura, e su di essi le concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo, sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a base della procedura.
L’art. 86, comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006, dove stabilisce che il “costo relativo alla sicurezza” debba essere “specificamente indicato”, si rivolge al tempo stesso, infatti: per gli oneri c.d. esterni, alla Stazione appaltante, che chiama appunto a provvedere a siffatta indicazione in occasione della predisposizione della gara d’appalto; per gli oneri c.d. interni, alle singole concorrenti in sede di offerta.
10d4 -
Non può infine condividersi la tesi che l’omessa riproduzione dell’importo degli oneri di questo secondo tipo da parte degli offerenti possa generare di per sé un’indeterminatezza dell’offerta, o farne venir meno un elemento essenziale (cfr., invece, Sez. III, 23.01.2014, n. 348).
Dal momento, infatti, che è la lex specialis a stabilire, quantificando gli oneri di sicurezza c.d. esterni, il valore economico rispetto al quale, di riflesso, i ribassi di gara verranno ammessi, non è possibile dubitare (di regola almeno) che i ribassi presentati in concreto senza precisazioni debbano essere riferiti proprio all’ammontare ammesso a ribasso dalla stessa legge di gara.
Non solo, quindi, non vi è indeterminatezza dell’offerta individuale, ma la precisazione in discussione non è nemmeno necessaria all’interpretazione della medesima, che deve essere comunque letta alla luce della vincolante indicazione della lex specialis sull’ammontare ammesso a ribasso.
Del resto, l’art. 86, comma 3-ter, d.lgs. cit. stabilisce espressamente, come pure inequivocabilmente, che “Il costo relativo alla sicurezza non può essere comunque soggetto a ribasso d’asta”, precetto che alle imprese, operatori professionali, non sarebbe consentito ignorare.

10d5 - Neanche questo motivo dell’originario ricorso incidentale, pertanto, può essere accolto.

PUBBLICO IMPIEGO: Il mobbing «include» il demansionamento. Cassazione. Escluso l’evento «maggiore» la domanda di risarcimento danni vale per il fatto di minor portata.
Con la sentenza 05.11.2015 n. 22635, la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- chiarisce, sotto il duplice profilo sostanziale e processuale, il rapporto tra la domanda giudiziale di accertamento del mobbing e quella di demansionamento.
La Corte d’appello di Caltanissetta ha condannato un datore di lavoro al risarcimento del danno biologico e da perdita di professionalità in favore del dipendente tenuto inattivo per un apprezzabile periodo di tempo. Ciò, nonostante avesse escluso che la condotta della società integrasse gli estremi del mobbing su cui si fondava la domanda del lavoratore.
La Cassazione fa applicazione di due interessanti principi di diritto: in primo luogo sottolinea che, nell’indagine diretta all’individuazione delle domande, il giudice deve guardare il contenuto sostanziale della pretesa fatta valere. Il petitum va individuato attraverso l’esame complessivo dell’atto introduttivo, non limitandolo alle conclusioni, ma estendendolo anche alla parte espositiva del ricorso (si vedano le sentenze 20294/2005 e 22893/2008).
In secondo luogo, la Cassazione conferma la pronuncia della Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto che nella domanda di risarcimento dei danni da preteso mobbing può ritenersi compresa anche quella, di minor portata, di risarcimento dei danni da dequalificazione professionale, quale conseguenza dell’inattività o della scarsa utilizzazione del lavoratore volutamente decisa dal datore. Una volta esclusa la natura “mobbizzante” della condotta, secondo i giudici bene ha fatto la Corte d’appello a esaminare la domanda anche sotto il profilo della violazione degli obblighi del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile.
Infine nella sentenza si ribadiscono gli elementi ritenuti necessari per la configurabilità del mobbing:
a) plurimi comportamenti di carattere persecutorio posti in essere contro la “vittima” in modo sistematico e prolungato nel tempo;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità e della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le suddette condotte e il pregiudizio subìto dalla vittima;
d) il sottile filo rosso rappresentato dall’elemento soggettivo e dall’intento persecutorio comune a tutti i comportamenti lesivi.
Nel caso in commento, la condotta di «esautoramento del lavoratore dalle sue mansioni», in assenza del requisito soggettivo dell’intento persecutorio e vessatorio, è stata correttamente ritenuta dalla Corte territoriale riconducibile a una ipotesi di demansionamento.
In altre parole, nessun vizio di ultrapetizione ma legittima diversa qualificazione giuridica della condotta lamentata e della domanda proposta dal lavoratore
 (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2015).
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MASSIMA
2.2. In ogni caso il motivo è infondato.
La censura è in realtà volta a censurare la qualificazione della domanda giudiziale e della sua ampiezza operata dalla Corte territoriale, la quale ha correttamente ritenuto compresa nella domanda di risarcimento dei danni da preteso mobbing anche quella, di portata e contenuto meno ampio, di risarcimento dei danni da dequalificazione professionale, conseguente allo stato di inattività o di scarsa utilizzazione del lavoratore.
Del resto, nelle stesse conclusioni del ricorso ex art. 414 c.p.c. il lavoratore ha richiesto il risarcimento del danno -oltre che alla lesione della sua integrità psicofisica- anche alla professionalità, causati "dai comportamenti posti in essere dalla società resistente e da alcuni colleghi', previo accertamento della loro vessatorietà e arbitrarietà, sicché bene ha fatto la Corte, una volta esclusa la natura "mobbizzante" delle condotte, ad esaminare la domanda anche sotto il profilo della violazione degli obblighi posti al datore di lavoro dall'art. 2103 c.c..
2.3.
E' jus receptum che il mobbing è una figura complessa che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003; Cass. 05.11.2012, n. 18927).
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi
(vedi: Cass., 25.09.2014, n. 20230; Cass. 21.05.2011, n. 12048; Cass. 26.03.2010, n. 7382).
2.4.  La complessità della fattispecie del mobbing e la mancanza di una sua specifica disciplina confermano l'esattezza della scelta della Corte territoriale di ritenere che,
esclusa la sussistenza dell'intento vessatorio e persecutorio, rimane giuridicamente valutabile, nell'ambito dei medesimi fatti allegati e delle conclusioni rassegnate, la condotta di "radicale e sostanziale esautoramento" del lavoratore dalle sue mansioni, la quale è fonte di danno alla sfera patrimoniale e/o non patrimoniale del lavoratore ove ricollegabile eziologicamente all'inadempimento del datore di lavoro.
Ciò in quanto la riconduzione al "demansionamento" dell'identico comportamento ascritto alla datrice di lavoro non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico (cfr., per l'ipotesi inversa, di qualificazione in termini di mobbing della domanda di demansionamento, Cass., 23/03/2005, n. 6326).

EDILIZIA PRIVATAL’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
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La gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse privato al mantenimento in loco della res, in quanto costituisce –come già evidenziato– atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti.
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L'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
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Il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata sanzione demolitoria.

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1.5. Privo di pregio si rivela anche l’ulteriore profilo di censura volto a denunciare la mancata instaurazione del contraddittorio procedimentale previamente all’adozione della misura repressivo-ripristinatoria.
Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
2. I superiori approdi –quanto, precipuamente, al mancato consolidamento degli effetti della d.i.a. presentata per interventi esulanti dal relativo regime abilitativo e, quindi, quanto alla diretta irrogabilità della sanzione reale, senza l’intermediazione delle garanzie dell’autotutela, operanti in esito al prodursi degli effetti anzidetti (cfr. art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990)– inducono a ripudiare anche il motivo di impugnazione inteso a denunciare l’omessa ponderazione tra l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi e il confliggente affidamento dei privati (non responsabili dell’abuso) nella conservazione delle opere eseguite.
Al riguardo, occorre rimarcare che la gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse privato al mantenimento in loco della res, in quanto costituisce –come già evidenziato– atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432).
Tale conclusione neppure resta menomata dalla dedotta circostanza che i ricorrenti non sarebbero responsabili dell’abuso contestato (avendo acquistato da terzi l’immobile già nelle condizioni emerse in sede di accertamento).
L'ordinanza di demolizione può, infatti, legittimamente essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina, 06.08.2009, n. 780; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15.12.2009, n. 8704; sez. IV, 09.04.2010, n. 1890; sez. III, 23.04.2010, n. 2106; sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
3. I nominati in epigrafe non possono, poi, fondatamente dolersi del fatto che le unità immobiliari abusivamente adibite ad appartamenti residenziali avrebbero, dapprima, conseguito l’autorizzazione di abitabilità ed usabilità, prot. n. 99, dell’11.02.2008 e, poi, contraddittoriamente, formato oggetto della gravata misura repressivo-ripristinatoria.
Rileva, in questo senso, il Collegio che il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata sanzione demolitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene di dover escludere che l’invocata regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento.
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi:
   a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
   b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
   c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo. Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio, nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda.
   d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa.
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria.
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono – sul piano urbanistico – quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso.
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore.
E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
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In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore.

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4.3. La pretesa applicabilità dei principi sottesi alla c.d. sanatoria giurisprudenziale non soccorre, infine, alla tesi propugnata da parte ricorrente nel senso della presunta conformità urbanistico-edilizia delle opere controverse rispetto alla sopravvenuta disciplina del vigente piano urbanistico comunale di Orta di Atella.
In proposito, fermo restando che l’attuale conformità urbanistico-edilizia dedotta dai nominati in epigrafe è rimasta concretamente indimostrata, e ribadita l’insussistenza di apposita domanda di sanatoria (cfr. retro, sub n. 4.1), il Collegio ritiene di dover escludere che l’invocata regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma, 13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria, Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III, 19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398; 03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497; Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n. 42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro esecuzione sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze n. 17398 del 10.09.2010, n. 3153 del 03.07.2012 e n. 1690 del 20.03.2014.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e inequivoco nel riferire il requisito della conformità urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia” al momento della sua realizzazione “sia” al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla possibile variazione in peius della disciplina urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l. 28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito “non inserire una tale previsione, sia perché la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota, vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità, bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’ significherebbe anche introdurre surrettiziamente nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato, derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in favore della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base della disciplina urbanistica vigente al momento della proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione. Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia dell'amministrazione (il successivo procedimento amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i principi di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’, si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui è informata l'attività amministrativa e che trova un fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali (artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può esservi rispetto del buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo, rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato, nella materia de qua, individuato dal legislatore nel consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del territorio, e non solo di quella vigente al momento dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le sole norme disciplinanti il procedimento da osservare nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato, nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono – sul piano urbanistico – quelle connesse ad opere per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina del settore. E si finirebbe per alterare l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto, premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e commisurato dal legislatore (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Frazionamento e predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di edifici aventi natura e destinazione residenziale - Reato di lottizzazione abusiva - Configurabilità - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con l'originaria vocazione dell'area (Sez. 3, n. 15605 del 31/03/2011 - dep. 19/04/2011, Manco e altri, Rv. 250151, che, peraltro, ha specificato come il mero possesso della qualifica di imprenditore o bracciante agricolo non sarebbe, di per sé, sufficiente ad escludere il reato).
Lottizzazione abusiva - Sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato - Confisca del bene lottizzato.
In tema di lottizzazione abusiva, il giudice, anche quando pronuncia sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato, può disporre, sulla base di adeguata motivazione sull'attribuibilità del fatto all'imputato, la confisca del bene lottizzato, atteso quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, anche considerata la pronuncia della Corte EDU del 29.10.2013 nel caso Varvara c/Italia: Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015 - dep. 22/04/2015, Boezi e altri, Rv. 263585; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015 - dep. 17/07/2015, Giallombardo, Rv. 264337) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi o urbanistici - Sequestro preventivo di manufatto abusivo - Valutazione del giudice degli effetti pregiudizievoli del reato.
In tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che, al fine di disporre il sequestro preventivo di manufatto abusivo, il giudice di merito ha il dovere di compiere in ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a. in relazione a costruzioni non assistite da concessione edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici) ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca un elemento neutro sotto il profilo dell'offensività (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003 - dep. 20/03/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 223722).
Reati edilizi o urbanistici - Opere edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo - Limiti all'uso e godimento dell'opera abusiva - Sequestro disposto per la violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 - Requisito del periculum - Confiscabilità ex art. 44, c. 2, d.P.R. n. 380/2001 - 146 e 181, D.Lgs. n. 42 del 2004 - Finalità residenziali vietate dallo strumento urbanistico in zona a vocazione agricola - Fattispecie: uso esclusivamente residenziale di un manufatto realizzabile solo per finalità agricole.
In materia di reati edilizi o urbanistici, non rileva il successivo utilizzo dell'immobile ai fini abitativi, laddove si consideri che il sequestro è stato disposto per la violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 (sotto il duplice profilo della configurabilità dell'illecito lottizzatorio che della totale difformità degli interventi edilizi rispetto al titolo abilitativo, dovendosi qui ribadire che in materia edilizia è ipotizzabile il sequestro preventivo anche dell'immobile abusivamente costruito e già ultimato, atteso che le esigenze cautelari ravvisabili sono sia il paventato aumento del carico urbanistico sia le ulteriori conseguenze dovute all'uso ed al godimento dell'opera abusiva al di fuori di ogni controllo prescritto in funzione della tutela degli interessi pubblici coinvolti, come ben descritto dal tribunale del riesame nel caso di specie: Sez. 3, n. 9058 del 22/01/2003 - dep. 26/02/2003, P.M. in proc. Sferratore L., Rv. 224173).
Quanto, infine, al requisito del periculum, deve, in particolare osservarsi come la natura permanente del reato previsto dall'art. 44, comma primo, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, legittima il sequestro preventivo delle opere edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo anche nel caso di ultimazione dei lavori, in quanto l'esecuzione di interventi edilizi in zona vincolata ne protrae nel tempo e ne aggrava le conseguenze, determinando e radicando il danno all'ambiente ed al quadro paesaggistico che il vincolo ambientale mira a salvaguardare (Sez. 3, n. 30932 del 19/05/2009 - dep. 24/07/2009, Tortora, Rv. 245207), soprattutto in contesti, come quello sub iudice, nei quali l'attività edilizia non si esaurisce in sé, ma comporta un protrarsi dell'aggravio urbanistico tenuto conto del maggior "consumo del territorio" derivante dall'utilizzo per fini esclusivamente residenziali di un immobile che, per destinazione originaria del programma di fabbricazione, poteva essere utilizzato solo per finalità rurali.
E non v'è dubbio che l'utilizzo da parte del proprietario lottizzatore abusivo di un immobile con finalità residenziali vietate dallo strumento urbanistico, in zona a vocazione agricola, determina un incremento del carico urbanistico, concetto non normativamente definito che ha come presupposto il rilievo che agli insediamenti umani ed primari (abitazioni, uffici, opifici, negozi etc.) sono correlati insediamenti secondari di servizi (gas, luce, strade etc.) che devono essere calibrati sui primi.
Le opere edilizie abusive possono comportare una sproporzione tra il numero degli abitanti, o di coloro che svolgono una attività sul territorio, e le strutture collettive originariamente predisposte. Ora l'insediamento abusivamente introdotto nella zona agricola dall'indagato deve considerarsi primario e, di conseguenza, determina un aggravio, anche se non apparentemente rilevante, del carico urbanistico.
Tanto premesso, non può certamente ritenersi inadeguata né apparente, ai fini che qui rilevano agli effetti dell'art. 325 cod. proc. pen., la motivazione sul punto fornita dal tribunale del riesame che, proprio all'esito di una valutazione "in concreto" sull'eventuale ulteriore pregiudizio all'assetto urbanistico del territorio, discendente dall'uso dell'opera abusiva (nella specie, ad uso esclusivamente residenziale di un manufatto realizzabile solo per finalità agricole), ha ritenuto sussistere il periculum, anche evidenziando la confiscabilità ex art. 44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi o urbanistici - Aggravamento del carico urbanistico - Pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato - Mutamento della originaria destinazione d'uso di un edificio.
Il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche relativamente al carico urbanistico, deve presentare il requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione (Sez. III n. 4745, 30/01/2008; conf. Sez. VI n. 21734, 29/05/2008; Sez. II n. 17170, 05/05/2010) e chiarendo che, a tal fine, l'abuso va considerato unitariamente (Sez. III n. 28479, 10/07/2009; Sez. III n. 18899, 09/05/2008).
L'aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere interne comportanti il mutamento della originaria destinazione d'uso di un edificio (Sez. III n. 22866, 13.06.2007; conf. Sez. IV n. 34976, 28/09/2010) Conf. Cass. Pen. Sez. 3^ Ud. 27/10/2015 Sentenza n. 45282.
Nozione di "carico urbanistico" - Elemento c. d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) ed elemento secondario (Opere pubbliche in genere, uffici pubblici, strade, fognature ecc.).
La nozione di "carico urbanistico", deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c. d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (Opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico:
a) negli standards urbanistici di cui al D.M 02.04.1968 n. 1444 che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone;
b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento;
c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni contributo per le opere interne (art. 26 L. n. 47/1985 e art. 4, comma 7, l. 493/1993) che non comportano la creazione di nuove superficie utili, ferma restando la destinazione dell'immobile;
e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L. n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993)". Conf. Cass. Pen. Sez. 3^ Ud. 27/10/2015 Sentenza n. 45282 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'illegittima raccolta e trasporto di rifiuti (rottami metallici) in forma ambulante.
La condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi del citato d.lgs., artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
La deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 266, comma 5, per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.

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RITENUTO IN FATTO
1. - Con ordinanza del 05.05.2015, il Tribunale di Chieti ha rigettato l'appello proposto dall'indagato avverso l'ordinanza del Gip dello stesso Tribunale del 03.04.2015, con la quale era stata rigettata l'istanza di revoca del sequestro preventivo di un autocarro disposto nei confronti del predetto, in ordine al reato di cui all'art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006.
2. - Avverso l'ordinanza l'indagato ha proposto personalmente ricorso per cassazione, deducendo, con unico motivo di doglianza, l'erronea applicazione della disposizione incriminatrice, perché non si sarebbe considerato che egli svolgeva un'attività di robivecchi, non rientrante nella gestione dei rifiuti, ma nel commercio ambulante, per il quale lo stesso indagato aveva regolare autorizzazione.
In ogni caso, la licenza di commercio ambulante non sarebbe coniugata al peso trasportato e il sequestro del mezzo sarebbe comunque illegittimo, in mancanza di prova della sua intrinseca pericolosità.
Con memoria depositata in prossimità della camera di consiglio davanti a questa Corte, il difensore dell'indagato ha ribadito quanto già rilevato nel ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - Il ricorso è inammissibile, perché basato su rilievi manifestamente infondati.
Il Tribunale ha evidenziato che l'attività concretamente svolta dal ricorrente non è quella di robivecchi, che resterebbe sottratta alla disciplina generale dei rifiuti, avendone il legislatore considerato la minima pericolosità per la salute e per l'ambiente, ma quella di trasporto abusivo di rifiuti, trattandosi di ben una tonnellata di rottami metallici di variegata natura, assolutamente inutilizzabili -come risulta dai rilievi svolti e dalle fotografie scattate dalla polizia giudiziaria- in mancanza della prescritta autorizzazione.
Nel caso in esame, dunque, il Tribunale ha correttamente desunto la configurabilità di una vera e propria gestione abusiva di rifiuti dalla tipologia dei materiali e dall'elevato quantitativo degli stessi.
Deve perciò richiamarsi integralmente la consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sez. 3, 24.06.2014, n. 29992, rv. 260266), secondo cui:
- «la condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi del citato d.lgs., artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità»;
- «la deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 266, comma 5, per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio».
Quanto, poi, alla motivazione circa il periculum in mora, deve rilevarsi che -contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente- la stessa è superflua, trattandosi di sequestro preventivo preordinato alla confisca obbligatoria del mezzo di trasporto, ai sensi dell'art. 260-ter, comma 5, del d.lgs. n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2015 n. 44471).

EDILIZIA PRIVATAGaranzia decennale anche per modifiche e ristrutturazioni. Immobili. Per interventi dopo l’edificazione.
La garanzia decennale in materia di appalti opera anche nelle ristrutturazioni, e non soltanto nella fase di costruzione vera e propria degli edifici. Infatti la garanzia del costruttore/appaltatore ai sensi dell’articolo 1669 del Codice civile («Rovina e difetti di cose immobili») scatta pure nel caso di interventi di riparazione e modifica successivi alla edificazione, nel caso di opere destinate per loro natura a lunga durata.

Il principio è riconfermato da una recente sentenza della Corte di Cassazione - Sez. II civile (sentenza 04.11.2015 n. 22553) secondo cui la garanzia decennale prescritta dall’art 1669 può ben essere invocata anche con riguardo al compimento di opere –siano essi interventi di modificazione o riparazione– afferenti a un preesistente edificio. E ricade dunque sugli autori di tali interventi.
Il contenzioso contrapponeva inizialmente una società di costruzioni a un condominio. La ditta aveva concluso nel 1991 una importante serie di lavori di manutenzione straordinaria sullo stabile. Nel 1996 l’amministratore aveva denunciato i primi, numerosi, difetti.
La ditta, a fronte della richiesta del condominio di ovviare ai problemi, aveva rigettato ogni responsabilità. Il condominio quindi nel 1997 aveva fatto causa chiedendo l’eliminazione dei vizi, oltre al risarcimento danni.
Il primo giudice aveva accolto il ricorso e condannato la ditta al pagamento danni, quantificato in 28mila euro circa. La sentenza era stata appellata da entrambe le parti, e così quella d’appello.
Nella sentenza appena depositata la Cassazione respinge tre dei quattro motivi di ricorso promossi dalla ditta e ne accoglie uno solo, legato alla quantificazione del danno.
In realtà, già per la Corte d’appello la ditta non aveva restaurato l’edificio, non avendolo né consolidato, né ripristinato o rinnovato negli elementi costitutivi, e nemmeno arrecato radicali modifiche sostitutive, né portato lo stabile ad essere un immobile del tutto diverso dal preesistente. Aveva solo rinnovato e sostituito parti, anche strutturali, di un edificio già interamente edificato da terzi, avente caratteristiche ben precise, non modificate.
Tuttavia, è risultata corretta l’applicazione del 1669 sulla garanzia decennale, che non attiene dunque solo a vizi riguardanti la costruzione dell’edificio, o parte di esso, ma anche ai casi di modificazioni o riparazioni, se destinate per loro natura a lunga durata. La norma non ha un ambito applicativo limitato ai difetti costruttivi inerenti alla sola fase “genetica” di realizzazione dell’edificio, ma anche agli interventi successivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori di ristrutturazione, la Cassazione sulla responsabilità decennale dell'impresa esecutrice.
Costituiscono gravi difetti dell'edificio anche quelli che riguardano elementi secondari e accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, ecc.) tali da compromettere la funzionalità globale dell'opera.
È responsabile ai sensi dell'articolo 1669 del Codice civile, alla stregua del costruttore, l'impresa che ha effettuato interventi di modificazione o riparazione su un preesistente edificio destinato a lunga durata, i quali interventi rovinino, in tutto o in parte, o presentino evidente pericolo di rovina o gravi difetti.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 04.11.2015 n. 22553.
La suprema Corte ricorda che il legislatore «discrimina tra "edificio o altra cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata", da un lato, e "opera", dall'altro. L'opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all'originaria costruzione dell'edificio, con la conseguenza che anche il termine "compimento", ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé considerato, bensì l'opera eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio. Quanto ai difetti della costruzione, inoltre, l'etimologia del termine "costruzione" non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull'edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell'intervento costruttivo”».
RESPONSABILITÀ DI CHI REALIZZA OPERE DI RISTRUTTURAZIONE. Pertanto, la responsabilità ex art. 1669 c.c. «ben può essere invocata con riguardo al compimento di opere (rectius di interventi di modificazione o riparazione) afferenti ad un preesistente edificio o ad altra preesistente cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, le quali, in ragione di vizi del suolo (su cui la nuova opera si radica) o di difetti della costruzione (dell'opera), rovinino, in tutto o in parte, o presentino evidente pericolo di rovina ovvero gravi difetti (anche essi riferiti all'opera innovativa, non già all'edificio pregresso). Con la conseguenza che anche gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione (rectius gli esecutori delle opere integrative) possono rispondere ai sensi dell'art. 1669 cc. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile o sugli elementi essenziali delle strutture dell'edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell'immobile stesso».
IN COSA CONSISTE UN “GRAVE DIFETTO DI COSTRUZIONE”. Secondo il costante insegnamento della Cassazione, «l'estremo del grave difetto di costruzione, a differenza di quelli che determinano rovina totale o parziale dell'edificio, può anche consistere in una menomazione che, pur riguardando una parte soltanto dell'opera, incida sulla funzionalità della stessa, impedendole di fornire l'utilità cui è destinata per lungo lasso di tempo».
La suprema Corte ricorda che ai fini della responsabilità dell'appaltatore costituiscono gravi difetti dell'edificio «non solo quelli che incidono in misura sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell'opera, ma anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, ecc.), purché tali da compromettere la funzionalità globale dell'opera stessa e che, anche senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possano essere eliminati finanche solo con gli interventi di manutenzione ordinaria indicati dalla lettera a dell'art. 31 della legge 05.08.1978 n. 457 e cioè con "opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici" o con "opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti"» (commento tratto da www.casaeclima.com).

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Con il primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell'art. 1669 c.c. per avere il giudice di merito ritenuto che alla società fosse da attribuire la qualità di costruttore per lavori di manutenzione straordinaria, eseguiti nel periodo compreso fra il giugno 1988 ed il gennaio 1991, senza tenere conto che al momento dell'esecuzione dei lavori stessi ella era proprietaria esclusiva dello stabile de quo e che la natura delle opere realizzate corrispondeva a quelle contemplate nell'art. 31, lett. b), legge n. 457 del 1978, come da provvedimento autorizzatorio n. 760 dell'11.09.1991 del Comune di Genova, giacche anche le opere eseguite in variante erano state ritenute dallo stesso ente locale per tipologia e caratteristiche (qualitative e quantitative) perfettamente rientranti nella manutenzione straordinaria.
In altri termini, la OLMI non avrebbe restaurato l'edificio, non avendolo consolidato, ripristinato e rinnovato negli elementi costitutivi di esso, ma semplicemente aveva rinnovato e sostituito parti, anche strutturali, di un edificio già interamente edificato da terzi, avente ben precise caratteristiche costruttive, non modificate dagli interventi della ricorrente, per cui non poteva essere a lei attribuita la qualifica di costruttore.
A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: "
Viola o applica falsamente l'art. 1669 c.c. il giudice di merito che applica tale norma alle opere aventi ad oggetto le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata e dichiara soggetto alla relativa responsabilità decennale per difetto di costruzione colui che materialmente le esegua, con conseguente condanna al risarcimento dei danni, come ha fatto la Corte di appello di Genova nell'impugnata sentenza, ritenendo responsabile ex art. 1669 c.c. la DI.MI. per i pretesi difetti delle opere di manutenzione straordinaria ex art. 31, lett. b), L. 457/1978, eseguite nel periodo giugno 1988-gennaio 1991 sul preesistente edificio di Genova via Sotto i Volti 14, denunciati dal Condominio nel settembre 1996 e poi dal Condominio stesso fatti valere in causa nel 1997 ai fini della condanna della società ricorrente al risarcimento dei danni in forza dell'applicazione, appunto, dell'art. 1669 c.c.?".
Il secondo motivo, con il quale la ricorrente insiste nella doglianza di violazione e falsa applicazione degli artt. 1669 c.c. e 31 l. 457/1978, con riferimento alla accezione legislativa di manutenzione straordinaria, per non avere con i lavori de quibus alterato i volumi e la destinazione d'uso dell'edificio, pone il seguente quesito di diritto: "
Viola o applica falsamente l'ad. 31, lett. b), L. 457/1978 il giudice di merito che esclusa la riconducibilità di opere edilizie nella categoria giuridica della manutenzione straordinaria, adducendo a tal fine soltanto la notevole portata dell'intervento edilizio e giudicando irrilevante la mancata alterazione dei volumi e della specifica destinazione del preesistente edificio oggetto di tali opere, come ha fatto la Corte di appello genovese nell'impugnata sentenza escludendo che i lavori eseguiti dalla DI.MI. fossero in realtà di manutenzione straordinaria, per avere costituito un intervento edificio di notevole portata, tale da investire direttamente i due fabbricati, anche se non ha alterato i volumi e la specifica destinazione?
Viola o applica falsamente l'art. 31 lett. b), c) e d) L. 457/1978 il giudice di merito che, al fine di applicare alla fattispecie esaminata l'art. 1669 c.c., dopo avere escluso la manutenzione straordinaria, qualifichi le opere edilizie eseguite in un preesistente edificio come di ristrutturazione edilizia, assumendo come concreto parametro di giudizio per tale qualificazione non la tipologia di lavori elencati e specificati all'ad. 31, lett. d), L. 457/1978, bensì una nozione non tecnica, che prescinde dalla descrizione testualmente compiuta dalla norma?
Viola o applica falsamente l'ad. 31, lett. b), c) e d), L. 457/1978 il giudice di merito che, al fine di applicare alla fattispecie esaminata l'art. 1669 c.c., dopo avere escluso la manutenzione straordinaria, qualifichi come di ristrutturazione edilizia le opere eseguite in un preesistente edificio quantunque le stesse in concreto non abbiano affatto comportato la definizione e la ricostruzione del fabbricato con la sola conservazione di parte dei muri perimetrali e con la completa eliminazione delle strutture interne
?

Viola o applica falsamente l'art. 31, lett. b), c) e d), L. 457/1978 il giudice di merito che, al fine di applicare alla fattispecie esaminata l'art. 1669 c.c., dopo avere compiuto i passi in precedenza elencati, utilizzi la nozione di ristrutturazione come sinonimo di ricostruzione dell'edificio, come ha fatto la Corte di appello genovese inquadrando nella categoria della ristrutturazione edilizia ex art. 31, lett. d), L. n. 457/1978 alcuni dei lavori eseguiti in via Sotto i Volti 14 dalla DI.MI. —consistiti nell'accorpamento di due diversi edifici attraverso lavori di raccordo fra due coperture, delle quali l'una a falsa e l'altra a terrazzo; nel rifacimento delle scale; nell'eliminazione degli archi sulle finestre; nella ricostruzione di due solai— quantunque tali lavori non abbiano affatto arrecato radicali modifiche sostitutive dell'edificio, né portato quest'ultimo ad essere un immobile del tutto diverso sa quello preesistente, non avendo la DI.MI. operato la demolizione e la ricostruzione del fabbricato con la sola conservazione di parte dei muri perimetrali e con la completa eliminazione delle strutture interne?".

Le prime due doglianze -che possono essere trattate congiuntamente, data l'intima connessione, essendo entrambe rivolte a censurare le statuizioni dell'impugnata sentenza relative alla (in)sussistenza della responsabilità invocata, rilevanti sotto il profilo del sistema rimediale applicabile- non sono meritevoli di accoglimento.
La sentenza impugnata ha ritenuto sussistere la responsabilità della DI.MI. ai sensi dell'art. 1669 c.c. poiché è rimasto accertato che la stessa aveva acquistato l'intero fabbricato in questione da terzi, bene sul quale aveva poi curato di effettuare consistenti opere di ristrutturazione, e dopo averlo ripartito in porzioni, con la realizzazione di singole unità immobiliari, aveva provveduto alla vendita di ciascuno degli appartamenti con separati contratti.
Sostiene la ricorrente che la responsabilità per rovina e difetti di cose immobili (regolata dall'art. 1669 c.c.) dovrebbe essere ascritta alle sole ipotesi in cui siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell'edificio stesso o di una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata.
In altri termini, ad avviso della DI.MI. anche le cause della rovina, dell'evidente pericolo di rovina o dei gravi difetti dovrebbero essere riconducibili direttamente a difetti del suolo o a vizi della costruzione pertinenti all'edificio (o alla diversa cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata).
La ricorrente fonda tale interpretazione sull'esegesi letterale della norma, la quale, quando usa la locuzione "opera", alluderebbe agli edifici o alle altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, che il legislatore richiama nell'incipit della disposizione ("Quando si tratti di ..."). Sicché la fattispecie delineata dalla norma sarebbe integrata solo quando, entro dieci anni dalla realizzazione dell'edificio o della cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, si prospettino rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti, dipendenti da vizi del suolo o difetti della costruzione, afferenti all'edificio medesimo o alla cosa immobile interessata. La lettura prospettata dalla ricorrente avrebbe due precisi riflessi applicativi, uno di natura oggettiva e l'altro di natura subiettiva.
Sotto il primo profilo, la norma avrebbe un ambito applicativo limitato ai difetti costruttivi inerenti alla sola fase genetica di realizzazione dell'edificio ovvero di una parte di esso, non già ai difetti eventualmente riconducibili ad interventi susseguenti all'edificazione dell'immobile, che apportino modificazioni o riparazioni ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata.
Sotto il profilo soggettivo, la legittimazione passiva sostanziale, a fronte della proposizione dell'azione di responsabilità ex art. 1669 c.c., spetterebbe in via esclusiva all'appaltatore o al costruttore-venditore dell'edificio o della cosa immobile ovvero di una frazione di esso, al tempo della realizzazione originaria, non già ai soggetti che abbiano effettuato, successivamente alla realizzazione, interventi modificativi o riparativi (di manutenzione o di ristrutturazione o di ricostruzione).
Ad avviso della ricorrente siffatta impostazione ermeneutica sarebbe avallata da due pronunce della Cassazione, secondo cui la responsabilità dell'appaltatore ex art. 1669 c.c. trova applicazione esclusivamente quando siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell'edificio stesso o di una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad. altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata (cfr. Cass. 20.11.2007 n. 24143; Cass. 22.05.2015, n. 10658).
In applicazione del suddetto principio, nella prima sentenza evocata, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che aveva ritenuto configurabile tale ipotesi di responsabilità in riferimento all'opera di mero rifacimento della impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale di un edificio preesistente.
Secondo l'orientamento dalla giurisprudenza di legittimità, assolutamente costante,
la lettera della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, e ciò perché non a caso il legislatore discrimina tra "edificio o altra cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata", da un lato, e "opera", dall'altro.
L'opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o ripartivo, eseguito successivamente all'originaria costruzione dell'edificio, con la conseguenza che anche il termine "compimento", ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé considerato, bensì l'opera, p, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio.
Quanto ai difetti della costruzione, inoltre, l'etimologia del termine "costruzione" non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull'edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell'intervento costruttivo.
La responsabilità ex art. 1669 c.c., pertanto, ben può essere invocata con riguardo al compimento di opere (rectius di interventi di modificazione o riparazione) afferenti ad un preesistente edificio o ad altra preesistente cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, le quali, in ragione di vizi del suolo (su cui la nuova opera si radica) o di difetti della costruzione (dell'opera), rovinino, in tutto o in parte, o presentino evidente pericolo di rovina ovvero gravi difetti (anche essi riferiti all'opera innovativa, non già all'edificio pregresso).
Con la conseguenza che anche gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione (rectius gli esecutori delle opere integrative) possono rispondere ai sensi dell'art. 1669 cc. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile o sugli elementi essenziali delle strutture dell'edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell'immobile stesso
(cfr. Cass. 04.01.1993 n. 13; più di recente, segue la stessa linea interpretativa, Cass. 29.09.2009 n. 20853).
Nella specie la corte distrettuale, in adesione al costante insegnamento di questa Corte, secondo il quale
l'estremo del grave difetto di costruzione, a differenza di quelli che determinano rovina totale o parziale dell'edificio, può anche consistere in una menomazione che, pur riguardando una parte soltanto dell'opera, incida sulla funzionalità della stessa, impedendole di fornire l'utilità cui è destinata per lungo lasso di tempo, ha ritenuto, con giudizio di fatto non suscettibile di sindacato in questa sede e saldamente ancorato alle risultanze dell'espletata indagine, che proprio tale ipotesi ricorreva nella fattispecie concreta.
Infatti, la presenza nelle pareti esterne lato nord e nord-ovest dello stabile di molteplici fessurazioni a forma di grigliato e dello spessore di circa mm. 2/3 nella tinta e nell'intonaco, tali da rendere non più impermeabili dette facciate, le vistose crepe nell'intonaco delle pareti e del soffitto dei locali scale ai vari piani, l'erroneo posizionamento delle finestre di areazione dei locali scale, sì da essere inutilizzabili, al pari dei telai che sostenevano le persiane in alluminio delle finestre di tutto il fabbricato, considerati nella loro globale incidenza, anche in prospettiva futura, sulla funzionalità e sull'utilità dell'opera, non possono che essere ritenuti gravi difetti.
Né sussiste, peraltro, l'asserita divergenza della sentenza impugnata con l'approdo ermeneutico di cui alle due pronunce di questa Corte sopra citate (Cass. n. 24143 del 2007 e Cass. n. 10658 del 2015), che lasciano intendere, pur nell'ambiguità dei riferimenti, più ad una diversa valutazione complessiva delle emergenze fattuali, piuttosto che configurare un vero e proprio contrasto sincrono di giurisprudenza.
Del pari
nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all'art. 1669 c.c. alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l'integrale responsabilità dell'appaltatore sia in presenza di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 31 della legge n. 457 del 1978. Infatti, ai fini della responsabilità dell'appaltatore, costituiscono gravi difetti dell'edificio non solo quelli che incidono in misura sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell'opera, ma anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, ecc.), purché tali da compromettere la funzionalità globale dell'opera stessa e che, anche senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possano essere eliminati finanche solo con gli interventi di manutenzione ordinaria indicati dalla lettera a dell'art. 31 della legge 05.08.1978 n. 457 e cioè con "opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici" o con "opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti" (cfr. Cass. 01.02.1995 n. 1164).
In applicazione del suddetto principio, la corte di merito, congruamente motivando sul punto, ha chiarito la notevole portata degli interventi realizzati, consistiti nell'accorpamento di due diversi edifici attraverso lavori di raccordo fra le due coperture, di cui una a falda e l'altra a terrazzo, nel rifacimento integrale delle scale, nell'eliminazione degli archi sulle finestre, nella ricostruzione di due solai, nel rifacimento degli intonaci esterni.
Ed ha concluso affermando che le fessurazioni presenti sull'intonaco esterno rifatto dalla DI.MI. hanno determinato le infiltrazioni lamentate dal Condominio sulle parti comuni, le quali incidono in modo rilevante sulla struttura e sulla funzionalità dell'opus per cui si tratta di gravi difetti di costruzione, ciò anche in coerenza con la tipologia degli interventi descritti (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.11.2015 n. 22553).

ATTI AMMINISTRATIVIIl consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di accesso ai documenti amministrativi che può così essere sintetizzato:
- l’accesso ai documenti amministrativi è posizione giuridica strumentalmente riconosciuta al servizio di un interesse serio, effettivo, autonomo, non emulativo, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui si chiede l’ostensione;
- l’interesse che giustifica l’ostensione va inteso in senso ampio e non necessariamente coincide con quella alla difesa giudiziale di una posizione giuridica soggettiva del richiedente;
- in sede di giudizio sull’accesso il Giudice non deve verificare la fondatezza della posizione giuridica soggettiva alla cui cura è finalizzato la denegata istanza di ostensione, ma deve limitarsi ad appurare che questa non sia manifestamente pretestuosa o del tutto scollegata ai documenti richiesti;
- l’oggetto della domanda di accesso deve essere circoscritto mediante la puntuale indicazione degli atti di cui si chiede l’ostensione, risultando inammissibili istanze con finalità meramente esplorative;
- anche l’accesso all’informazione ambientale ex articolo 3, comma 1, D.Lgs. n. 195/2005, che pure è facilitato rispetto a quello generale ex art. 22 L. n. 241/1990, necessita comunque che l’istanza non sia formulata in termini estremamente generici, ma al contrario che sia sufficientemente circostanziata.

...per l'annullamento del diniego su istanza di accesso della documentazione relativa al progetto “autostrade del mare” e al relativo progetto di stazione marittima comprensiva degli afferenti lavori di costruzioni di accosti e ormeggi, nonché delle delibere e verbali del C.d.A. in subiecta materia dell'Azienda Speciale per il Porto di Monfalcone, oltreché della documentazione relativa alla rimozione dei rifiuti abbandonati nella cassa di colmata del porto di Monfalcone, giusta nota prot. n. 4186 del 12.06.2015;
...
9.1. Nel merito il ricorso è fondato, sia pure nei limiti e nei termini che si vanno a esporre.
9.2. Il ragionamento deve necessariamente muovere dal consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di accesso ai documenti amministrativi, dal quale il Collegio ritiene di non discostarsi, e che può così essere sintetizzato:
- l’accesso ai documenti amministrativi è posizione giuridica strumentalmente riconosciuta al servizio di un interesse serio, effettivo, autonomo, non emulativo, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento di cui si chiede l’ostensione (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 4452/2015);
- l’interesse che giustifica l’ostensione va inteso in senso ampio e non necessariamente coincide con quella alla difesa giudiziale di una posizione giuridica soggettiva del richiedente (cfr., TAR Abruzzo–L’Aquila, sentenza n. 646/2015);
- in sede di giudizio sull’accesso il Giudice non deve verificare la fondatezza della posizione giuridica soggettiva alla cui cura è finalizzato la denegata istanza di ostensione, ma deve limitarsi ad appurare che questa non sia manifestamente pretestuosa o del tutto scollegata ai documenti richiesti (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. II, sentenza n. 11120/2015);
- l’oggetto della domanda di accesso deve essere circoscritto mediante la puntuale indicazione degli atti di cui si chiede l’ostensione, risultando inammissibili istanze con finalità meramente esplorative (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. VI, sentenza n. 3018/2015);
- anche l’accesso all’informazione ambientale ex articolo 3, comma 1, D.Lgs. n. 195/2005, che pure è facilitato rispetto a quello generale ex art. 22 L. n. 241/1990, necessita comunque che l’istanza non sia formulata in termini estremamente generici, ma al contrario che sia sufficientemente circostanziata (cfr., C.d.S., Sez. III, sentenza n. 4636/2015) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 04.11.2015 n. 480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa procedura intesa alla formazione del c.d. "silenzio-inadempimento" riguarda le ipotesi in cui, di fronte alla formale richiesta di un provvedimento da parte di un privato, costituente cioè atto iniziale di una procedura amministrativa normativamente prevista per l'emanazione di una determinazione autoritativa su istanza di parte, la p.a. omette di provvedere entro i termini stabiliti dalla legge; di conseguenza l'omissione dell'adozione del provvedimento finale assume il valore di silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in funzione dell'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l'azione avverso il silenzio è, dunque, l'esistenza di un obbligo in capo all'Amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del ricorrente.
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Il brocardo “res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest” (ndr: ciò che è stato negoziato tra alcuni non nuoce e non giova ad altri) costituisce un canone (di civiltà giuridica, prima che di portata precettiva) certamente applicabile alla branca del diritto amministrativo.
Ne consegue che, se indebitamente un atto “vincola” un terzo (Ente pubblico) che ad esso non ha partecipato, questi non ha l’onere né il dovere di impugnarlo: semplicemente l’atto non dispiega effetti nei suoi confronti.

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2. Il Collegio non intende discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale –ancora di recente a più riprese– ribadito da questa Quarta Sezione (ex aliis Consiglio di Stato sez. IV 19/03/2015 n.1503) secondo cui “la procedura intesa alla formazione del c.d. "silenzio-inadempimento" riguarda le ipotesi in cui, di fronte alla formale richiesta di un provvedimento da parte di un privato, costituente cioè atto iniziale di una procedura amministrativa normativamente prevista per l'emanazione di una determinazione autoritativa su istanza di parte, la p.a. omette di provvedere entro i termini stabiliti dalla legge; di conseguenza l'omissione dell'adozione del provvedimento finale assume il valore di silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in funzione dell'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l'azione avverso il silenzio è, dunque, l'esistenza di un obbligo in capo all'Amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del ricorrente”.
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2.4.1. Innanzitutto deve rilevarsi che il brocardo “res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest” costituisce un canone (di civiltà giuridica, prima che di portata precettiva: si veda sul punto, tra le tante Cassazione civile sez. III 19/11/2004 n. 21875) certamente applicabile alla branca del diritto amministrativo.
Ne consegue che, se indebitamente un atto “vincola” un terzo (Ente pubblico) che ad esso non ha partecipato, questi non ha l’onere né il dovere di impugnarlo: semplicemente l’atto non dispiega effetti nei suoi confronti
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.11.2015 n. 5015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In termini strutturali, la cessione volontaria è sì un contratto.
Tuttavia, da un punto di vista funzionale, essa equivale a un provvedimento di esproprio. Si tratta cioè di uno strumento che, sebbene formalmente negoziale, mantiene la connotazione di atto autoritativo, dato che il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del provvedimento finale.
Valgono dunque, in quanto compatibili, le disposizioni dettate per l’espropriazione (si veda ora, espressamente, l’art. 45, comma 4, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327).
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Contratto di cessione o procedimento di espropriazione sono orientati alla realizzazione di un particolare interesse pubblico (nella specie, il P.E.E.P.), che è successivamente venuto meno a seguito delle decisioni di segno diverso adottate dal Comune. La prospettiva puramente civilistica cristallizza l’interesse pubblico al momento dell’atto ed esclude che l’ente, al mutare delle circostanze, possa fare ciò che invece istituzionalmente gli spetta, cioè adeguare, nelle forme dovute, le proprie decisioni all’interesse pubblico quale concretamente viene configurandosi.
In altri termini: proprio alla luce dei principi, appare difficile sostenere che il Comune, dopo avere acquisito delle aree per fini di edilizia pubblica, non possa poi rivalutare le proprie scelte considerando in seguito sufficiente la realizzazione edificatoria compiuta e assegnando alle superfici residue una destinazione diversa, purché di pubblico interesse.
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Secondo l’art. 21, secondo comma, della legge n. 865 del 1971, in tema di edilizia residenziale pubblica, le aree espropriate e acquisite dal Comune fanno parte del suo patrimonio indisponibile.
Vale allora un indirizzo di questo Consiglio di Stato, non recente ma tuttora da condividere, secondo cui tali aree, proprio per rientrare nel patrimonio indisponibile dell’ente, non possono essere sottratte alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828, secondo comma, c.c.) e dunque non sono soggette a retrocessione.
Anche quella giurisprudenza che considera tale impossibilità di retrocessione non assoluta aggiunge che essa deve valutarsi alla luce di una “diversa, sopravvenuta esigenza di destinazione dei terreni acquisiti in via di ablazione ad altre, attuali finalità pubbliche”): il che esattamente si è verificato nella vicenda in questione.
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... per la riforma della sentenza del TAR Friuli Venezia Giulia-Trieste: Sezione I n. 609/2014, resa tra le parti, concernente procedura espropriativa per pubblica utilità - accordo di cessione volontaria.
...
3.1 Il terzo motivo dell’appello è fondato.
In termini strutturali, la cessione volontaria è sì un contratto.
Tuttavia, da un punto di vista funzionale, essa equivale a un provvedimento di esproprio. Si tratta cioè di uno strumento che, sebbene formalmente negoziale, mantiene la connotazione di atto autoritativo, dato che il fine pubblico può essere perseguito anche attraverso la diretta negoziazione del provvedimento finale (giurisprudenza costante: da ultimo, v. Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n. 4179; Id., sez. IV, 08.11.2013, n. 5346).
Valgono dunque, in quanto compatibili, le disposizioni dettate per l’espropriazione (si veda ora, espressamente, l’art. 45, comma 4, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327).
3.2 Ciò premesso, il Collegio non ritiene di condividere la ricostruzione della controversia che il TAR ha fatto in chiave esclusivamente civilistica, ricorrendo alle categorie della nullità per difetto della causa e della risoluzione per inadempimento.
Peraltro, anche a voler utilizzare i soli schemi propri del diritto civile, è da escludere che l’originario vincolo di destinazione delle aree al servizio del P.E.E.P. penetri nella causa del contratto e possa determinarne un vizio genetico o funzionale, poiché -in vista dell’interesse pubblico sottostante- la causa è nello scambio del bene contro un prezzo e nessuno di questi elementi è mancato alla stipula né è venuto meno successivamente.
In generale, non si coglie la complessa realtà della vicenda contrattuale se non ponendosi dal punto di vista del procedimento amministrativo, cui questa è funzionalmente equivalente.
Contratto di cessione o procedimento di espropriazione sono orientati alla realizzazione di un particolare interesse pubblico (nella specie, il P.E.E.P.), che è successivamente venuto meno a seguito delle decisioni di segno diverso adottate dal Comune. La prospettiva puramente civilistica cristallizza l’interesse pubblico al momento dell’atto ed esclude che l’ente, al mutare delle circostanze, possa fare ciò che invece istituzionalmente gli spetta, cioè adeguare, nelle forme dovute, le proprie decisioni all’interesse pubblico quale concretamente viene configurandosi.
In altri termini: proprio alla luce dei principi, appare difficile sostenere che il Comune, dopo avere acquisito delle aree per fini di edilizia pubblica, non possa poi rivalutare le proprie scelte considerando in seguito sufficiente la realizzazione edificatoria compiuta e assegnando alle superfici residue una destinazione diversa, purché di pubblico interesse.
3.3 Nella specie -come detto in narrativa- il Comune di San Giorgio di Nogaro, modificando il proprio P.R.G., ha ridotto il perimetro del P.E.E.P. e impresso alle aree oggetto della cessione altre destinazioni (impianti sportivi, servizi socio-sanitari e parcheggi), del rilievo pubblico delle quali non è possibile dubitare. L’opera pubblica (il P.E.E.P.) è stata eseguita e alcuni dei terreni acquisiti a tal fine (quelle degli appellati) non hanno ricevuto la prevista destinazione. Come dice esattamente il Comune, la fattispecie è esattamente quella descritta dall’art. 60 della legge n. 2359 del 1865, applicabile ratione temporis. La conseguenza è che “gli espropriati o gli aventi ragione da essi che abbiano la proprietà dei beni da cui fu staccato quello espropriato, hanno diritto ad ottenerne la retrocessione”.
3.4 In effetti, i privati, in via subordinata, hanno anche chiesto la retrocessione dei beni, sostenendo che con la dichiarazione del 23.11.2006 l’ente avrebbe già reso manifesta l’intenzione di non avvalersi più dei terreni relitti per gli scopi inizialmente delineati e citando giurisprudenza secondo cui la radicale difformità dell’opera realizzata o la radicale modifica dell’assetto territoriale originariamente programmato configurerebbero la posizione del privato non come interesse legittimo, ma come diritto soggettivo potestativo alla retrocessione, automaticamente esistente anche senza l’interposizione dell’intervento discrezionale della P.A. e direttamente tutelabile avanti all’Autorità giudiziaria.
Il Comune non contesta queste affermazioni, ma sostiene che in tema di aree destinate a P.E.E.P. la retrocessione non opererebbe e che il relativo diritto sarebbe comunque prescritto, decorrendo il termine dalla variante in riduzione del piano (1990) e, per le altre aree, dalla scadenza del termine di efficacia del piano stesso (1993).
3.5 Il Collegio non ritiene di esaminare la questione della prescrizione perché ritiene che, in concreto, il diritto alla retrocessione non sussista.
Secondo l’art. 21, secondo comma, della legge n. 865 del 1971, in tema di edilizia residenziale pubblica, le aree espropriate e acquisite dal Comune fanno parte del suo patrimonio indisponibile. Vale allora un indirizzo di questo Consiglio di Stato, non recente ma tuttora da condividere, secondo cui tali aree, proprio per rientrare nel patrimonio indisponibile dell’ente, non possono essere sottratte alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828, secondo comma, c.c.) e dunque non sono soggette a retrocessione (cfr. sez. IV, 18.09.1997, n. 981; e per una fattispecie analoga -beni acquisiti per la realizzazione di un P.I.P.- sez. IV, 22.05.2000, n. 2939).
Anche quella giurisprudenza che considera tale impossibilità di retrocessione non assoluta aggiunge che essa deve valutarsi alla luce di una “diversa, sopravvenuta esigenza di destinazione dei terreni acquisiti in via di ablazione ad altre, attuali finalità pubbliche” (Cons. Stato, sez. V, 19.02.2007, n. 833): il che esattamente si è verificato nella vicenda in questione.
4. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello del Comune è fondato e va pertanto accolto, con riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso introduttivo.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.
Ciò vale anche, ad esempio, per la supposta nullità o inefficacia delle scritture private autenticate (punto Bb3 del ricorso introduttivo), che viene motivata in termini generici, o per la ritenuta mancata impugnazione di un passaggio della motivazione, che varrebbe da solo a reggere la sentenza (pag. 3 della memoria di replica del 24 settembre scorso), e che per l’appunto costituisce invece -come detto- non un autonomo capo della decisione, ma solo un momento dell’argomentazione più ampia.
Nemmeno residua una diversa, autonoma ragione di danno ingiusto risarcibile a favore dei privati che peraltro -sia detto per inciso, non essendo stato il punto discusso in questa sede se non sotto il profilo di un’affermata inammissibilità dell’appello- non hanno impugnato a suo tempo le delibere comunali che hanno condotto alla nuova destinazione delle aree.
Non correttamente il TAR svaluta tale circostanza, ipotizzando a carico al Comune l’onere di perseguire i nuovi interessi pubblici emersi mediante una procedura complessa (retrocessione dei beni, mutamento di destinazione urbanistica e avvio di una nuova procedura ablatoria), idonea -in tesi- a soddisfare l’interesse dei privati a un maggiore indennizzo.
Anche ammessa in via di ipotesi la sussistenza di un tale onere, peraltro difficilmente compatibile con i principi di speditezza ed efficienza dell’azione amministrativa, essa non riuscirebbe tuttavia a giustificare la mancata iniziativa degli originari ricorrenti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.11.2015 n. 5000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie: essi non risultano in concreto deputati a un uso per fini contingenti, ma sono destinati a un impiego protratto nel tempo.
La “precarietà” dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo: non possono essere considerati manufatti idonei a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata precaria o irrilevante.
In ogni caso la predetta “precarietà” del manufatto, che rende non necessaria la concessione edilizia, non dipende dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio, con la conseguente esigibilità del titolo edilizio allorquando la struttura, ancorché prefabbricata, sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, e non meramente occasionale.
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In questo contesto, si è ritenuto che la sola stagionalità dell'installazione del manufatto non possa implicare il carattere della “temporaneità”, atteso da un lato il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione, e dall’altro la permanente idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che il complessivo manufatto è idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione per alcuni mesi l'anno.

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1. Passando all’esame del merito dei ricorsi, è utile riepilogare i principi giurisprudenziali enucleati in vicende analoghe a quella in esame.
1.1 Per consolidata giurisprudenza i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale, la potenziale rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie (Consiglio di Stato, sez. VI – 04/09/2015 n. 4124): essi non risultano in concreto deputati a un uso per fini contingenti, ma sono destinati a un impiego protratto nel tempo.
La “precarietà” dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo: non possono essere considerati manufatti idonei a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata precaria o irrilevante (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 04/09/2015 n. 4116).
In ogni caso la predetta “precarietà” del manufatto, che rende non necessaria la concessione edilizia, non dipende dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio, con la conseguente esigibilità del titolo edilizio allorquando la struttura, ancorché prefabbricata, sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, e non meramente occasionale (Consiglio di Stato, sez. V – 27/04/2012 n. 2450).
1.2 In questo contesto, si è ritenuto che la sola stagionalità dell'installazione del manufatto non possa implicare il carattere della “temporaneità”, atteso da un lato il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione, e dall’altro la permanente idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che il complessivo manufatto è idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione per alcuni mesi l'anno (TAR Calabria-Reggio Calabria – 08/04/2015 n. 350) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.11.2015 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: L'e-mail è pomo della discordia. La contesa riguarda l'uso improprio del pc aziendale. I dubbi della Fondazione studi consulenti del lavoro su una pronuncia della Cassazione.
Approfittare del computer e dell'e-mail dell'azienda non costa nulla. Soprattutto se il datore di lavoro, per fare le cose a modo, ha previsto nel codice disciplinare una sanzione conservativa per l'uso improprio della postazione internet aziendale da parte dei dipendenti.
In circostanze come queste, infatti, anche se il lavoratore trascura le informative e i ripetuti avvisi del datore e abusa della navigazione e della posta elettronica, il suo comportamento non potrà essere mai sufficiente a configurare il livello di gravità richiesto dall'art. 2119 codice civile ai fini del licenziamento per giusta causa.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- nella sentenza 02.11.2015 n. 22353.
La decisione, secondo la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro, «suscita qualche perplessità», perché «legittima l'azione di quel dipendente che, esplicitamente e coscientemente, utilizzi a fini personali strumenti informatici di cui dispone in ragione della posizione professionale ricoperta in azienda» (Parere n. 2/2015).
Uso improprio dell'e-mail aziendale. La Fondazione spiega che l'elemento essenziale su cui la giurisprudenza della Cassazione ha focalizzato l'attenzione è l'«uso improprio» della casella di posta elettronica aziendale. Con tale espressione s'intende l'utilizzo che fuoriesca integralmente dalle finalità connesse alle mansioni lavorative, che sono quelle che risultano dall'obbligazione assunta dal prestatore con la sottoscrizione del contratto di lavoro. Ipotesi classica è quella del ricorso a tale casella per effettuare comunicazioni o intrattenere rapporti di natura essenzialmente personale, non legati, cioè, nemmeno occasionalmente, all'esercizio dell'attività di lavoro (in questo senso, cassazione 11.08.2014, n. 17859).
Secondo la Corte di cassazione, tuttavia, l'utilizzo della casella di posta elettronica aziendale per fini personali non legittima, di per sé, il ricorso al licenziamento per giusta causa, ex art. 2119 codice civile. In particolare, per invocare tale massima sanzione, servirebbero elementi addizionali in grado di qualificare in termini di maggiore intensità la gravità del comportamento del dipendente, al punto da legittimare un'interruzione in tronco del rapporto di lavoro (si pensi al grave danno conseguente all'interruzione ingiustificata della prestazione lavorativa; oppure all'utilizzo della casella a fini personali e illeciti, come la commissione di un reato; in questo senso ancora la sentenza n. 17859/2014 della cassazione).
In tutti i casi in cui la condotta del dipendente si sia sostanziata nell'utilizzo della posta elettronica aziendale, senza produzione di un danno serio e quantificabile, la Corte ha sempre individuato come proporzionata e sufficiente una sanzione disciplinare di natura conservativa (in tal senso Cassazione sentenza 18.03.2014, n. 6222; Cassazione sentenza 17.06.2011, n. 13353; Cassazione sentenza 29.09.2005, n. 19053).
L'ultima pronuncia. Con la recente pronuncia (02.11.2015, n. 22353) la Suprema corte è ritornata ancora una volta sul tema dell'utilizzo improprio della casella di posta elettronica aziendale. Con essa, conferma la dichiarazione d'illegittimità del licenziamento disciplinare inflitto a un lavoratore a causa dell'uso improprio di strumenti di lavoro aziendali e, in particolare, del personal computer in dotazione, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica.
La Corte d'appello aveva argomentato che gli addebiti rientravano nella previsione del contratto collettivo, che sancisce solo la sanzione conservativa; e che, peraltro, non poteva ritenersi che la condotta realizzata costituisse un'ipotesi diversa e più grave, rispetto a quella prevista dalla disposizione contrattuale, poiché non era emerso che l'utilizzo personale di posta elettronica e navigazione in internet avesse prodotto una significativa sottrazione di tempo all'attività di lavoro, né che la condotta avesse realizzato il blocco del lavoro, con grave danno per l'attività produttiva.
La Cassazione condivide la posizione del giudice d'appello e, alla contestazione del datore di lavoro che non si era tenuto conto di una condotta generale del lavoratore tale da aver integrato la violazione del dovere di obbedienza (art. 2104 del codice civile), risponde con i principi già indicati in fattispecie analoga (sentenza n. 6222 del 18.03.2014): «Il riferimento a precedenti informazioni e preavvisi (cioè a disposizioni del datore di lavoro in ordine all'uso del computer aziendale) non prospetta invero una violazione di distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento» e «il fatto che la condotta sia stata reiterata non esorbita dalla previsione «dell'utilizzo improprio», locuzione che può intendersi anche come riferita a un impiego protratto nel tempo».
Le perplessità. Secondo i giudici di Cassazione, insomma, se il codice disciplinare o la contrattazione collettiva prevede la sanzione conservativa per l'uso improprio della e-mail aziendale, l'elusione, da parte del lavoratore, delle specifiche informative e dei molteplici avvisi effettuati dal datore al fine di prevenire abusi, non è sufficiente a configurare il livello di gravità richiesto dall'art. 2119 del codice civile.
In questi casi, dunque, il datore dovrà attenersi all'applicazione della sanzione disciplinare prevista, non potendo la violazione dei moniti e delle comunicazioni datoriali essere considerata come una violazione di obblighi contrattuali distinti, tali da consentire il passaggio alla sanzione espulsiva.
Questa posizione assunta dalla cassazione, secondo la Fondazione studi consulenti, «suscita qualche perplessità». Essa finisce, infatti, per legittimare l'azione di quel dipendente che, esplicitamente e coscientemente, contravvenendo a specifiche indicazioni precauzionali del datore di lavoro, utilizzi a fini personali strumenti informatici di cui dispone in ragione della posizione professionale ricoperta in azienda.
«Un'impostazione, quest'ultima», si legge nel Parere, «che espone il datore di lavoro al rischio continuo che il dipendente in questione reiteri il suo comportamento ad libitum, privando di valore vincolante le ripetute indicazioni circa l'utilizzo appropriato della strumentazione di lavoro».
Proprio come è in effetti avvenuto nel caso di specie, ove il dipendente non si era semplicemente limitato a violare la disposizione del contratto collettivo che vieta l'uso improprio di strumentazione aziendale, ma aveva aggravato la sua posizione non attenendosi alle specifiche e comprovate indicazioni ulteriormente fornitegli (articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015).

APPALTI: Subappalto senza nomi. Nell'offerta non c'è obbligo di indicazioni.
Non è obbligatoria l'indicazione in sede di offerta del nome del subappaltatore, neanche in caso di «subappalto necessario».

È quanto ha affermato la sentenza 02.11.2015 n. 9 dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato (si veda anche Italia Oggi del 5 novembre) risolvendo il conflitto fra due tesi interpretative contrapposte: la prima, che afferma la necessità dell'indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase dell'offerta per le lavorazioni in cui è richiesta al presenza di una impresa specializzata e qualificata per tutte le lavorazioni; la seconda, che invece afferma il solo obbligo di indicazione delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in subappalto, ma non anche del nome dell'impresa subappaltatrice.
La questione rimessa dalla quarta sezione del Consiglio di stato all'adunanza plenaria viene affrontata partendo dalla considerazione che non si è in presenza di «un sistema di regole chiaro e univoco» e che ciò non consente «opzioni ermeneutiche additive, analogiche, sistematiche o estensive». In questo caso, infatti si finirebbe per stabilire una regola non scritta (la necessità dell'indicazione del nome del subappaltatore già nella fase dell'offerta) che confliggerebbe con il dato testuale della disposizione legislativa.
Per la sentenza l'indicazione del nome del subappaltatore non è obbligatoria all'atto dell'offerta, neanche nei casi in cui, ai fini dell'esecuzione delle lavorazioni relative a categorie scorporabili a qualificazione necessaria, risulta indispensabile il loro subappalto a un'impresa provvista delle relative qualificazioni (nella fattispecie che viene comunemente, e, per certi versi, impropriamente definita come «subappalto necessario»).
Diversamente (e cioè affermando l'obbligo di indicazione in fase di offerta) si finirebbe, hanno detto i giudici, per costituire una «clausola espulsiva atipica, in palese spregio del principio di tassatività delle cause di esclusione» (codificato all'art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici).
Ciò detto, nel disegno di legge delega si prevede che il nuovo codice dovrà elencare i casi in cui sarà obbligatorio indicare almeno tre subappaltatori per ogni tipologia di attività (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).

APPALTI: Chi fa la gara non deve dare subito il nome del subappaltatore.
Chi partecipa alla gara d'appalto non deve indicare fin dall'offerta il nome dell'impresa cui subappalterà i lavori. I requisiti di validità degli appalti sono infatti tassativi e non esistono in materia vincoli Ue, tanto che l'interpretazione contraria finirebbe per introdurre una clausola espulsiva atipica, vale a dire un elemento di distorsione nei lavori pubblici. E su questa tesi è d'accordo anche l'Anac, l'authority anticorruzione.

Lo stabilisce l'adunanza plenaria del consiglio di Stato con la sentenza 02.11.2015 n. 9, che chiude il contrasto di giurisprudenza.
Affidamento significativo
È troppo gravoso imporre alle imprese che concorrono alla procedura pubblica di scegliere un (solo) subappaltatore fin dalla fase di partecipazione alla gara: si tratta di un «onere sproporzionato», osserva palazzo Spada, perché le condizioni di efficacia del subappalto sono tratteggiate con efficacia dall'articolo 118 del codice.
La stessa Anac, dopo l'incorporazione dell'autorità di vigilanza nel settore, ha validato schemi di appalto che non prevedono l'indicazione tempestiva ingenerando così un «significativo affidamento» negli operatori economici. Nelle norme europee non c'è traccia di un obbligo del genere e dunque non può essere il giudice a ricavarlo nel silenzio della legge.
Le direttive Ue sugli appalti pubblici lasciano libertà in materia agli stati membri e alle stazioni appaltanti: pretendere l'indicazione del nome equivarrebbe dunque a integrare in automatico il bando di gara che in origine non lo prevedeva, con un «obbligo non previsto da alcuna disposizione normativa cogente pretermessa nell'avviso» («eterointegrazione», la definiscono i giudici): il giudice si sostituirebbe così al legislatore oltre che alla stazione appaltante. Senza dimenticare che spendere subito il nome dell'interlocutore nel subappalto necessario può creare confusione con il diverso istituto dell'avvalimento.
Insomma: il subappaltatore sarà prescelto nella fase di esecuzione, durante la quale verranno verificati i suoi requisiti.
Esclusione confermata
Il massimo consesso del consiglio di stato ha stabilito anche un altro principio di diritto: non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'adunanza plenaria 3/2015 (articolo ItaliaOggi del 05.11.2015).

TRIBUTI: Esenzione Ici, conta il catasto. Categoria decisiva per assoggettare i fabbricati rurali. Lo ha ribadito la Corte di cassazione: necessario l'inquadramento A/6 o D/10.
Nonostante siano intervenute delle modifiche normative sulla disciplina dei fabbricati rurali, che attribuiscono rilevanza giuridica solo all'annotazione in catasto del requisito di ruralità, questi immobili sono esenti da Ici solo se inquadrati catastalmente nelle categorie A/6, se destinati ad abitazione, o D/10, se utilizzati per l'esercizio dell'attività agricola.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con l'ordinanza 30.10.2015 n. 22195.
La Cassazione, dunque, riafferma che è decisivo per il riconoscimento dell'esenzione Ici dei fabbricati rurali l'inquadramento catastale. «Qualora l'immobile sia iscritto in una diversa categoria catastale, sarà onere del contribuente, che pretenda l'esenzione dall'imposta, impugnare l'atto di classamento, restando, altrimenti, il fabbricato medesimo assoggettato a Ici. Allo stesso modo, il comune dovrà impugnare autonomamente l'attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10, al fine di poter legittimamente pretendere l'assoggettamento del fabbricato all'imposta».
Va però posto in evidenza che l'Agenzia del territorio, con la circolare 2/2012, ha chiarito che non conta più la classificazione catastale per avere diritto al trattamento agevolato Ici per i fabbricati rurali. E che possono mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali che siano per loro natura censibili nella categoria D/10.
La circolare ha fornito delle indicazioni sulla corretta interpretazione delle disposizioni contenute nel decreto ministeriale emanato il 26.07.2012, che ha stabilito, in dettaglio, quali adempimenti devono porre in essere i titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche per l'Imu delle agevolazioni tributarie, così come disposto dall'articolo 13 del dl «salva Italia» (201/2011).
Domande e autocertificazioni necessarie per il riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale, avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine di ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi. L'eventuale diniego di ruralità è impugnabile innanzi alle commissioni tributarie.
Infatti, nel caso di esito negativo del controllo sulle domande e autocertificazioni prodotte dagli interessati, l'Agenzia è tenuta a notificare un provvedimento motivato con il quale disconosce il requisito della ruralità. Dagli atti catastali devono risultare anche le annotazioni negative sugli immobili, che impediscono ai contribuenti di poter fruire dei vantaggi fiscali. Anche secondo il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (circolare 3/2012) la classificazione catastale non è più decisiva.
La retroattività delle istanze. Bisogna ricordare che, ex lege, le variazioni catastali e le annotazioni di ruralità richieste dai titolari di fabbricati rurali hanno effetto retroattivo per i cinque anni antecedenti a quello in cui sono state presentate le relative domande. Lo prevede l'articolo 2, comma 5-ter del dl 102/2013, in sede di conversione nella legge 124/2013.
L'efficacia retroattiva di questa disposizione di interpretazione autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime istanze di variazione entro il 30.09.2011. In base a questa norma, quindi, le domande di variazione catastale, disciplinate dall'articolo 7, comma 2-bis, del dl 70/2011, e l'inserimento negli atti catastali della ruralità degli immobili producono effetti per i cinque anni antecedenti a quello in cui sono state presentate.
Quindi non c'è più alcun dubbio, come è accaduto in passato, sulla valenza retroattiva delle istanze. L'efficacia retroattiva di questa disposizione di interpretazione autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006, considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le prime domande di variazione entro il 30.09.2011.
Pertanto, produce effetti sulle domande di rimborso già presentate dai contribuenti e sul contenzioso pendente. Inoltre, consente di presentare istanze di rimborso ai contribuenti che possedendo un fabbricato non accatastato in categoria rurale si sono adeguati alle pronunce della Corte di cassazione, pagando regolarmente l'Ici (articolo ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorso con il servizio postale. Libertà ed equivalenza per il deposito in cancelleria. Sentenza del consiglio di stato analizza l'articolo 156 del codice di procedura civile.
Il ricorso può essere consegnato in cancelleria anche mediante il servizio postale; ciò in quanto nessuna legge lo vieta.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 30.10.2015 n. 4984.
Dalla lettura dell'art. 156 del codice di procedura civile, precisa la sentenza, si desume il principio generale che è quello della libertà o della equivalenza, delle forme degli atti processuali. Perché ciò che conta è soltanto che la forma concretamente adottata sia idonea allo scopo voluto dalla legge.
Sotto questo punto di vista, in pratica, non occorre una norma espressa per legittimare una determinata forma; ma, al contrario, occorre una norma espressa per vietarla. Con la quale se l'invio a mezzo posta non è espressamente consentito, ma non è neppure espressamente vietato, non si ha motivo per ritenerlo invalido o inefficace.
Del resto, ha rilevato la terza sezione se i termini andassero interpretati alla lettera, come ha fatto il giudice di primo grado che ha escluso l'invio a mezzo posta perché la legge prevede la consegna, sarebbe illegittimo il deposito che non avviene effettuato direttamente «dalla parte» mentre nella prassi il deposito di un atto (incluso il ricorso introduttivo) può essere effettuato da un qualsivoglia mandatario, non necessariamente accreditato o qualificato, al limite neppure identificato. Altra questione, ha osservato la sezione, è se il supposto divieto dell'invio a mezzo posta discenda non da una norma espressa ma da esigenze di ordine pratico.
Il riferimento è ai possibili inconvenienti e disguidi che potrebbero derivare dall'impersonalità del mezzo, qual è il servizio postale, e dalla mancanza di un incontro diretto fra la parte, o chi la rappresenta, e l'operatore che riceve il deposito.
Pragmatica, comunque, la decisione del consiglio di stato nella parte in cui evidenzia che ciò che conta è l'effetto giuridico della scelta del mezzo: quello di porre a carico di chi se ne avvale i rischi di eventuali disfunzioni o ritardi inerenti a quel mezzo. Ciò in quanto non si può estendere al deposito del ricorso giurisdizionale il principio che ai fini dei termini di decadenza vale la data di spedizione, non quella di ricevimento dell'atto (articolo ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Basta con i professori-avvocati. La professione è incompatibile con un lavoro dipendente.
Lo hanno stabilito le sezioni unite dalla Cassazione. Ribaltato l'orientamento precedente.
I docenti delle scuole di ogni ordine e grado possono esercitare contemporaneamente la professione di avvocato o svolgere altra attività libero-professionale?

Fino a qualche giorno fa la risposta alla domanda era positiva alla luce di quanto dispone il comma 15 dell'articolo 508 del decreto legislativo 297/1994 e il comma 6 dell'articolo 53 del decreto legislativo 165/2001. «Al personale docente, dispone in particolare il predetto comma 15, è consentito, previa autorizzazione del direttore didattico o del preside, l'esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all'assolvimento di tutte le attività ineranti alla funzione docente e siano compatibili con l'orario di insegnamento e di servizio».
Dallo scorso 28 ottobre, data di pubblicazione della sentenza 28.10.2015 n. 21949 della Corte di Cassazione, Sezz. Unite Civili, la risposta alla domanda, certamente per quanto attiene all'esercizio della professione di avvocato, è di tutt'altro tenore.
I giudici della Corte hanno infatti ritenuto legittimo, alla luce di quanto dispongono gli articoli 18 e 19 della legge 247/2012 (l'esercizio della professione forense è incompatibile con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se svolto con orario di lavoro parziale, ad accezione dell'insegnamento di materie giuridiche nelle scuole secondarie pubbliche), il rigetto da parte del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Milano, della istanza di iscrizione all'albo degli avvocati di quella città presentata da una docente di scuola primaria in servizio a tempo indeterminato in regime di part-time. Una docente in possesso sia della laurea in giurisprudenza che del prescritto periodo biennale di pratica professionale e del superamento dell'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense.
Stante la citata sentenza, nessun docente in servizio nelle scuole di ogni ordine e grado che non insegni materie giuridiche potrà ottenere l'iscrizione all'albo degli avvocati e quindi esercitare la professione forense congiuntamente all'insegnamento nelle scuole pubbliche.
Una posizione in aperto contrasto con le norme citate in premessa e con la consuetudine rafforzatasi nel tempo di consentire a qualsiasi docente di svolgere una attività libero-professionale, ovviamente se preventivamente autorizzata del dirigente scolastico, una autorizzazione che, salvo casi particolari, è stata fino ad oggi sempre concessa.
La sentenza dei giudici della Corte potrebbe ora riaprire il dibattito sulla legittimità o meno di ritenere compatibile con la funzione docente lo svolgimento di una qualsiasi attività professionale anziché solo di quella che, seppure teoricamente, potrebbe apportare un contributo migliorativo all'insegnamento, una finalità quest'ultima che a suo tempo aveva giustificato, limitatamente al solo personale docente delle scuole di ogni ordine e grado, la deroga al divieto di esercitare attività commerciale, industriale e professionale o di assumere o mantenere impegni alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fini di lucro (articolo ItaliaOggi del 17.11.2015).

EDILIZIA PRIVATANon ignora il collegio come la giurisprudenza anche di questa Sezione abbia più volte avuto modo di chiarire che in caso di impugnazione da parte del vicino di un permesso di costruire rilasciato a terzi, il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell'intervento.
Al contempo, però, la medesima giurisprudenza ha altresì precisato che il principio della certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta, di converso, che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura in quanto, nelle more, il ritardo dell'impugnativa si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Infatti, l’anzidetto principio è posto dall'ordinamento a tutela della posizione di tutte le parti direttamente o indirettamente interessate al provvedimento e, pertanto, anche di quella del soggetto titolare del permesso a non realizzare una costruzione che sia suscettibile di un possibile futuro abbattimento.
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Così l'insegnamento giurisprudenziale più sopra richiamato, di carattere generale come già evidenziato, è stato ridimensionato nella sua concreta portata attraverso significativi e sostanziali “correttivi”, in presenza di svariate situazioni in cui l'ultimazione dei lavori non può ragionevolmente essere invocata dal vicino quale circostanza inderogabile da cui far decorrere il termine decadenziale per l'impugnativa del titolo edilizio ritenuto illegittimo e lesivo dei propri interessi.
Ed in questo senso la giurisprudenza anche di questa Sezione, che il collegio pienamente condivide, ha individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell'intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extra-processuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l'interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contrarie ai principi ordinamentali, come già precisato.
In altri termini, in ossequio al vecchio brocardo “diligentibus iura succurrunt”, il vicino che intenda avversare un intervento edilizio ha il preciso onere di attivarsi tempestivamente secondo i canoni di buona fede in senso oggettivo, senza differire colposamente o comunque senza valida ragione l'impugnativa del relativo titolo alla fine dei lavori, quando ciò non sia oggettivamente necessario ai fini ricorsuali.

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2. Con il primo mezzo di censura la società ricorrente deduce l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha respinto l'eccezione di tardività del gravame proposto dai ricorrenti in primo grado, dalla stessa sollevata in tale sede.
Assume al riguardo la Ecocortinadampezzo che:
- a prescindere dalla tipologia delle censure dedotte “la percezione di lesività che legittima un'impugnazione differita a fine lavori vale quando non siano già noti gli estremi dei permessi di costruire e non ci si sia attivati per conoscerne i contenuti, mentre nel caso in esame i ricorrenti erano già ben edotti dell'esistenza e degli estremi dei tre permessi di costruire fin dal luglio del 2014, essendosi anche attivati per l'estrazione di copia dei progetti con due distinte e successive istanze di accesso formale….”;
- pertanto, “i ricorrenti avevano il preciso onere di impugnarli fin da subito, salva la facoltà di differire la proposizione di motivi aggiunti eventualmente emergenti da una più approfondita e successiva analisi degli elementi anche tecnici o presupposti dei permessi di costruire”.
3. La doglianza è fondata.
4. Ed invero, non ignora il collegio come la giurisprudenza anche di questa Sezione abbia più volte avuto modo di chiarire che in caso di impugnazione da parte del vicino di un permesso di costruire rilasciato a terzi, il termine di impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell'intervento.
Al contempo, però, la medesima giurisprudenza ha altresì precisato che il principio della certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta, di converso, che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura in quanto, nelle more, il ritardo dell'impugnativa si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (cfr. da ultimo e per tutte Sez. IV 10.06.2014 n. 2959).
Infatti, l’anzidetto principio è posto dall'ordinamento a tutela della posizione di tutte le parti direttamente o indirettamente interessate al provvedimento e, pertanto, anche di quella del soggetto titolare del permesso a non realizzare una costruzione che sia suscettibile di un possibile futuro abbattimento.
Così l'insegnamento giurisprudenziale più sopra richiamato, di carattere generale come già evidenziato, è stato ridimensionato nella sua concreta portata attraverso significativi e sostanziali “correttivi”, in presenza di svariate situazioni in cui l'ultimazione dei lavori non può ragionevolmente essere invocata dal vicino quale circostanza inderogabile da cui far decorrere il termine decadenziale per l'impugnativa del titolo edilizio ritenuto illegittimo e lesivo dei propri interessi.
Ed in questo senso la giurisprudenza anche di questa Sezione, che il collegio pienamente condivide, ha individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell'intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extra-processuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l'interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contrarie ai principi ordinamentali, come già precisato.
In altri termini, in ossequio al vecchio brocardo “diligentibus iura succurrunt”, il vicino che intenda avversare un intervento edilizio ha il preciso onere di attivarsi tempestivamente secondo i canoni di buona fede in senso oggettivo, senza differire colposamente o comunque senza valida ragione l'impugnativa del relativo titolo alla fine dei lavori, quando ciò non sia oggettivamente necessario ai fini ricorsuali (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2015 n. 4909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla legittimità -o meno- di poter venire a conoscenza della documentazione contabile afferente all’erogazione della retribuzione di risultato in favore degli altri dirigenti.
L’esercizio del diritto di accesso è autorizzato solo se sostenuto dall’esigenza di tutelare un interesse giuridicamente rilevante, intendendosi per tale un interesse serio, effettivo, concreto, attuale e, in definitiva, ricollegabile all’istante da un preciso e ben identificabile nesso funzionale alla realizzazione di esigenze di giustizia.
Nel caso di specie, la conoscenza della documentazione rimasta riservata non risulterebbe idonea a soddisfare alcun apprezzabile interesse, tanto meno collegato ad esigenze di difesa giurisdizionale, attesa l’assoluta irrilevanza, a qualsiasi fine di tutela dei suoi interessi, del mero confronto della sua retribuzione di risultato con quella riconosciuta ai suoi colleghi (in ragione dell’autonomia e dell’indipendenza delle relative posizioni soggettive).

... per la riforma della sentenza del TAR LAZIO-ROMA: SEZ. III-quater n. 8139/2015, resa tra le parti, concernente diniego accesso alla documentazione contabile riguardante capitolo di bilancio della retribuzione di risultato dei dirigenti di prima fascia;
...
3.- Prima di esaminare la fondatezza del gravame, appare, tuttavia, necessaria la preliminare definizione dell’oggetto del giudizio, al fine di circoscrivere la disamina del ricorso alla materia effettivamente (e ancora) controversa.
In attuazione ed in coerenza con la decisione assunta in data 28.10.2014 dalla Commissione per l’accesso alla documentazione amministrativa, investita della questione dall’odierno ricorrente, l’INPS provvedeva, con la nota in data 09.12.2014 (qui impugnata), a consentire l’accesso dell’interessato a tutte le informazioni direttamente attinenti alla misura degli importi erogati al richiedente a titolo di retribuzione di risultato e di riparto dei residui del fondo dirigenti di prima fascia, per ciascuno degli anni considerati, nonché, per ognuno dei corrispondenti esercizi di bilancio, agli importi (impegnati ed erogati) del fondo retribuzione di risultato, continuando a negare l’ostensione della residua documentazione richiesta, per la rilavata assenza dei requisiti attinenti alla specificità dell’oggetto ed alla concretezza dell’interesse.
In esito alla predetta determinazione, residua, quindi, quale materia controversa, la sola conoscenza della documentazione contabile afferente all’erogazione della retribuzione di risultato in favore degli altri dirigenti di prima fascia (essendo stato, per il resto, compiutamente soddisfatto l’interesse conoscitivo dell’interessato), con la conseguenza che il presente scrutinio dev’essere limitato alla sola disamina della spettanza dell’accesso ad essa.
4.- Così definito e circoscritto il perimetro della presente indagine, risulta agevole rilevare che, in relazione alla pretesa conoscenza della documentazione relativa alla retribuzione di risultato riconosciuta ad altri dirigenti, non appare configurabile, in capo all’odierno ricorrente, alcun interesse meritevole di tutela, azionabile con il rimedio peculiare apprestato dall’art. 116 c.p.a..
E’ sufficiente, al riguardo, rilevare che l’esercizio del diritto di accesso è autorizzato solo se sostenuto dall’esigenza di tutelare un interesse giuridicamente rilevante, intendendosi per tale un interesse serio, effettivo, concreto, attuale e, in definitiva, ricollegabile all’istante da un preciso e ben identificabile nesso funzionale alla realizzazione di esigenze di giustizia (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 23.09.2015, n. 4452), per concludere che, nel caso di specie, la conoscenza della documentazione rimasta riservata non risulterebbe idonea a soddisfare alcun apprezzabile interesse, tanto meno collegato ad esigenze di difesa giurisdizionale, del Dr. To., attesa l’assoluta irrilevanza, a qualsiasi fine di tutela dei suoi interessi, del mero confronto della sua retribuzione di risultato con quella riconosciuta ai suoi colleghi (in ragione dell’autonomia e dell’indipendenza delle relative posizioni soggettive).
Ne consegue, pertanto, l’assenza, nella fattispecie, dell’indefettibile presupposto della sussistenza di un interesse idoneo a legittimare (secondo la regolazione contenuta negli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990) la valida attivazione del rimedio nella specie azionato.
L’INPS risulta, peraltro, adempiente agli obblighi di trasparenza, quanto alla pubblicazione sul sito istituzionale di tutte le componenti della retribuzione dei dirigenti, sanciti dall’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, sicché, anche sotto tale profilo, la pretesa del ricorrente deve ritenersi priva di fondamento.
5.- Alla stregua delle considerazioni che precedono, l’appello dev’essere, quindi, respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 27.10.2015 n. 4903 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla corretta quantificazione della sanzione ex art. 37 DPR 380/2001 per l'esecuzione abusiva di opere di tombinamento di un fosso.
Le opere eseguite (tombinamento di un fosso in assenza di d.i.a.) contribuiscono oggettivamente ad un miglioramento complessivo della fruibilità della villa che si giova di una più ampia e meglio accessibile area pertinenziale e, pertanto, la tesi dei ricorrenti secondo la quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per stimare il valore dell’incremento del valore della villa appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza possa ritenersi aumentato quantomeno in misura corrispondente a quanto speso per i materiali e la manodopera.

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... per l'annullamento del provvedimento comunale 13.07.2009 n. 7173 di applicazione sanzione pecuniaria riferita all’esecuzione di opere di tombinamento di un fosso in assenza di d.i.a. ed atti connessi.
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I ricorrenti, proprietari di una villa sita nel Comune di Loreggia, hanno effettuato, senza alcun titolo abilitativo, il tombinamento di un fosso sul lato nord della proprietà per una lunghezza di circa 180 m. mediante la posa di tubazioni in calcestruzzo, pozzetti e il riempimento di materiale vegetale.
Poiché le opere, stante il divieto di realizzare il tombinamento o la chiusura di fossi prevista dalla valutazione di compatibilità idraulica recepita dallo strumento urbanistico, non sono state ritenute sanabili, il Comune ha applicato la sanzione di cui all’art. 37, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 380, che prevede una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi, quantificata in € 21.600,00.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti contestano la correttezza della quantificazione dell’ammontare della sanzione lamentando in via principale l’erroneità del criterio adottato dal Comune che, anziché valutare l’incremento di valore prima e dopo l’esecuzione dei lavori, si è riferito al costo sostenuto per l’esecuzione delle opere, e sostengono che pertanto il calcolo corretto dell’aumento del valore venale dell’immobile non avrebbe dovuto essere riferito all’incremento di valore della villa, ma a quello relativo alla sola striscia di terreno recuperata a seguito del tombinamento.
Secondo la loro prospettazione il Comune avrebbe dovuto tener conto del solo valore della superficie del terreno agricolo recuperato, applicando una sanzione finale di € 2.040,00.
In via subordinata, lamentano il difetto di istruttoria deducendo che il Comune, senza effettuare una ricerca di mercato, ha arbitrariamente valutato in € 10.800,00 il costo dell’opera senza considerare gli effettivi costi sostenuti ammontanti invece ad € 6.000,00,.
Si è costituito in giudizio il Comune replicando alle censure proposte e concludendo per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza n. 1165 del 17.12.2009, è stata accolta la domanda cautelare.
Alla pubblica udienza dell’08.10.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto.
Le opere eseguite contribuiscono oggettivamente ad un miglioramento complessivo della fruibilità della villa che si giova di una più ampia e meglio accessibile area pertinenziale e pertanto la tesi dei ricorrenti secondo la quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per stimare il valore dell’incremento del valore della villa appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza possa ritenersi aumentato quantomeno in misura corrispondente a quanto speso per i materiali e la manodopera.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere respinte.
Parimenti infondata è anche la censura di cui al secondo motivo, perché dalla documentazione versata in atti, e non contestata dai ricorrenti, risulta che il Comune, contrariamente a quanto dedotto, non si è determinato in modo arbitrario nello stimare il costo delle opere, ma si è riferito ad una somma inferiore a quella dei costi medi rilevabili sul mercato, come comprovano i due preventivi di spesa acquisiti dal Comune da due diverse ditte che, calcolando analiticamente i lavori da eseguire e i materiali da utilizzare, hanno quantificato in € 11.700,00, ed € 14.100,00, i costi complessivi necessari all’esecuzione del tombinamento, e ciò è sufficiente a comprovare la non arbitrarietà della stima e l’inattendibilità dei dati forniti dai ricorrenti che si sono limitati a depositare in giudizio una fattura priva dell’esposizione analitica dei costi secondo la quale la spesa sostenuta è stata di € 6.000,00.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 26.10.2015 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTISì all’avviso Ici notificato con la Pec. Accertamento. Per la Ctp Matera è legittima la modalità adottata dall’ente impositore.
Sì all’avviso di accertamento Ici notificato via Pec (posta elettronica certificata) dal Comune. La trasmissione di un documento informatico attraverso la posta elettronica certificata equivale infatti, salvo che la legge non disponga diversamente, alla notificazione a mezzo posta.

Ad affermarlo è stata la Commissione tributaria provinciale di Matera con la sentenza 26.10.2015 n. 447/1/2015.
Una società ha impugnato l’avviso di ingiunzione di pagamento emesso da un Comune per il recupero dell’Ici sostenendo di non avere mai ricevuto gli avvisi di accertamento sottostanti all’ingiunzione impugnata.
Nel costituirsi l’ente locale ha, invece, chiesto il rigetto del ricorso in quanto gli atti prodromici all’ingiunzione di pagamento erano stati tutti validamente notificati tramite Pec presso l’indirizzo di posta elettronica certificata dell’azienda per come emergeva dalla documentazione che esibiva.
Senza entrare nel merito della controversia, la Commissione tributaria provinciale di Matera ha rigettato il ricorso dando ragione all’amministrazione comunale. In particolare, i giudici lucani hanno fatto presente che in base all’articolo 48 del Codice dell’amministrazione digitale (Cad) -relativo proprio alla posta elettronica certificata– la trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna, avviene mediante posta elettronica certificata. Il comma 2 della disposizione prevede, inoltre, che la trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata in virtù del comma 1, equivale alla notificazione a mezzo posta, a meno che la legge disponga diversamente.
Per questi motivi il collegio giudicante di Matera ha ritenuto che, alla luce dell’articolo 48 del Codice dell’amministrazione digitale, il perfezionamento della notifica a mezzo posta elettronica certificata è perfettamente analogo a quello sancito per il perfezionamento della notifica a mezzo posta. In questo modo, poiché era stato dimostrato che gli avvisi di accertamento erano stati tutti notificati validamente ed erano divenuti definitivi perché non opposti nei termini di legge, la Ctp ha rigettato il ricorso proposto avverso la successiva ingiunzione di pagamento.
Più in generale, è opportuno ricordare che la notifica tramite pec può riguardare le imprese costituite in forma societaria che sono tenute ad indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione nel registro delle imprese. Allo stesso modo i professionisti, iscritti in albi ed elenchi, sono tenuti a comunicare ai rispettivi Ordini o Collegi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata. Per i privati cittadini non esiste, invece, l’obbligo di attivare una casella di posta elettronica certificata.
Infine, per il mittente la notifica si ha per compiuta nel momento in cui il documento informatico è stato trasmesso al proprio server, mentre per il destinatario la notificazione è perfezionata allorquando il documento è per lui accessibile perché presente nella sua casella di posta elettronica
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Recupero rifiuti con la qualifica. La Cassazione: la p.a. deve verificare.
La procedura di rinnovo dell'attività di recupero dei rifiuti non può essere considerata come una mera formalità e presuppone comunque la verifica, da parte dell'amministrazione competente della sussistenza dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge per l'esercizio di tale attività. Pertanto in sede di rinnovo della comunicazione per l'esercizio dell'attività di recupero di rifiuti l'inosservanza delle prescrizioni disposte dalla Provincia configura il reato di gestione illecita di rifiuti.

Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 23.10.2015 n. 41049.
Deve affermarsi il principio secondo il quale ai sensi dell'art. 216 del dlgs n. 252 del 2006 l'amministrazione provinciale è tenuta a effettuare, anche in sede di rinnovo della comunicazione la medesima verifica e sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge in sede di prima comunicazione. Il 5 comma dell'articolo 216 del dlgs n. 252 del 2006 stabilisce che la comunicazione deve essere rinnovata ogni cinque anni e comunque in caso di modifica sostanziale delle operazioni di recupero.
Il quarto comma dello stesso articolo statuisce che la provincia, qualora accerti il mancato rispetto delle norme tecniche e delle condizioni richieste, dispone, con provvedimento motivato, il divieto di inizio ovvero di prosecuzione dell'attività, salvo che l'interessato non provveda a conformare alla normativa vigente detta attività e i suoi effetti entro il termine e secondo le prescrizioni stabiliti dall'amministrazione. Il potere dell'amministrazione provinciale di imporre specifiche prescrizioni è dunque previsto dalla legge e nulla esclude che possa essere esercitato anche in sede di rinnovo della comunicazione.
Invero la procedura di rinnovo di rinnovo dell'attività di recupero dei rifiuti non può essere considerata come una mera formalità e presuppone comunque la verifica, da parte dell'amministrazione competente, della sussistenza dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge per l'esercizio di tale attività (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).
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MASSIMA
3. Considerati dunque i dati fattuali evidenziati nel provvedimento impugnato e sulla base degli altri elementi ricavabili dal ricorso, unici atti a disposizione del Collegio, deve escludersi la sussistenza della dedotta violazione di legge.
L'art. 216 d.lgs. 152/2006 stabilisce, al comma 5, che la comunicazione per l'esercizio di attività di recupero di rifiuti deve essere rinnovata ogni cinque anni e, comunque, in caso di modifica sostanziale delle operazioni di recupero.
Il comma 4 della medesima disposizione specifica, inoltre, che nel caso in cui venga accertato il mancato rispetto delle norme tecniche e delle condizioni di cui al comma 1, la provincia dispone, con provvedimento motivato, il divieto di inizio ovvero di prosecuzione dell'attività, salvo che l'interessato non provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro il termine e secondo le prescrizioni stabiliti dall'amministrazione.
Il potere dell'amministrazione provinciale di imporre specifiche prescrizioni è dunque previsto dalla legge e nulla esclude che possa essere esercitato anche in sede di rinnovo della comunicazione.
Invero la procedura di rinnovo non può essere considerata come una mera formalità e presuppone comunque la verifica, da parte dell'amministrazione competente, della sussistenza dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge per l'esercizio dell'attività di recupero, verifica che il comma 3 dell'art. 216 impone, stabilendo che sia effettuata d'ufficio sulla base della relazione che lo stesso comma prevede debba essere allegata alla comunicazione di inizio di attività.
Ne consegue che, in presenza di provvedimenti inibitori emessi dall'amministrazione, l'inizio o la prosecuzione dell'attività di recupero deve ritenersi effettuata in assenza di valido titolo abilitativo, configurandosi il reato di illecita gestione di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006, poiché il procedimento finalizzato al conseguimento del titolo non può ritenersi completato.
4. Deve conseguentemente affermarsi il principio secondo il quale
ai sensi dell'art. 216 d.lgs. 152/2006 l'amministrazione provinciale è chiamata ad effettuare, anche in relazione al rinnovo della comunicazione di cui al comma 5 la medesima verifica della sussistenza dei requisiti e delle condizioni richieste dalla legge in sede di prima comunicazione e l'espletamento dell'attività in presenza di provvedimento di divieto di inizio o di prosecuzione, emesso ai sensi del comma 4, deve ritenersi effettuato in assenza di comunicazione e sanzionabile ai sensi dell'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006.

PUBBLICO IMPIEGO: Legali p.a., diritto ai compensi. Deve essere certo il tempo dell'effettiva liquidazione. Il Tar Campania delinea il perimetro per l'erogazione delle somme dopo il dl 90/2014.
Diritto degli avvocati dipendenti degli enti pubblici di percepire i compensi professionali (cc.dd. propine) a seguito dell'esito vittorioso della lite patrocinata.
I criteri per l'erogazione dei compensi professionali agli avvocati degli enti pubblici dopo il dl n. 90/2014 sono stati precisati dal TAR Campania–Napoli, Sez. V, con la sentenza 23.10.2015 n. 5025.
L'occasione è stata il ricorso presentato dagli avvocati della Città metropolitana di Napoli (già Provincia di Napoli), inquadrati nella relativa dotazione organica in cat. D3 (ex 8 q.f.), con il quale era stato impugnato il regolamento per la corresponsione dei compensi professionali al personale togato (di cui all'art. 9 del decreto legge 24.06.2014 n. 90, convertito in legge con modificazioni dall'art. 1, comma 1, legge 11.08.2014 n. 114), approvato dalla Provincia di Napoli, contestandone la legittimità.
Dalla sentenza emergono questi tre elementi:
a) il diritto degli avvocati dipendenti degli enti pubblici di percepire i compensi professionali (cc.dd. propine) a seguito dell'esito vittorioso della lite patrocinata, indipendentemente dal fatto che, detto esito, sia stato conseguito in forza di una sentenza che abbia deciso nel merito la causa, ovvero di un provvedimento giurisdizionale che abbia definito il giudizio per perenzione, per rinuncia al ricorso, o, in generale, per inattività della parte ricorrente, nonché, ancora, per effetto della conclusione di un accordo transattivo;
b) il tempo della effettiva liquidazione dei suddetti compensi professionali deve essere certo; secondo il Tar Napoli, infatti, il difetto, nel regolamento, della previsione di un termine (possibilmente perentorio) entro cui provvedere alla concreta erogazione delle cc.dd. propine elude, verosimilmente anche sine die, le legittime aspettative degli avvocati aventi diritto, e quindi, contrasta con i principi di cui all'art. 97 Cost.;
c) deve essere disposto il tetto massimo oltre il quale i compensi professionali in questione non possono essere erogati in favore degli avvocati pubblici.
Per quanto concerne questo ultimo aspetto i giudici amministrativi hanno rilevato che gli avvocati dipendenti di enti pubblici ed iscritti nell'albo speciale annesso all'albo professionale godono già di tutte le garanzie e le prerogative (economiche e giuridiche) connesse al pubblico impiego.
Stando così le cose la determinazione legislativa di un limite massimo alla liquidazione dei compensi professionali appare un equo contemperamento tra il diritto degli avvocati dipendenti a un'equa retribuzione, proporzionata alla quantità e qualità dell'attività svolta (art. 36 Cost.) e la necessità di salvaguardare la tenuta dei conti pubblici, tenendo conto che, in caso di sentenza favorevole con compensazione delle spese di lite, la liquidazione dei compensi professionali spettanti avviene a totale carico del bilancio dell'Ente di appartenenza (articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAL'apprezzamento di merito sul parere espresso dalla Soprintendenza è sindacabile in giustizia amministrativa solamente per manifesta erroneità o illogicità.
Invero, l’apprezzamento dell’organismo territoriale del Mibact, in quanto avente contenuto tecnico–discrezionale, è assoggettato esclusivamente a un sindacato giurisdizionale esterno, svolto nei limiti:
- della verifica della corretta percezione da parte dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del provvedere, della completezza dell’istruttoria;
- della ragionevolezza della scelta compiuta in relazione alla fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle ragioni della decisione,
e che questo giudice d’appello non può sostituire la propria valutazione a quella rientrante nei poteri dell’Amministrazione.
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Per consolidata giurisprudenza, in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due progetti, quand’anche simili tra loro.
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Tuttavia, non appare inutile soggiungere che:
- sulla contestazione, in sede giudiziale, del parere della Soprintendenza, in modo condivisibile la sentenza ha evidenziato come l’interessata avesse inteso contrapporre, inammissibilmente, una diversa valutazione di merito a quella della Soprintendenza, puntualmente motivata con riferimento al pregiudizio arrecato dalle dimensioni dell’abuso edilizio al contesto panoramico tra la linea di costa già edificata e l’antistante sistema naturalistico dunale. Apprezzamento di merito sindacabile in giustizia amministrativa solamente per manifesta erroneità o illogicità, che nella fattispecie non si ravvisano (ex multis, Cons. Stato, VI, 17.09.2012, n. 4759; 08.05.2015, n. 2675, dove si precisa che l’apprezzamento dell’organismo territoriale del Mibact, in quanto avente contenuto tecnico–discrezionale, è assoggettato esclusivamente a un sindacato giurisdizionale esterno, svolto nei limiti della verifica della corretta percezione da parte dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del provvedere, della completezza dell’istruttoria; della ragionevolezza della scelta compiuta in relazione alla fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle ragioni della decisione; e che questo giudice d’appello non può sostituire la propria valutazione a quella rientrante nei poteri dell’Amministrazione);
- la disparità di trattamento denunciata (v. sopra, p. 4.1.) non può avere ingresso. Per consolidata giurisprudenza, in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due progetti, quand’anche simili tra loro (Cons. Stato, VI, 13.02.1984, n. 81; 08.08.2000, n. 4345; 24.10.2008, n. 5267; 11.09.2013, n. 4497; 05.03.2014, n. 1059; 01.04.2014, n. 1559; 10.02.2015, n. 718) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.10.2015 n. 4875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Entrate k.o. per lite temeraria. Punito il tentativo di giustificare l'accertamento tardivo. La Ctp Milano ha deciso che l'Agenzia dovrà versare 35 mila euro di risarcimento.
Fisco condannato per lite temeraria. L'Agenzia delle entrate dovrà versare 35 mila euro di risarcimento a un'impresa per avere emesso (e poi successivamente difeso in giudizio) un accertamento notificato oltre la scadenza dei termini di decadenza dell'azione accertatrice.

Così ha deciso la Ctp Milano con la sentenza 23.10.20154 n. 8502/15/15, accogliendo il ricorso di un'azienda che si era vista richiedere dall'erario più di 21 milioni di euro, tra imposte, sanzioni e interessi.
Tutto inizia nel 2002 con una verifica della guardia di finanza. Secondo le Fiamme gialle l'impresa era esterovestita: pur essendo formalmente residente in Olanda, la sede effettiva era in Italia e quindi doveva essere considerata dal punto di vista fiscale come un soggetto residente. Il conseguente avviso di accertamento, però, veniva emanato dall'Agenzia delle entrate solo nel febbraio 2014, ossia circa 12 anni dopo i rilievi della Gdf.
L'ufficio recuperava a tassazione per gli anni 2001 e 2002 dividendi e plusvalenze incassati dal soggetto olandese ma che, secondo il fisco, avrebbero dovuti essere dichiarati e tassati in Italia: ai 10 milioni euro di imposte evase, si aggiungevano 11 milioni di sanzioni.
A parere del fisco, nessun termine di prescrizione tributaria era stato violato: i cinque anni a disposizione per i controlli in caso di omessa dichiarazione dovevano infatti ritenersi raddoppiati in quanto le somme evase superavano le soglie di punibilità penale previste dal dlgs n. 74/2000. Ai 10 anni così determinati, doveva poi essere aggiunta l'ulteriore proroga di termini sancita dall'articolo 10 della legge n. 289/2002. Una tesi però immediatamente confutata dalla società contribuente, che impugnava la rettifica invocando la prescrizione delle annualità accertate. Trovando accoglimento da parte dei magistrati tributari.
Secondo la Ctp Milano, infatti, il raddoppio dei termini in presenza di reato non può cumularsi con eventuali prolungamenti previsti da altre disposizioni. Come già stabilito dalla sentenza n. 247/2011 della Corte costituzionale. In caso contrario, infatti, si arriverebbe a tempi per l'accertamento «irragionevolmente lunghi». I giudici meneghini non si limitano però ad applicare tale principio di diritto, ritenendo che l'Agenzia sia incorsa in una «responsabilità aggravata per lite temeraria». Pur avendo avuto a disposizione 10 anni per la notifica delle contestazioni, gli accertamenti sono partiti solo nel 2014, causando alla società «un evidente danno e rilevanti disagi».
Una scelta, quella di procedere comunque alla rettifica fuori tempo massimo, che a giudizio della Ctp deriva da una «precisa volontà di evitare responsabilità discendenti dall'omessa notifica degli avvisi di accertamento entro i termini ordinari, anche in considerazione dei rilevanti ammontari oggetto degli stessi».
«La Ctp di Milano ha affermato la responsabilità aggravata dell'Agenzia delle entrate, perché quest'ultima, nonostante fosse decaduta dal potere di emettere gli accertamenti, aveva cercato di occultare tale decadenza mediante la elaborazione di una tesi del tutto priva di fondamento e caratterizzata da un evidente scopo «elusivo», volto all'aggiramento delle disposizioni applicabili in materia», commenta Giulio Andreani, senior advisor di Dla Piper (che ha difeso in giudizio la società), «in altri termini, la legge esiste per tutti: la devono rispettare i contribuenti, ma anche l'amministrazione finanziaria e nulla giustifica la sua violazione da parte di qualsiasi soggetto» (articolo ItaliaOggi del 07.11.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Compensazione spese debitamente motivata.
La compensazione delle spese deve essere debitamente motivata anche in caso di cessazione della materia del contendere.

Questo è quanto ha precisato il Consiglio di stato, sez. III con la sentenza 23.10.2015 n. 4887.
Nel caso in esame era stato presentato ricorso per far dichiarare l'illegittimità del silenzio mantenuto dall'Amministrazione dell'interno su una domanda di concessione della cittadinanza italiana. L'amministrazione intimata, però, aveva fatto presente di aver già emanato il decreto di conferimento.
Con sentenza del Tar Lazio veniva così dichiarata la cessazione della materia del contendere e veniva disposta la compensazione delle spese di giudizio giustificandola con «la grande mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del rilevante numero richieste di cittadinanza italiana».
Veniva allora proposto appello, limitatamente al capo relativo alla compensazione delle spese.
Il Consiglio di stato lo ha accolto.
Il Collegio, infatti, rileva come non emerga alcuna causa giustificativa della compensazione delle spese. Negando anche che una giustificazione si possa rinvenire nella circostanza «della grande mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del rilevante numero richieste di cittadinanza italiana» (articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015).
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MASSIMA
1. L’appellante, già ricorrente in primo grado, nell’anno 2014 ha proposto davanti al TAR del Lazio un ricorso (R.G. 3552/2014) con il rito dell’art. 117 c.p.a. per far dichiarare l’illegittimità del silenzio mantenuto dall’Amministrazione dell’Interno sulla sua domanda di concessione della cittadinanza italiana.
Il ricorso è stato discusso alla camera di consiglio del 30.10.2014; ed è stato definito con la sentenza n. 274/2015, pubblicata il 09.01.2015.
La sentenza dà atto che «con nota del 2.10.2014, l'amministrazione intimata ha rappresentato di aver emanato il decreto di conferimento della cittadinanza italiana» e conseguentemente dichiara cessata la materia del contendere.
Infine, la sentenza così conclude: «Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio, tenuto conto –come è noto– della grande mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del rilevante numero richieste di cittadinanza italiana».
2.
L’interessato propone appello a questo Consiglio, limitatamente al capo relativo alla compensazione delle spese. L’appellante sostiene, in sintesi, che l’evoluzione della disciplina delle spese del giudizio, nel processo amministrativo come in quello civile, è da tempo ispirata ad una progressiva riduzione dei margini di discrezionalità che consentono al giudice di derogare al principio che la parte soccombente deve rimborsare le spese alla parte vittoriosa; nonché all’aggravamento dell’onere di motivare l’eventuale compensazione.
Nella specie, peraltro –prosegue l’appellante– la motivazione data in concreto dalla sentenza appellata è incongrua.
L’Amministrazione appellata si è costituita per resistere all’appello, con argomentate memorie.
Il ricorso è ora passato in decisione con rito camerale.
3. Il Collegio osserva innanzi tutto che, pur non essendosi il TAR pronunciato esplicitamente sul punto, si può ritenere sostanzialmente incontroverso che il ricorso proposto in primo grado fosse fondato. Ed invero, il fatto stesso che il TAR, nel disporre la compensazione delle spese, abbia ritenuto necessario giustificare tale decisione con riferimento ai gravosi compiti dell’Amministrazione, lascia intendere che quel Collegio avrebbe ritenuto altrimenti doveroso liquidare le spese in favore del ricorrente in base al criterio della c.d. soccombenza virtuale; ciò implica e sottintende, a sua volta, che il TAR riteneva che il ricorso del privato sarebbe stato accolto, se non fosse sopravvenuto il provvedimento che faceva cessare la materia del contendere.
In altre parole, il ricorso al TAR contro il silenzio era ammissibile e fondato; così come ammissibile e fondata era la domanda di concessione della cittadinanza italiana, tanto è vero che l’Amministrazione l’ha accolta, sia pure tardivamente.
4. Ma, se questo è vero, la soccombenza dell’Amministrazione era certa e piena, e solo formalmente è stata evitata una pronuncia in tal senso, grazie al fatto sopravvenuto.
Sin qui, pertanto, non emerge alcuna causa giustificativa, per quanto opinabile, della compensazione delle spese. Resta da vedere se una giustificazione si possa rinvenire nella circostanza «della grande mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del rilevante numero richieste di cittadinanza italiana».
Ad avviso di questo Collegio, la risposta deve essere negativa.
Si prende atto dei dati forniti dalla difesa dell’Amministrazione, i quali in effetti confermano che il numero di tali domande è andato crescendo negli ultimi due decenni, sino a superare –per ora– la quota di centomila istanze per anno. Ma proprio perché si tratta di un fenomeno di lungo periodo, e altresì in crescita costante, esso non può essere addotto come scusante della sistematica violazione dei termini stabiliti per la conclusione dei procedimenti.
Si dovrebbero, semmai, adottare le misure più opportune, che non spetta a questo Collegio indicare, ma che potrebbero consistere, ad esempio, nel potenziamento degli uffici addetti; ovvero nello snellimento delle procedure; o anche nella previsione di termini più realistici e più aderenti alla reale capacità di evasione delle pratiche in parola.

5. Si deve aggiungere che non costituisce vizio della sentenza il fatto che essa non abbia disposto il rimborso (a carico dell’amministrazione soccombente) del contributo unificato. Come risulta dalla normativa in materia (art. 13, comma 6-bis, del d.lgs. n. 115/2002) e come confermato dalla giurisprudenza (anche di questa Sezione) il rimborso del contributo unificato è dovuto ex lege anche quando sia stata disposta la compensazione delle spese, sempreché la decisione sia favorevole alla parte che lo ha versato.
6. In conclusione, l’appello deve essere accolto, e in riforma della sentenza appellata l’Amministrazione deve essere condannata al pagamento delle spese relative al primo grado.
Il loro importo sarà liquidato in misura congrua al limitato impegno difensivo inerente al ricorso contro il silenzio, per il carattere sommario e camerale del rito, e perché la parte ricorrente non deve dare altra dimostrazione che quella di avere presentato una istanza e che la relativa pratica non è stata definita nel termine prescritto.

APPALTI: Cause di esclusione, decide la p.a. appaltante. Tribunale amministrativo regionale per la Calabria.
La circostanza della ricorrenza o meno della causa di esclusione dell'art. 38, comma, 1, lett. f), del dlgs 163/2006 costituisce un giudizio rimesso integralmente alla stazione appaltante, pertanto, mentre in relazione ai fatti è possibile immaginare una dichiarazione falsa o non veritiera, alla medesima conclusione non può pervenirsi in relazione a un giudizio di competenza della pubblica amministrazione.

Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Calabria-Catanzaro con la sentenza 23.10.2015 n. 1634.
Si osserva, per completezza di notazione di commento, che ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. f) cit., sono esclusi i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
E inoltre secondo i giudici di Catanzaro, la dichiarazione resa può ritenersi fuorviante o non esauriente rientrando nella competenza della pubblica amministrazione l'accertamento, con qualsiasi mezzo di prova, come recita la disposizione, della sussistenza del presupposto in questione.
Il thema decidendum
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi calabresi, non veniva in rilievo la prima ipotesi disciplinata dalla norma in quanto non si trattava di una negligenza commessa nei confronti della stazione appaltante che bandiva la gara. Si trattava, bensì, dell'allegazione di un fatto che sarebbe idoneo a costituire un errore grave nell'esercizio dell'attività professionale, come previsto dalla seconda ipotesi della disposizione.
Dalla lettura della dichiarazione resa e dalle allegazioni delle parti non emergeva anzitutto l'esistenza di una falsa dichiarazione. L'aggiudicatario aveva dichiarato in maniera adeguatamente circostanziata i tratti peculiari della vicenda che l'hanno interessato descrivendo e rappresentando le argomentazioni per le quali a suo giudizio tali fatti non siano idonei a integrare la fattispecie della disposizione citata.
Nel caso di specie, l'aggiudicataria aveva descritto e dichiarato un fatto ritenendolo non idoneo a integrare la norma indicata, rimettendo tuttavia alla stazione appaltante l'esame del fatto stesso al fine di verificarne la riconducibilità alla fattispecie.
Quindi, nella mera dichiarazione di non ricorrenza dell'ipotesi di cui alla lett. f) citata non può ipotizzarsi alcuna falsa dichiarazione vertendosi sull'esito di un giudizio da svolgersi da parte della pubblica amministrazione, rilevando al contrario la sola dichiarazione e rappresentazione del fatto in questione (articolo ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).
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MASSIMA
3. Il ricorso proposto non può trovare accoglimento.
Ai sensi dell’art. 38, comma, 1, lett. f), del d.lgs. 163/2006 sono esclusi i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
Nel caso di specie, non viene in rilievo la prima ipotesi disciplinata dalla norma in quanto non si tratta di una negligenza commessa nei confronti della stazione appaltante che bandisce la gara. Si tratta dell’allegazione di un fatto che sarebbe idoneo a costituire un errore grave nell’esercizio dell’attività professionale, come previsto dalla seconda ipotesi della disposizione. Dalla lettura della dichiarazione resa e dalle allegazioni delle parti non emerge anzitutto l’esistenza di una falsa dichiarazione.
L’aggiudicatario, rectius la società della quale questa si è avvalsa, ha dichiarato in maniera adeguatamente circostanziata i tratti peculiari della vicenda che l’hanno interessata descrivendo e rappresentando le argomentazioni per le quali a suo giudizio tali fatti non siano idonei a integrare la fattispecie della disposizione citata. La determinazione della Provincia di Massa Carrara è stata, infatti, espressamente richiamata nella dichiarazione, fermo poi motivare in relazione all’irrilevanza della stessa ai fini dell’art. 38.
La circostanza della ricorrenza o meno della causa di esclusione dell’art. 38, lett. f), costituisce un giudizio rimesso integralmente alla stazione appaltante, pertanto, mentre in relazione ai fatti è possibile immaginare una dichiarazione falsa o non veritiera, alla medesima conclusione non può pervenirsi in relazione a un giudizio di competenza della pubblica amministrazione.
Nel caso di specie, l’aggiudicataria ha descritto e dichiarato un fatto ritenendolo non idoneo a integrare la norma indicata, rimettendo tuttavia alla stazione appaltante l’esame del fatto stesso al fine di verificarne la riconducibilità alla fattispecie. Pertanto,
nella mera dichiarazione di non ricorrenza dell’ipotesi di cui alla lett. f) citata non può ipotizzarsi alcuna falsa dichiarazione vertendosi sull’esito di un giudizio da svolgersi da parte della pubblica amministrazione, rilevando al contrario la sola dichiarazione e rappresentazione del fatto in questione.
Né la dichiarazione resa può ritenersi fuorviante o non esauriente rientrando nella competenza della pubblica amministrazione l’accertamento, con qualsiasi mezzo di prova, come recita la disposizione, della sussistenza del presupposto in questione.
Nel caso di specie, risulta che la pubblica amministrazione abbia compiuto un’istruttoria sul punto (doc. 17, 18, 19 del fascicolo di parte RFI) e abbia valutato, anche in considerazione della mancanza di un accertamento definitivo sull’inadempimento e della sospensione dell’iscrizione della stessa segnalazione, alla mancanza di una grave negligenza idonea a giustificare l’esclusione dell’aggiudicataria.
Ne deriva che il ricorso non può trovare accoglimento. La natura assorbente delle argomentazioni che precedono esonera il giudicante dall’esaminare le ulteriori argomentazioni delle parti e comporta il rigetto della domanda di risarcimento del danno proposta.

APPALTI: Linea soft sull'omissione delle condanne penali.
Nel caso in cui l'obbligo dichiarativo sia imposto dalla lex specialis, l'omessa dichiarazione di alcune condanne penali sarà sanzionata con l'esclusione; solo nel caso in cui la dichiarazione dovesse essere resa sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorresse in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del modello, non potrà determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa.

Ad affermarlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR Marche con la sentenza 23.10.2015 n. 771.
A parere dei giudici amministrativi marchigiani sarebbe così possibile evitare ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, andando a realizzare quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto.
Si osserva inoltre, che in caso di omissione della dichiarazione dei precedenti penali e anche di uno solo di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa gravità, l'esclusione dalla gara sarà legittima.
Inoltre, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non osservare l'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del dlgs n. 163/2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale (si vedano: Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569).
Nelle gare pubbliche, si osserva poi, che la completezza e la veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate, della dichiarazione sostitutiva di notorietà, rappresenta lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale (articolo ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).
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MASSIMA
II. Il Collegio reputa che la controversia sia matura per una decisione in forma semplificata, avuto riguardo all’infondatezza dei motivi di ricorso, apprezzabile già in sede cautelare.
II.1. La stazione appaltante ha basato il provvedimento di esclusione della ricorrente sul fatto che il legale rappresentante di quest’ultima avesse presentato una dichiarazione non veritiera sensi e per gli effetti degli artt. 45 e 46 del D.P.R. n. 445/2000 in relazione al possesso dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006; egli ha, infatti, dichiarato che “nei propri confronti non è stata pronunciata … sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'articolo 444 c.p.p. per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale … ovvero sentenze seppure non definitive relative a reati che precludono la partecipazione alle gare d’appalto”, mentre, nell’ambito delle verifiche svolte da In.It. s.p.a. è emerso, in base alla consultazione del casellario giudiziale rilasciato dalla Procura della Republica presso il Tribunale di Roma in data 17.06.2015, che a carico del sig. Ed.Cr., legale rappresentante della ditta ricorrente, risulta emessa una sentenza di condanna del 03.12.2014, divenuta irrevocabile, pronunciata dal Tribunale di Roma ex art. 444 c.p.p., per omesso versamento IVA.
II.2. Ciò posto, si osserva che,
in tema di dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare d'appalto, ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, possono ritenersi ormai consolidati, oltre che integralmente condivisi dal Collegio, i seguenti principi più volte espressi dalla giurisprudenza amministrativa (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4932 e 17.06.2014, n. 3092; TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.04.2015, n. 2045):
-
la valutazione della gravità delle condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente soggettivo inconciliabile con la ratio della norma;
-
nelle gare pubbliche la completezza e la veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate, della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresenta lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle Amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, in tal modo realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto; di conseguenza l'omessa dichiarazione dei precedenti penali e anche di uno solo di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara (Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4932; in senso analogo, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015 n. 4511).
In particolare, in base all’orientamento giurisprudenziale più restrittivo,
anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la sua eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569).
Tuttavia, anche per l’orientamento più permissivo affermatosi nella giurisprudenza amministrativa (secondo cui il concorrente può ritenersi esonerato dal dichiarare l'esistenza di condanne per infrazioni penalmente rilevanti, ma di lieve entità),
qualora l’obbligo dichiarativo sia imposto dalla lex specialis, l'omessa dichiarazione di alcune condanne penali è sanzionata con l'esclusione; solo se la dichiarazione è resa sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorre in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del modello, non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa (Consiglio di Stato, sez. IV, 25.05.2015).
II.3. Applicando tali principi al caso in esame, il gravato provvedimento di esclusione si rivela legittimo dal momento che:
- il bando di gara, al paragrafo III.2.1, lett. a), ha previsto, tra le condizioni di partecipazione, che il concorrente non dovesse trovarsi nelle condizioni di esclusione di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006; il disciplinare, inoltre, al paragrafo V.1, ha precisato che, ai sensi di quanto previsto dal predetto art. 38, sarebbero stati esclusi dalla gara i concorrenti che si trovavano in una delle condizioni ivi indicate e, al paragrafo VII.1, tra la documentazione amministrativa da produrre a pena di esclusione, ha previsto (punto 2) una dichiarazione sostitutiva con cui il legale rappresentante dell’impresa avrebbe dovuto attestare, indicandole espressamente, l’assenza delle condizioni di cui all’art. 38, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), g), h), i), l), m), m-bis), m-ter) e m-quater del d.lgs. n. 163/2006;
- il legale rappresentante della società ricorrente ha reso due dichiarazioni in data 11.05.2015, in cui ha attestato l’assenza delle condizioni di esclusione di cui al citato art. 38, menzionandole espressamente, tra le quali anche quelle di cui alla lettera c) della norma suddetta;
-
sussisteva invece l’obbligo di dichiarare tutte le eventuali condanne riportate, derivante, oltre che direttamente dalla legge, anche dalle specifiche disposizioni della lex specialis, le cui puntuali indicazioni hanno appunto lo scopo di richiamare l'attenzione dei concorrenti sull'obbligo di una dichiarazione corretta, completa ed esaustiva in ordine al possesso dei requisiti generali di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, in ragione della rilevanza che essi (ed il loro accertamento) hanno ai fini dell'aggiudicazione degli appalti pubblici;
- a tale conclusione si giunge anche dalla lettura dell’art. 38, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, che
impone l'obbligo al concorrente di dichiarare tutte le eventuali condanne (sentenze di condanna passate in giudicato, decreti penali di condanna divenuti irrevocabili, sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale), riportate dai soggetti elencati al precedente comma 1, lett. c), della medesima disposizione, ad eccezione delle condanne relative ai reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna (con formale provvedimento della competente autorità giudiziaria), delle condanne revocate e di quelle per le quali è intervenute la riabilitazione;
- né avrebbe potuto trovare applicazione, nella fattispecie, il comma 2-bis dell'art. 38, norma preordinata a consentire l'integrazione della documentazione attestante i requisiti di partecipazione, ma non certo ad evitare l'esclusione dalla gara per falsità delle dichiarazioni rese (TAR Lombardia Brescia, 06.02.2015, n. 201).

APPALTIIn ordine alla individuazione delle condizioni per valutare la sussistenza dell’interesse a ricorrere della terza graduata in una procedura di gara, la giurisprudenza ha evidenziato che l’utilità che essa ricorrente tiene a conseguire, sia essa finale o strumentale, deve derivare in via immediata e secondo criteri di regolarità causale dall’accoglimento del ricorso e non già in via mediata da eventi incerti e potenziali quali l’esito negativo di una verifica di anomalia.
Tale circostanza costituisce infatti una mera eventualità, di modo che l’esclusione per tale ragione dell’offerta della seconda graduata non rappresenta dal punto di vista giuridico formale una normale ed immediata conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione originaria della prima graduata.
L’orientamento giurisprudenziale citato è confluito ed è stato rielaborato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8 del 03.02.2014, che ha precisato che “L’utilità o bene della vita cui aspira il ricorrente…deve porsi in rapporto di prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto alla domanda di annullamento proposta e non restare subordinata ad eventi solo potenziali e incerti”.

In ordine alla individuazione delle condizioni per valutare la sussistenza dell’interesse a ricorrere della terza graduata in una procedura di gara, la giurisprudenza ha evidenziato che l’utilità che essa ricorrente tiene a conseguire, sia essa finale o strumentale, deve derivare in via immediata e secondo criteri di regolarità causale dall’accoglimento del ricorso e non già in via mediata da eventi incerti e potenziali quali l’esito negativo di una verifica di anomalia.
Tale circostanza costituisce infatti una mera eventualità, di modo che l’esclusione per tale ragione dell’offerta della seconda graduata non rappresenta dal punto di vista giuridico formale una normale ed immediata conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione originaria della prima graduata (in tal senso, cfr., tra le tante, Cons. Stato, VI, 02.04.2012, n.1941; IV, 12.02.2007, n. 587).
L’orientamento giurisprudenziale citato è confluito ed è stato rielaborato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8 del 03.02.2014, che ha precisato che “L’utilità o bene della vita cui aspira il ricorrente…deve porsi in rapporto di prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto alla domanda di annullamento proposta e non restare subordinata ad eventi solo potenziali e incerti
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2015 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le vicende giudiziarie relative ai vertici aziendali (arrestati) della Sa. non sono tali da comportarne la esclusione dalla gara, atteso che l’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 ha riguardo agli amministratori muniti di potere di rappresentanza o al direttore tecnico cessato, ma non opera con riferimento a figure delle quali non è dimostrato il ruolo svolto nella compagine societaria interessata da indagini penali, in disparte la circostanza che, a fronte dell’attuale pendenza dei ricorsi in cassazione avverso le sentenze del giudice di merito, la causa ostativa di cui alla lett. c) del citato art. 38 non può dirsi integrata, non risultando, allo stato, irrevocabili le eventuali condanne ex art. 444 cod. proc. pen. cui si fa riferimento da parte dell’appellante incidentale.
10.5- Quanto ai profili di illegittimità dedotti da Ambi.En.Te. con riguardo alle vicende giudiziarie che hanno interessato i vertici aziendali dell’impresa Sa. e che avrebbero dovuto condurre alla sua esclusione dalla gara, sviluppati con il terzo motivo dell’appello incidentale da essa proposto, non assumono rilievo non essendosi formalizzate in provvedimenti definitivi, essendo solo tali quelli previsti dall’articolo 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 ai fini della esclusione dalla gara.
Invero, le vicende giudiziarie relative ai vertici aziendali (arrestati) della Sa. non sono tali da comportarne la esclusione dalla gara, atteso che l’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 ha riguardo agli amministratori muniti di potere di rappresentanza o al direttore tecnico cessato, ma non opera con riferimento a figure delle quali non è dimostrato il ruolo svolto nella compagine societaria interessata da indagini penali, in disparte la circostanza che, a fronte dell’attuale pendenza dei ricorsi in cassazione avverso le sentenze del giudice di merito, la causa ostativa di cui alla lett. c) del citato art. 38 non può dirsi integrata, non risultando, allo stato, irrevocabili le eventuali condanne ex art. 444 cod. proc. pen. cui si fa riferimento da parte dell’appellante incidentale (cfr. in termini, Consiglio di Stato, sez. V, n. 2082 del 2015)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2015 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il segretario comunale, essendo dipendente del Comune e dotato di professionalità insita nella stessa funzione espletata, ben può essere componente della commissione di gara.
11.- Malgrado la censura non sia priva di spessore, per mera completezza va, comunque, esaminato il motivo dedotto con l’appello incidentale da Ambi.En.Te. in ordine all’asserita illegittimità della composizione della commissione di gara.
La censura è infondata.
Come affermato dal TAR con percorso motivazionale corretto, l’importo e la natura dell’appalto (appalto di servizi del valore di base di euro 14.809.773,60) consentivano alla stazione appaltante di avvalersi di soggetti esterni quali componenti della commissione di gara, naturalmente escluso il presidente, così come previsto dall’articolo 282, comma 2, del d.p.r. n. 207 del 2010, in disparte la carenza di personale dipendente di adeguata professionalità.
Né v’era necessità di estrinsecare le motivazioni che avevano portato alla nomina dei membri esterni, atteso che la natura e il valore dell’appalto ne consentivano la nomina.
Quanto all’asserita carenza di specifiche professionalità dei componenti scelti dalla stazione appaltante (si assume che ad eccezione del presidente ing. Vi., gli altri due componenti non erano esperti nel settore oggetto della gara), non è dimostrata ed è smentita dai curricula degli interessati, sicché la censura deve ritenersi quanto a tale profilo inammissibile e infondata e non è nemmeno provato che l’asserita carenza di professionalità si sia tradotta in vizi di valutazione delle offerte o degli esiti della gara o del presunto e indimostrato vizio di imparzialità.
Il segretario comunale, essendo dipendente del Comune e dotato di professionalità insita nella stessa funzione espletata, ben poteva essere componente della commissione di gara
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2015 n. 4871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006 stabilisce, al comma 2, lettera d), che per usufruire dell’avvalimento il concorrente deve allegare «una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente», e, al comma 2, lettera f), che deve pure allegare «in originale o copia autentica il contratto in virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto».
Poiché il riportato art. 49 non pone alcuna limitazione all’applicazione dell'istituto dell'avvalimento, se non con riguardo ai requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39, deve ritenersi ammissibile l'avvalimento anche per dimostrare il fatturato e l'esperienza pregressa.
A tale istituto la giurisprudenza ha riconosciuto un amplissimo ambito di applicazione, anche per i requisiti che attengono a profili personali del concorrente, quali il fatturato o l'esperienza pregressa, la certificazione di qualità e, in genere, i requisiti soggettivi di qualità.
Va pertanto ritenuto ammissibile anche il c.d. «avvalimento di garanzia», con il quale l'impresa ausiliaria mette la propria solidità economica e finanziaria al servizio dell'ausiliata.
L'unico limite imposto al riguardo dall'ordinamento è che l'avvalimento non si risolva nel prestito di una mera «condizione soggettiva», del tutto disancorata dalla concreta messa a disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali, dovendo l'impresa ausiliaria assumere l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (e, quindi, a seconda dei casi, i mezzi, il personale, la prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto dell'appalto).
Di conseguenza il limite di operatività dell'istituto è dato dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente «cartolare e astratto», ma è invece necessario che dal contratto di avvalimento risulti un impegno chiaro e concreto dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di garanzia.
Le regole applicabili in materia di avvalimento, pur finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la determinatezza di questo, ad avviso del collegio non devono comunque essere interpretate meccanicamente, secondo aprioristici schematismi concettuali, che non tengano conto del singolo appalto e, soprattutto, frustrando la sostanziale disciplina dettata dalla lex specialis
.
Nelle gare pubbliche, il ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è quindi, in linea di principio, legittimo, non ponendo la disciplina dell'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 alcuna limitazione se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso d.lgs. n. 163 del 2006
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Nelle gare pubbliche, il ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è quindi, in linea di principio, legittimo, non ponendo la disciplina dell'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 alcuna limitazione se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso d.lgs. n. 163 del 2006.
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Invero,
nelle gare pubbliche, per stabilire il grado di specificità del contratto di avvalimento di garanzia fra l'impresa partecipante e l'ausiliaria, occorre avere riguardo a come il requisito ausiliato si pone e che peso ha, nel sistema delineato dalla lex specialis, rispetto all'oggetto dell'appalto; proprio per questo, il requisito solo finanziario non impone altro obbligo negoziale che l'impegno dell'impresa ausiliaria di rispondere, nei limiti che il requisito stesso ha nel contesto della gara, con le proprie e complessive risorse economiche quando, in sede esecutiva, la necessità sottesa al requisito si renda attuale.
Ciò non implica necessariamente il coinvolgimento di aspetti specifici dell'organizzazione della impresa, donde la non necessità di dedurli in contratto, se questi non rispondano al concreto interesse della stazione appaltante, desumibile dall'indicazione del requisito stesso.

Peraltro, in un caso analogo
è stato ritenuto dalla giurisprudenza conforme alle previsioni di legge in proposito il contratto con il quale la società ausiliaria si è obbligata a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, per tutta la durata dell'appalto, il requisito del fatturato specifico realizzato in un determinato anno.
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Circa il fatto che la fattispecie in esame sarebbe inquadrabile almeno in parte nell’ambito dell’«avvalimento di garanzia», che ha ad oggetto requisiti immateriali o soggettivi (come referenze bancarie, fatturato e simili), distinto dall’«avvalimento operativo», avente ad oggetto requisiti materiali (come mezzi ed attrezzature), con sufficienza della responsabilità solidale dell’ausiliaria, di cui all’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, alla tutela delle esigenze pubbliche, senza necessità di specificazione delle risorse e dei mezzi messi a disposizione, la distinzione tra tali figure di avvalimento non avrebbe un solido fondamento giuridico, non esistendo disposizioni differenzianti la specificità dell’oggetto a seconda dell’una o dell’altra categoria e non potendo l’«avvalimento di garanzia» rimanere astratto, cioè svincolato da qualsiasi collegamento con risorse materiali ed immateriali poste a disposizione dell’ausiliata.
16.1.- Osserva in proposito il Collegio che, come già rilevato,
il ricorso all'istituto dell'avvalimento è riconosciuto dalla giurisprudenza come possibile in un ampio ventaglio di ipotesi, muovendo dalla ratio dello stesso, che è quella di consentire la massima partecipazione alle gare, permettendo ai concorrenti, privi dei requisiti richiesti dal bando, di avvalersi dei requisiti di altri soggetti, e di agevolare così l'ingresso sul mercato di nuovi operatori e quindi la concorrenza fra le imprese.
E’ stato ritenuto ammissibile anche il c.d. avvalimento di garanzia, con l’unico limite che esso non si risolva nel prestito di una mera condizione soggettiva, del tutto disancorata dalla concreta messa a disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali.

Può convenirsi con la sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia n. 35 del 2015 richiamata dalla appellante che
la distinzione tra avvalimento di garanzia e avvalimento tecnico-operativo non può tradursi in un differente regime giuridico, ma va considerato che è pure ivi condivisibilmente affermato che il c.d. avvalimento di garanzia «non deve rimanere astratto, cioè svincolato da qualsivoglia collegamento con risorse materiali o immateriali, che snaturerebbe l'istituto, in elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara, esibiti solo in modo formale, finendo col frustare anche la funzione di garanzia».
Ciò si traduce nella necessità che nel contratto siano adeguatamente indicati, a seconda dei casi, il fatturato globale e l'importo relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara nonché, come specificato dalla dottrina, gli specifici «fattori della produzione e tutte le risorse che hanno permesso all'ausiliaria di eseguire le prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal bando».
Anche nell'avvalimento di garanzia i requisiti di fatturato sono infatti preordinati a garantire l'affidabilità del concorrente a sostenere finanziariamente sia l'attuazione dell'appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante nel caso d'inadempimento.
Può quindi concludersi che anche l'avvalimento di garanzia, a prescindere dalla possibilità di distinguerlo giuridicamente da quello operativo, è consentito purché i relativi atti non si risolvano in formule generiche e svincolate da qualsiasi collegamento con le risorse materiali o immateriali rese disponibili.
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Deve ritenersi invalido il contratto di avvalimento solo in presenza di una condizione, apposta all'impegno relativo, tale da non consentire la certezza dell'impegno contenuto nel contratto di avvalimento.
Il contratto di avvalimento non è quindi valido ove sottoposto a condizione meramente potestativa, trattandosi in questo caso dell’assunzione di un obbligo ‘nulla’ ai sensi dell'art. 1355 del c.c.
È stato invece ritenuto legittimo il contratto di avvalimento sottoposto a condizione di acquisire efficacia solo nel caso in cui la società avvalsa avrebbe conseguito l'aggiudicazione della gara, essendo chiaro che l'evento dedotto in condizione è proprio l'aggiudicazione dell'appalto, in funzione del quale l'avvalimento è stato stipulato, e che si tratta propriamente di condizione risolutiva
, che postula che le parti subordinino la risoluzione del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro ed incerto, il cui verificarsi priva di effetti il negozio ab origine.
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15.1.- Passando all’esame di tali censure, la Sezione rileva che
l’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce, al comma 2, lettera d), che per usufruire dell’avvalimento il concorrente deve allegare «una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente», e, al comma 2, lettera f), che deve pure allegare «in originale o copia autentica il contratto in virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto».
Inoltre, l’art. 88 del d.P.R. n. 207 del 2010 dispone che, «Per la qualificazione in gara, il contratto di cui all'articolo 49, comma 2, lettera f), del codice deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente:
a) oggetto: le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico;
b) durata;
c) ogni altro utile elemento ai fini dell'avvalimento
».
Poiché il riportato art. 49 non pone alcuna limitazione all’applicazione dell'istituto dell'avvalimento, se non con riguardo ai requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39, deve ritenersi ammissibile l'avvalimento anche per dimostrare il fatturato e l'esperienza pregressa.
A tale istituto la giurisprudenza ha riconosciuto un amplissimo ambito di applicazione, anche per i requisiti che attengono a profili personali del concorrente, quali il fatturato o l'esperienza pregressa, la certificazione di qualità e, in genere, i requisiti soggettivi di qualità.
Va pertanto ritenuto ammissibile anche il c.d. «avvalimento di garanzia», con il quale l'impresa ausiliaria mette la propria solidità economica e finanziaria al servizio dell'ausiliata.
L'unico limite imposto al riguardo dall'ordinamento è che l'avvalimento non si risolva nel prestito di una mera «condizione soggettiva», del tutto disancorata dalla concreta messa a disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali, dovendo l'impresa ausiliaria assumere l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (e, quindi, a seconda dei casi, i mezzi, il personale, la prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto dell'appalto).
Di conseguenza il limite di operatività dell'istituto è dato dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante non deve risolversi nel prestito di un valore puramente «cartolare e astratto», ma è invece necessario che dal contratto di avvalimento risulti un impegno chiaro e concreto dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di garanzia.
Le regole applicabili in materia di avvalimento, pur finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la determinatezza di questo, ad avviso del collegio non devono comunque essere interpretate meccanicamente, secondo aprioristici schematismi concettuali, che non tengano conto del singolo appalto e, soprattutto, frustrando la sostanziale disciplina dettata dalla lex specialis
(che nel caso di specie, mirava a garantire con l'avvalimento una specifica risorsa immateriale, cioè il fatturato, frutto di una specifica esperienza maturata in un settore eguale o analogo a quello del servizio richiesto).
Nelle gare pubbliche, il ricorso all'avvalimento, avente ad oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è quindi, in linea di principio, legittimo, non ponendo la disciplina dell'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 alcuna limitazione se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, sez. III, 17.06.2014, n. 3058; Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2013, n. 911).
Come posto in rilievo dal giudice di primo grado, con il contratto di avvalimento di cui trattasi la ausiliaria s.r.l. Global Cri si era impegnata a mettere a disposizione della s.r.l. La Cascina Global Service i requisiti speciali di partecipazione di cui ai punti III.2.2 lett. c.2) e III.2.3 lett. a) del bando di gara, cioè il «fatturato dell’impresa relativo ai servizi nel settore oggetto della gara pari o superiore, nel triennio, ad euro 2.482.652,50, ossia pari ad 1 volta il valore complessivo del presente appalto» e la «realizzazione di almeno un servizio analogo nell’ambito dello stesso settore negli ultimi tre anni, con l’indicazione degli importi, delle date e dei destinatari, pubblici o privati, dei servizi stessi» (cioè il fatturato specifico del triennio 2010-2012 per il servizio di pulizia e manutenzione immobili, servizi cimiteriali e servizio di custodia, svolti presso il Comune di Torre Santa Susanna).
Con il contratto era stato anche stabilito che l’impresa ausiliaria, «ove occorra: a) presterà la consulenza richiesta dall’impresa concorrente, per la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà; b) comunicherà all’impresa concorrente gli standards operativi e le procedure di intervento elaborate per una più efficace esecuzione dei servizi affidati; c) formerà ed organizzerà il personale dell’impresa concorrente».
Quindi era stato messo a disposizione dell’ausiliata solo un bene, richiesto dalla lex specialis (non precipuamente classificabile secondo le indicazioni contenute nelle norme sopra richiamate, trattandosi non di mezzi o strumentazioni, o attrezzature), cioè un bene immateriale, che, comunque, non era indeterminato nell’oggetto, o solo cartolare o generico, né riproduceva pedissequamente la formula legislativa, essendo valutabile come congruo con riferimento alla natura del requisito prestato, meramente esperienziale, e dell’oggetto della gara, senza alcuna necessità di indicazione di mezzi ed attrezzature.
All’impresa ausiliaria non poteva infatti essere chiesto di dimostrare il possesso di un requisito in maniera diversa e più intensa rispetto a quanto previsto dalla lex specialis come oggetto di sua dimostrazione, se non avesse avuto bisogno di ricorrere all’avvalimento (cioè, nel caso di specie, la realizzazione di almeno un servizio analogo nell’ambito dello stesso settore negli ultimi tre anni, con indicazione degli importi, delle date e dei destinatari dei servizi stessi).
Invero,
nelle gare pubbliche, per stabilire il grado di specificità del contratto di avvalimento di garanzia fra l'impresa partecipante e l'ausiliaria, occorre avere riguardo a come il requisito ausiliato si pone e che peso ha, nel sistema delineato dalla lex specialis, rispetto all'oggetto dell'appalto; proprio per questo, il requisito solo finanziario non impone altro obbligo negoziale che l'impegno dell'impresa ausiliaria di rispondere, nei limiti che il requisito stesso ha nel contesto della gara, con le proprie e complessive risorse economiche quando, in sede esecutiva, la necessità sottesa al requisito si renda attuale.
Ciò non implica necessariamente il coinvolgimento di aspetti specifici dell'organizzazione della impresa, donde la non necessità di dedurli in contratto, se questi non rispondano al concreto interesse della stazione appaltante, desumibile dall'indicazione del requisito stesso.

Peraltro, in un caso analogo
è stato ritenuto dalla giurisprudenza conforme alle previsioni di legge in proposito il contratto con il quale la società ausiliaria si è obbligata a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, per tutta la durata dell'appalto, il requisito del fatturato specifico realizzato in un determinato anno (Consiglio di Stato, sez. III, 02.03.2015, n. 1020).
15.2.- Quanto alla dedotta elusività della messa a disposizione delle risorse da parte della ausiliaria solo «ove occorra» e «se necessario», che avrebbe escluso la possibilità di verifica della concreta disponibilità attuale di risorse e dotazioni aziendali, ritiene la Sezione, a prescindere dalla eccepita inammissibilità della censura perché non formulata in primo grado e proposta in violazione del divieto di nova in appello di cui all’art. 104, comma 1, del c.p.a., che sia da escludere che essa possa avere rilievo al fine di dimostrare la irregolarità del prestato avvalimento.
Infatti le locuzioni suddette vanno interpretate non nel senso che la disponibilità sarebbe stata solo eventuale, ma in quello che le risorse indicate nel contratto sarebbero state messe a disposizione della ausiliaria ogniqualvolta che la ausiliata ne avesse avuto necessità, il che appare al collegio pienamente coerente con la ratio dell’istituto dell’avvalimento e con le concrete esigenze della stazione appaltante in ordine alla formulata richiesta di attestazione del possesso dei requisiti speciali di partecipazione in questione.
16.- Con il primo motivo di gravame è stato ulteriormente sostenuto che non sarebbe condivisibile anche la ulteriore tesi, fatta propria dal TAR, secondo cui la fattispecie in esame sarebbe inquadrabile almeno in parte nell’ambito dell’«avvalimento di garanzia», che ha ad oggetto requisiti immateriali o soggettivi (come referenze bancarie, fatturato e simili), distinto dall’«avvalimento operativo», avente ad oggetto requisiti materiali (come mezzi ed attrezzature), con sufficienza della responsabilità solidale dell’ausiliaria, di cui all’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, alla tutela delle esigenze pubbliche, senza necessità di specificazione delle risorse e dei mezzi messi a disposizione.
Come rilevato dal C.G.A.R.S. con la sentenza 21.01.2015, n. 35,
la distinzione tra tali figure di avvalimento non avrebbe un solido fondamento giuridico, non esistendo disposizioni differenzianti la specificità dell’oggetto a seconda dell’una o dell’altra categoria e non potendo l’«avvalimento di garanzia» rimanere astratto, cioè svincolato da qualsiasi collegamento con risorse materiali ed immateriali poste a disposizione dell’ausiliata.
16.1.- Osserva in proposito il Collegio che, come già rilevato,
il ricorso all'istituto dell'avvalimento è riconosciuto dalla giurisprudenza come possibile in un ampio ventaglio di ipotesi, muovendo dalla ratio dello stesso, che è quella di consentire la massima partecipazione alle gare, permettendo ai concorrenti, privi dei requisiti richiesti dal bando, di avvalersi dei requisiti di altri soggetti, e di agevolare così l'ingresso sul mercato di nuovi operatori e quindi la concorrenza fra le imprese.
E’ stato ritenuto ammissibile anche il c.d. avvalimento di garanzia, con l’unico limite che esso non si risolva nel prestito di una mera condizione soggettiva, del tutto disancorata dalla concreta messa a disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali.

Può convenirsi con la sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia n. 35 del 2015 richiamata dalla appellante che
la distinzione tra avvalimento di garanzia e avvalimento tecnico-operativo non può tradursi in un differente regime giuridico, ma va considerato che è pure ivi condivisibilmente affermato che il c.d. avvalimento di garanzia «non deve rimanere astratto, cioè svincolato da qualsivoglia collegamento con risorse materiali o immateriali, che snaturerebbe l'istituto, in elusione dei requisiti stabiliti nel bando di gara, esibiti solo in modo formale, finendo col frustare anche la funzione di garanzia» (Cons. St., III, 22.01.2014, n. 294; in termini analoghi Cons. St., III, 17.06.2014, n. 3057).
Ciò si traduce nella necessità che nel contratto siano adeguatamente indicati, a seconda dei casi, il fatturato globale e l'importo relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara nonché, come specificato dalla dottrina, gli specifici «fattori della produzione e tutte le risorse che hanno permesso all'ausiliaria di eseguire le prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal bando».
Anche nell'avvalimento di garanzia i requisiti di fatturato sono infatti preordinati a garantire l'affidabilità del concorrente a sostenere finanziariamente sia l'attuazione dell'appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante nel caso d'inadempimento.
Può quindi concludersi che anche l'avvalimento di garanzia, a prescindere dalla possibilità di distinguerlo giuridicamente da quello operativo, è consentito purché i relativi atti non si risolvano in formule generiche e svincolate da qualsiasi collegamento con le risorse materiali o immateriali rese disponibili
(Consiglio di Stato, sez. III, 07.07.2015, n. 3390).
Nel caso di specie, come già evidenziato, il contratto di avvalimento intercorso tra la ausiliaria Global Cri s.r.l. non consisteva in una formula astratta e generica, ma indicava compiutamente e sufficientemente la risorse messe a disposizione della società ausiliata, cioè il fatturato specifico del triennio 2010-2012 per il servizio di pulizia e manutenzione immobili, servizi cimiteriali e servizio di custodia, svolti presso il Comune di Torre Santa Susanna.
L’esaminata censura non è quindi idonea a dimostrare la inadeguatezza, rispetto ai requisiti previsti dalla normativa in materia, del contratto di avvalimento intercorso tra dette società (che mirava a garantire una specifica risorsa immateriale, cioè il fatturato, frutto di una specifica esperienza maturata in un settore eguale o analogo a quello del servizio richiesto) e deve essere respinta.
17.- Con il secondo motivo d’appello è stato dedotto che il contratto di avvalimento esibito dall’aggiudicataria non sarebbe comunque stato idoneo a mettere a disposizione dell’ausiliata e della stazione appaltante le risorse necessarie per la durata dell’appalto, in quanto all’art. 12 del contratto era contenuta una clausola risolutiva espressa che collegava ad inadempimenti di qualsiasi natura dell’ausiliata la risoluzione ipso iure del contratto, con la conseguenza che la stazione appaltante si sarebbe potuta trovare priva della responsabilità solidale della ausiliaria.
Sarebbe stato quindi stipulato un contratto di avvalimento condizionato, che però non sarebbe ammissibile, atteso che in caso di inadempimento dell’appaltatore la stazione appaltante deve poter agire direttamente sull’impresa ausiliaria.
Non sarebbe condivisibile la tesi TAR, che ha respinto dette censure rilevando che due delle ipotesi di risoluzione erano riconducibili a procedure concorsuali e a violazioni di norme in materia di contratti della p.a. che configuravano fattispecie che, prima di determinare la risoluzione del contratto di avvalimento, avrebbero comportato la risoluzione del contratto di appalto tra la aggiudicataria e la stazione appaltante, perché comunque la clausola risolutiva si riferiva ad ipotesi di grave inadempimento idonee a comportare la risoluzione del contratto di avvalimento ex art. 1455 del c.c., anche se non prevista espressamente.
Infatti, tale clausola avrebbe reso nullo il contratto di avvalimento, che non sarebbe sottoponibile a condizioni perché, consentendo all’impresa ausiliaria di sottrarsi ai propri obblighi nell’ipotesi in cui valuti la ricorrenza di una delle clausole risolutive, inserirebbe nel rapporto trilaterale un elemento di incertezza e di indeterminatezza idoneo a vanificarne la finalità di garanzia del contratto.
17.1.- Osserva il Collegio che
deve ritenersi invalido il contratto di avvalimento solo in presenza di una condizione, apposta all'impegno relativo, tale da non consentire la certezza dell'impegno contenuto nel contratto di avvalimento.
Il contratto di avvalimento non è quindi valido ove sottoposto a condizione meramente potestativa, trattandosi in questo caso dell’assunzione di un obbligo ‘nulla’ ai sensi dell'art. 1355 del c.c.
È stato invece ritenuto legittimo il contratto di avvalimento sottoposto a condizione di acquisire efficacia solo nel caso in cui la società avvalsa avrebbe conseguito l'aggiudicazione della gara, essendo chiaro che l'evento dedotto in condizione è proprio l'aggiudicazione dell'appalto, in funzione del quale l'avvalimento è stato stipulato, e che si tratta propriamente di condizione risolutiva
(Consiglio di Stato, sez. III, 25.02.2014, n. 895), che postula che le parti subordinino la risoluzione del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro ed incerto, il cui verificarsi priva di effetti il negozio ab origine.
Invece, con la clausola risolutiva espressa, le parti prevedono lo scioglimento del contratto qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o lo sia secondo modalità diverse da quelle prestabilite, sicché la risoluzione opera di diritto ove il contraente non inadempiente dichiari di volersene avvalere, senza necessità di provare la gravità dell'inadempimento della controparte all'inadempimento dell'obbligazione oggetto della clausola risolutiva espressa.
Nel caso di specie, l’art. 3 del contratto di avvalimento conteneva l’impegno espresso della società ausiliaria di mettere a disposizione dell’ausiliata i requisiti e le risorse per tutta la durata dell’appalto e poi all’art. 12 la seguente clausola risolutiva espressa: «A norma dell'art. 1456 c.c., l'impresa ausiliaria potrà invocare la risoluzione del contratto ove ricorrano le seguenti ipotesi:
a) nel caso in cui l'impresa concorrente venga sottoposta a procedura concorsuale o esecutiva e in caso di scioglimento o sottoposizione alle procedure di cui all'art. 2409 c.c. (gravi irregolarità nella gestione sociale);
b) nel caso di inadempimento grave ai sensi dell’art. 1455 del c.c. da parte dell'impresa concorrente anche ad una sola obbligazione del presente contratto, salvo il risarcimento del danno;
c) nel caso che l'impresa concorrente, violi norme di legge in materia di contratti della Pubblica Amministrazione, norme penali per reati attinenti lo svolgimento dell'attività di impresa, i rapporti che le pubbliche amministrazioni, norme fiscali
».
Come ha correttamente rilevato il TAR, le fattispecie indicate in tale clausola contrattuale comunque avrebbero avuto rilevanza giuridica, con la conseguenza che di per sé essa non può apportare alcun nocumento all’amministrazione.
Sotto tale profilo, l’ordinamento giuridico –una volta attribuita rilevanza giuridica al contratto di avvalimento- non può precludere l’esercizio della autonomia negoziale, in ordine alla predeterminazione delle conseguenze che inter partes si debbano verificare nei casi da loro individuati.
Del resto, l’assenza di nocumento specifico si desume proprio dalla normativa in materia.
Nell'ipotesi di cui alla citata lettera a), la società, ex art. 38, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del 2006, che si trova in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di tali situazioni è comunque esclusa dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né può essere affidataria di subappalti e non può stipulare i relativi contratti.
Nell’ipotesi di cui alla lettera b), la clausola risolutiva si riferisce ad ipotesi di grave inadempimento che comportano comunque la possibile risoluzione del contratto di avvalimento ex art. 1455 del c.c., con la sola, irrilevante, differenza che, trattandosi di clausola risolutiva espressa non sarebbe stata necessaria la prova della gravità dell’inadempimanto, ma sarebbe stata sufficiente la manifestazione della volontà di avvalersi di detta clausola, esercitando il diritto potestativo di risolvere il contratto.
Nell’ipotesi di cui alla lettera c), le circostanze previste configurano invece situazioni che, in quanto non attinenti all’esecuzione della prestazione principale e all’interesse della parte a cui favore sono previste (di percepire il corrispettivo pattuito per la fornitura dell’avvalimento), non potrebbero essere invocate per svincolarsi dall’avvalimento.
In conclusione, le riportate clausole contrattuali non escludevano la serietà dell'impegno contenuto nel contratto di avvalimento e non lo rendevano quindi invalido (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2015 n. 4860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Pieno diritto d’accesso alle offerte. Tar Liguria. Già dall’aggiudicazione provvisoria.
Il diritto d’accesso alle offerte in gara va garantito sin dall’aggiudicazione provvisoria poiché, al contrario delle norme sulla verifica dell’anomalia, il legislatore non ha specificato i tempi per esercitarlo.

L’ha precisato il Tar Liguria -sentenza 22.10.2015 n. 834, I Sez.– su un ricorso di un privato che aveva chiesto a un Comune la copia dell’offerta tecnica vincitrice di un affidamento di un incarico professionale con procedura negoziata.
Al richiedente -in gara con un’associazione temporanea di professionisti- la Pubblica amministrazione aveva fornito gli atti solo dopo l’aggiudicazione definitiva, ritenendo «differito» a questa fase l’esercizio del diritto d’accesso in base alle norme sull’«accesso agli atti e divieti di divulgazione» del Codice appalti (lettera c, comma 2, articolo 13, Dlgs n. 163/2006).
Il Tar, giudicando fondato il ricorso anche se ormai improcedibile per l’accesso nel frattempo garantito, ha spiegato che «la citata disposizione del codice dei contratti pubblici stabilisce che il diritto di accesso nelle procedure negoziate è differito, «in relazione alle offerte, fino all’approvazione dell’aggiudicazione», senza tuttavia specificare se si tratti dell’aggiudicazione provvisoria o di quella definitiva» e che «la prima soluzione interpretativa è sicuramente preferibile in base al canone letterale».
Ribadendo quanto stabilito dal Tar di Catania (sentenza n. 812/2011), il collegio ha sottolineato che «la citata lettera c) fa riferimento, infatti, all’“aggiudicazione”, mentre la successiva lettera c-bis) prevede che l’accesso al procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta sia differito «fino all’aggiudicazione definitiva»: ciò dimostra che il legislatore, quando ha ritenuto rilevante attendere che si fosse realizzata la conclusione della procedura selettiva, lo ha detto espressamente».
La sentenza ha però chiarito che «militano a favore di tale interpretazione anche ragioni di ordine logico, poiché la ratio del differimento, che deve essere identificata con l’esigenza di non intralciare l’ordinato svolgimento delle operazioni di gara ed evitare aggravi procedimentali nella delicata fase di valutazione delle offerte, viene meno nelle more dell’approvazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva».
Nel bando in esame «una volta intervenuta l’aggiudicazione provvisoria, non poteva ritenersi sussistente alcun divieto legale di divulgare i dati concernenti le offerte e l’istanza di accesso doveva essere evasa»
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2015).
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MASSIMA
Rileva il Collegio che la completa evasione dell’istanza di accesso documentale presentata dall’odierno ricorrente, comprovata mediante la documentazione versata in atti dall’Amministrazione resistente e riconosciuta dallo stesso interessato, comporta la declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse.
Come espressamente richiesto dalla difesa del ricorrente, però, deve essere accertato, ai fini della decisione sulle spese di giudizio, se vi sia o meno soccombenza virtuale dell’Amministrazione.
Non merita di essere condivisa, in primo luogo, l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva, fondata sul rilievo che il gravame è stato proposto da uno solo dei componenti della costituenda associazione di professionisti, senza il consenso (e, anzi, con l’opposizione postuma) della collega.
Secondo pacifica giurisprudenza, infatti,
ciascun membro di un’associazione temporanea che abbia partecipato ad una gara d’appalto può impugnare a titolo individuale gli atti della procedura, poiché il fenomeno del raggruppamento di imprese (o di professionisti), tanto più nel caso di raggruppamento ancora costituendo, non dà luogo ad un’entità giuridica autonoma che escluda la soggettività delle singole imprese (o dei singoli professionisti) che lo compongono (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 02.07.2014, n. 3336).
Nel merito, la difesa comunale sostiene che il ricorso è infondato, atteso che, in forza dell’art. 13, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, il diritto di accesso alle offerte presentate nelle procedure di affidamento di contratti pubblici sarebbe differito all’approvazione dell’aggiudicazione definitiva.
Ne consegue la tempestività della nota comunale del 18.07.2015, con la quale, appena cinque giorni dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, è stata positivamente evasa l’istanza di accesso presentata dall’odierno ricorrente.
La tesi difensiva (pur coerente alle conclusioni cui è pervenuto, in analoga fattispecie, il TAR Campania, Napoli, sez. VI, con la sentenza n. 333 del 24.01.2012) non persuade.
La citata disposizione del codice dei contratti pubblici stabilisce che
il diritto di accesso nelle procedure negoziate è differito, “in relazione alle offerte, fino all’approvazione dell'aggiudicazione”, senza tuttavia specificare se si tratti dell’aggiudicazione provvisoria o di quella definitiva.
Ad avviso del Collegio, la prima soluzione interpretativa è sicuramente preferibile in base al canone letterale.
La citata lettera c) fa riferimento, infatti, all’”aggiudicazione”, mentre la successiva lettera c-bis) prevede che l’accesso al procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta sia differito “fino all’aggiudicazione definitiva”: ciò dimostra che il legislatore, quando ha ritenuto rilevante attendere che si fosse realizzata la conclusione della procedura selettiva (attraverso, appunto, l’aggiudicazione definitiva), lo ha detto espressamente
(così TAR Sicilia, Catania, sez. I, 07.04.2011, n. 812).
Militano a favore di tale interpretazione anche ragioni di ordine logico, poiché la ratio del differimento, che deve essere identificata con l’esigenza di non intralciare l’ordinato svolgimento delle operazioni di gara ed evitare aggravi procedimentali nella delicata fase di valutazione delle offerte, viene meno nelle more dell’approvazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva.
Una volta intervenuta l’aggiudicazione provvisoria della gara, non poteva ritenersi sussistente, perciò, alcun divieto legale di divulgare i dati concernenti le offerte e l’istanza di accesso doveva, in conseguenza, essere evasa nel termine di trenta giorni previsto dalla legge.

Tanto precisato, ritiene il Collegio che, pur dovendo essere imputata la soccombenza virtuale all’Amministrazione, la regolazione delle spese di giudizio non possa non tener conto del contrasto giurisprudenziale sopra accennato che, unitamente al carattere non perspicuo della normativa di riferimento, vale a giustificare l’atteggiamento “prudenziale” serbato a fronte dell’istanza di accesso.
Il ritardo, peraltro lieve, con cui il Comune di Sestri Levante ha provveduto a riscontrare la richiesta suddetta non è stato determinato, pertanto, da alcuna arbitrarietà o negligenza, come dimostra anche il fatto che, una volta intervenuta l’aggiudicazione definitiva della gara, l’Amministrazione ha sollecitamente dato luogo agli adempimenti richiesti.

APPALTI: Appalti: esclusione illegittima se il mittente è individuabile dall’adesivo sul plico.
Con la sentenza 21.10.2015 n. 12060 la Sez. III-quater del TAR Lazio-Roma ha annullato l’esclusione di una concorrente da una gara d’appalto disposta a causa della riscontrata mancanza, all’esterno del plico contenente le buste con le offerte, del mittente, dell’oggetto della gara stessa nonché dell’indicazione del lotto ovvero dei lotti a cui intendeva partecipare la candidata.
A tale conclusione il TAR è giunto applicando il comma 1-bis dell’art. 46 del D.Lgs. 163/2006 (Codice dei Contratti Pubblici), secondo il quale “
la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Nel caso di specie è accaduto, come detto, che la commissione giudicatrice, rilevata l’incompletezza delle modalità di predisposizione del plico, abbia disposto l’esclusione della concorrente, ritenendo evidentemente che tali mancanze rendessero impossibile nei suoi confronti la prosecuzione della procedura ad evidenza pubblica per inemendabile difetto afferente alla corretta individuazione sia della gara (e di quale parte di essa) sia dell’offerente.
Quest’ultima proponeva allora ricorso avverso il provvedimento espulsivo al fine di ottenere la propria riammissione.
I Giudici capitolini accoglievano la domanda sulla scorta di diverse considerazioni.
In primo luogo hanno evidenziato come gli elementi fattuali che hanno dato luogo all’allontanamento dalla gara non fossero ricompresi dalla lex specialis nel novero di quelli la cui assenza era sanzionata a pena di esclusione dalla competizione né, tantomeno, consistevano in prescrizioni la cui osservanza è imposta dall’art. 46 comma 1-bis predetto.
In seconda battuta hanno precisato come il disciplinare indicava, tra le formalità da compiersi appunto sotto pena di esclusione, solo la necessità di rispettare le modalità richieste affinché fosse garantita l’integrità dal plico, che infatti era arrivato intonso, sigillato con del nastro adesivo, in modo tale da non aver ingenerato alcun dubbio a proposito della -mantenuta appieno- segretezza del suo contenuto.
Hanno anche aggiunto che sul nastro menzionato poc’anzi era stato apposto il timbro della società offerente, di talché non sarebbero dovute sorgere perplessità nemmeno sull’attribuzione del plico alla mittente, così agevolmente individuabile.
Senza trascurare l’altrettanto importante circostanza in base alla quale, nel momento in cui il plico venne depositato presso la stazione appaltante, alcun rilievo venne mosso al riguardo; anzi, non solo da allora nessuno si era posta la questione circa un’eventuale difficile identificazione del mittente e del contenuto della documentazione giunta ma, addirittura, i rappresentanti dell’impresa stessa erano stati invitati a presenziare alla prima seduta della commissione valutatrice. Il che stava a significare che era già stata vagliata e, quindi, superata ogni possibile criticità in ordine alle formalità indispensabili per assicurare il corretto svolgimento della gara relativamente alla presentazione del plico in parola.
La sentenza in commento si segnala per la sua portata innovativa, soprattutto con riferimento alla mancata indicazione dell’oggetto della gara, atteso che nei repertori si possono trovare precedenti giurisprudenziali che hanno statuito l’illegittimità dell’esclusione nonostante sarebbe stato possibile rinvenire in altro modo, e comunque senza la necessità di compiere accurate indagini in quanto (difformemente dal caso di cui si è occupato il Tribunale Amministrativo laziale) evincibile materialmente dall’analisi visiva del plico, la menzione della gara stessa: nella fattispecie decisa dal TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza n. 736 del 26/06/2015, ad esempio, si era posto l’accento sul fatto che “l’indicazione dell’oggetto della lettera di invito in luogo di quello dell’appalto costituisce un mero errore materiale, privo di conseguenza, atteso che, come rilevato dall’Amministrazione resistente, non poteva sussistere alcun dubbio in ordine al fatto che il plico di cui trattasi era riferito alla gara in questione, considerato che la ditta Minchio era tra le dieci imprese invitate, sul plico era indicato l’oggetto dell’invito alla procedura e che il plico medesimo era pervenuto nel termine fissato per la gara in oggetto”.
Il medesimo arresto giurisprudenziale, tuttavia, si era già spinto oltre, precisando che “nessuna sanzione espulsiva –che, comunque, sarebbe stata nulla per le stesse ragioni sopra ricordate- era prevista dalla lettera di invito in ordine all’indicazione dell’oggetto dell’appalto sull’esterno del plico contenente l’offerta”.
Si può pertanto affermare che il TAR romano si sia posto sulla stessa lunghezza d’onda: si rammenta all’uopo che la questione affidata alle sue cure era caratterizzata dalla mancanza assoluta, sul plico, di ogni riferimento alla gara da svolgersi, considerando altresì che la concorrente aveva facoltà di partecipare solo per uno o più dei lotti in cui era suddivisibile la fornitura e nemmeno questo dato era prima facie rintracciabile.
Sul punto è bene notare come il ragionamento seguito dai Giudici capitolini si ponga in frontale contrasto con quanto sostenuto qualche mese prima dall’Autorità Nazionale Anticorruzione mediante la determinazione n. 1 del 08/01/2015, dedicata ai “Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis, e dell’art. 46, comma 1-ter, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163”, laddove è dato inequivocabilmente leggere che, “con riferimento alle modalità di presentazione delle offerte, costituiscono cause di esclusione le seguenti ipotesi: - mancata indicazione sul plico esterno generale del riferimento della gara cui l’offerta è rivolta”; nello stesso atto è stato ulteriormente specificato che, invece, non possono causare esclusioni né “la mancata o errata indicazione, su una o più delle buste interne, del riferimento alla gara cui l’offerta è rivolta, nel caso in cui detta indicazione sia comunque presente sul plico generale esterno, debitamente chiuso e sigillato” né “la mancata indicazione del riferimento della gara su uno o più documenti componenti l’offerta”; identiche argomentazioni si ritrovano nella determinazione n. 4 del 10/10/2012.
Pare perciò di capire che, secondo l’Autorità, debba essere ritenuta irrinunciabile l’esigenza di verificare il rispetto del comma 1-bis dell’art. 46 citato in relazione alla necessità di impedire la partecipazione qualora vi sia “incertezza assoluta sul contenuto … dell’offerta”, ossia ciò che potrebbe sostenersi essere accaduto proprio nel caso deciso con la statuizione in commento.
A parere di chi scrive occorre tenere presente che la sentenza n. 12060/2015 emanata dal TAR Roma ha dovuto dirimere una questione la cui decisione non poteva essere affrontata senza prestare particolare attenzione al fatto che ci si trovava sul sottile e, spesso, scomodo crinale delineatosi tra applicazione del principio sostanzialistico, cui in questo caso è stata accordata prevalenza anche in virtù della presumibile volontà di assicurare il risultato di perseguire l’interesse pubblico favorendo la massima partecipazione alle gare (il cd. “favor partecipationis”) e considerazione del principio formalistico (volto ad attribuire importanza maggiore al rispetto delle forme a confronto con le finalità conseguite), al quale, sempre secondo la decisione in parola, non può ammettersi supremazia allorquando, ad esempio, non vi siano (rilevanti) dubbi sulla riconducibilità dell’offerta pervenuta a quel tipo di gara. Il tutto tenendo ben presente il dato normativo, rinvenibile in particolare nelle disposizioni dettate dell’art. 46 del Codice dei Contratti Pubblici.
Orbene il Tribunale capitolino ha, come visto, optato per una estensione del principio sostanzialistico: ciò si desume allorché si ponga mente alla rilevanza attribuita al comportamento posto in essere dalla resistente la quale ha, tra l’altro, perfino invitato l’impresa poi ricorrente a partecipare alla prima delle sedute di gara previste, cosa che ha contribuito a rafforzare l’idea dell’illegittimità della disposta esclusione. Si può supporre che tale incedere sia stato valutato un po’ contraddittorio.
Ci si chiede però quale potrebbe essere la soluzione qualora ci si trovi di fronte ad un caso in cui, presentato un plico confezionato con le medesime caratteristiche di quello che ha dato luogo alle contestazioni sfociate nella sentenza in commento, la stazione appaltante, contrariamente a quanto allora accaduto, ne rifiutasse la consegna oppure non invitasse la concorrente ad assistere alle sedute pubbliche previste per l’espletamento della gara, decretandone conseguentemente l’esclusione: sarebbe ancora ammissibile ritenere che tali manchevolezze non integrerebbero un’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta? Come farebbe la P.A. a sapere con esattezza a quale procedura sia da riferirsi la documentazione ricevuta? Potrebbe invero essere assai difficile evincerlo; del resto l’A.N.AC., come visto, ha dichiarato che proprio tale evenienza dovrebbe condurre all’esclusione del mittente.
Vero è che, se l’indicazione della gara fosse riportata sulle altre buste rinvenute all’interno del plico, i funzionari non addetti a quella procedura dovrebbero consegnare immediatamente la documentazione a chi di dovere ovverosia alla commissione insediata per la gestione della gara cui si riferisce (o, comunque, all’ufficio all’uopo preposto), e quindi diversa da quella che ha dovuto rompere i sigilli esterni; d’altro canto potrebbe però ancora osservarsi che, così facendo, non sarebbe garantita l’integrità complessiva della domanda di partecipazione poiché il plico arriverebbe già aperto sulla scrivania dei commissari e nessuno potrebbe assicurarne la corretta formazione: ad esempio non sarebbe possibile arguire, a posteriori, se tutte le buste richieste erano originariamente presenti nel plico stesso.
Ecco allora che, a proposito della condivisibilità nel merito della sentenza in commento, ci sia consentita qualche perplessità, benché non si possa che aderire alla tesi per cui appare senz’altro più rispondente all’interesse generale far prevalere il principio sostanzialistico rispetto a quello formalistico: sebbene la lex specialis non contemplasse come da compiersi a pena d’esclusione la menzione sul plico dell’oggetto (e dei lotti per i quali si intendeva concorrere) della gara, ed a prescindere dalla potenziale nullità ex art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. 163/2006, di una simile prescrizione eventualmente imposta, nondimeno viene da chiedersi come la P.A. abbia potuto destinare senza incertezze la documentazione a quella (e non ad altra) procedura, con tutte le possibili conseguenze poc’anzi paventate. A meno che non ci potessero essere dubbi sulla sua riconducibilità a quella specifica selezione in quanto la stazione appaltante, riconosciuta la provenienza del plico da quell’impresa, sapeva già che quest’ultima avrebbe potuto presentare un’offerta riferibile solo a quella gara, come nel caso di procedure ristrette o negoziate ovvero, allargando ulteriormente il campo delle ipotesi, che il termine di scadenza previsto per la consegna delle domande di partecipazione facesse presumere che il plico pervenuto non potesse riferirsi che a quella stessa competizione. Ma la vicenda decisa dal TAR Roma atteneva ad una procedura aperta, indetta vieppiù non da un piccolo Comune bensì dalla Regione Lazio che, si può immaginare, debba occuparsi contemporaneamente di diverse procedure ad evidenza pubblica, col risultato di aumentare il rischio di confusione tra una gara e l’altra.
Sull’argomento si rinviene un precedente che, seppur ormai molto risalente tanto da riguardare un caso concretizzatosi ben prima dell’introduzione (avvenuta nel 2011) del comma 1-bis dell’art. 46 del Codice dei Contratti Pubblici e perciò da prendere con parecchio beneficio di inventario visto il radicalmente mutato panorama legislativo, rileva la legittimità della richiesta di apposizione sull’esterno del plico dell’oggetto della gara, adempimento che, però, era stato previsto sotto pena di esclusione: “l’art. 8 del capitolato speciale di gara stabilisce, a pena di esclusione, che sul plico contenente l’offerta e la relativa documentazione sia chiaramente apposto: l’oggetto della gara, il lotto o i lotti di partecipazione, ed il nominativo della società mittente. La clausola, lineare ed inequivoca, non lascia adito a dubbi quanto al contenuto delle indicazioni da apporre sul plico, di talché in ordine a tale profilo deve escludersi l’applicabilità dell’invocato principio del “favor partecipationis”, che, tenuto conto della presenza di una espressa comminatoria di esclusione, soccombe dinanzi al necessario rispetto della parità di trattamento dei concorrenti” (TAR Toscana, Sez. II, sent. n. 1587 del 06/11/2009).
Si può ad ogni modo affermare che la conclusione cui è giunto il Collegio capitolino si segnala per la marcata apertura verso la massima possibilità di consentire la partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica, definendo non ostativa nemmeno la mancata indicazione della gara d’appalto sulla parte esterna del plico contenente le offerte, in quanto motivo di esclusione non contemplato dalla normativa né rispondente ad uno specifica necessità di protezione degli interessi sottesi all’azione delle PP.AA., così come enunciati dall’art. 46 del D.Lgs. 163/2006, pur con tutte le riserve che si è ritenuto opportuno evidenziare sopra
(link a www.altalex.com).

APPALTI: Subappalto, senza sentire l’azienda niente revoca. TAR di Torino.
Anche se la stazione appaltante valuta a sua discrezione l’affidabilità delle imprese in gara, non può revocare un subappalto senza contraddittorio per l’apertura di un’inchiesta penale a carico della subappaltatrice poiché, nel confronto con la ditta, la condotta contestata dai pm può risultare anche non grave per l’appalto.
Il TAR Piemonte -sentenza 16.10.2015 n. 1474, II Sez.– ha annullato così la revoca immediata e senza il fissato preavviso (articolo 7, legge n. 241/1990) di un subappalto di lavori edili decisa da un’azienda ospedaliera per una notizia di reato iscritta a carico del legale rappresentante di una subappaltatrice per il presunto smaltimento illecito di rifiuti pericolosi.
Per i giudici, «è ben possibile che l’instaurazione del contraddittorio con i soggetti interessati permetta di raggiungere una differente valutazione delle condotte di inadempimento contrattuale», posto che «in via di principio, le prime risultanze delle indagini preliminari non consentono di attribuire con certezza all’impresa subappaltatrice una condotta di «grave negligenza o malafede», ai sensi dell'articolo 38, primo comma – lettera f), del Codice dei contratti pubblici».
Come precisato, «l’indefettibilità del contraddittorio discende, anche nell’ambito degli appalti pubblici, dall’articolo 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti dell’Unione europea, per effetto del quale il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio è stato elevato a principio comunitario, quale parte integrante del “diritto ad una buona amministrazione”»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1. Invertendo l’ordine di prospettazione, ha carattere assorbente ed è fondato il secondo ordine di censure, con cui la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
L’Azienda, infatti, non ha consentito di controdedurre agli addebiti emersi nel procedimento penale in ordine allo smaltimento non autorizzato di rifiuti pericolosi da cantiere nei cassoni di raccolta presenti all’interno dell’area ospedaliera, né ha giustificato il mancato esercizio del contraddittorio con ragioni d’indifferibilità ed urgenza.
D’altronde, che vi fosse un’insopprimibile urgenza di provvedere senza preavviso sembra da escludere: per ammissione della stessa difesa dell’Amministrazione, infatti, il subappalto sarebbe giunto a naturale scadenza appena un mese dopo la revoca (il 20.03.2015).
Avendo presente che, in via di principio, le prime risultanze delle indagini preliminari non consentono di attribuire con certezza all’impresa subappaltatrice una condotta di “grave negligenza o malafede”, ai sensi dell’art. 38, primo comma – lett. f), del Codice dei contratti pubblici, l’Amministrazione avrebbe dovuto porre la ricorrente nelle condizioni di giustificare i fatti accaduti o, quanto meno, di dimostrarne la non gravità ai fini della perdita del requisito soggettivo di capacità.
Proprio con riguardo alla causa di esclusione prevista dalla lett. f) del primo comma dell’art. 38, è stato condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza che l’intrinseca natura discrezionale della valutazione rimessa alla stazione appaltante rende “vieppiù censurabile l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per l’applicazione dell’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990 (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. I, 04.04.2012 n. 659).
Ad avviso del Collegio, il vizio del contraddittorio non può essere degradato come inidoneo all’annullamento degli atti impugnati, in applicazione dell’art 21-octies, secondo comma, della legge sul procedimento. Infatti,
al cospetto di una decisione della stazione appaltante ampiamente discrezionale, avente ad oggetto l’incidenza degli episodi pregressi di negligenza sull’affidabilità dell’impresa, non incombe sulla parte ricorrente l’onere di fornire la prova circa la rilevanza del momento partecipativo, essendo invece vero il contrario.
Sul punto, l’Amministrazione resistente non ha fornito in modo convincente la prova, seppur in chiave prognostica, della inutilità a priori dell’apporto partecipativo delle società subappaltatrici destinatarie della misura di autotutela.
Con specifico riguardo alla fattispecie di esclusione disciplinata dall’art. 38, primo comma – lett. f), del Codice dei contratti pubblici, è ben possibile che l’instaurazione del contraddittorio con i soggetti interessati permetta di raggiungere una differente valutazione delle condotte di inadempimento contrattuale. Ad esempio, le imprese subappaltatrici avrebbero potuto rendere giustificazioni in ordine all’effettivo riparto di responsabilità tra tutti i soggetti presenti nel cantiere, ai rapporti concretamente intercorsi con l’appaltatrice Se.Me. s.r.l., all’individuazione del soggetto che ha ordinato o consentito lo smaltimento illecito delle lane di roccia e dei materiali isolanti nei cassoni di raccolta, e così via.
Come affermato da autorevole dottrina,
l’indefettibilità del contraddittorio discende, anche nell’ambito degli appalti pubblici, dall’art. 47, par. 2, della Carta dei diritti dell’Unione Europea, per effetto del quale il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio è stato elevato a principio comunitario, quale parte integrante del “diritto ad una buona amministrazione” ed in perfetta corrispondenza con le garanzie discendenti dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Con il conseguente necessario adeguamento, innanzitutto in via di interpretazione conforme, delle norme di diritto interno ed in particolare degli artt. 21-octies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nelle fattispecie in cui l’Amministrazione procedente non abbia rispettato gli obblighi partecipativi.
La Corte europea, infatti, ha affermato che il necessario svolgimento di un procedimento in contraddittorio presuppone non soltanto la facoltà per l’interessato di accedere al fascicolo, ma anche il dovere per l’autorità procedente di dare comunicazione d’ufficio all’interessato degli elementi fattuali e giuridici rilevanti per consentirgli un contraddittorio effettivo, tale da poter influire sull’esito della decisione: in tal senso, non è consentita la violazione delle regole poste a garanzia dei soggetti coinvolti nel procedimento, anche se, in ipotesi, tale violazione non abbia influito in concreto sull’esito della decisione amministrativa
(cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 25.07.2000, Mattoccia; Id., sent. 05.10.2000, APEH Uldozotteinek Szovetsege).
Né può dubitarsi, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte, circa l’attinenza dei procedimenti di affidamento degli appalti pubblici ai “diritti e doveri di carattere civile” richiamati dall’art. 6, par. 1, della Convenzione (cfr., tra molte: Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 10.07.1998, Tinnelly & Sons Ltd; Id., sent. 21.09.2006, Arac; Id., sent. 11.12.2008, Velted-98 AD; da ultimo TAR Piemonte, sez. II, 10.07.2015 n. 1212, in relazione a diversa causa di esclusione disciplinata dall’art. 38 del Codice dei contratti pubblici).
L’accoglimento del motivo determina di per sé l’annullamento della deliberazione n. 125/2015 del 10.02.2015 (revoca in autotutela dell’autorizzazione al subappalto tra la società ricorrente e la Se.Me. s.r.l.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Canalizzazioni fognarie, Palazzo Spada: ancora vigenti le norme tecniche del 1977. Le canalizzazioni fognarie devono essere tenute distanti e al di sotto delle condotte di acqua potabile.
Il principio secondo cui le canalizzazioni fognarie devono essere tenute distanti ed al di sotto delle condotte di acqua potabile rappresenta a tutt’oggi una indiscussa regola generale della buona progettazione (la cui finalità è preordinata a scongiurare che, in caso di rottura o di perdita delle tubazioni, i reflui fognari possano raggiungere le condotte contenenti gli altri sottoservizi poste a quote inferiori) e quindi si tratta della precauzione in grado di evitare in radice il grave pericolo di contaminazioni fognarie della rete idrica”.
Lo ha precisato la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 15.10.2015 n. 4770.
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MASSIMA
Le norme tecniche previste dalla deliberazione del Comitato Interministeriale del 04.02.1977 continuano ad applicarsi anche dopo l'abrogazione della L. n. 319/1976, per effetto del D.lgs. n. 152/1999, il cui art. 62, comma 7, sancisce testualmente che, «per quanto non espressamente disciplinato dal presente decreto, continuano ad applicarsi le norme tecniche di cui alla suddetta delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque del 04.02.1977».
Né il quadro normativo è stato modificato dal D.lgs. n. 152/2006, che ha abrogato il D.lgs. n. 152/1999, in quanto nel suddetto D.Lgs. n. 156 non è sancita alcuna testuale abrogazione delle disposizioni tecniche di dettaglio, le quali, essendo finalizzate a rendere operative la normativa di garanzia e di salvaguardia di beni fondamentali dell'ordinamento, nel cui ambito rientra anche la tutela delle acque dall'inquinamento e del territorio, non possono ritenersi tacitamente travolte dall’entrata in vigore della nuova disciplina del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, salvi i casi, che non ricorrono nella fattispecie in esame, in cui lo jus superveniens non introduca altre norme tecniche afferenti alla medesima fattispecie.
Ritiene al riguardo la Sezione che la perdurante vigenza delle sopra richiamate disposizioni di natura tecnica –sulla buona progettazione e sulla sicurezza nel posizionamento delle canalizzazione fognaria- si possa desumere dalla assenza di una chiara ed espressa loro successiva abrogazione e dalla mancata introduzione di statuizioni tecniche sostitutive in materia: accedendo alla prospettazione della società appellante, si dovrebbe ravvisare una vera e propria lacuna normativa, con conseguente inadeguata tutela del diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, con una soluzione in contrasto anche con la ratio del nuovo quadro normativo di tutela delle acque e dell’ambiente (d.lgs. 252/2006, d.lgs. n. 121/2011, la direttiva comunitaria n. 2008/99, le fattispecie penali di cui agli artt. 438-439-440-452-632-635 cod. pen.).
In altri termini, una interpretazione secundum Constitutionem dell’attuale quadro normativo induce a ritenere che siano ancora vigenti le disposizioni tecniche in questione.
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6.1- Con il primo motivo, parte appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza di primo grado per aver dichiarato inammissibile sia il ricorso principale che i motivi aggiunti, a seguito dell’accoglimento del ricorso incidentale proposto dall’aggiudicataria.
In particolare con il motivo 2.3 del ricorso incidentale, accolto dal TAR, l'ATI ACMAR aveva dedotto la violazione delle previsioni di cui all'Allegato n. 4 della delibera del 04.02.1977 del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall'inquinamento e delle connesse regole generali di progettazione.
Infatti l'elaborato denominato «Quaderno profili altimetrici servizi di progetto», concernente l’offerta progettuale dell’Alma Cis, prevedeva l’ubicazione della fognatura delle acque reflue al di sopra delle canalizzazioni relative ai restanti servizi oggetto dell'appalto, ivi compresi quelli relativi alla canalizzazione dell'acqua potabile in violazione del suddetto allegato n. 4, che, per gli impianti di fognatura, sancisce, al punto 8, che nel sottosuolo le reti fognarie vanno realizzate in modo tale da evitare «interferenze» con le reti di altri sottoservizi e che la loro canalizzazione deve essere tenuta debitamente distante ed al di sotto delle condotte di acqua potabile: una regola corrispondente di buona amministrazione è contenuta anche nel capitolo III, punto IV, della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 11633 del 07.01.1974.
L’odierna appellante deduce invece che la citata deliberazione del Comitato Interministeriale del 04.02.1977 non sarebbe più in vigore, in quanto va considerata attuativa dell'art. 2 della L. 319/1976, abrogata dal D.lgs. n. 152/1999, a sua volta abrogato dall'art. 175 del D.lgs. n. 152/2006, e che in ogni caso anche nel caso di sua integrale applicazione non si sarebbe dovuta disporre la sua esclusione dalla gara.
6.2. Tale prospettazione non risulta fondata.
Infatti, le norme tecniche previste dalla suindicata delibera continuano ad applicarsi anche dopo l'abrogazione della L. n. 319/1976, per effetto del D.lgs. n. 152/1999, il cui art. 62, comma 7, sancisce testualmente che, «per quanto non espressamente disciplinato dal presente decreto, continuano ad applicarsi le norme tecniche di cui alla suddetta delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque del 04.02.1977».
Né il quadro normativo è stato modificato dal D.lgs. n. 152/2006, che ha abrogato il D.lgs. n. 152/1999, in quanto nel suddetto D.Lgs. n. 156 non è sancita alcuna testuale abrogazione delle disposizioni tecniche di dettaglio, le quali, essendo finalizzate a rendere operative la normativa di garanzia e di salvaguardia di beni fondamentali dell'ordinamento, nel cui ambito rientra anche la tutela delle acque dall'inquinamento e del territorio, non possono ritenersi tacitamente travolte dall’entrata in vigore della nuova disciplina del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, salvi i casi, che non ricorrono nella fattispecie in esame, in cui lo jus superveniens non introduca altre norme tecniche afferenti alla medesima fattispecie.
Ritiene al riguardo la Sezione che la perdurante vigenza delle sopra richiamate disposizioni di natura tecnica –sulla buona progettazione e sulla sicurezza nel posizionamento delle canalizzazione fognaria- si possa desumere dalla assenza di una chiara ed espressa loro successiva abrogazione e dalla mancata introduzione di statuizioni tecniche sostitutive in materia: accedendo alla prospettazione della società appellante, si dovrebbe ravvisare una vera e propria lacuna normativa, con conseguente inadeguata tutela del diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, con una soluzione in contrasto anche con la ratio del nuovo quadro normativo di tutela delle acque e dell’ambiente (d.lgs. 252/2006, d.lgs. n. 121/2011, la direttiva comunitaria n. 2008/99, le fattispecie penali di cui agli artt. 438-439-440-452-632-635 cod. pen.).
In altri termini, una interpretazione secundum Constitutionem dell’attuale quadro normativo induce a ritenere che siano ancora vigenti le disposizioni tecniche in questione.
6.3. Per completare la disamina della prima censura, resta infine da esaminare il profilo più suggestivo, secondo cui, anche a voler ritenere in vigore le regole desumibili dalla suindicata delibera del 1977, quest’ultima, per gli impianti di fognatura, prevede non solo la statuizione del punto 8), secondo cui le canalizzazioni fognarie devono essere tenute debitamente distanti ed al di sotto delle condotte di acqua potabile, ma anche la statuizione del successivo punto 9, che, come evidenziato dalla stessa appellante nel ricorso in appello (pag. 18), sancisce che «quando per ragioni plano-altrimetriche non fosse possibile (tenere le condotte al di sopra di quelle dell’acqua potabile), devono essere adottati particolari accorgimenti al fine di evitare la possibilità di interferenze reciproche».
Ad avviso dell’appellante, una lettura coordinata dei due paragrafi renderebbe il divieto superabile con «l’adozione di particolari accorgimenti», che la società Alma C.i.s. deduce di aver adottato.
Ritiene la Sezione che, sotto il profilo normativo, tale premessa deduzione è di per sé pienamente condivisibile, ma non può comunque comportare l’accoglimento della censura, dovendosi dare rilevanza al contenuto del progetto presentato ed alle valutazioni formulate al riguardo dall’Amministrazione, che non possono in quanto tali essere sostituite da opposte valutazioni del Collegio.
Al riguardo, rileva il dato testuale del richiamato punto 9, che attribuisce al posizionamento in deroga delle canalizzazioni fognarie -al di sopra le altre condotte– un carattere eccezionale e cioè soltanto «per ragioni plano-altimetriche», evidenziate in grassetto dalla stessa difesa dell’appellante nel ricorso in appello.
Il punto 9 pertanto ha un contenuto specifico di carattere oggettivo e preclusivo, nel senso che non può essere invocato unilateralmente (in sede amministrativa o giurisdizionale) dal concorrente partecipante alla gara, che ritenga –per una propria valutazione- di presentare un’offerta progettuale con tali caratteristiche in deroga: le «ragioni plano-altimetriche» possono essere ravvisate solo ove siano prospettate all’amministrazione e questa le abbia considerate effettivamente sussistenti.
Viceversa, l’appellante solo in giudizio –e per saltum- ha rilevato la sussistenza di «difficoltà» plano altimetriche per sostenere l'applicabilità della disposizione derogatoria, senza però allegare nella sua progettazione tecnica, in sede amministrativa, alcuna prova concreta della sussistenza di ragioni obiettivamente ostative tali da legittimare la collocazione delle condotte dell'acqua fognaria ad un'altezza inferiore rispetto a quelle dell'acqua potabile, tanto che l’amministrazione non ne ha neppure ravvisato la sussistenza.
Inoltre, la riprova dell’insussistenza di tali «ragioni plano-altimetriche» in senso oggettivo è data dal fatto che l’aggiudicataria ha presentato un’offerta progettuale senza necessità di avvalersi della deroga e che la stessa appellante, oltre a non averne fatto alcun cenno in sede di offerta progettuale, non ha neanche indicato alcuna altra offerta di concorrenti, partecipanti alla gara, che avessero presentato un progetto in deroga.
Sotto tale profilo, neppure risulta plausibile la sussistenza di obiettive «ragioni plano-altimetriche», tali da giustificare la presentazione di un progetto basato su una regola diversa da quella generale, disposta dal punto 8 della delibera del 1977.
6.4. Conclusivamente, il principio secondo cui le canalizzazioni fognarie devono essere tenute distanti ed al di sotto delle condotte di acqua potabile rappresenta a tutt’oggi una indiscussa regola generale della buona progettazione (la cui finalità è preordinata a scongiurare che, in caso di rottura o di perdita delle tubazioni, i reflui fognari possano raggiungere le condotte contenenti gli altri sottoservizi poste a quote inferiori) e quindi si tratta della precauzione in grado di evitare in radice il grave pericolo di contaminazioni fognarie della rete idrica, peraltro per opere da realizzare –nella specie- in zona altamente sismica, trattandosi delle infrastrutture nell'ambito urbano del centro storico della città di L'Aquila a seguito dei gravi danni subiti a seguito del devastante terremoto del 2009 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.10.2015 n. 4770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell'azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta.
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all'emissione dell'ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l'ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva.
L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
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Con una prima censura si sostiene la illegittimità dell’ordine di demolizione, in relazione alla violazione dell’articolo 34 del d.p.r. 380 del 2001, in quanto il Comune avrebbe dovuto comminare la sanzione pecuniaria in relazione al pregiudizio che la demolizione apporterebbe alla parte conforme al titolo edilizio.
Tale censura è infondata.
La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons. Stato, sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013 ), e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata. In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell'azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del 2012).
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all'emissione dell'ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l'ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva (Tar Lazio I-quater n. 316 del 2014, 5277 del 2013; n. 762 del 2013).
L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (Tar Lazio I-quater n. 3105 del 2012) .
Ne deriva l’infondatezza della censura relativa alla violazione dell’articolo 34 del d.p.r. 380 del 2001, che potrà essere eventualmente applicato dall’Amministrazione, qualora ne ricorrano i presupposti, anche su istanza di parte, nella fase esecutiva della demolizione
(TAR Lazio-Roma, Sez. IV, sentenza 14.10.2015 n. 11671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è costante nel ritenere che il concetto di pertinenza, sotto il profilo edilizio, sia configurabile non solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, ma anche una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce e soprattutto priva di carico urbanistico.
In particolare, quindi, viene esclusa la natura di pertinenza quando sia realizzato un nuovo volume, essendo ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati o di opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico'.

Quanto alle ulteriori censure, proposte evidentemente avverso il diniego di condono, si può prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa comunale, in relazione alla evidente infondatezza delle stesse.
La censura relativa alla violazione dell’art. 7 del d.l. del 23.01.1982 convertito nella legge n. 94 del 1982 è, infatti, infondata, trattandosi in primo luogo del riferimento ad una norma non più in vigore. Inoltre, la giurisprudenza è costante nel ritenere che il concetto di pertinenza, sotto il profilo edilizio, sia configurabile non solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, ma anche una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce e soprattutto priva di carico urbanistico. In particolare, quindi, viene esclusa la natura di pertinenza quando sia realizzato un nuovo volume, essendo ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati o di opere che comportino un nuovo e modesto volume 'tecnico' (Consiglio di Stato n. 406 del 2015; n. 4290 del 2014)
(TAR Lazio-Roma, Sez. IV, sentenza 14.10.2015 n. 11671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISindacati non radicati? L'appalto viene annullato.
Deve essere annullata l'aggiudicazione dell'appalto se l'offerta dell'impresa nella determinazione degli oneri contributivi si rifà a contratti collettivi che non risultano sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali più radicate nella categoria in cui opera l'impresa.

È quanto emerge dalla sentenza 13.10.2015 n. 4699 della III Sez. del Consiglio di stato.
Anomalia evidente
Devono considerarsi anomale perché troppo basse le offerte che si discostano in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal ministero in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva.
L'offerta deve, infatti, risultare nel suo complesso affidabile e conveniente, al momento dell'aggiudicazione, e in quel momento l'aggiudicatario deve dare garanzia di una seria esecuzione del contratto. E quando la discordanza dagli indici standard è forte bisogna dubitare della serietà dell'offerta.
Nella specie è evidente che l'offerta presentata dall'azienda è più conveniente per la stazione appaltante, che ha evidenziato un risparmio di circa 4 milioni di euro per l'intera durata del contratto. Ma questo non può giustificare le conclusioni raggiunte all'esito del giudizio di anomalia: l'adeguatezza dell'offerta non può essere valutata solo sulla sua ritenuta convenienza economica e prescindendo dai suoi contenuti, ma implica anche una rigorosa verifica della sua serietà e della sua legittimità che nella fattispecie non risulta effettuata.
Gli oneri contributivi non sono infatti calcolati rispetto al Ccnl «giusto».
Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 10.11.2015).
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MASSIMA
6.- Tutto ciò premesso, considerato che la principale censura formulata dall’appellante GPI riguarda la ritenuta anomalia dell’offerta del RTI SDS che aveva presentato un’offerta economica molto inferiore all’importo della gara e alle offerte delle altre concorrenti per aver calcolato il costo del lavoro sulla base di un contratto sottoscritto da sigle sindacali non rappresentative,
si deve ricordare, in generale, che gli articoli 86 e 87 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), prevedono che l’Amministrazione, prima di procedere all’aggiudicazione definitiva, debba effettuare una valutazione sulla congruità complessiva dell’offerta ritenuta migliore in presenza di determinati indicatori di possibile anomalia dell’offerta, e possa procedere ad un approfondimento sulla possibile anomalia anche in assenza di tali indicatori.
L’offerta deve, infatti, risultare nel suo complesso affidabile e conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e in tale momento l’aggiudicatario deve dare garanzia di una seria esecuzione del contratto (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
6.1.- In particolare, l’art. 86 del codice dei contratti pubblici individua, nei commi 1 e 2, distinti indici, a seconda che il criterio di aggiudicazione sia quello del prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie, quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’individuazione delle offerte che sono sospettate di essere anomale (cd. indicatori automatici di anomalia). In presenza di tali indicatori la Stazione appaltante è quindi tenuta ad attivare una verifica sulla possibile anomalia dell’offerta.
L’art. 86, al comma 3, con una clausola generale valida per entrambe le ipotesi, stabilisce poi che la stazione appaltante possa procedere in ogni caso alla valutazione della congruità di ogni altra offerta che in base ad elementi specifici appaia anormalmente bassa.
6.2.-
La scelta dell’Amministrazione di attivare in tali casi il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è, pertanto, ampiamente discrezionale e può, per questo, essere sindacata davanti al giudice amministrativo solo per manifesta illogicità o per la presenza di rilevanti errori di fatto.
6.3.-
L’esercizio di tale facoltà comporta, pertanto, l’apertura di un subprocedimento in contraddittorio con il concorrente che ha presentato l’offerta ritenuta a rischio di anomalia, che può concludersi con un giudizio di anomalia o di non anomalia dell’offerta. Anche tale giudizio è ampiamente discrezionale e può essere sindacato, in conseguenza, davanti al giudice amministrativo solo per manifesta illogicità o per la presenza di rilevanti errori di fatto.
7.- Tenuto conto del rilievo che in molti contratti ha il costo del lavoro e tenuto conto delle esigenze di tutela dei lavoratori, il legislatore ha aggiunto, all’art. 86, con l’art. 1, comma 909, lettera a) della legge 27.12.2006, n. 296, il comma 3-bis che prevede che gli enti aggiudicatori verifichino «che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro … il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».
7.1.- Il Ministero del Lavoro è, quindi, incaricato della predisposizione di apposite tabelle che tengono conto dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale e assistenziale, delle differenti aree territoriali e dei diversi settori merceologici.
In esito all’istruttoria disposta da questa Sezione, il Ministero del Lavoro ha fornito ampi ragguagli sulle modalità con le quali in concreto tale funzione è esercitata.
8.- Per effetto di tale ultima disposizione
il costo del lavoro è ritenuto indice di anomalia dell’offerta quando non risultino rispettati i livelli salariali che la normativa vigente –anche a base pattizia– rende obbligatori.
Una determinazione complessiva dei costi basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore può costituire, infatti, indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da erogare.
8.1.- La giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha peraltro precisato che
una anomalia dell’offerta non può essere automaticamente desunta dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali, richiamate dall’art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti pubblici, considerato che i costi medi del lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non costituiscono parametri inderogabili ma sono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta che costituiscono oggetto della valutazione dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015).
8.2.- Si è quindi affermato che
devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, con la conseguenza che può ritenersi ammissibile un'offerta che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.
Mentre occorre, perché possa dubitarsi della congruità dell’offerta, che la discordanza sia considerevole ed ingiustificata (Consiglio di Stato, sez. III, n. 3329 del 03.07.2015).
8.3.- Si è ulteriormente chiarito che
non possono non essere considerati, in sede di valutazione delle offerte, aspetti particolari ed elementi che possono variare da azienda ad azienda. Ai fini di una valutazione sulla congruità dell’offerta, la stazione appaltante deve, pertanto, tenere conto anche delle possibili economie che le diverse singole imprese possono conseguire (ed anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi (Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015 cit.).
9.- Nella fattispecie, come emerge dagli atti, l’Azienda Ospedaliera, aveva rilevato che fra la proposta formulata dal RTI SDS, che aveva offerto uno sconto del 29,30 sulla base d’asta, e gli altri concorrenti vi era un evidente scostamento. Pur non ricorrendo la fattispecie prevista dall’art. 86, comma 2, del codice dei contratti pubblici, con la deliberazione n. 776 del 22.07.2014, ha quindi ritenuto «opportuno valutare l’eventuale anomalia dell’offerta ai sensi del comma 3 del medesimo art. 86 del D. Lgs. 163/2006».
Con la stessa delibera l’Amministrazione ha quindi individuato la Commissione prevista dall’art. 88, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici.
9.1.- Il RUP, nominato Presidente della Commissione, ha, in conseguenza, invitato il concorrente a fornire le relative giustificazioni, con particolare riferimento ai costi del personale indicati nell’offerta.
9.2.- Nella seduta del 28.08.2014, la Commissione, viste le giustificazioni trasmesse, ha ritenuto di dover approfondire «l’aspetto riguardante le tabelle riportanti il costo medio orario relativo ai contratti collettivi di lavoro applicati dal RTI». La Commissione ha pertanto deciso di verificare, presso il CNAI, la disponibilità di un documento ufficiale con il costo del lavoro del settore terziario relativo al contratto applicato dal RTI SDS, e di richiedere, allo stesso RTI, un documento ufficiale con la tabella del costo orario totale per il 4° e 5° livello (CNAI Terziario).
La Commissione ha poi anche deciso di acquisire da un professionista del settore un parere «in merito alla correttezza della “Tabella costo orario totale 4° e 5° livello (CNAI Terziario)” prodotta dal concorrente».
9.3.- Nella successiva seduta del 09.09.2014, la Commissione, vista la risposta del RTI SDS, in data 05.09.2014 (con allegata una certificazione rilasciata dallo studio di consulenza commerciale De Pace Francesco, revisore legale), vista la nota del CNAI del 02.09.2014 e viste le note trasmesse, in data 3 e 05.09.2014, dal rag. Ma.Sa., revisore ufficiale dei conti, esperto contabile ed iscritto all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, ha ritenuto che «l’offerta formulata dal concorrente non sia affetta da anomalia» (verbale n. 2 del 9 settembre 2014).
10.- Considerato che la Commissione non ha esplicitato, con una propria motivazione, le ragioni del suo convincimento, si deve evidenziare che il RTI SDS aveva chiarito, con nota del 05.09.2014, che il contratto collettivo nazionale applicato era il CCNL CNAI, settore Terziario e Servizi, regolarmente depositato presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), sul cui sito era reperibile.
Il RTI SDS, dopo aver ricordato che per il detto CCNL non esistono tabelle ufficiali di determinazione del costo orario del lavoro, ha evidenziato che nel contratto sono però espressamente riportate le tabelle retributive sulla base delle quali, tenendo conto dell’incidenza degli altri elementi retributivi e degli oneri previdenziali, assicurativi, fiscali e assistenziali e delle ore di effettivo lavoro (per le ferie, permessi ed assenze), ha potuto determinare il costo orario aziendale.
Con successiva nota, sempre in data 05.09.2014, il RTI SDS ha meglio precisato le modalità di determinazione del totale delle ore annuali lavorate (1.821), calcolate sulla base delle ore di ferie annuali (160), delle ore di permessi annuali (16), delle ore annuali per festività (72) e dell’incidenza delle altre ore non lavorate per malattie e varie (19).
10.1.- La Commissione ha poi tenuto conto delle osservazioni fatte pervenire dal rag. Ma.Sa., revisore ufficiale dei conti, esperto contabile ed iscritto all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, che, con nota del 03.09.2014, ha affermato che il costo paga base utilizzato dagli iscritti CNAI è inferiore (nella misura poi meglio specificata) a quello utilizzato dalle tabelle del contratto collettivo della Confcommercio e prevede contributi per il “Fondo Est” in misura inferiore a quelli previsti per il fondo “Enmoa”.
Il rag. Ma.Sa. ha poi aggiunto che il contratto collettivo della Confcommercio prevede anche la quattordicesima mensilità, mentre il contratto CNAI esprime i valori in 13 mensilità.
Il rag. Sa. ha inoltre precisato che i conteggi INPS e INAIL erano corretti (benché il conteggio INAIL evidenziasse l’aliquota più bassa e con minima copertura rischi, da verificare con una analisi del rischio infortuni reale) e che il conteggio IRAP presentava una differenza poco significativa.
10.2.- A seguito di richiesta del RUP di ulteriori chiarimenti sul totale delle ore lavorate, pari (per il RTI SDS) a 1821, il rag. Sa., con successiva mail del 05.09.2014, ha aggiunto che per il contratto Confcommercio il totale delle ore lavorate era pari a 1720 annue.
11.- Così ricostruito il quadro normativo e fattuale e tenuto conto delle risultanze dell’istruttoria compiuta, la Sezione ritiene che il giudizio di anomalia condotto dall’Azienda Ospedaliera e la conseguente aggiudicazione della gara al RTI SDS non possano ritenersi esenti dalle censure sollevate da GPI.
L’Azienda Ospedaliera ha, infatti, ritenuto congrua ed affidabile un’offerta che prevedeva un ribasso di quasi il 30% sull’importo a base d’asta (notevolmente superiore al ribasso offerto dalle altre imprese partecipanti alla gara), per effetto dell’applicazione di un contratto collettivo che prevede livelli retributivi decisamente inferiori rispetto a quelli previsti dalle tabelle ministeriali di riferimento e che risulta stipulato da associazioni non comparativamente più rappresentative, come accertato all’esito dell’istruttoria disposta da questa Sezione, nell’ambito di un settore che è regolato dalla contrattazione collettiva e nel quale sono presenti contratti, stipulati da soggetti sindacali comparativamente maggiormente rappresentativi, che sono stati tenuti in considerazione dalle tabelle ministeriali di riferimento.
12.- In proposito, si deve, innanzitutto, evidenziare che, come ha rilevato il Ministero del Lavoro all’esito di un’accurata istruttoria, il CCNL CNAI, utilizzato dal RTI SDS nella sua offerta, non può considerarsi siglato da rappresentanze sindacali (dei datori di lavoro e dei lavoratori) comparativamente più rappresentative (pagine 6 ed 8 della Relazione istruttoria).
12.1.- Tale (rilevante) circostanza non è stata peraltro oggetto di una particolare attenzione nel giudizio di anomalia effettuato dall’Azienda Ospedaliera resistente (e non è stata nemmeno considerata dal TAR che ha ritenuto che incombesse alla ricorrente GPI fornire la prova di tale elemento).
Mentre tale circostanza doveva essere oggetto di particolare attenzione nel giudizio di anomalia tenuto conto che, come si è già prima ricordato,
l’art. 86, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici non solo prevede che, nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte, gli enti aggiudicatori siano tenuti a verificare che il valore economico dell’offerta sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro (e al costo relativo alla sicurezza), ma stabilisce anche che il parametro di valutazione del costo del lavoro è costituito dalle apposite tabelle redatte periodicamente dal Ministro del lavoro «sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali».
13. Nella fattispecie, mancando il giudizio di non anomalia dell’offerta del RTI SDS di ogni motivazione, si può ritenere, dall’esame degli atti sui quali il giudizio è stato formulato, che l’Azienda Ospedaliera, in base agli atti acquisiti e ai chiarimenti forniti dal proprio consulente, ha ritenuto sufficiente rilevare che il contratto CNAI, utilizzato dal RTI SDS, era esistente e valido, perché depositato presso il CNEL, e che, quindi, l’offerta presentata era congrua anche perché faceva applicazione di tale contratto (pur avendo l’istruttoria evidenziato differenze nel trattamento retributivo dei lavoratori, non irrilevanti).
13.1.- Ma
tale giudizio non può ritenersi legittimo non essendo stata fatta, come si è potuto accertare, alcuna concreta valutazione sull’effettiva possibile applicazione in una gara pubblica del contratto CNAI, sottoscritto da sigle sindacali non maggiormente rappresentative, ed essendo mancata anche un’effettiva comparazione dei costi indicati e delle ore di lavoro stimate con le tabelle ministeriali predisposte per il settore in questione, essendosi il rag. Sa. limitato ad effettuare alcune comparazioni con il contratto collettivo nazionale “Confcommercio”.
14.- Secondo l’Azienda Ospedaliera (e il resistente RTI SDS) in Italia il datore di lavoro può peraltro liberamente scegliere il CCNL da applicare ai rapporti di lavoro. Ed è rispetto al contratto collettivo prescelto che può essere condotto il giudizio di adeguatezza e sufficienza della retribuzione e quindi può essere valutata la possibile anomalia dell’offerta.
Ma, sebbene il contratto CNAI non possa ritenersi invalido, come pure ha affermato l’appellante, tenuto conto che non vi sono norme che ne prevedono espressamente la nullità o l’inefficacia, è però evidente che
il vigente sistema normativo pone come parametro di riferimento, per la valutazione della congruità degli oneri per il lavoro del personale impiegato negli appalti pubblici, i costi determinati dalle tabelle predisposte dal Ministro del lavoro. E tali tabelle hanno come esclusivo riferimento i valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi di entrambe le parti che lo sottoscrivono.
14.1.-
Il possibile utilizzo, nel settore pubblico, di contratti collettivi di lavoro stipulati da sigle sindacali che non hanno il sufficiente grado di rappresentatività (e che per questo non sono considerati nella determinazione delle citate tabelle ministeriali) costituisce pertanto un’evidente anomalia del sistema.
15.- Peraltro, come anche il TAR ha evidenziato,
se si ammettono senza riserve offerte che sono formulate facendo applicazione di costi del lavoro molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi, si determinano pratiche di dumping sociale perché solo alcune imprese possono beneficiare di disposizioni che giustificano un costo del lavoro inferiore.
Peraltro le altre aziende di quel settore, per essere competitive e non essere estromesse dal mercato, soprattutto in gare cd. labour intensive nelle quali è decisivo il costo del lavoro, sarebbero costrette poi ad utilizzare quegli stessi contratti collettivi che, anche se non sottoscritti da rappresentanze dei sindacati maggiormente rappresentativi, offrono trattamenti retributivi inferiori, con una evidente alterazione del sistema.

15.1.-
Senza contare che in tal modo i lavoratori potrebbero vedersi applicate, in modo sostanzialmente unilaterale, condizioni di lavoro stabilite da sigle sindacali a loro del tutto sconosciute.
15.2.- Peraltro,
considerato che in gare come quella in questione è previsto il passaggio dei lavoratori già occupati da un datore di lavoro ad un altro (art. 13 del bando), per la presenza della cd. clausola sociale, se si ammettono senza riserve offerte formulate facendo applicazione di costi del lavoro molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi, la competizione fra le imprese partecipanti alla gara si svolgerebbe non sulla base di una migliore o diversa articolazione del lavoro (e quindi sulle base di caratteristiche proprie dell’impresa) ma in base ai diversi costi del lavoro determinati dall’applicazione di diversi contratti collettivi anche eventualmente sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi.
15.3.-
Ciò conferma la necessità che il costo del lavoro debba avere come parametro di riferimento quello stabilito dalle tabelle ministeriali del settore interessato che sono calcolate sulla base della contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
16.- Sebbene, come ha sottolineato nella sua memoria l’Azienda Ospedaliera resistente, la lex specialis di gara non prescriveva, nella fattispecie, alcun obbligo per i concorrenti di applicare al proprio personale un determinato contratto collettivo, non può tuttavia convenirsi sull’affermazione della stessa Azienda secondo la quale, in conseguenza, era liberamente applicabile da parte del RTI SDS il contratto CNAI.
16.1.- Il giudizio di anomalia avrebbe dovuto essere, invece, particolarmente rigoroso perché il settore è regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da soggetti sindacali comparativamente maggiormente rappresentativi, come è stato confermato dall’istruttoria disposta da questa Sezione, e perché il contratto CNAI non rientra fra quelli stipulati da soggetti sindacali comparativamente maggiormente rappresentativi.
Mentre la procedura di verifica di anomalia condotta dall’Azienda Ospedaliera ha permesso al RTI SDS di giustificare i propri costi del lavoro sulla base di un CCNL che, in virtù del chiaro disposto dell'art. 86, comma 3, cit., non poteva essere impiegato come valido parametro di riferimento e che presentava poi, come si è accertato, diversi non irrilevanti scostamenti rispetto ai legittimi parametri indicati.
17.-
E’ vero che, come si è prima ricordato, le tabelle ministeriali, secondo la giurisprudenza amministrativa, costituiscono solo un parametro di riferimento nella valutazione di una possibile anomalia dell’offerta. Ma una possibile differenza del costo del lavoro determinato (in concreto) nell’offerta dal costo indicato nelle tabelle ministeriali può essere giustificata dalle diverse particolari situazioni aziendali e territoriali e dalla capacità organizzativa dell’impresa che possono rendere possibile, in determinati contesti particolarmente virtuosi, anche una riduzione dei costi del lavoro.
Come si è già in precedenza ricordato, questa Sezione ha affermato in proposito che
i costi indicati nelle tabelle ministeriali sono costi medi, tipologici, e non possono non essere considerati, in sede di valutazione delle offerte, aspetti che riguardano le singole imprese (diverse per natura, caratteristiche, agevolazioni e sgravi fiscali ottenibili). In conseguenza, ai fini della valutazione della migliore offerta, si può tenere conto anche delle possibili economie che le singole imprese possono conseguire (anche con riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei contratti collettivi (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1743 del 02.04.2015, cit.).
17.1.-
La ritenuta possibile presentazione di offerte da parte di imprese che affermano di utilizzare contratti collettivi che non rientrano fra quelli stipulati da associazioni maggiormente rappresentative risulta, invece, del tutto estranea alle suddette valutazioni riguardanti le specifiche caratteristiche dell’attività di impresa.
18.- Il resistente RTI SDS, nella sua memoria conclusiva, ha sostenuto che anche la Corte Costituzionale, nella recente sentenza n. 51 del 2015, ha ribadito il principio che i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative non hanno efficacia erga omnes.
Ma se è vero che in tale sentenza la Corte ha affermato che la censurata disposizione riguardante i soci lavoratori di società cooperative (art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007) non assegnava ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 della Costituzione, la stessa Corte ha poi affermato, dichiarando non fondata la questione sollevata, che l’indicata disposizione, nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, «si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative».
Tali conclusioni sono del tutto coerenti con quanto ritenuto dalla Sezione nel caso in esame.
19.- Si deve poi anche considerare che, come ha evidenziato nelle sue memorie la FILCAMS CGIL, l’art. 1 del d.l. n. 338 del 09.10.1989 (Disposizioni urgenti in materia di evasione contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento dei patronati), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 07.12.1989, n. 389, ha previsto, al comma 1, che «l
a retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo».
L’art. 2, comma 25, della legge n. 549 del 28.12.1995, ha poi precisato che il predetto articolo 1 del decreto-legge 09.10.1989, n. 338, si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria.
Il legislatore ha, quindi, stabilito che i contratti collettivi da considerare, per la determinazione degli oneri contributivi, nel rispetto dell’art. 36 della Costituzione, sono quelli sottoscritti dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi nella categoria, su base nazionale.
20.- Si deve poi aggiungere che il giudizio di non anomalia effettuato dall’Azienda Ospedaliera resistente, come è emerso dall’istruttoria compiuta, non può considerarsi legittimo anche perché non irrilevanti (perché superiori al 6,5%) sono gli scostamenti dei livelli retributivi considerati nelle tabelle ministeriali e il CCNL CNAI.
21.- Non può pertanto essere condivisa la sentenza appellata che, nell’erroneo presupposto della non dimostrata carenza di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto CNAI, ha ritenuto non viziato il giudizio di adeguatezza dell’offerta del RTI SDS.
22.- Del resto
se pure l’offerta del RTI SDS è chiaramente più conveniente per l’Azienda Ospedaliera resistente, che ha evidenziato un risparmio di circa 4 milioni di euro per l’intera durata del contratto, tuttavia tale circostanza non può giustificare le conclusioni raggiunte all’esito del giudizio di anomalia, tenuto conto l’adeguatezza dell’offerta non può essere valutata solo sulla sua ritenuta convenienza economica e prescindendo dai suoi contenuti, ma implica anche una rigorosa verifica della sua serietà e della sua legittimità che, nella fattispecie, per i motivi esposti, non risulta effettuata.
23.- In conclusione, per tutti gli esposti motivi, l’appello deve essere accolto e,
in integrale riforma dell’appellata sentenza del TAR per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, Sezione II, n. 1470 del 31.12.2014, deve essere annullato il giudizio di non anomalia effettuato dall’Azienda Ospedaliera resistente sull’offerta presentata dal RTI SDS e la conseguente aggiudicazione allo stesso RTI della gara in questione.
Sono fatti salvi i successivi provvedimenti dell’Amministrazione.
23.1.- Ai sensi degli articoli 121 e 122 del c.p.a., il contratto eventualmente nelle more sottoscritto dall’Azienda Ospedaliera con il RTI SDS deve ritenersi inefficace a decorrere dal termine di 90 giorni dalla data della notifica o comunicazione in via amministrativa, se anteriore, della presente decisione.

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare l’aggiudicazione di un appalto.
La pubblicazione della delibera di aggiudicazione sul sito web della stazione appaltante non costituisce comunque e di per sé sola forma di pubblicità idonea a determinare la decorrenza del termine di impugnazione.
Questo indirizzo si è formato con riferimento ad impugnative nei confronti dei provvedimenti di esclusione, laddove per quanto riguarda le aggiudicazioni valgono i principi enunciati da Ap. n. 31 del 2012, in virtù dei quali deve essere attribuita valenza decisiva alla comunicazione ai sensi della disposizione speciale del codice dei contratti pubblici da ultimo citata.
Con il motivo che per esigenze logiche conviene esaminare in via prioritaria Elcal eccepisce la tardività del ricorso introduttivo, in quanto proposto quando il termine decadenziale –nella specie da ritenersi decorrente dalla pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione sul sito web della stazione appaltante– era ormai scaduto.
L’eccezione non merita positiva considerazione in quanto –come del resto chiarito da questo Consiglio con la sentenza n. 55 del 2015 opportunamente richiamata dalla appellata e alle cui motivazioni si fa integrale rinvio per esigenze di sinteticità– la pubblicazione della delibera di aggiudicazione sul sito web della stazione appaltante non costituisce comunque e di per sé sola forma di pubblicità idonea a determinare la decorrenza del termine di impugnazione.
Quindi la aggiudicataria non può affermare che la ricorrente avesse avuto –per effetto di tale pubblicazione- piena conoscenza dell’aggiudicazione in epoca anteriore alla ricezione della comunicazione prevista dall’art. 79 del codice degli appalti.
Fermo quanto sopra, ad avviso del Collegio il termine per impugnare la delibera di aggiudicazione decorre in realtà, in linea generale, soltanto dalla ricezione di tale comunicazione da parte degli altri concorrenti.
Vero è che sul piano sistematico la prevalente giurisprudenza amministrativa non annette carattere di esclusività alle forme comunicative previste dall’art. 79, statuendo che queste devono essere coordinate con le regole generali sulla piena conoscenza enunciate dall'art. 41, comma 2, cod. proc. amm..
Ma -come precisamente osservato- questo indirizzo si è formato con riferimento ad impugnative nei confronti dei provvedimenti di esclusione, laddove per quanto riguarda le aggiudicazioni valgono i principi enunciati da Ap. n. 31 del 2012, in virtù dei quali deve essere attribuita valenza decisiva alla comunicazione ai sensi della disposizione speciale del codice dei contratti pubblici da ultimo citata (cfr. V Sez. n. 5244 del 2014)
(C.G.A.R.S., sentenza 13.10.2015 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANell'adozione dell'ordinanza comunale di demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi deve qualificarsi controinteressato in senso sostanziale il vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera abusiva sanzionata, circostanza che nella fattispecie concreta ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406 direttamente interessato alla rimozione della recinzione de qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo.
Altresì, il soggetto medesimo riveste in concreto anche la natura di controinteressato in senso formale, ovvero agevolmente identificabile, essendo il mappale espressamente indicato nella planimetria allegata al provvedimento impugnato ed essendo, inoltre, richiamato nello stesso ricorso.

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... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi n. 72/2015, prot. n. 4794, in data 06/05/2015 emessa dal Servizio Urbanistica del Comune di Cassola, notificata l'11/05/2015.
...
- Considerato che l’eccezione di inammissibilità per mancata instaurazione del contradditorio sollevata dal Comune di Cassola è fondata, in quanto il ricorso non è stato notificato ad alcun controinteressato, mentre, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale (v. C.d.S., IV, 06.06.2011, n. 3380, V, 03.07.1995, n. 991), deve qualificarsi controinteressato in senso sostanziale il vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera abusiva sanzionata, circostanza che nella fattispecie concreta ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406 direttamente interessato alla rimozione della recinzione de qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo;
- Rilevato, altresì, come il soggetto medesimo rivesta in concreto anche la natura di controinteressato in senso formale, ovvero agevolmente identificabile, essendo il mappale espressamente indicato nella planimetria allegata al provvedimento impugnato ed essendo, inoltre, richiamato nello stesso ricorso;
- Ritenuto pertanto che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, mentre le spese di lite possono essere compensate, tenuto conto di alcune oscillazioni giurisprudenziali in materia (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.10.2015 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Vincolo espropriativo, ok al rinvio dell'indennizzo.
Nel caso in cui il vincolo espropriativo si ricolleghi all'approvazione di un progetto preliminare è evidente che l'Amministrazione intende effettivamente eseguire l'intervento, per cui è legittimo che l'indicazione dell'indennizzo sia rinviata alle successive ordinarie fasi del procedimento espropriativo, e la motivazione è sufficiente allorché il provvedimento dia conto dell'interesse all'esecuzione dell'opera.

Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. del TAR Puglia-Bari con la sentenza 08.10.2015 n. 1290.
Un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (si veda: Consiglio di stato n. 1317/2015) sostiene che, invece, nell'ipotesi ordinaria di semplice reiterazione di un vincolo espropriativo decaduto è esigibile e doverosa l'esternazione da parte dell'Amministrazione dell'attualità delle ragioni d'interesse pubblico che la sorreggono, nonché dell'assenza di eventuali soluzioni alternative, e la previsione d'indennizzo, tale da rendere concreta e tangibile la volontà dell'Amministrazione di provvedere effettivamente alla realizzazione dell'opera pubblica.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi pugliesi, l'opera di viabilità pubblica, per la quale sarebbe stato necessario prenotare nuovamente con vincolo destinato all'esproprio alcune delle aree della ricorrente, non risultava inserita in un programma o piano di opere pubbliche, né oggetto di un progetto specifico.
E pertanto l'aver sottolineato la necessità di mantenere il vincolo su alcuni suoli che ne erano già gravati, in mancanza di iniziative specificamente programmate, risulta essere secondo i giudici baresi, solo una conferma della previsione di piano generale che attende di essere attuata e alla quale non hanno fatto seguito strumenti esecutivi. Perciò, alla luce dei principi sopra richiamati, la reiterazione dei vincoli avrebbe dovuto essere assistita da un motivazione rinforzata e circostanziata anche con riferimento all'aspetto economico dell'operazione di esproprio.
Ed, inoltre, nel caso di reiterazione di un vincolo ablatorio, la valutazione di soluzioni alternative implicanti una modifica dell'assetto precedentemente divisato finalizzata alla salvaguardia dell'interesse privato, è un'operazione doverosa (articolo ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).
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MASSIMA
Il ricorso è in parte fondato.
1. E’ infatti ormai acquisito in giurisprudenza il principio secondo il quale, “
[….] mentre nell'ipotesi ordinaria di semplice reiterazione di un vincolo espropriativo decaduto è esigibile e doverosa l'esternazione da parte dell'Amministrazione dell'attualità delle ragioni d'interesse pubblico che la sorreggono, nonché dell'assenza di eventuali soluzioni alternative, e la previsione d'indennizzo, tale da rendere concreta e tangibile la volontà dell'Amministrazione di provvedere effettivamente alla realizzazione dell'opera pubblica, nel caso in cui il vincolo espropriativo si ricolleghi all'approvazione di un progetto preliminare è invece evidente che l'Amministrazione intende effettivamente eseguire l'intervento, per cui è legittimo che l'indicazione dell'indennizzo sia rinviata alle successive ordinarie fasi del procedimento espropriativo, e la motivazione è sufficiente allorché il provvedimento dia conto dell'interesse all' esecuzione dell'opera" (C.d.S n. 1317/2015).
Nel caso in decisione, come fatto presente dalla ricorrente e non contestato dalle parti resistenti, l’opera di viabilità pubblica, per la quale sarebbe stato necessario prenotare nuovamente con vincolo destinato all’esproprio alcune delle aree della ricorrente, non risulta inserita in un programma o piano di opere pubbliche, né oggetto di un progetto specifico.
Ne consegue che
l’aver ribadito la necessità di mantenere il vincolo su alcuni suoli che ne erano già gravati, in mancanza di iniziative specificamente programmate, è solo una conferma della previsione di piano generale che attende di essere attuata da oltre trent’anni alla quale –è incontestato- non hanno fatto seguito strumenti esecutivi.
Per questo, alla luce dei principi sopra richiamati,
la reiterazione dei vincoli avrebbe dovuto essere assistita da un motivazione rinforzata e circostanziata anche con riferimento all’aspetto economico dell’operazione di esproprio.
Non è invece sufficiente –anzi appare tautologico perché così il Comune si limita a ribadire le scelte di PRG- l’aver posto a fondamento della decisione “la necessità di non sconvolgere la rete della viabilità primaria contemplata nel PRG e ritenuta necessaria per il corretto sviluppo urbanistico in via di evoluzione" unitamente al fatto che la realizzazione della previsione di PRG "potrebbe comportare il decongestionamento del traffico".
Il Comune infatti, lungi dal prevedere una possibile concreta alternativa all’esproprio, ha escluso in radice qualsiasi variante alla previsione di PRG ritenendo che, qualunque fosse, non sarebbe stata percorribile perché avrebbe comunque modificato la viabilità progettata nel PRG.
Si tratta all’evidenza di un ragionamento che enuncia un’ovvietà: ogni modifica dello status quo altera l’assetto precedente.
Ciononostante,
nel caso di reiterazione di un vincolo ablatorio, la valutazione di soluzioni alternative implicanti una modifica dell’assetto precedentemente divisato finalizzata alla salvaguardia dell’interesse privato, è un’operazione doverosa, che nel caso in esame è mancata del tutto.
Invece la motivazione in rassegna descrive un sistema viario in evoluzione e, senza spiegare se e quando i suoli della ricorrente saranno impiegati, ipotizza che la loro trasformazione potrebbe comportare un decongestionamento del traffico con benefici per la sicurezza stradale e con l’abbattimento delle emissioni inquinanti.
Si tratta anche in questo caso della mera enunciazione di finalità astratte, non già dell’esternazione dell’interesse pubblico concreto corrispondente hinc et inde al sacrificio nuovamente imposto alla ricorrente e, soprattutto, non altrimenti evitabile.
Deve pertanto disporsi l’annullamento della delibera del Consiglio comunale n. 106/2011 con effetto caducante della delibera della Giunta regionale n. 61/2013 che in essa ha il suo presupposto unico e necessario.

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Rifiuti, accessibili a pochi i formulari identificativi.
Non sono accessibili a chiunque ne faccia richiesta i formulari di identificazione dei rifiuti, di cui all'articolo 193 del dlgs. n. 152 del 2006 (codice dell'ambiente), compilati dal produttore, controfirmati dal trasportatore e dal destinatario. In quanto l'acquisizione di informazioni sulla tracciabilità dei rifiuti da parte di un'impresa possono essere rilevanti per motivi concorrenziali e per acquisire dati commerciali riguardanti la società concorrente e non per la tutela dell'integrità della matrice ambientale.

Questo è l'importante principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. III- con la sentenza 05.10.2015 n. 4636 e sentenza 05.10.2015 n. 4637 sull'accesso ai documenti ambientali.
L'accesso ai documenti ambientali (art. 5, dlgs 195 /2005) è possibile solo per gli che concernono esclusivamente lo stato dell'ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali ecc.) e i fattori che possono incidere sullo stato dell'ambiente (sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con l'esclusione di tutti i fatti e i documenti che non abbiano un rilievo ambientale.
L'art. 5 del dlgs 195/2005 prevede anche le ipotesi di esclusione dell'accesso all'informazione ambientale, che, fra l'altro, può essere negato nei casi di richieste manifestamente irragionevoli avuto riguardo alle finalità di garantire il diritto d'accesso all'informazione ambientale (lett. b del primo comma), ovvero espresse in termini eccessivamente generici.
In base alla predetta disciplina, sebbene l'accesso all'informazione ambientale possa essere esercitato da chiunque, senza la necessità di dimostrare uno specifico interesse, ciò non toglie che la richiesta di accesso non possa essere formulata in termini eccessivamente generici e debba essere specificamente formulata con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori o alle misure di cui ai numeri 2 e 3 dell'articolo 2 del dlgs 195/2005.
In conseguenza di quanto fotografato, l'istanza di accesso, pur se astrattamente riguardante un'informazione ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che l'interesse che intende far valere è un interesse ambientale, come qualificato dal dlgs 195/2005, ed è volto quindi alla tutela dell'integrità della matrice ambientale, non potendo l'ordinamento ammettere che di un diritto nato con specifiche determinate finalità si faccia uso per scopi diversi di tipo economico patrimoniale.
Nel caso di specie i formulari dei quali si è chiesto l'accesso attengono al trasporto dei rifiuti sanitari, i quali se non correttamente smaltiti possono arrecare pregiudizi all'ambiente (articolo ItaliaOggi del 25.11.2015).
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MASSIMA
4.- Al riguardo, si deve ricordare che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005, ha previsto un accesso facilitato (rispetto a quello disciplinato dall’art. 22 della legge n. 241 del 1990) per le informazioni “ambientali”, al fine di assicurare, per la rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile dei relativi dati.
L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005 prevede, quindi, un regime di pubblicità tendenzialmente integrale delle informazioni di carattere ambientale, sia per ciò che concerne la legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti legittimati all’accesso, e sia per il profilo oggettivo, prevedendosi un’area di accessibilità alle informazioni ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della legge n. 241 del 1990.
4.1.- Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 195 del 2005,
per informazione ambientale si intende qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente:
1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria, l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, le zone costiere e marine, la diversità biologica ed i suoi elementi costitutivi e le interazioni tra questi elementi;
2) fattori quali le sostanze, l'energia, il rumore, le radiazioni o i rifiuti, anche quelli radioattivi, le emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell'ambiente, che incidono o possono incidere sugli elementi dell'ambiente, individuati al numero 1);
3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente di cui ai numeri 1) e 2), e le misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi.

4.2.-
Le informazioni cui fa riferimento la citata normativa riguardante l’accesso concernono quindi esclusivamente lo stato dell’ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali etc.) ed i fattori che possono incidere sullo stato dell’ambiente (sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con l’esclusione di tutti i fatti ed i documenti che non abbiano un rilievo ambientale.
4.3.- L’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 prevede anche le ipotesi di esclusione dell’accesso all’informazione ambientale, che, fra l’altro, può essere negato nei casi di richieste manifestamente irragionevoli avuto riguardo alle finalità di garantire il diritto d'accesso all'informazione ambientale (lett. b del primo comma), ovvero espresse in termini eccessivamente generici.
5.- In base alla predetta disciplina,
sebbene l’accesso all'informazione ambientale possa essere esercitato da chiunque, senza la necessità di dimostrare uno specifico interesse, ciò non toglie che la richiesta di accesso non possa essere formulata in termini eccessivamente generici (Consiglio di Stato, Sez. VI, 16.02.2011, n. 996) e debba essere specificamente formulata con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori o alle misure di cui ai numeri 2 e 3 del citato articolo 2 del d.lgs. n. 195 del 2005 (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.05.2014, n. 2557).
In conseguenza,
l'istanza di accesso, pur se astrattamente riguardante un'informazione ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che l'interesse che intende far valere è un interesse ambientale, come qualificato dal d.lgs. n. 195 del 2005, ed è volto quindi alla tutela dell’integrità della matrice ambientale, non potendo l'ordinamento ammettere che di un diritto nato con specifiche determinate finalità si faccia uso per scopi diversi di tipo economico patrimoniale (Consiglio di Stato, Sez. V, 15.10.2009 n. 6339).
6.- Considerato che, nella fattispecie, la domanda di accesso formulata dall’appellante non si fonda su una preoccupazione circa lo stato di matrici ambientali ma è volta all’acquisizione di informazioni che possono essere rilevanti per l’impresa per motivi concorrenziali e per acquisire dati commerciali riguardanti la concorrente,
si deve ritenere corretto il diniego all’accesso formulato dall’Amministrazione resistente e ritenuto legittimo dal TAR per l’Abruzzo con la sentenza appellata.
Sebbene, infatti, i formulari dei quali si è chiesto l’accesso attengono al trasporto di rifiuti sanitari, che se non correttamente smaltiti possono arrecare pregiudizi all’ambiente, non per questo si può ammettere che il diritto di accesso disciplinato per il perseguimento di finalità ambientali possa essere utilizzato per finalità del tutto diverse (economico-patrimoniali) e con un inutile aggravio dell’attività dell’Amministrazione.

EDILIZIA PRIVATADistanze minime edifici: le norme sulle distanze tra edifici ex art. 9 d.m. 1444/1968 non si applicano ai lucernari.
A prescindere dall'ambito di operatività dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci”.
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.

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1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che “l’invocato articolo nove del D.M. n. 1444/1968 vincola le amministrazioni locali solo in sede di predisposizione della normativa urbanistica e comunque lo stesso non potrebbe trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux” .
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso di disporre convenzionalmente una distanza inferiore rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M. 02/04/1968 o dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto riguardo alla ratio della norma in questione, la stessa dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è dubbio come lo stesso non possa comunque trovare applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione, unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono semplici luci” (cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092; 30.04.2012 n. 6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013; 12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12 del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto irrilevanti ai fini odiernamente considerati.
Inammissibile si appalesa poi l'ulteriore profilo di censura, sviluppato nell'ambito del motivo in esame, con cui gli appellanti assumono che la sentenza avrebbe omesso di considerare che l'edificio che verrà ad essere costruito dalla Casa di Riposo avrà un'altezza, per il fronte prospiciente la loro proprietà, di metri 15,29 e che conseguentemente ai sensi dell'articolo nove del D. M. n. 1444/1968, nel caso in cui il tetto in questione non fosse qualificato come parete finestrata, si dovrebbe applicare la distanza pari all'altezza del fronte dell'edificio più alto.
Infatti, non avendo costituito motivo di impugnazione nel ricorso di primo grado, la doglianza non può essere proposta per la prima volta nell'odierna sede di appello.
A ciò aggiungasi che si tratta comunque di censura priva di fondamento, in quanto la maggiorazione della distanza fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza del fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9 , si applica evidentemente negli stessi casi in cui sono prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del medesimo articolo e, nel caso delle zone C, solo a pareti finestrate di edifici antistanti.
Il richiamato terzo comma, infatti, non prevede una ulteriore ipotesi distinta da quelle indicate dai commi precedenti, ma semplicemente una maggiorazione delle distanze “come sopra computate”, vale a dire nelle stesse ipotesi in cui i commi precedenti prevedono il rispetto di una determinata distanza tra fabbricati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.10.2015 n. 4628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: In generale, la qualifica di controinteressato in senso processuale richiede un requisito formale, dato dall’indicazione del nominativo nel provvedimento amministrativo, e un requisito sostanziale, costituito dalla “sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento della situazione attuale definita dal provvedimento stesso”.
L’autore di un esposto o di una segnalazione all’Amministrazione non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro l’annullamento in via di autotutela di un provvedimento amministrativo, anche se all’esposto e al suo autore la P.A. –come nel caso di specie- faccia esplicito riferimento nel provvedimento impugnato.
Infatti, l’annullamento adottato nell’esercizio del potere di autotutela è provvedimento emesso per il raggiungimento di finalità di pubblico interesse, rispetto alle quali vanno considerati estranei i soggetti autori di esposti o di segnalazioni, i quali potranno semmai intervenire volontariamente “ad opponenudum” nel giudizio non quali titolari di un interesse sostanziale alla conservazione dell’atto impugnato ma quali portatori di un interesse di mero fatto, mediato e riflesso.
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Una serie di circostanze di fatto, che questa Sezione si è fatta carico d’indicare nella motivazione della decisione, che non consentivano di equiparare la posizione del “soggetto segnalatore” “a quella del "generico vicino di casa", trattandosi invece di soggetto che lamenta la lesione del suo diritto di proprietà, che ha provveduto a denunciare presunti abusi edilizi realizzati a suo danno e che è stato chiamato ad esser parte dei procedimenti amministrativi conclusi con i provvedimenti impugnati”, e dovendosi ritenere applicabile “l’orientamento che distingue tra la posizione del "generico vicino di casa" e quella del "vicino che è stato danneggiato dalla esecuzione delle opere edilizie realizzate (...). Non si tratta ... di un vicino qualunque, ma di un soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà (...)"
.
Nella medesima prospettiva
si è affermato
che il vicino assume la veste di controinteressato quando –come nella vicenda all’esame- l'adozione del provvedimento sanzionatorio, recante comunque il nominativo del controinteressato, sia stata “non solo sollecitata da un esposto del vicino medesimo, ma anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 07.08.1990 n. 241) parimenti comunicante il nominativo del controinteressato predetto, dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello dell’attuale appellante), con la conseguente individuazione della posizione obbligatoriamente inclusa nel contraddittorio sia procedimentale che processuale”.
Ancora negli stessi termini
si è ritenuto che -a fronte di una “
complessa vicenda amministrativa [che] nasce e si interseca a seguito di un contenzioso tra privati in ordine alle distanze tra edifici confinanti”, nella quale i provvedimenti amministrativi che hanno condotto al giudizio sono stati adottati a seguito di denuncia da parte dei confinanti- questi assumano la veste di controinteressati se siano “non solo ben noti, in fatto, ai ricorrenti .... ma anche menzionati nei provvedimenti impugnati ovvero negli atti dei procedimenti che hanno preceduto i provvedimenti impugnati”.
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4.1. Con il primo motivo l’appellante sostiene che la motivazione della sentenza impugnata non sarebbe giuridicamente corretta.

In generale, la qualifica di controinteressato in senso processuale richiede un requisito formale, dato dall’indicazione del nominativo nel provvedimento amministrativo, e un requisito sostanziale, costituito dalla “sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento della situazione attuale definita dal provvedimento stesso”.
L’autore di un esposto o di una segnalazione all’Amministrazione non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro l’annullamento in via di autotutela di un provvedimento amministrativo, anche se all’esposto e al suo autore la P.A. –come nel caso di specie- faccia esplicito riferimento nel provvedimento impugnato.
Infatti, l’annullamento adottato nell’esercizio del potere di autotutela è provvedimento emesso per il raggiungimento di finalità di pubblico interesse, rispetto alle quali vanno considerati estranei i soggetti autori di esposti o di segnalazioni, i quali potranno semmai intervenire volontariamente “ad opponenudum” nel giudizio non quali titolari di un interesse sostanziale alla conservazione dell’atto impugnato ma quali portatori di un interesse di mero fatto, mediato e riflesso.

Nella specie non sarebbero ravvisabili posizioni di controinteresse in senso proprio; gli autori della segnalazione non sarebbero portatori di un interesse particolare e differenziato; a nulla rileverebbe in contrario che nella determinazione di annullamento in autotutela n. 14/2015 sia stato previsto di notificare il provvedimento anche ai signori Ro.Ma. e Ro.Da., e ciò anche se gli autori dell’esposto sono proprietari confinanti del destinatario del provvedimento di annullamento d’ufficio del titolo a edificare; la posizione dei signori Ro.Ma. e Da. risulta incisa solo in modo indiretto e riflesso dalla determina n. 14/2015 in quanto il provvedimento impugnato dinanzi al Tar è stato emanato nell’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione; l’esposto è una semplice notizia per l’Amministrazione, la quale attiva i poteri che l’Ordinamento le attribuisce.
Di qui la necessità di una pronuncia d’ammissibilità del ricorso di primo grado, e la conseguente riproposizione dei motivi non esaminati dal giudice di primo grado. Motivi di merito che sono fondati e meritano di essere accolti, con conseguente riforma della sentenza, accoglimento del ricorso di primo grado e annullamento dell’atto impugnato.
4.2. La tesi dell’appellante, in quanto applicata al caso in esame, non convince.
Va premesso che di recente la sezione (v. sentenza n. 3553 del 2015), pronunciandosi su una controversia contrassegnata dall’impugnazione, in primo grado, di un’ordinanza di demolizione e di ripristino di opere edilizie abusive (un “locale deposito e ampliamento garage”), e di atti presupposti di annullamento in autotutela di titoli edilizi in sanatoria, emanati a seguito di un esposto di un proprietario d’area adiacente, comproprietario di terreni destinati a corte comune, ha riformato la sentenza con la quale il Tar aveva giudicato ammissibile il ricorso, nonostante l’omessa notificazione dell’atto introduttivo all’autore dell’esposto, richiamando il principio giurisprudenziale per cui “
il vicino, anche se ha provocato interventi repressivi o in via di autotutela, non assume la veste di controinteressato nei ricorsi che il titolare della concessione edilizia promuove avverso provvedimenti di revoca e/o di annullamento d’ufficio (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6606 del 15.12.2011)”.
Questa Sezione, nel riformare la sentenza di primo grado dichiarando inammissibile il ricorso al Tar, ha sì riconosciuto come il principio richiamato nella decisione appellata sia effettivamente consolidato, e come la trasposizione alla materia edilizia dell’orientamento per cui la qualità di controinteressato, cui il ricorso, a pena d’inammissibilità, dev’essere notificato, come previsto dall’art. 41, comma 2, del cod. proc. amm., va riconosciuta soltanto a “chi dal provvedimento impugnato riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica, abbia indotto la giurisprudenza a statuire che in sede di impugnazione di provvedimenti sanzionatori "non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso" (Cons. St., sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Id., sez. VI, 18.04.2005, n. 1773; sez. V, 03.07.1995, n. 991)” (decisioni alle quali si potrebbero aggiungere le sentenze Cons. Stato, sez. III, n. 6138 del 2014 e sez. V n. 6074/2011 e –con specifico riguardo a una impugnazione di atto di annullamento d’ufficio di titolo edilizio- Tar Campania–Salerno, sez. I, n. 1981/2013-n. di est.).
Nella decisione n. 3553/2015
si è tuttavia rimarcato come nella specie la sentenza di primo grado non avesse tenuto conto di una serie di circostanze di fatto, che questa Sezione si è fatta carico d’indicare nella motivazione della decisione, che non consentivano di equiparare la posizione del “soggetto segnalatore” “a quella del "generico vicino di casa", trattandosi invece di soggetto che lamenta la lesione del suo diritto di proprietà, che ha provveduto a denunciare presunti abusi edilizi realizzati a suo danno e che è stato chiamato ad esser parte dei procedimenti amministrativi conclusi con i provvedimenti impugnati”, e dovendosi ritenere applicabile “l’orientamento che distingue tra la posizione del "generico vicino di casa" e quella del "vicino che è stato danneggiato dalla esecuzione delle opere edilizie realizzate (...). Non si tratta ... di un vicino qualunque, ma di un soggetto che ha un interesse qualificato a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un diritto di proprietà (...)" (Cons. St., sez. VI, 29.05.2007, n. 2742, concernente, come nella specie, un provvedimento in autotutela relativo ad una concessione edilizia in sanatoria).
Nella medesima prospettiva
si è affermato (Cons. St., sez. IV, 13.07.2011, n. 4233) che il vicino assume la veste di controinteressato quando –come nella vicenda all’esame- l'adozione del provvedimento sanzionatorio, recante comunque il nominativo del controinteressato, sia stata “non solo sollecitata da un esposto del vicino medesimo, ma anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 07.08.1990 n. 241) parimenti comunicante il nominativo del controinteressato predetto, dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello dell’attuale appellante), con la conseguente individuazione della posizione obbligatoriamente inclusa nel contraddittorio sia procedimentale che processuale”.
Ancora negli stessi termini
si è ritenuto che -a fronte di una “complessa vicenda amministrativa [che] nasce e si interseca a seguito di un contenzioso tra privati in ordine alle distanze tra edifici confinanti”, nella quale i provvedimenti amministrativi che hanno condotto al giudizio sono stati adottati a seguito di denuncia da parte dei confinanti- questi assumano la veste di controinteressati se siano “non solo ben noti, in fatto, ai ricorrenti .... ma anche menzionati nei provvedimenti impugnati ovvero negli atti dei procedimenti che hanno preceduto i provvedimenti impugnati” (Cons. St., sez. VI, 29.05.2012, n. 3212)….” (così, testualmente, e in modo condivisibile, Cons. Stato, sez. VI, n. 3553/2015, cit.).
Le sopra evidenziate circostanze di fatto che caratterizzano la vicenda in esame –ha concluso la sezione col recentissimo arresto- conducono a
considerare la sussistenza, con riguardo alla posizione dell’autore dell’esposto, “sia dell’elemento "sostanziale" (titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), sia dell’elemento "formale" (indicazione nominativa nel provvedimento e partecipazione procedimentale di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione)…, con conseguente riforma della sentenza e dichiarazione d’inammissibilità del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.09.2015 n. 4582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: C'è la multa nonostante i confini. Sentenza.
L'automobilista che incappa in una controllo dei vigili posizionati fuori dal centro abitato non può tentare di annullare la multa evidenziando l'incompetenza territoriale della polizia municipale. Dentro ai confini del comune infatti i vigili urbani hanno sempre licenza di multare i trasgressori alle regole stradali.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con la sentenza 23.09.2015 n. 18824.
Un utente motorizzato è stato fermato da una pattuglia di agenti baresi e sanzionato per eccesso di velocità. L'interessato ha proposto con successo doglianze fino al tribunale locale ma la Cassazione ha valorizzato l'attività degli operatori di vigilanza.
La competenza sanzionatoria della polizia municipale è estesa all'intero territorio comunale, indipendentemente dalla effettiva proprietà del tratto stradale interessato al controllo.
In pratica dunque a parte le autostrade la polizia locale può operare ovunque per la vigilanza stradale. Purché all'interno dei confini geografici dell'ente territoriale di propria competenza (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).
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MASSIMA
2.2 — Tanto premesso, il ricorso è fondato e va accolto con riguardo ad entrambi i motivi. Questa Corte ha avuto più volte occasione di pronunciarsi sulla competenza della Polizia Municipale, anche con riguardo all'accertamento delle infrazioni al Codice della Strada, affermando il condiviso principio di diritto, citato dallo stesso giudice, ma disatteso nella sua applicazione concreta, secondo cui la competenza della Polizia Municipale sussiste su tutto il territorio comunale, indipendentemente dall'Ente proprietario della strada.
Di recente tale principio è stato ribadito con la sentenza del 2012 n. 484, peraltro citata dallo stesso controricorrente (anche se probabilmente per errore, perché si fa riferimento ad una decisione interlocutoria di rinvio alla pubblica udienza, mentre con la sentenza in questione il ricorso è stato definito).
Tale sentenza chiarisce con ampia argomentazione la questione dibattuta. Per questo la relativa motivazione, pienamente condivisa dal Collegio, viene di seguito interamente trascritta: «Dalla sentenza impugnata emerge che la violazione è stata accertata sul tratto della SS n. 106 ricadente nel territorio del Comune di Riace.
Si tratta di stabilire se la polizia municipale avesse la competenza all'accertamento delle violazioni commesse su detto tratto di strada. Al quesito deve darsi risposta positiva.
Gli organi di polizia municipale, nel territorio di competenza, sono abilitati a compiere legittimamente la loro attività di accertamento istituzionale nell'ambito dell'espletamento dei servizi di polizia stradale, senza che abbia rilievo la circostanza relativa alla tipologia della strada che attraversa lo stesso, e quindi ben possono effettuare accertamenti e contestazioni di violazioni di norme del codice della strada anche quando il tracciato su cui si verifica l'infrazione sia una strada statale al di fuori del centro abitato.
In proposito va osservato quanto segue. A norma della L. n. 689 del 1981, art. 13, comma 3, "all'accertamento delle violazioni punite con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro possono procedere anche gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria". L'art. 57 c.p.p., indica fra gli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria "le guardie dei comuni", con competenza "nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza". Secondo la L. 07.03.1986, n. 65, art. 5 (recante la legge quadro sull'ordinamento della polizia municipale), il "personale che svolge servizio di polizia municipale", nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza, ha funzioni di polizia stradale (comma 1, lett. h), in correlazione con quanto stabilito dal codice della strada vigente, dovendosi ritenere rinvio formale e non recettizio quello contenuto in tale norma al codice della strada del 1959. In base al disposto della L n. 65 del 1986, art. 3, gli addetti al servizio di polizia municipale esercitano le loro funzioni istituzionali "nel territorio di competenza".
Questa disciplina generale, che identifica l'ambito territoriale di competenza della polizia municipale con il territorio comunale, e che caratterizza la polizia locale per la dimensione territoriale comunale di esercizio delle funzioni (Corte cost., sentenza n. 740 del 1988), trova un puntuale riscontro nell'art. 12 C.d.S., che al comma 1, lett. e), attribuisce l'espletamento dei servizi di polizia stradale "ai Corpi e ai servizi di polizia municipale, nell'ambito del territorio di competenza", ed è richiamata dall'art. 22 reg. esec. C.d.S. del 1992, il quale dispone, al comma 3, che "i servizi di polizia stradale sono espletati dagli appartenenti alle amministrazioni di cui all'art. 12, commi 1 e 2, del codice, in relazione agli ordinamenti ed ai regolamenti interni delle stesse".
L'art. 11, comma 3, che in materia di servizi di polizia stradale (inclusi la prevenzione e l'accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale) li demanda al Ministro dell'interno, con la sola salvezza delle attribuzioni dei Comuni per quanto riguarda i centri abitati, non attiene alla delimitazione della competenza della polizia municipale in materia di servizi di polizia stradale, ma alla direzione e predisposizione dei relativi servizi, come è fatto palese dall'ultima parte del comma, che riserva in ogni caso al Ministero il coordinamento dei servizi.
Gli agenti ed ufficiali di polizia municipale, pertanto, in conformità della regola generale stabilita dalla L. n. 689 del 1981, art. 13, in tema di accertamento delle sanzioni amministrative pecuniarie, in quanto organi di polizia giudiziaria con competenza estesa all'intero territorio comunale, hanno il potere di accertare le violazioni in materia di circolazione stradale punite con sanzioni amministrative pecuniarie in tutto tale territorio, anche, quindi, su strade statali al di fuori del centro abitato.
Ne deriva che, una volta stabilito che gli ufficiali e gli agenti della polizia municipale hanno tale potere nell'ambito dell'intero territorio comunale, gli accertamenti di violazioni del codice della strada da essi compiuti in tale territorio debbono ritenersi per ciò stesso legittimi sotto il profilo della competenza dell'organo accertatore, restando l'organizzazione, la direzione e il coordinamento del servi io elementi esterni all'accertamento, ininfluenti su detta competenza.
In questo senso il Collegio, nell'accogliere la censura, intende dare continuità all'indirizzo costante di questa Corte, espresso da Sez. 1, 01.03.2002, n. 3019, Sez. 2, 11.07.2006, n. 15688, Sez. 1, 19.10.2006, n. 22366, e da ultimo ribadito da Sez. 2, 28.04.2011, n. 9497 e n. 9498
».
Tali argomentazioni sono del tutto esaustive rispetto a quelle proposte dalle parti nell'odierno giudizio. Val solo la pena di ulteriormente osservare che il principio affermato con la sentenza riportata (peraltro non massimato), è stato ulteriormente confermato da questa Corte con la sentenza del 2014 n. 6432, di questa sezione, resa in un caso del tutto analogo, nonché anche dalla sentenza del 2013 n. 5023, della prima sezione, che ha affrontato il medesimo problema sotto altro profilo, giungendo alle medesime conclusioni.
In definitiva, occorre ancora una volta dare continuità all'orientamento ormai consolidato di questa Corte, secondo cui «
Rientra nei compiti della polizia municipale l'accertamento delle infrazioni al codice della strada consumate nel territorio comunale, anche se fuori del centro abitato, atteso che l'art. 11, terzo comma, cod. str. -che demanda al Ministero dell'interno i servizi di polizia stradale, con la sola salvezza delle attribuzioni dei comuni per quanto concerne i centri abitati- attiene alla direzione e predisposizione di tali servizi, nonché al loro coordinamento, ma non alla delimita ione delle competenze della polizia municipale, che è regolata dagli artt. 3, 4, primo comma, n. 3, e 5 della legge 03.07.1986, n. 65 con riferimento all'intero territorio dell'ente di appartenenza».

AMBIENTE-ECOLOGIASulle soglie di rumorosità «vince» l’azienda già attiva. No al blocco dell’esercizio, sì a nuovi sistemi di isolamento
Consiglio di Stato/1. No alle regole «residenziali» se le case sono state costruite dopo.
Non si possono imporre soglie di rumorosità fissate per le zone residenziali in aree dove sono già attive industrie, perché queste ultime non possono rispettarle e sono costrette a bloccarsi.
A chiarirlo è il Consiglio di Stato -sentenza 21.09.2015 n. 4405, IV Sez.-, annullando un piano di zonizzazione comunale che impediva l’esercizio di un impianto di potabilizzazione “a ciclo continuo” in un’area di interesse pubblico destinata anche ad attrezzature tecnologiche (“F2” per il Piano regolatore generale).
Per il gestore, il Comune, dopo l’«ok» alla riconversione di una confinante ex fabbrica in edificio residenziale, aveva risolto illegittimamente il conflitto tra zonizzazione urbanistica e acustica dell’area imponendovi classi antirumore diverse in base alla normativa sui “Valori limiti delle sorgenti sonore” (Dpcm 14.11.1997): in un’area dove ricadeva lo stabilimento quella fissata anche per le residenziali (III o “aree di tipo misto”); in un’altra quella anche per le piccole industrie (IV o “aree di intesa attività umana”).
In base alle norme, le “aree di tipo misto” sono «le aree urbane interessate da traffico veicolare locale o di attraversamento, con media densità di popolazione, con presenza di attività commerciali, uffici con limitata presenza di attività artigianali e con assenza di attività industriali; aree rurali interessate da attività che impiegano macchine operatrici», mentre le “aree di intensa attività umana” quelle con «(…) intenso traffico veicolare, con alta densità di popolazione, con elevata presenza di attività commerciali e uffici, con presenza di attività artigianali; le aree in prossimità di strade di grande comunicazione e di linee ferroviarie; le aree portuali, le aree con limitata presenza di piccole industrie».
Per i giudici, «il nodo problematico della vicinanza di una zona residenziale di nuovo insediamento, probabilmente effetto di una non lungimirante programmazione urbanistica locale, non può (…) essere affrontato a livello acustico imponendo all’attività industriale già esistente limiti di rumorosità propri delle zone residenziali, tali da determinarne la sostanziale impossibilità di esercizio, ma attraverso prescrizioni puntuali finalizzate all’adozione delle migliori tecnologie di isolamento acustico».
Nella specie, l’impianto «(…) deve considerarsi ai fini della zonizzazione acustica un’attività industriale, operando a ciclo ininterrotto per assicurare la continuità dei servizi, grazie all’ausilio di potenti macchinari inevitabilmente rumorosi. Essa non è dunque compatibile con la classe III, che invece è propria di un territorio mediamente urbanizzato in cui non esistono o non dovrebbero esistere attività industriali»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.11.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi. Bocciature, basta il voto numerico.
Il voto numerico è sufficiente per bocciare il candidato al concorso pubblico, senza ulteriori motivazioni. Il punteggio esprime la valutazione della commissione sulla prova, che è discrezionale e non può essere sindacata dal giudice, il quale non può sostituirsi agli esaminatori.

È quanto emerge dalla sentenza 16.09.2015 n. 11275, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lazio-Roma, che entra in tuttavia contrasto con le pronunce dello stesso tribunale capitolino, ad esempio sull'esame per diventare avvocati, secondo cui la mancanza di motivazione per la bocciatura è contraria ai principi Ue di imparzialità dell'azione amministrativa laddove non soddisfa i requisiti di trasparenza.
Niente da fare, dunque, per la ragazza che tentava di entrare al corso della scuola di un corpo militare. Il punteggio insufficiente attribuito alla sua prova scritta basta e avanza per respingerla all'esame (articolo ItaliaOggi del 28.11.2015).
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MASSIMA
- Considerato che il ricorso è incentrato esclusivamente sulla censura inerente il difetto di motivazione del voto numerico, in asserita violazione del generale obbligo di motivazione di ogni provvedimento amministrativo sancito dalla legge n. 241 del 1990;
- Considerato che le contestazioni sollevate dalla difesa di parte ricorrente in sede di discussione dell’istanza cautelare –dirette, in particolare, avverso il punteggio attribuito con riferimento al criterio III, anche in comparazione con gli elaborati di altri concorrenti– non sono state ritualmente proposte nel ricorso o trasfuse in motivi aggiunti;
- Ritenuto quindi, con riferimento alle censure ricorsuali ritualmente proposte, che deve aversi riguardo al costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, cui il Collegio ritiene di aderire, secondo cui
il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte o orali di un concorso pubblico esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione tecnica stessa, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.04.2012, n. 1939), ciò rispondendo, tra l'altro, a principi di economicità e proporzionalità dell'azione amministrativa;
Trattasi di principio definito "diritto vivente" dalla stessa Corte Costituzionale (sentenze 30.01.2009, n. 20, e 15.06.2011, n. 175), la quale ha sottolineato che -quando il criterio prescelto dal legislatore per la valutazione delle prove scritte nell'esame è quello del punteggio numerico, costituente la modalità di formulazione del giudizio tecnico-discrezionale finale espresso su ciascuna prova, con indicazione del punteggio complessivo utile per l'ammissione all'esame orale-
tale punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una sintetica valutazione che si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato, che non solo stabilisce se quest'ultimo ha superato o meno la soglia necessaria per accedere alla fase successiva del procedimento valutativo, ma dà anche conto della misura dell'apprezzamento riservato dalla commissione esaminatrice all'elaborato e, quindi, del grado di idoneità o inidoneità riscontrato;
Se, inoltre, il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione contemplati dalla disciplina di concorso, nella fattispecie in esame sono stati puntualmente indicati i criteri, dovendo inoltre rilevarsi che
il punteggio è soggetto al sindacato di legittimità del giudice amministrativo solo ad externo, non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, potendo tuttavia verificare la ricorrenza di vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili (Cons. Stato Sez. V, Sent., 03/06/2015, n. 2719), essendo le valutazioni espresse dalle commissioni di concorso, in relazione ai rispettivi e specifici ambiti di competenza, espressione di discrezionalità tecnica, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale soltanto per manifesta illogicità, violazione delle regole procedurali, travisamento dei fatti (Cons. Stato Sez. VI, 18.05.2015, n. 2505; Cons. Stato Sez. V, 06.05.2015, n. 2269; TAR Lazio, Roma, sez. III, n. 11127/2008);
- Considerato che tali profili non sono stati dedotti negli atti di parte ricorrente, potendo quindi la questione giuridica relativa alla sufficienza o meno del voto numerico a dare conto delle valutazioni espresse dalla commissione essere risolta attraverso il richiamo al ricordato consolidato orientamento della giurisprudenza formatasi sul punto;
- Ritenuto, quindi, che, in ragione delle illustrate considerazioni, preso atto della suscettibilità del ricorso ad essere immediatamente definito nel merito con sentenza e dato il relativo avviso alle parti, il ricorso deve essere rigettato stante l’infondatezza della censura con lo stesso proposta.

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di difesa prevale sul segreto.
Diritto di difesa batte segreto industriale. Quando sorge una controversia sulla procedura pubblica, l'azienda partecipante ha diritto ad accedere agli atti di gara della concorrente e la stazione appaltante non può rispondere picche, nonostante l'opposizione della controinteressata, secondo cui la sua offerta contiene informazioni riservate di natura commerciale.
E ciò perché le esigenze dell'altra azienda, che vuole vederci chiaro rivolgendosi al giudice, prevalgono su quelle di tutela dei dati tecnici relativi alla produzione.

È quanto emerge dalla sentenza 11.09.2015 n. 1467, pubblicata dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
Vantaggio competitivo
Accolto il ricorso dell'azienda che si è vista attribuire un punteggio di poco inferiore alla rivale. Sbaglia l'amministrazione a negarle sia pure parzialmente l'accesso all'offerta incriminata senza spiegare quale danno patirebbe l'impresa controinteressata con la diffusione delle informazioni richieste: riguardano infatti le caratteristiche dei prodotti che sono oggetto di istruttoria nella gara d'appalto.
Chi partecipa alle gare per aggiudicarsi servizi pubblici, d'altronde, deve accettarne le regole di trasparenza e imparzialità: prendere parte alla procedura implica che il segreto industriale o commerciale possa essere divulgato quando è impiegato per acquisire un vantaggio competitivo; mentre l'azienda che richiede l'accesso alle carte deve utilizzare i documenti acquisiti esclusivamente per la cura e la difesa dei propri interessi giuridici.
L'amministrazione paga le spese di giudizio all'azienda (articolo ItaliaOggi del 25.11.2015).
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MASSIMA
3. - Va esaminata prioritariamente la questione preliminare sollevata da Se. S.p.a.
Sostiene la controinteressata che Fa. S.p.a. aveva già richiesto l’accesso alla documentazione tecnica in data 28.08.2014; l’11.09.2014 l’Azienda Sanitaria Provinciale di Vibo Valentia aveva consegnato alla Fa. S.p.a. la documentazione tecnica de qua, oscurata nelle parti contenenti informazioni tecniche e commerciali riservate.
Alla reiterazione dell’istanza di accesso nel corso della seduta del seggio di gara del 13.05.2015, l’amministrazione avrebbe opposto un atto confermativo del precedente parziale diniego. Il ricorso sarebbe, dunque, inammissibile.
Il Collegio è di contrario avviso.
Secondo l’insegnamento del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2015, n. 1113, ma anche Cons. Stato, Sez. IV, 14.05.2015, n. 2439),
il termine previsto dalla normativa per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avverso le determinazioni dell'amministrazione sull'istanza di accesso, stabilito dall'art. 116 c.p.a. in 30 giorni dalla conoscenza del diniego o dalla formazione del silenzio significativo, è a pena di decadenza: di conseguenza, la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo; viceversa, quando il cittadino reiteri l'istanza di accesso in presenza di fatti nuovi non rappresentati nell'istanza originaria o prospetti in modo diverso la posizione legittimante all'accesso ovvero l'amministrazione proceda autonomamente ad una nuova valutazione della situazione, è certamente ammissibile l'impugnazione del successivo diniego, perché a questo non può attribuirsi carattere meramente confermativo del primo.
Orbene, nel caso di specie la Fa. S.p.a. ha reiterato l’istanza di accesso dopo che si erano verificati nuovi fatti (l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione della gara in favore della Se. S.p.a., la rinnovazione della gara, l’attribuzione alla ricorrente e alla controinteressata di punteggi non eccessivamente distanti tra di loro) e l’amministrazione ha rivalutato la richiesta, svolgendo una specifica istruttoria (consistita nel richiedere alla Se. S.r.l. la persistenza delle ragioni che l’avevano precedentemente indotta a opporsi all’ostensione dei documenti).
Il ricorso, dunque, è senza dubbio ammissibile.
4. - Esso è altresì fondato, e pertanto va accolto.
Le ragioni di tale decisione sono state già condivisibilmente esplicitate dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sede di Bari, in una decisione resa di recente tra le parti (TAR Puglia–Bari, Sez. I, ord. 23.12.2014, n. 1614).
In sostanza,
dal combinato disposto dei commi 5 e 6 dell’art. 13 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, emerge che, in via generale, in materia di affidamento di contratti pubblici, va riconosciuto il diritto di accesso a tutti gli atti di gara e che esso è consentito, se finalizzato all’esercizio del diritto di difesa, anche a quelle “informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte”.
Deve ritenersi, quindi, che nella comparazione tra il diritto di difesa e il diritto di riservatezza, la disciplina vigente dia prevalenza al diritto alla difesa, tant’è che la deroga al diritto di accesso risulta limitata alle informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle offerte “che costituiscono, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”.
Nel caso di specie, manca un’indicazione concreta, comprovata e comprensibile di quale possa essere il danno da divulgazione dei dati tecnici richiesti, pertinendo gli stessi a caratteristiche dei prodotti che devono poter essere oggetto di valutazione oggettiva nel quadro istruttorio di una gara pubblica.
La deroga all’accesso costituisce eccezione che va debitamente comprovata dall’interessato e indubbiamente non è idonea motivazione la circostanza che trattasi di elaborati costituenti opera dell’ingegno e contenenti informazioni e dati frutto del patrimonio di conoscenze ed esperienze aziendali.
Questi caratteri, infatti, sono propri dell’offerta tecnica di qualunque impresa e non giustificano di per sé il divieto di divulgazione.
In conclusione, il diritto di accesso agli atti di una gara di appalto deve essere riconosciuto anche quando vi è l’opposizione di altri partecipanti controinteressati per la tutela di segreti tecnici e commerciali, in quanto esso è prevalente rispetto all’esigenza di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale.
Peraltro, la partecipazione alle gare di appalto per pubbliche forniture comporta l’accettazione implicita da parte del concorrente delle regole di trasparenza ed imparzialità che caratterizzano la selezione, fermo restando l’obbligo tassativo per il richiedente l’accesso di utilizzare i documenti acquisiti esclusivamente per la cura e la difesa dei propri interessi giuridici.

Vi è, in altri termini, una inevitabile accettazione del rischio di divulgazione del segreto industriale o commerciale, ove quest’ultimo sia impiegato allo scopo di acquisire un vantaggio competitivo all’interno di una gara pubblica, proprio in dipendenza dei caratteri di pubblicità e trasparenza che assistono quest’ultima.
5. - Il ricorso va pertanto accolto, e le spese di lite debbono essere regolate tra le parti secondo il principio di soccombenza.

TRIBUTIPoste italiane, niente imposta di pubblicità.
Qualora le insegne d'esercizio installate dalla società Poste italiane siano inferiori, complessivamente, ai cinque metri quadrati, così come previsto per le attività commerciali e di produzione di beni e servizi, non sono soggette all'imposta di pubblicità.

Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza 23.08.2015 n. 106/1/15 emessa dalla Ctp di Sondrio.
Con un avviso di accertamento per l'anno d'imposta 2014, il comune di Aprica, in provincia di Sondrio, richiedeva l'imposta di pubblicità per le insegne d'esercizio recanti la scritta «Poste italiane».
L'imposta di pubblicità, istituita dall'articolo 5 del dlgs n. 507/1993, prevede una serie di riduzioni ed esclusioni dall'imposta. Per quanto concerne le insegne di esercizi commerciali e di produzione di beni e servizi, poi, la norma stabilisce l'esclusione per le insegne di superficie complessiva sino a cinque metri quadrati.
Si definisce insegna di esercizio la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli o da marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa attività.
Nell'atto presentato, la società Poste italiane, ricorrente, contestava il sistema di misurazione utilizzato dalla società Aipa, delegata all'accertamento e alla riscossione dal comune di Aprica; sosteneva anche l'esclusione dall'imposta dei cartelli imputati, e produceva in giudizio relazione tecnica e fotografie che dimostravano le dimensioni delle insegne, di superficie e consistenza inferiore ai cinque metri quadrati.
La Commissione ha ritenuto fondato il ricorso e ha annullato l'accertamento. «Il comma 1 dell'articolo 2-bis della legge n. 75 del 2002», osserva il Collegio, «ha esteso al canone per l'installazione dei mezzi pubblicitari la stessa disciplina che l'articolo 10 della legge 28.12.2001 n. 448
».
La norma in esame stabilisce che, analogamente a quanto previsto dal citato articolo 10 della legge n. 448 del 2001, il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva sino a cinque metri quadrati».
Dopo aver rilevato che la ricorrente ha prodotto in giudizio relazione tecnica e fotografie che attestano che la superficie complessiva delle insegne non supera i cinque metri quadrati, il Collegio provinciale ha accolto il ricorso e annullato l'accertamento.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con ricorso depositato in data 03/12/2014 la società Poste italiane spa, con sede in Roma impugnava l'avviso di accertamento emesso da Aipa spa e notificato in data 30/09/2014, avente a oggetto il pagamento dell'imposta comunale sulla pubblicità (comune di Aprica) per l'anno 2014, facendo presente che esso era palesemente illegittimo, in quanto erroneamente erano stati ritenuti soggetti a imposta di pubblicità le insegne di esercizio recanti la scritta «Poste italiane» in base a un procedimento di calcolo errato sella superficie fatto di arrotondamenti per singole fattispecie cartelli indicanti il marchio «POSTE ITALIANE», considerando che ai sensi del dlgs 507/1993 e successive integrazioni e modificazioni detti cartelli sono esclusi dall'imposta in questione.
La società Aipa non si costituiva in giudizio.
All'udienza del 07/07/2015 la Commissione ha deciso la controversia come da dispositivo.
Ritiene la Commissione che il ricorso sia fondato e meriti pertanto accoglimento.
E infatti, nella fattispecie in oggetto quanto contestato nell'avviso di accertamento risulta del tutto illegittimo, dato che le insegne pubblicitarie in questione, per la loro superficie complessiva che è inferiore ai cinque metri quadrati, non sono soggette all'imposta di pubblicità.
Infatti, il comma 1 dell'art. 2-bis della legge n. 75 del 2002 ha esteso il canone per l'installazione dei mezzi pubblicitari la stessa disciplina che l'art. 10 della legge 28.12.2001 n. 448 ha dettato per le insegne di esercizio di superficie fino a cinque metri quadrati. La norma in esame stabilisce che, analogamente a quanto previsto dal citato art. 10 della legge n. 448 del 2001, il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività commerciali e di produzione di beni e servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva fino a cinque metri quadrati».
La ricorrente ha, si ripete, prodotto in giudizio relazione tecnica e fotografie che dimostrano appunto che le insegne in questione non superano la superficie complessiva di cinque metri quadrati. Pertanto il ricorso va accolto con la compensazione delle spese tra le parti, tenuto conto che l'Aipa non si è costituita e quindi non ha contestato la fondatezza del ricorso.
PQM
La Commissione accoglie il ricorso e dichiara le spese del giudizio compensate tra le parti (articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015).

APPALTI: Caos sito, paga p.a..
L'informatica è un mezzo, non un fine, specie nel mondo dei lavori pubblici. L'offerta per partecipare all'appalto non risulta mai inviata nell'ambito della procedura informatica prescelta dall'amministrazione e l'impresa viene esclusa dalla gara. E invece no: i rischi del malfunzionamento della piattaforma, infatti, devono ricadere sulla stazione appaltante perché l'interesse pubblico è ampliare il più possibile la platea dei partecipanti alla procedura, all'insegna della libera competizione: quando si verifica un inconveniente, allora, la stazione appaltante deve mettere in campo il rimedio procedimentale del soccorso istruttorio.
È quanto emerge dalla sentenza 28.07.2015 n. 1094, pubblicata dalla I Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso dell'azienda estromessa dalla procedura anche se la sua offerta risulta depositata nei server della piattaforma informatica indicata per la gara. E la p.a. paga perché è nell'interesse organizzativo dello stesso ente rimediare a eventuali inconvenienti (articolo ItaliaOggi del 24.11.2015).
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MASSIMA
... nel merito, il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
La Pubblica Amministrazione non ha tenuto in adeguato conto il principio del favor partecipationis nonché il dovere, su di essa incombente, di leale cooperazione tra privato e P.A..
Deve anzitutto evidenziarsi in fatto che, come attestato dalla p.e.c. EmPulia del 22.05.2015, nel caso di specie, l’intera offerta della ricorrente -comprensiva sia della documentazione amministrativa, sia dell’offerta tecnica che di quella economica- risultava salvata sui server della piattaforma del sistema EmPulia, di cui il Comune di Molfetta si era avvalso per la gestione della parte telematica della ricezione delle domande.
Nel suo contenuto rilevante ai fini della gara in questione, la domanda era dunque pienamente entrata nella sfera di disponibilità della Pubblica Amministrazione e solo per una anomalia tecnica non altrimenti identificata la ricorrente non era riuscita a perfezionarne l’invio secondo le articolate modalità previste all’art. 20 del bando di gara.
Su una fattispecie del tutto assimilabile, il Consiglio di Stato ha di recente evidenziato che “
il rischio inerente alle modalità di trasmissione (della domanda di partecipazione a gara ndr.) non può far carico che alla parte che unilateralmente aveva scelto il relativo sistema e ne aveva imposto l’utilizzo ai partecipanti; e se rimane impossibile stabilire se vi sia stato un errore da parte del trasmittente, o piuttosto la trasmissione sia stata danneggiata per un vizio del sistema, il pregiudizio ricade sull’ente che ha bandito, organizzato e gestito la gara.” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 25.01.2013, n. 481).
Il Collegio ritiene di condividere integralmente questa impostazione giurisprudenziale,
evidenziando anzitutto, in linea generale, come le procedure informatiche applicate ai procedimenti amministrativi debbano collocarsi in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti fra privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni, nei reciproci rapporti.
Dalla natura meramente strumentale dell’informatica applicata all’attività della Pubblica Amministrazione
discende altresì il corollario dell’onere per la P.A. di doversi accollare il rischio dei malfunzionamenti e degli esiti anomali dei sistemi informatici di cui la stessa si avvale, essendo evidente che l’agevolazione che deriva alla P.A. stessa, sul fronte organizzativo interno, dalla gestione digitale dei flussi documentali, deve essere controbilanciata dalla capacità di rimediare alle occasionali possibili disfunzioni che possano verificarsi, in particolare attraverso lo strumento procedimentale del soccorso istruttorio (art. 46 D.Lgs. n. 163/2006 e art. 6 L. n. 241/1990).
L’essere entrata comunque in possesso della documentazione relativa all’offerta di gara caricata dalla ricorrente sui server di EmPulia imponeva alla Pubblica Amministrazione un onere di attivazione, volto a sanare, se del caso, le mere anomalie di invio che avevano reso impossibile la spedizione della domanda con le modalità previste dal bando, anche alla luce della significativa complessità di dette procedure di cui al già citato art. 20 del bando.
È infatti dato giuridico pacifico quello secondo cui debba prevalere “
la necessità di garantire, nelle gare pubbliche, la più ampia partecipazione possibile di concorrenti; tale principio generale è applicabile, in particolare, alle domande che, pur se con profili di difformità formale, rispetto alle prescrizioni del bando, risultino comunque oggettivamente idonee ad essere valutate dalla Commissione giudicatrice, stante l’obbligo di una leale cooperazione fra Amministrazione e concorrenti” (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2010, n. 3486).
In definitiva,
l’ampliamento della platea dei soggetti partecipanti alla gara deve essere considerato un interesse pubblico primario nelle procedure di evidenza pubblica e deve essere garantito a prescindere dalle problematiche tecnico informatiche in cui possa eventualmente cadere la singola domanda di partecipazione, in virtù di un onere di leale cooperazione rafforzato fra privato e P.A. che deve essere ravvisato ogni qualvolta quest’ultima si avvalga di mezzi informatici per la gestione, nel proprio interesse organizzativo, di dette procedure.
In conclusione, pertanto, il ricorso deve essere accolto, in quanto fondato nel merito delle censure svolte avverso i provvedimenti gravati.

TRIBUTIPertinenze, no Imu pur se accatastate a sé.
Le aree pertinenziali non sono autonomamente assoggettabili all'Ici (e oggi all'Imu), costituendo le stesse parte integrante del fabbricato cui sono asservite. Non rileva, all'uopo, il fatto che la pertinenza risulti accatastata separatamente, né tantomeno che il contribuente non abbia manifestato l'asservimento nell'apposita dichiarazione, necessitando solamente che il rapporto pertinenziale risulti dai fatti e dalla destinazione effettiva. Può ritenersi, quindi, sufficiente dimostrare che il terreno sia durevolmente asservito al fabbricato mediante recinzione in muratura (costituendone, in siffatto modo, giardino d'ornamento), circostanza che può comprovarsi mediante appositi riscontri fotografici da allegare in atti.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 24.07.2015 n. 414/04/15 della Ctp di Varese.
Il collegio tributario richiama l'articolo 2, comma 1, del dlgs n. 504/1992, secondo cui, ai fini Ici, per fabbricato si intende l'unità immobiliare, considerandosi parte integrante dello stesso l'area che ne costituisce pertinenza. Tale regola, si legge nella sentenza, vale anche per l'Imu, in quanto la nuova normativa richiama le disposizioni contenute nel citato articolo 2.
In tal senso, non può ritenersi fattispecie ostativa l'autonomo accatastamento del terreno, poiché la pertinenza si deve individuare secondo un criterio meramente fattuale, rispondendo alla definizione dettata dal codice civile, sotto l'aspetto oggettivo (articolo 817, comma 1, del codice civile, «sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o a ornamento di un'altra cosa»), e soggettivo (articolo 817, comma 2, «la destinazione può essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha un diritto reale sulla medesima»).
Non rilevano, dunque, le risultanze catastali, ma prevale la destinazione fattuale. Per la stessa ragione, neppure il fatto di non aver manifestato tale situazione (di pertinenza) nell'apposita dichiarazione Ici può precludere la riduzione fiscale.
Nel caso di specie, il giudice varesino ha ritenuto sufficiente l'analisi di una rassegna fotografica, da cui risultava che il terreno, affermato come pertinenza del fabbricato, fosse effettivamente ricompreso in un'unica recinzione muraria, rappresentando il giardino a ornamento dell'abitazione. L'avviso di accertamento emesso dall'ente comunale, quindi, è stato annullato, con condanna della parte soccombente al pagamento delle spese di giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione osserva che, ai sensi dell'art. 2, comma 1, dlgs 30/12/1992 n. 504 (istituzione dell'imposta comunale sugli immobili), «ai fini dell'imposta di cui all'art. 1 per fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza».
Secondo la disposizione richiamata le aree pertinenziali non sono dunque autonomamente assoggettabili a Ici, costituendo le stesse «parte integrante» dell'immobile principale a cui sono asservite.
Diventa quindi rilevante, ai fini della corretta applicazione dell'imposta, individuare esattamente le aree che possono essere considerate pertinenziali a un fabbricato.
[omissis] Eventuali disposizioni adottate dagli enti locali in merito all'individuazione e definizione delle fattispecie imponibili ai fini Ici, e in contrasto con la disciplina normativa vigente (nel caso di specie, il citato dlgs n. 504/1992), sono dunque da ritenersi illegittime. Ciò è stato confermato dalla corte di Cassazione, che ha avuto modo di occuparsi, più volte, dell'annoso problema dell'individuazione delle pertinenze ai fini Ici, e in particolare delle aree che devono essere considerate pertinenziali ad un fabbricato ai sensi dell'art. 2, comma 1, dlgs 504/1992.
In particolare, nella sentenza n. 15739/2007 la Suprema corte, in coerenza con un proprio consolidato orientamento, si è così espressa: «secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa corte, in tema di Ici, il dlgs 504 del 1992, art. 2, il quale esclude l'autonoma tassabilità delle aree pertinenziali, fonda l'attribuzione alla cosa della qualità di pertinenza sul criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra, senza che assume rilievo la distinta iscrizione in catasto della pertinenza e del fabbricato».
Le stesse regole valgono per l'Imu: infatti, nulla cambia con la disciplina della nuova imposta locale rispetto all'Ici, atteso che anche per l'Imu vengono richiamate le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. La Commissione osserva in sintesi che quando si tratta di pertinenza di un fabbricato, non contano le risultanze catastali mala destinazione di fatto.
Il rapporto pertinenziale deve emergere dallo stato dei luoghi: nel caso di specie l'effettiva e durevole destinazione dell'area a servizio o ornamento dell'abitazione è comprovata dalla rassegna fotografica agli atti, da cui risulta che il giardino è asservito al fabbricato in modo durevole, mediante recinzione in muratura. Occorre infine aggiungere che l'intassabilità del bene deve essere riconosciuta anche in assenza di esposizione nella dichiarazione iniziale, da parte del contribuente (articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015).

EDILIZIA PRIVATACome affermato dalla più recente giurisprudenza in materia, la lettera della disposizione ex art. 167, comma 4, dlgs 42/2004 e, soprattutto, la sua “ratio”, sono volte a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio che comporta la possibilità di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica, al fine di sanare interventi già realizzati, soltanto per gli abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene tutelato.
La disposizione in esame, pertanto, deve essere interpretata in coerenza con il suo tenore letterale che, come reso evidente dall’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o”, considera ostativa al conseguimento della sanatoria la circostanza che le opere realizzate in assenza di previa autorizzazione paesaggistica si caratterizzino (solamente) per l’avvenuta creazione di superfici utili.
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La giurisprudenza amministrativa ha precisato che in ambito paesaggistico la nozione di superficie utile deve essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.
In questo senso, il divieto di realizzare “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” si estende anche a quelli che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia (con riferimento anche ai volumi interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
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Nel caso di specie, appare evidente che la realizzazione di una tettoia sorretta da pilastri di ferro determina pienamente una nuova superficie utile, trattandosi di intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene protetto.

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Il ricorso è infondato alla stregua delle considerazioni che seguono.
L’art. 167 del D.Lgs. 22/01/2004, n. 42 -Codice dei beni culturali e del paesaggio– prevede al comma 4, che “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
.”
Come affermato dalla più recente giurisprudenza in materia (TAR Campania, Salerno, 03.03.2015, n. 468; TAR Liguria, sez. I, 14.03.2015, n. 281; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.08.2014, n. 2263) la lettera della richiamata disposizione e, soprattutto, la sua “ratio”, sono volte a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio che comporta la possibilità di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica, al fine di sanare interventi già realizzati, soltanto per gli abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene tutelato.
La disposizione in esame, pertanto, deve essere interpretata in coerenza con il suo tenore letterale che, come reso evidente dall’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o”, considera ostativa al conseguimento della sanatoria la circostanza che le opere realizzate in assenza di previa autorizzazione paesaggistica si caratterizzino (solamente) per l’avvenuta creazione di superfici utili.
Non colgono, dunque, nel segno le censure con le quali la ricorrente evidenzia l’avvenuta “conformazione” delle opere residuate dopo la demolizione disposta dal Comune (tettoia /veranda e modifiche alla recinzione della corte di pertinenza dell’immobile) alle comunicazioni edilizie del 12 gennaio e del 21.03.2011 a sensi della LR n. 4/2003, essendo tale rilievo del tutto inconferente nella fattispecie di causa, dove non è in contestazione la regolarità urbanistico-edilizia delle opere in questione, bensì la sussistenza dei presupposti per l’accertamento di compatibilità paesaggistica della tettoia costruita abusivamente in zona soggetta a vincolo.
Peraltro ciò è quanto emerge sia dall’impugnato provvedimento della Soprintendenza, nel quale è specificato che le opere non sono mai state autorizzate dalla Soprintendenza, sia da quanto espressamente dichiarato dalla parte ricorrente con riferimento alla nota del Comune n. 19558/2011, con la quale l’UTC comunale ha precisato che la tettoia/veranda, conforme a quanto previsto dall’art. 20 LR n. 472003, non costituisce superficie utile e volumetria valutabile “ai fini urbanistici/edilizi”, e non anche ai fini della compatibilità paesaggistica, tanto è vero che il Comune ha contestualmente richiesto il rilascio del nulla osta per cui oggi è causa.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha precisato che in ambito paesaggistico la nozione di superficie utile deve essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio (TAR Veneto, sez. II, 06.11.2014, n. 1367; TAR Molise, 19.12.2012, n. 761).
In questo senso, il divieto di realizzare “superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati” si estende anche a quelli che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia (con riferimento anche ai volumi interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
Nel caso di specie, appare evidente che la realizzazione di una tettoia sorretta da pilastri di ferro determina pienamente una nuova superficie utile, trattandosi di intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene protetto.
Pertanto, non sussistendo i presupposti previsti dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, il diniego di nulla osta paesaggistico aveva, nella fattispecie, carattere assolutamente vincolato; ciò che consente di respingere altresì la censura di difetto di motivazione (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che in altri procedimenti vi possa essere stata una non corretta valutazione delle opere sanate non legittima la pretesa alla ripetizione di una non corretta valutazione della compatibilità paesaggistica delle opere abusive, posto che, se anche l'Amministrazione avesse tenuto un comportamento illegittimo con riferimento ad altra fattispecie, non per questo deve ritenersi obbligata a continuare a tenere comportamenti illegittimi; né il destinatario del provvedimento di diniego può giovarsi delle illegittimità allo stato ancora non sanzionate commesse da altri.
Deve inoltre tenersi conto che quand'anche alcuni progetti possano sembrare simili tra loro, è in ogni caso diverso l’impatto che ciascuno di essi esercita sul paesaggio.
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Parte ricorrente lamenta, infine, disparità di trattamento, con particolare riferimento all'avvenuto rilascio di provvedimenti favorevoli di condono per manufatti simili ed ubicati nella medesima zona.
La doglianza è infondata.
La circostanza che in altri procedimenti vi possa essere stata una non corretta valutazione delle opere sanate non legittima la pretesa alla ripetizione di una non corretta valutazione della compatibilità paesaggistica delle opere abusive, posto che, se anche l'Amministrazione avesse tenuto un comportamento illegittimo con riferimento ad altra fattispecie, non per questo deve ritenersi obbligata a continuare a tenere comportamenti illegittimi; né il destinatario del provvedimento di diniego può giovarsi delle illegittimità allo stato ancora non sanzionate commesse da altri.
Deve inoltre tenersi conto che quand'anche alcuni progetti possano sembrare simili tra loro, è in ogni caso diverso l’impatto che ciascuno di essi esercita sul paesaggio (Cons. Stato, 11.09.2013, n. 4497; 05.03.2014, n. 1059; 01.04.2014, n. 1559) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 19.05.2015 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Non si può «rubare» il pianerottolo. Abusi edilizi. Negata la concessione in sanatoria.
Il condòmino che ha spostato abusivamente il portoncino d’ingresso della propria abitazione in corrispondenza del muro esterno, inglobando una porzione dell’andito antistante l’unità immobiliare di sua esclusiva proprietà, non può ottenere la concessione in sanatoria se non è in grado di dimostrare il diritto di proprietà esclusiva dello spazio incorporato.
È questo il chiarimento contenuto nella motivazione della sentenza 05.05.2015 n. 208 del TAR Friuli Venezia Giulia.
Nel caso in questione una condòmina, senza chiedere un permesso edilizio e il consenso degli altri condòmini, sposta il portoncino d’ingresso della propria abitazione in corrispondenza dell’antistante muro esterno del piccolo andito che conduceva al pianerottolo.
Successivamente la condòmina presenta domanda di condono dell’abuso edilizio ma riceve un netto rifiuto dal parte del Comune, che rilevava come lo spazio interessato dalle opere sia un bene comune condominiale: di conseguenza è costretta a rivolgersi al Tar per l’annullamento del provvedimento con cui le era stata negata la sanatoria.
Nel ricorso la condòmina, facendo leva sullo stato oggettivo dei luoghi, mette in evidenza come altri due condòmini abbiano collocato il portoncino d’ingresso in corrispondenza del muro esterno dell’andito, occupando parte del relativo spazio, per destinarlo all’uso esclusivo. In ogni caso la stessa condòmina ritiene decisivo il fatto che le quote millesimali relative agli appartamenti dei condòmini che hanno realizzato la sua stessa modifica non differiscono da quelle delle unità immobiliari dei restanti partecipanti che non hanno spostato l’ingresso.
Tutte queste considerazioni sono state ritenute irrilevanti dai giudici amministrativi, che respingono il ricorso. Secondo il Tar, infatti, l’andito è parte integrante del pianerottolo comune, di cui costituisce una continuazione, con la conseguenza che il condòmino titolare dell’appartamento che vi si affaccia può utilizzarlo in modo più intenso ma non può certo incorporarlo, neppure parzialmente nella proprietà esclusiva.
Il bene si presume comune salvo che il singolo condominio con titolo idoneo (ad esempio il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto o il regolamento condominiale «contrattuale», accettato da tutti nei rogiti di acquisto) dimostri di esserne titolare esclusivo o provi la destinazione dello spazio al servizio esclusivo del suo appartamento o dimostri di averlo posseduto in via esclusiva per il tempo necessario all’usucapione.
Al contrario, non è rilevante che altri condòmini abbiano commesso lo stesso abuso
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2015).
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MASSIMA
Il ricorso non è fondato.
L’art. 1117, comma 1, pt. 1), del c.c. stabilisce, invero, chiaramente che gli anditi “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo”.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha dimostrato in alcun modo di poter vantare la titolarità esclusiva dell’andito in questione, ma si è limitata unicamente a produrre documentazione atta a dimostrare che altri due condomini dell’edificio hanno occupato il relativo spazio, destinandolo ad uso esclusivo, a seguito del collocamento del portoncino d’ingresso in corrispondenza del muro esterno dell’andito. Non è dato, però, sapere quando e in base a quale titolo tale spostamento sia avvenuto.
Nulla prova, infatti, la circostanza –enfatizzata dalla ricorrente- che nelle tabelle allegate all’originario contratto di compravendita (rep. 4626 del 25.09.1962, notaio Cipolla) siano riportati gli stessi millesimi sia agli alloggi nei quali il portoncino d’ingresso è collocato all’esterno (unità immobiliari n. 22 e n. 58, rispettivamente del sesto e del quindicesimo piano dell’immobile) che a quelli nei quali è collocato all’interno dell’andito.
Anzi, il numero irrisorio di appartamenti che godono di questo spazio “aggiuntivo” rispetto alla pressoché totalità di unità immobiliari dello stabile ove il portoncino d’ingresso è collocato in corrispondenza del muro interno dell’andito induce unicamente a interrogarsi sulla “regolarità” o meno dell’intervento eseguito dai proprietari delle unità dianzi indicate e della conseguente occupazione da parte dei medesimi di uno spazio, di norma, comune e che, come si evince dagli elaborati progettuali prodotti, tale era stato concepito da chi aveva realizzato l’immobile, in quanto, al pari delle scale e relativi pianerottoli, costituente struttura funzionalmente essenziale del fabbricato.
Del pari, privi di pregio s’appalesano, inoltre, gli elementi sui quali la ricorrente richiama l’attenzione al fine di dimostrare la destinazione dell’andito a esclusiva pertinenza delle singole unità o l’invocato stato oggettivo dei luoghi, idoneo, a suo avviso, ad escluderne l’uso collettivo.
L’andito in questione non pare, infatti, avere specifica destinazione al servizio dell’appartamento di proprietà esclusiva che vi si affaccia, né essere stato posseduto dalla ricorrente per il tempo e il modo necessario all’usucapione.
Nulla prova, inoltre, il fatto che lo spazio sovrastante l’andito sia di proprietà esclusiva della ricorrente.
Vero è, invece, che
l’andito è tutt’uno col pianerottolo comune, di cui costituisce una continuazione/estensione, e i singoli proprietari delle unità immobiliari, pur realizzandovi un utilizzo più intenso rispetto agli altri condomini, non possono escludere il diritto di questi ultimi di farne parimenti uso e alterare la destinazione del bene stesso, laddove non dimostrino di averne titolo.
Nel caso di specie, tale prova non è stata, però, fornita. Sicché,
in mancanza di elementi idonei ad escludere l’operatività della presunzione di cui all’art. 1117 c.c., il diniego opposto non pare censurabile nemmeno laddove il Comune evidenzia la mancanza di qualsiasi consenso da parte degli altri condomini alla sottrazione, da parte della ricorrente, del bene in questione all’uso comune e al suo inglobamento all’interno dell’unità immobiliare di sua esclusiva proprietà.
Al riguardo, pare, infatti, sufficiente ricordare che,
ai sensi dell’art. 1118, comma 2, c.c. “il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”.
In definitiva,
gli anditi in questione non possono essere incorporati negli appartamenti di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in quanto tale incorporazione costituisce appropriazione del possesso esclusivo di una parte comune in danno degli altri condomini.
Sulla scorta delle considerazioni dianzi svolte, il ricorso va, dunque, rigettato.

URBANISTICA - TRIBUTILa lottizzazione richiede l’«attività» del cedente.
Terreni. Le differenze tra il caso in cui la destinazione edificatoria dipende dal Prg e quello in cui c’è un’azione del proprietario.

Non conta la pura e semplice divisione delle aree. La previsione secondo cui costituiscono redditi diversi le plusvalenze realizzate tramite lottizzazioni di terreni o l’esecuzione di opere intese a renderli edificabili e la successiva vendita dei terreni e degli edifici (articolo 67, comma 1, lettera a, del Tuir), si riferisce a quelle fattispecie in cui -conformemente alla nozione urbanistica di lottizzazione- si verifica non il mero frazionamento dei terreni, ma qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente dal frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione, contemporanea o successiva, di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale e, di conseguenza, comporti la predisposizione delle opere di urbanizzazione che occorrono per le necessità primarie e secondarie dell’insediamento.
È il principio affermato dalla Ctr Basilicata, Sez. 2, nella sentenza 04.05.2015 n. 331/2/15 (presidente Genovese, relatore Morlino).
La vicenda
In relazione a una compravendita di terreni oggetto di lottizzazione (perché interessati alla realizzazione di opere di urbanizzazione per un insediamento destinato a zona artigianale o industriale), l’ufficio accertava a carico del cedente una maggiore plusvalenza tassabile in base all’articolo 67, comma 1, lettera b), del Tuir, nel presupposto che l’operazione riguardasse un terreno suscettibile di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.
Il contribuente presentava ricorso al giudice tributario, affermando l’illegittima applicazione della lettera b), in luogo della lettera a) della stessa norma, perché l’operazione riguardava delle particelle interessate alla realizzazione delle opere di urbanizzazione richieste dalla destinazione artigianale/industriale della relativa area comunale e cioè di terreni lottizzati. Dopo un primo grado di giudizio favorevole alla società, l’ufficio proponeva appello.
La Ctr ha confermato le conclusioni dei giudici di primo grado, affermando che l’errata individuazione della norma applicabile alla fattispecie (cioè l’articolo 67, comma 1, lettera a), del Tuir e non la lettera b) dello stesso articolo) è tale da rendere nullo l’atto di accertamento notificato al contribuente.
Le due situazioni
I giudici d’appello hanno chiarito che la fattispecie prevista dalla lettera a), richiedendo la lottizzazione o l’esecuzione di opere intese a rendere edificabili i terreni, presuppone un comportamento attivo da parte del cedente, essendo a tal fine necessario che il venditore, prima dell’alienazione del terreno, abbia messo in atto una qualche attività di tipo tecnico diretta a rendere possibile la sua utilizzazione a scopo edificatorio.
Viceversa, la fattispecie prevista dall’articolo 67, comma 1, lettera b), del Tuir, disciplinando le plusvalenze realizzate tramite cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti, concerne quelle realizzate non in virtù di un’attività produttiva del proprietario o del possessore, ma per l’avvenuta destinazione edificatoria in sede di pianificazione urbanistica
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.11.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Il diritto di accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del diniego di accesso.
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I ricorrenti hanno formulato l’istanza di accesso per cui è causa nell’esercizio del munus pubblicum al quale sono stati eletti.
E, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non vede ragione per discostarsi, «i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale».
Il Tribunale ritiene nondimeno di ricordare che il diritto di accesso è individuale, sicché non può essere negato per il solo fatto di essere già stato accordato ad altro soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo.

... per l'annullamento della nota del Comune di Ovaro prot. n. 344/2015 del 09.01.2015 a firma del Responsabile dell'Ufficio, relativo a diniego di estrazione di copia di atti e documenti in assenza di motivazione, a seguito dell'accesso effettuato dal Consigliere comunale ai sensi dell'art. 43 D.Lgs. n. 267/2000;
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
Come ricordato dal patrocinio dei ricorrenti, il diritto di accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del diniego di accesso (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. I, ordinanza n. 1140/2015; TAR Puglia–Bari, Sez. II, sentenza n. 1664/2012).
Peraltro, i ricorrenti hanno formulato l’istanza di accesso per cui è causa nell’esercizio del munus pubblicum al quale sono stati eletti.
E, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non vede ragione per discostarsi, «i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale» (così, TAR Sicilia–Palermo, Sez. I, sentenza n. 77/2015; nello stesso senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 4525/2014).
La richiesta del Comune di motivare le ragioni della richiesta di copia dei documenti visionati, se pur formalmente non è atto di diniego, costituisce comunque atto lesivo delle prerogative dei consiglieri, e come tale legittimante la dispiegata azione.
Per quanto sopra esposto, l’atto è altresì illegittimo, essendo gli uffici comunali tenuti a fornire quanto richiesto dai consiglieri comunali.
Quanto alle altre circostanze rappresentate dalla difesa comunale nell’atto di costituzione, esse rappresentano una non consentita integrazione postuma del diniego e come tali sono irrilevanti (cfr., TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 1676/2014).
Il Tribunale ritiene nondimeno di ricordare che il diritto di accesso è individuale, sicché non può essere negato per il solo fatto di essere già stato accordato ad altro soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 2834/2014).
In definitiva il ricorso viene accolto, e per l’effetto si ordina al Comune di Ovaro di fornire ai consiglieri ricorrenti copia dei documenti di cui alla richiesta manoscritta di data 10.12.2014 (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 10.04.2015 n. 176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per costante giurisprudenza, l’acquiescenza a un provvedimento amministrativo, che ne preclude l'impugnazione, può essere ravvisata solo in presenza di una volontà univoca di accettarne gli effetti.
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La buona fede, intesa in senso etico come requisito della condotta, costituisce un cardine della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, violato non soltanto quando una delle parti agisce con dolo in pregiudizio dell’altra ma anche quando il comportamento non sia improntato alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale
.
In particolare nella fase che precede la formazione del vincolo contrattuale, sorgono in capo ai futuri contraenti specifici obblighi di lealtà e correttezza nello svolgimento delle trattative, i quali sono particolarmente valorizzati dalla giurisprudenza amministrativa nella costruzione dogmatica della responsabilità pre-contrattuale, per cui se l’amministrazione recede dalle trattative instaurate fino al punto di suscitare in capo all’impresa il legittimo affidamento nella conclusione del contratto, detta condotta contrasta con le regole di probità e diligenza di cui all’art. 1337 del c.c. e può generare un’obbligazione risarcitoria
.
Al contempo, anche l’interpretazione del contratto è governata dal principio di buona fede (art. 1366 del c.c.), come obbligo di lealtà che impone di non suscitare e non speculare su falsi affidamenti e non contestare ragionevoli aspettative generate nella controparte.
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L’istituto giuridico della presupposizione
viene definito come “obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde -integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro”.
Al di là delle possibili definizioni, la suddetta condizione implicita deve essere rigorosamente provata.
Anche questo Tribunale ha sottolineato che
per parlarsi di presupposizione si deve essere in presenza di un fatto considerato dalle parti come rilevante, seppur non enunciato in modo espresso nel regolamento contrattuale di che trattasi.

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... per l’accertamento DELLA DECADENZA DI U.C. ALBINOLEFFE DALLA CONCESSIONE PER L’UTILIZZO E LA GESTIONE DELLO STADIO “ATLETI AZZURRI D’ITALIA”, DI CUI ALLA CONVENZIONE STIPULATA TRA LE PARTI IL 07/02/2012;
e per l’annullamento  DELLA NOTA COMUNALE 29/06/2012, RECANTE IL NULLA OSTA ALL’UTILIZZO DELLO STADIO PREDETTO ANCHE PER LA STAGIONE SPORTIVA 2012/2013.
...
2. Deve, inoltre, essere affrontata l’eccezione in rito sollevata dalla controinteressata. La stessa ha in particolare dedotto l’inammissibilità del gravame per implicita rinuncia alla domanda presentata, dato che in occasione di una recente rizollatura del campo di gioco la Società ricorrente ha coinvolto Albinoleffe invitandola formalmente a confermare l’impegno a sostenere la metà del costo (nota 14/02/2013 – doc. 12), e dunque pretendendo l’attuazione dello stesso rapporto che in questa sede intende considerare sciolto.
L’eccezione è priva di fondamento.
2.1 Per costante giurisprudenza,
l’acquiescenza a un provvedimento amministrativo, che ne preclude l'impugnazione, può essere ravvisata solo in presenza di una volontà univoca di accettarne gli effetti (cfr. sentenza sez I – 28/12/2012 n. 2022).
Nella fattispecie, come correttamente ha rilevato la Società ricorrente, il sollecito è stato inoltrato “ferme restando le domande formulate e le azioni intraprese per accertare e dichiarare la decadenza di U.C. Albinoleffe S.r.l. dalla convenzione con il Comune di Bergamo per la gestione dello stadio”, per cui dal tenore dello scritto non può certo evincersi la volontà precisa ed univoca di condividere ed accettare la decisione del Comune di proseguire il rapporto concessorio con entrambe le Società.
3. Nel merito la pretesa è infondata.
L’azione giurisdizionale si fonda sui seguenti rilievi:
• la causa della concessione (di beni e servizi) risiede nello svolgimento dei campionati italiani di vertice (serie A e serie B), per cui il declassamento verificatosi è causa di inefficacia del rapporto instaurato;
• il corrispettivo è ancorato allo svolgimento delle competizioni in serie A e in serie B, ed è regolato il passaggio tra queste categorie, mentre la retrocessione in Lega Pro o in serie inferiori non è in alcun modo contemplata, circostanza che comprova l’estraneità alle finalità della concessione (diversamente opinando avremmo una concessione ad oggetto indefinito);
• la limitazione dell’uso dell’impianto obbedisce ad intuitive regole di esperienza e ragionevolezza, poiché il campo da gioco è performante se non ospita troppo frequentemente partite;
• l’interpretazione secondo buona fede e correttezza impone di ritenere che l’iscrizione in serie A o B sia il presupposto stesso della concessione, poiché rende possibile la prestazione di interesse pubblico per la quale è stata attribuita;
• il nulla osta comunale all’utilizzo dello stadio malgrado il declassamento –rilasciato senza coinvolgere la ricorrente– urta contro il canone pubblicistico del giusto procedimento e contro il principio civilistico per cui le clausole contrattuali possono essere modificate soltanto con il consenso di tutti i contraenti;
• Albinoleffe ha perso il titolo di preferenza perché non è squadra della città, e il Comune avrebbe dovuto al limite indire una procedura a evidenza pubblica per l’individuazione dell’ulteriore gestore.
3.1 Ritiene il Collegio utile, ai fini della decisione, soffermarsi proprio sul canone di buona fede invocato dalla parte ricorrente, recentemente approfondito dalla Sezione nella sentenza 18/04/2013 n. 363.
Nella pronuncia si afferma che <<
La buona fede, intesa in senso etico come requisito della condotta, costituisce un cardine della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, violato non soltanto quando una delle parti agisce con dolo in pregiudizio dell’altra ma anche quando il comportamento non sia improntato alla diligente correttezza e al senso di solidarietà sociale (Corte di Cassazione, sez. III civile – 11/02/2005 n. 2855).
In particolare nella fase che precede la formazione del vincolo contrattuale, sorgono in capo ai futuri contraenti specifici obblighi di lealtà e correttezza nello svolgimento delle trattative, i quali sono particolarmente valorizzati dalla giurisprudenza amministrativa nella costruzione dogmatica della responsabilità pre-contrattuale, per cui se l’amministrazione recede dalle trattative instaurate fino al punto di suscitare in capo all’impresa il legittimo affidamento nella conclusione del contratto, detta condotta contrasta con le regole di probità e diligenza di cui all’art. 1337 del c.c. e può generare un’obbligazione risarcitoria
(cfr. Consiglio di Stato, ad. plen. – 05/09/2005 n. 6).
Al contempo, anche l’interpretazione del contratto è governata dal principio di buona fede (art. 1366 del c.c.), come obbligo di lealtà che impone di non suscitare e non speculare su falsi affidamenti e non contestare ragionevoli aspettative generate nella controparte
>>.
3.2 In base alla convenzione stipulata dalle tre parti, il bene patrimoniale indisponibile è concesso in gestione a entrambe le Società fino ad un termine predeterminato, ossia il 30.06.2015. Nessuna clausola del testo sottoscritto contempla –quale motivo di risoluzione– la permanenza delle squadre nelle massime categorie del campionato italiano (serie A o serie B).
L’art. 3 del contratto, peraltro, nel collegare la risoluzione del rapporto al verificarsi di taluni eventi –sopravvenuti motivi di interesse pubblico, modifiche dello statuto sociale delle Società affidatarie del servizio, mutamento sostanziale non autorizzato dello scopo del contratto, casi di legge, scioglimento delle Società– nulla afferma a proposito dell’eventuale retrocessione di Albinoleffe (ovvero di Atalanta) in Lega Pro. La riflessione che consegue è l’impossibilità di aggiungere una causa ulteriore di risoluzione del vincolo negoziale oltre a quelle tassativamente previste dalla legge o dal contratto.
Né soccorre, a favore della prospettazione della ricorrente, la modalità di calcolo del corrispettivo –effettivamente determinato prendendo in considerazione la disputa del campionato di serie A ovvero di serie B– trattandosi della quantificazione del canone per l’utilizzo dell’impianto, che è stato ancorato alla situazione di fatto esistente al momento delle stipulazione (all’epoca Atalanta era in serie A e Albinoleffe in serie B).
3.3 La posizione illustrata dalla difesa di Atalanta evoca
l’istituto giuridico della presupposizione.
L’istituto viene definito come “obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde -integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 30/04/2012 n. 6612; sez. II civile – 20/12/2011 n. 27781).
Al di là delle possibili definizioni, la suddetta condizione implicita deve essere rigorosamente provata.
3.4 Anche questo Tribunale (cfr. sentenza sez. I – 26/03/2012 n. 478) ha sottolineato che
per parlarsi di presupposizione si deve essere in presenza di un fatto considerato dalle parti come rilevante, seppur non enunciato in modo espresso nel regolamento contrattuale di che trattasi.
Nella fattispecie, tuttavia, non affiora alcun elemento, anche indiziario, idoneo a rivelare una comune condivisione della clausola escludente correlata alla retrocessione in una serie inferiore alla “B”.
Non avalla siffatta conclusione il paventato utilizzo “eccessivo” del campo di gioco, dato che il numero di partite (con 2 squadre coinvolte) resta il medesimo se Albinoleffe disputa un campionato inferiore. Anche la dedotta estraneità di Albinoleffe dalla città di Bergamo appare superata dall’avvenuto trasferimento di sede autorizzato dalla FIGC con provvedimento presidenziale 05/06/2012.
Infine, l’invocato interesse pubblico all’espletamento della prestazione sportiva non è automaticamente vanificato dalla retrocessione in una serie inferiore, dato che la competizione cui partecipa una squadra vede mantenuto il coinvolgimento degli sportivi alla medesima affezionati.
3.5 Da ultimo, occorre sottolineare che il Comune ha dato conto del fatto che Albinoleffe ha sempre onorato gli impegni contrattualmente assunti, mentre le rimostranze espresse dall’Atalanta nella memoria finale (ove provate) potranno al più giustificare un’azione civilistica per la restituzione di quanto indebitamente corrisposto anche per la parte dovuta dalla controinteressata.
In secondo luogo, peraltro, in caso di estromissione il Comune beneficerebbe di introiti inferiori, dato che Atalanta ha manifestato una disponibilità generica a rinegoziare il contratto e ad integrare il canone, ma senza impegnarsi sul quantum (cfr. nota ricorrente 05/07/2012 – doc. 4 amministrazione).
In conclusione, la pretesa è infondata e deve essere respinta, cosicché viene meno l’interesse del Comune ad una pronuncia sulla domanda riconvenzionale proposta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 11.06.2013 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la gestione degli impianti sportivi, che rientrano nel patrimonio indisponibile del Comune: essi sono destinati ad un pubblico servizio –essendo finalizzati a soddisfare proprio l'interesse dell'intera collettività alle discipline sportive– e possono essere trasferiti nella disponibilità dei privati perché ne facciano un uso ben determinato solo mediante concessione amministrativa.
Con particolare riguardo alla concessione a terzi di uno stadio comunale, anche la Corte di Cassazione ha affermato che si tratta di un impianto che appartiene al patrimonio indisponibile del Comune ai sensi dell'art. 826, ultimo comma, del c.c., e di conseguenza –qualora sia messo a disposizione di privati con provvedimento autoritativo unilaterale per determinati usi– le controversie relative al rapporto concessorio restano devolute al giudice amministrativo.

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... per l’accertamento DELLA DECADENZA DI U.C. ALBINOLEFFE DALLA CONCESSIONE PER L’UTILIZZO E LA GESTIONE DELLO STADIO “ATLETI AZZURRI D’ITALIA”, DI CUI ALLA CONVENZIONE STIPULATA TRA LE PARTI IL 07/02/2012;
e per l’annullamento  DELLA NOTA COMUNALE 29/06/2012, RECANTE IL NULLA OSTA ALL’UTILIZZO DELLO STADIO PREDETTO ANCHE PER LA STAGIONE SPORTIVA 2012/2013.
...
La ricorrente censura la condotta assunta dal Comune di Bergamo, il quale avrebbe dovuto dichiarare la controinteressata decaduta dalla concessione per l’utilizzo e la gestione dello stadio “Atleti Azzurri d’Italia”.
1. La lite deve essere decisa da questo Tribunale.
Il rapporto tra l’Ente locale e le due Società sportive si configura, infatti, come
concessione di un bene pubblico (lo stadio di Bergamo), ed appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la gestione degli impianti sportivi, che rientrano nel patrimonio indisponibile del Comune: essi sono destinati ad un pubblico servizio –essendo finalizzati a soddisfare proprio l'interesse dell'intera collettività alle discipline sportive– e possono essere trasferiti nella disponibilità dei privati perché ne facciano un uso ben determinato solo mediante concessione amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 06/02/2013 n. 698, che ha affrontato una causa afferente ad impianti dedicati al nuoto).
1.1
Con particolare riguardo alla concessione a terzi di uno stadio comunale, anche la Corte di Cassazione (cfr. sez. unite civili – 23/07/2001 n. 10013) ha affermato che si tratta di un impianto che appartiene al patrimonio indisponibile del Comune ai sensi dell'art. 826, ultimo comma, del c.c., e di conseguenza –qualora sia messo a disposizione di privati con provvedimento autoritativo unilaterale per determinati usi– le controversie relative al rapporto concessorio restano devolute al giudice amministrativo (per un’applicazione concernente un impianto sportivo si veda anche TAR Puglia Lecce Sez. III, 22.04.2010, n. 977).
In verità, la Corte di Cassazione e il TAR Lecce hanno fatto applicazione del previgente art. 5, comma 1, della L. 06/12/1971 n. 1034, ma oggi una disposizione sostanzialmente analoga è racchiusa nell’art. 133, comma 1, lett. b), del Codice del processo amministrativo.
1.2 Nella specie affrontata, peraltro, l’atto di concessione ha pacificamente ad oggetto il bene pubblico “stadio” e non direttamente un servizio pubblico, come emerge dagli elementi essenziali della convenzione: la stessa prevede la fissazione di un canone variabile come corrispettivo per il bene dato in godimento e in gestione, impone alle concessionarie di provvedere alla custodia dell’impianto, nonché agli interventi di manutenzione ordinaria e alla cura del terreno di gioco, ed ammette infine l’autorizzazione a terzi a fini ricreativi (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. I – 29/04/2009 n. 358; a contrario TAR Lombardia Brescia, sez. II – 02/05/2012 n. 732, dove si è ravvisata una concessione di pubblico servizio in quanto l’attività equestre “da promuovere in tutti i suoi aspetti anche con iniziative di carattere educativo e sociale ed azioni mirate al recupero dei disabili (art. 1 convenzione) assume una rilevanza fondamentale e preponderante, mentre la messa a disposizione di mezzi e strutture è strumentale all’erogazione del servizio”) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 11.06.2013 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ noto che l’istituto della presupposizione trova applicazione in ambito privatistico, risolvendosi in una situazione (di diritto o di fatto) tenuta presente dai contraenti in sede di manifestazione del consenso come presupposto condizionante degli impegni assunti, pur in assenza di un riferimento testuale nelle clausole contrattuali.
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La società ricorrente lamenta l’indebita pretesa del Comune della somma di 2.182.424,28 € a titolo di costo di costruzione per gli interventi di realizzazione dell’interporto Bergamo-Montello.
1. Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione in rito sollevata dalla difesa comunale, la quale sostiene la sopravvenuta carenza di interesse alla definizione del gravame, a suo avviso unicamente focalizzato sulla mancanza del titolo di proprietà del terreno che è stato poi conseguito in forza del formale decreto di esproprio.
1.1 L’eccezione è infondata. Le doglianze di parte ricorrente ricoprivano un orizzonte più ampio, estendendosi al (prospettato) compito del Comune di verificare i requisiti di conformità tecnica e di fissare i termini di inizio e fine lavori, oltre al rispetto delle intese tra le parti che ad avviso di Sibem imponevano di concordare i profili tecnici e temporali di attuazione dell’intervento (comprese le modalità operative afferenti alla liquidazione del contributo di costruzione).
2. Nel merito, con ampio e articolato motivo di gravame la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della L. 241/1990 (in relazione all’accordo 02/10/2003), l’eccesso di potere per difetto dei presupposti, la contraddittorietà e violazione delle pattuizioni, dato che l’opera non poteva essere immediatamente realizzata senza la preventiva acquisizione della proprietà delle aree, e per questo l’intesa ha vincolato le parti a definire le modalità tecniche e temporali di attuazione degli interventi: ciò si evincerebbe anche dal promemoria 19/11/2003, per cui il Comune non poteva assumere alcun atto autoritativo ma doveva concordare i tempi di pagamento.
Si duole inoltre della violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 16 del D.P.R. 380/2001, dell’art. 19 della L.r. 9/2001, dell’art. 10 della L. 241/1990, dell’eccesso di potere per illogicità, dato che il legislatore regionale connette all’approvazione della Conferenza l’effetto sostitutivo di ogni titolo abilitativo, ma ciò non implica automaticamente la possibilità di dare corso alle opere programmate, e quindi l’insorgenza dell’obbligo di immediata corresponsione del contributo: l’art. 4 della L. 10/1977 (ed oggi l’art. 11 del DPR 380) stabiliscono che il permesso di costruire sia rilasciato a chi ha la disponibilità giuridica delle aree, e nella specie il soggetto promotore ne è privo; inoltre l’art. 19 della L.r. 9/2001 va coordinato con la normativa edilizia, e dunque occorre un successivo atto ricognitivo dell’amministrazione che prenda atto dell’utilizzabilità dei suoli e racchiuda le date di inizio ed ultimazione dei lavori (tenuto conto che il cronoprogramma fissa soltanto l’inizio – cfr. doc. 2).
Dette asserzioni sono parzialmente condivisibili.
2.1 In linea con quanto anticipato in sede cautelare (ordinanza n. 22/2005), ad avviso del Collegio la produzione degli effetti sostitutivi del permesso di costruire –sancita dall’art. 19 della legge regionale 9/2001– era ancorata alla realizzazione del presupposto di fatto della materiale disponibilità delle aree oggetto di intervento.
2.2 E’ certo infatti che l’art. 19, comma 7, della L.r. 9/2001 statuisce che “Il provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza di servizi sostituisce ad ogni effetto, le autorizzazioni, le concessioni, i nullaosta, i pareri e gli atti di assenso comunque denominati di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare, a detta conferenza, produce le eventuali variazioni agli strumenti urbanistici comunali difformi ed è immediatamente esecutivo”.
Al contempo, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 “
Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” (comma 1) mentre l’art. 12 dispone che “Il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”. L’art. 16, comma 1, infine prevede che … “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo”.
2.3 Dal complesso delle disposizioni richiamate si ricava che
la deliberazione della Giunta regionale 17/10/2003 n. 7/14644 ha realizzato l’effetto sostitutivo di tutti gli atti di assenso previsti dalla legge e necessari per l’adozione del provvedimento finale.
Nell’ottica dell’abbreviazione dei tempi procedimentali, la Conferenza di servizi cd. “decisoria" è un modulo procedimentale a paternità plurima che attua il principio del coordinamento all’interno del sistema amministrativo, rispondendo alle esigenze di celerità e concentrazione delle procedure.

Tuttavia
è incontroverso che al momento dell’adozione del provvedimento citato parte ricorrente non avesse ancora acquisito la proprietà delle aree, come del resto si evince dalla lettura del verbale della Conferenza (in particolare nel commento alla nota del Comune di Albano S. Alessandro e nelle prescrizioni).
2.4 Ebbene
detto evento è ad avviso del Collegio assimilabile ad una presupposizione.
E’ noto che l’istituto trova applicazione in ambito privatistico, risolvendosi in una situazione (di diritto o di fatto) tenuta presente dai contraenti in sede di manifestazione del consenso come presupposto condizionante degli impegni assunti, pur in assenza di un riferimento testuale nelle clausole contrattuali.
Nella fattispecie in esame, pur regolata dal diritto pubblico e dalle norme già richiamate, è evidente che l’assenza di un titolo giuridico in grado di legittimare il possesso delle aree necessarie per il compimento degli interventi precludeva l’adempimento di qualsiasi altra obbligazione assunta da Sibem. Il perfezionamento delle procedure espropriative era pertanto indispensabile per rimuovere un impedimento (giuridico e materiale) all’esecuzione delle opere.
Si deve affermare pertanto
, in ossequio ai principi di leale collaborazione e buona fede che connotano i rapporti tra soggetti pubblici e privati, che gli obblighi assunti da Sibem e trasfusi nell’accordo del 02/10/2003 fossero operativi a condizione che la sopravvenienza di circostanze impreviste (ossia gli ostacoli al regolare iter espropriativo) non sconvolgesse l’assetto di interessi (pubblici e privati) programmato con le procedure sino a quel momento intraprese.
3. Non sono viceversa degne di apprezzamento le ulteriori deduzioni della ricorrente.
L’evento dedotto nella condizione inespressa era l’unico in grado di paralizzare –in via eccezionale e provvisoria– l’efficacia degli impegni convenzionalmente assunti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 12.12.2012 n. 1940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAQuanto alla localizzazione dell’attività imprenditoriale di cui parte ricorrente è titolare, non può certo venire in considerazione –al fine di legittimare la sollecitazione del sindacato giurisdizionale– il criterio della c.d. vicinitas, ovvero dell’insistenza nel medesimo ambito geografico, sì da consentire la reazione in sede giurisdizionale avverso interventi suscettibili di immutarne la configurazione.
Tale criterio, come ampiamente noto,
è stato in giurisprudenza sviluppato –e costantemente affermato, sia pur con progressive puntualizzazioni del relativo ambito espansivo ai fini del riconoscimento della posizione legittimante– in materia edilizia ed urbanistica, al fine di riconoscere al soggetto insediato in un particolare contesto la facoltà di insorgere nei confronti dell’espansione dello jus aedificandi suscettibile di compromettere l’equilibrio dell’area.
Va osservato che anche gli orientamenti come sopra maturati in ambito urbanistico/edilizio (ai quali va, con evidenza, annesso un ampliamento delle potenzialità reattive in sede giurisdizionale, sull’unico presupposto dell’attualità dell’insediamento abitativo o produttivo all’interno di un particolare contesto topografico) hanno sottolineato come il criterio della vicinitas, seppur idoneo a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisca comunque gli ulteriori profili dell'interesse concreto all'impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata delle facoltà dominicali del ricorrente.
In tale contesto,
se pure all’acclarata configurazione del criterio stesso accede, secondo un insegnamento giurisprudenziale, l’esclusa immanenza di un onere di ostensione della prova in ordine all'effettività del danno subendo, deve, diversamente, rimarcarsi come maggiori profili di persuasività siano rinvenibili nel convincimento che valorizza, ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire, la dimostrata consistenza di una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Altrimenti,
una ampliata latitudine applicativa del medesimo criterio della vicinitas, finirebbe per veicolare l'introduzione di una azione popolare con riveniente esondazione della postulazione di tutela verso un modello di giurisdizione oggettiva: imponendosi, al contrario, la necessaria verifica in ordine alla sussistenza di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato del ricorrente, in considerazione del durevole rapporto esistente tra la sua proprietà e l'area interessata all'intervento e, conseguentemente, la dimostrazione di un pregiudizio concreto alle facoltà dominicali.
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Va escluso che possano trovare giuridica protezione posizioni la cui insorgenza trovi fondamento in una mera presupposizione, ovvero nella configurazione ex ante della persistenza di particolari condizioni (nella fattispecie: il casello autostradale di Dolo-Mirano) che avevano indotto la parte all’esercizio di attività negoziale (acquisto ed insediamento del complesso ricettivo-alberghiero).

La prospettazione di parte ricorrente evoca, appunto,
la figura civilistica della presupposizione, ovvero di quella situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione –pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali– dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde –integrandolo– all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.
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La sollecitazione del sindacato giurisdizionale
, esclusa la sottoponibilità all’adito organo di giustizia di una generalizzata ed indifferenziata controllabilità dell’operato della Pubblica Amministrazione, comunque postula la dimostrata esistenza e consistenza di una posizione giuridica qualificata e differenziata, nonché di un pregiudizio ad essa riveniente per effetto dell’esercizio del potere amministrativo.
Altrimenti, viene a delinearsi un modello di azione popolare, ovvero la configurazione di un controllo giurisdizionale di tipo oggettivo, che l’ordinamento conosce in fattispecie tassativamente delineate; e che è, con ogni evidenza, insuscettibile di esportazione alle controversie che, diversamente, necessitano di essere veicolate dalla obbligata ostensione di una posizione legittimante vivificata dalla dimostrata sussistenza/consistenza di un interesse soggettivizzato.

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1. Ciò preliminarmente posto, entrambi i riuniti ricorsi si rivelano inammissibili per carenza di legittimazione attiva.
Come evidenziato in narrativa, la ricorrente Rosa s.r.l. è titolare di un complesso ricettivo, alberghiero e di ristorazione posto nel Comune di Mirano, a ridosso della zona industriale di Mirano e Pianiga, lungo il tratto della viabilità ordinaria contigua al casello Dolo–Mirano della A4.
Nel sostenere che tale complesso sarebbe stato realizzato a seguito della verifica della permanenza del suindicato casello autostradale (ancorché nella nuova forma di barriera a seguito della realizzazione del Passante di Mestre), la parte si duole che, in sede di realizzazione del c.d. “Passante di Mestre”, l’originaria collocazione di una barriera all’altezza del preesistente casello di Dolo-Mirano avrebbe subito, nel quadro di sopravvenute modificazioni progettuali, una diversa collocazione: per l’effetto venendo a configurarsi una situazione suscettibile, in ragione dei mutati flussi di traffico, di condurre ad una contrazione del potenziale bacino di clientela.
In altri termini, l’atteggiarsi dell’interesse dalla ricorrente fatto valere in giudizio rivestirebbe valenza tendenzialmente “conservativa” (nella misura in cui le potenzialità recettive del complesso del quale la medesima è titolare sarebbero asseritamente compromesse per effetto del venir meno del casello, o quanto meno della barriera autostradale di che trattasi), con ricadute “oppositive” sulla ridelineata (ed avversata) ri-configurazione degli accessi al tratto viario in discorso.
Nel sostenere di mutuare
la propria posizione legittimante dalla circostanza di aver acquistato il suindicato complesso ricettivo solo in seguito alla (e per effetto della) verifica della permanenza del predetto casello autostradale (ancorché nella nuova forma di barriera), le modificazioni dell’originaria conformazione del tratto autostradale (a fronte delle quali il casello stesso non è previsto, con tramutamento del casello provvisorio di Vetrego in casello definitivo) determinerebbero, secondo la prospettazione di parte, un effetto decettivo sui potenziali flussi di clientela, cagionando –conseguentemente– un detrimento di carattere patrimoniale che la parte, appunto, ha inteso scongiurare opponendosi alle modificazioni della regolamentazione degli accessi al tratto autostradale di che trattasi.
Appare evidente, dai sintetizzati tratti che connotano l’affermata posizione legittimante di Rosa s.r.l., che la parte evoca, a fondamento della sostenuta presenza di un interesse giuridicamente qualificato:
- non soltanto una situazione di mero fatto (rappresentata dalla collocazione del complesso ricettivo in un particolare tratto del percorso autostradale);
- ma anche l’insorgenza di un pregiudizio, ricongiunto alla modificata collocazione del casello, rispetto al progetto originario, che si rivela, peraltro, affatto indimostrato.
Quanto alla localizzazione dell’attività imprenditoriale di cui parte ricorrente è titolare,
non può certo venire in considerazione –al fine di legittimare la sollecitazione del sindacato giurisdizionale– il criterio della c.d. vicinitas, ovvero dell’insistenza nel medesimo ambito geografico, sì da consentire la reazione in sede giurisdizionale avverso interventi suscettibili di immutarne la configurazione.
Tale criterio, come ampiamente noto, è stato in giurisprudenza sviluppato –e costantemente affermato, sia pur con progressive puntualizzazioni del relativo ambito espansivo ai fini del riconoscimento della posizione legittimante– in materia edilizia ed urbanistica, al fine di riconoscere al soggetto insediato in un particolare contesto la facoltà di insorgere nei confronti dell’espansione dello jus aedificandi suscettibile di compromettere l’equilibrio dell’area.
Nel rilevare come, quanto alla dedotta vicenda contenziosa, non venga in considerazione un interesse siffatto –atteso che le doglianze ampiamente articolate dalla parte ricorrente si diffondono, oltre che sulla sostanza del potere commissariale nella fattispecie esercitato, anche su presunte illegittimità alla base delle modificazioni progettuali del tracciato autostradale oggetto di contestazione– va osservato che anche gli orientamenti come sopra maturati in ambito urbanistico/edilizio (ai quali va, con evidenza, annesso un ampliamento delle potenzialità reattive in sede giurisdizionale, sull’unico presupposto dell’attualità dell’insediamento abitativo o produttivo all’interno di un particolare contesto topografico) hanno sottolineato come il criterio della vicinitas, seppur idoneo a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisca comunque gli ulteriori profili dell'interesse concreto all'impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e documentata delle facoltà dominicali del ricorrente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.01.2011 n. 485 e 29.12.2010 n. 9537).
In tale contesto,
se pure all’acclarata configurazione del criterio stesso accede, secondo un insegnamento giurisprudenziale, l’esclusa immanenza di un onere di ostensione della prova in ordine all'effettività del danno subendo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.08.2010, n. 5819), deve, diversamente, rimarcarsi come maggiori profili di persuasività siano rinvenibili nel convincimento che valorizza, ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire, la dimostrata consistenza di una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Altrimenti,
una ampliata latitudine applicativa del medesimo criterio della vicinitas, finirebbe per veicolare l'introduzione di una azione popolare con riveniente esondazione della postulazione di tutela verso un modello di giurisdizione oggettiva: imponendosi, al contrario, la necessaria verifica in ordine alla sussistenza di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato del ricorrente, in considerazione del durevole rapporto esistente tra la sua proprietà e l'area interessata all'intervento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2009 n. 7490) e, conseguentemente, la dimostrazione di un pregiudizio concreto alle facoltà dominicali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.01.2011 n. 485).
2. Se la breve rassegna di orientamenti in materia urbanistico/edilizia, della quale si è precedentemente dato conto, persuade della persistente obbligatorietà dell’indagine sull’interesse concreto dalla parte deducibile in giudizio –e, con esso, in ordine alla consistenza ed attualità del pregiudizio lamentato a fronte di una situazione giuridica soggettiva della quale la parte stessa vanti la titolarità– la medesima sistematica interpretativa induce ad escludere che, quanto alla posizione (pretesamente) legittimante della quale Rosa s.r.l. assume di essere destinataria, sia ammissibile l’evocazione della tutela giurisdizionale.
Innanzitutto,
va escluso che possano trovare giuridica protezione posizioni la cui insorgenza trovi fondamento in una mera presupposizione, ovvero nella configurazione ex ante della persistenza di particolari condizioni (nella fattispecie: il casello autostradale di Dolo-Mirano) che avevano indotto la parte all’esercizio di attività negoziale (acquisto ed insediamento del complesso ricettivo-alberghiero).
La prospettazione di parte ricorrente evoca, appunto,
la figura civilistica della presupposizione, ovvero di quella situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione –pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali– dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde –integrandolo– all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. III, 25.05.2007 n. 12235).
L’insediamento e l’avvio di un’attività imprenditoriale in una particolare collocazione topografica lungo il tracciato del Passante, infatti, avrebbe fatto seguito all’affidamento (peraltro non ingenerato da alcuna formale determinazione della competente Amministrazione; ma fondato su un’elaborazione progettuale che quest’ultima, al ricorrere dei necessari presupposti, ben avrebbe potuto, successivamente, modificare) in ordine alla persistenza del suindicato casello autostradale:
- non soltanto ingenerando un affidamento nella “stabilità” dell’organizzazione dei flussi di accesso al tracciato viario
- ma determinando, anche, una (inespressa) condizione alla prestazione del consenso al momento del perfezionamento degli atti negoziali prodromici alla realizzazione del complesso ricettivo di che trattasi.
Se le ragioni precedentemente esposte potrebbero legittimare eventuali reazioni in sede civile (al ricorrere, ovviamente, dei necessari presupposti),
non è invero riconoscibile in capo all’odierna parte ricorrente alcuna titolarità di azione a contestare nella presente sede giurisdizionale, sull’esclusivo fondamento sopra descritto, la diversa collocazione dell’accesso autostradale di che trattasi.
E ciò non soltanto in quanto la mera localizzazione dell’insediamento alberghiero in prossimità dell’ex casello non integra, ex se riguardata, la titolarità di alcuna posizione giuridicamente tutelabile ai fini della sollecitazione del sindacato giurisdizionale (dovendosi, in proposito, richiamare quanto esposto al precedente punto 1.), ma anche in ragione della omessa ostensione di alcun corredo dimostrativo in ordine al pregiudizio che la parte risentirebbe per effetto della mutata collocazione del casello di che trattasi.
Il lamentato detrimento di carattere commerciale riveniente dallo spostamento del casello stesso, viene infatti a collocarsi nel quadro di una prospettazione meramente assertiva, priva di alcun conforto, anche meramente indiziario, in ordine alla consistenza del pregiudizio che la parte si limita –invero, apoditticamente– ad allegare, fuori dall’assolvimento di un (invece necessario) onere probatorio.
3. Se quanto precedentemente esposto persuade il Collegio della carenza di legittimazione attiva della parte, ulteriori ragioni asseverative dell’esposto convincimento sono argomentabili dall’esclusa configurabilità di una posizione legittimante al ricorso nel quadro di una mera verifica di legittimità dell’operato dell’Amministrazione.
È appena il caso di rammentare come
la sollecitazione del sindacato giurisdizionale, esclusa la sottoponibilità all’adito organo di giustizia di una generalizzata ed indifferenziata controllabilità dell’operato della Pubblica Amministrazione, comunque postuli la dimostrata esistenza e consistenza di una posizione giuridica qualificata e differenziata, nonché di un pregiudizio ad essa riveniente per effetto dell’esercizio del potere amministrativo.
Altrimenti, viene a delinearsi un modello di azione popolare, ovvero la configurazione di un controllo giurisdizionale di tipo oggettivo, che l’ordinamento conosce in fattispecie tassativamente delineate; e che è, con ogni evidenza, insuscettibile di esportazione alle controversie che, diversamente, necessitano di essere veicolate dalla obbligata ostensione di una posizione legittimante vivificata dalla dimostrata sussistenza/consistenza di un interesse soggettivizzato.

Che parte ricorrente, fuori dalla dimostrata configurabilità di un interesse della specie, abbia inteso invece promuovere un sindacato sulla latitudine espansiva del potere pubblico relativamente alla regolamentazione dei flussi di accesso/uscita sul tratto autostradale in discorso, è dimostrato –ad ulteriore comprova della già rilevata insussistenza di un interesse individualizzato e giuridicamente tutelabile– dagli ultimi sviluppi offerti dalla vicenda contenziosa all’esame.
Con memorie per entrambi i ricorsi depositate in giudizio il 12.05.2012, l’Avvocatura Generale dello Stato ha esposto che:
- il 10.06.2011 la Commissione statale VIA–VAS ha espresso parere favorevole sulla nuova soluzione progettuale riguardante il casello di Dolo–Pianiga, con abbandono dell’originaria previsione dell’arretramento della barriera di Mestre–Villabona;
- a tale parere non ha tuttavia fatto seguito la localizzazione urbanistica dell’opera, in ragione dell’avvio di un complessivo riesame della viabilità dell’area, anche in considerazione di nuovi interventi infrastrutturali progettati e/o programmati dalla Regione Veneto e da ANAS.
- il Ministero dell’Ambiente, con proprio parere, ha recepito il parere della Commissione VIA–VAS relativo al progetto preliminare della “Nuova Romea”;
- il Commissario delegato ha conferito al Contraente Generale incarico al fine di predisporre un progetto preliminare per uno svincolo che preveda la realizzazione delle sole direttrici da e per Mestre/Venezia, all’interno di aree già di competenza autostradale (tale “semisvincolo”, in particolare, dovrebbe risultare affiancato “funzionalmente” all’esistente casello di Vetrego; e consentire una “razionalizzazione” dei flussi in ingresso ed in uscita dalla A57, nel tratto compreso fra Roncoduro e Vetrego.
A fronte delle (pur succintamente) illustrate sopravvenienze, parte ricorrente, nell’insistere per l’invio a decisione delle controversie come sopra riunite, ha nondimeno escluso che l’interesse ai ricorsi sia venuto meno; o, in ogni caso, che la ridelineazione, in fieri, dell’assetto viario dell’area potesse consentire ulteriori approfondimenti, preordinati alla verifica di ragionevoli profili di preservazione delle ragioni patrimoniali che la parte stessa ha asserito essere state sacrificate per effetto della ridelineata allocazione degli accessi autostradali.
Nell’escludere che possa darsi ammissibilmente ingresso ad una postulazione che pretenda, sulla base di un indimostrato (e, forse, indimostrabile) pregiudizio, il mantenimento dell’originaria collocazione di un casello, la rivendicata persistenza di interesse dimostra la postulazione di una posizione pretensiva alla sindacabilità delle scelte dell’Amministrazione di carattere generale/organizzativo (sia pure con riferimento alla regolazione degli accessi autostradali nel tratto viario in esame): alla quale, fuori dalla dimostrata immanenza di un interesse giuridicamente apprezzabile, l’ordinamento non può fornire tutela.
La richiesta sindacabilità di un complesso di interventi (di carattere necessariamente generale) aventi ad oggetto la disciplina/regolamentazione dei flussi di traffico veicolare nel quadro di una pluralità di direttrici stradali strettamente interconnesse, postula infatti, come precedentemente osservato, l’esistenza e l’immanenza dell’interesse alla sollecitazione del controllo giurisdizionale –necessariamente parametrata sulla (e perimetrata dalla) sussistenza/consistenza del pregiudizio del quale la parte assume di essere portatrice– che nel caso di specie la parte non ha in alcun modo corredato di conforto dimostrativo: precludendo quindi, inevitabilmente, l’ammissibilità del pur sollecitato sindacato nell’adita sede giudiziale.
4. Le condotte considerazione inducono il Collegio a ribadire l’anticipato convincimento in ordine alla carenza, in capo alla parte ricorrente, della necessaria posizione legittimante ai fini della sollecitazione del sindacato giurisdizionale: alla quale, inevitabilmente, accede la declaratoria di inammissibilità dei riuniti ricorsi (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 14.06.2012 n. 5478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVINella prevalente giurisprudenza anche di legittimità, la presupposizione viene definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde integrandolo all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.
Al di là delle possibili definizioni, la suddetta condizione implicita deve essere provata.

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11. Con l'ottavo motivo i ricorrenti deducono il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. e il vizio di omessa motivazione in relazione al fatto che il giudice di appello non si sarebbe pronunciato sul motivo di appello avente ad oggetto la nullità del contratto per difetto di causa in applicazione dell'istituto della presupposizione sul rilievo che le parti si sarebbero determinate a contrarre sul presupposto della non edificabilità dei terreni e neppure si sarebbe pronunciato sulla richiesta di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta. 12.
Nella prevalente giurisprudenza anche di legittimità, la presupposizione viene definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde integrandolo all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (v. Cass. 23/09/2004 n. 19144; Cass., 04/03/2002, n. 3052).
Al di là delle possibili definizioni, la suddetta condizione implicita deve essere provata, mentre nel caso di specie non esiste alcuna prova in merito alla presupposizione e pertanto il motivo è inammissibile perché il ricorrente non ha interesse al rilievo della mancata pronuncia sulla presupposizione, inoltre implicitamente rigettata dal giudice di appello il quale ha escluso che fosse dimostrato che le parti non avrebbero concluso il contratto se avessero avuto cognizione della edificabilità della particella (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.04.2012 n. 6612).

URBANISTICA: E’ infondato il secondo motivo di ricorso, incentrato su un presunto superamento delle clausole della convenzione urbanistica conclusa fra la ricorrente e il Comune a seguito della decisione, assunta nella competente sede ministeriale, di non realizzare il nuovo Palazzo di giustizia.
In tal senso,
la ricorrente invoca, se pure senza nominarlo, l’istituto, di creazione dottrinale e giurisprudenziale, della cd. presupposizione, secondo il quale si dovrebbe ritenere che un accordo contrattuale non è più vincolante allorquando muti il complesso delle circostanze la cui supposizione, pur non dedotta nella manifestazione negoziale, sia stata determinante nella decisione di concluderlo.
Nel caso di specie, il contratto in questione sarebbe la scrittura privata autenticata Notaio ... 17.10.2001 rep. n. 63802 racc. n. 28061, con le successive integrazioni e modificazioni;
la presupposizione che modificandosi lo avrebbe caducato, almeno quanto alla previsione dei parcheggi, sarebbe appunto la sorte del progetto del nuovo edificio giudiziario.
Al riguardo, peraltro, è sufficiente osservare che
per parlarsi di presupposizione si deve essere in presenza di un fatto considerato dalle parti come rilevante, ma non enunciato in modo espresso nel regolamento contrattuale di che trattasi.

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... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza 07.06.2010 n. 101/10 prot. n. 19241/10, con la quale il Dirigente dello settore sportello unico servizi edilizia del Comune di Mantova ha ordinato fra gli altri alla odierna ricorrente di non effettuare i lavori di cui alla d.i.a. 01.04.2010, consistenti in opere di nuova costruzione di un edificio con autorimessa interrata e tre piani fuori terra con destinazione d’uso residenza speciale all’interno del comparto C2/2 del piano particolareggiato “Fiera – Catena”;
...
6. Il ricorso è peraltro infondato nel merito. Di esso, è infondato anzitutto il primo motivo, fondato su una lettura dell’art. 5 delle NTA al PRG che, in sintesi estrema, dopo la scadenza dell’efficacia di un piano attuativo, rimette alla volontà dei privati interessati la scelta dei servizi da realizzare nell’area interessata. Tale lettura, ad avviso del Collegio, risulta infatti non condivisibile.
Come detto in narrativa, l’art. 5 citato prevede che alla scadenza del relativo termine di efficacia “le aree comprese nei piani attuativi sono soggette alle disposizioni dettate per la zona omogenea di appartenenza, fatte salve le prescrizioni per le infrastrutture ed i servizi” (v. per il testo completo doc. 5 Comune, estratto NTA). Si tratta allora di interpretare tale disposto.
7. In proposito, è allora noto che dottrina e giurisprudenza applicano anche all’atto amministrativo le regole relative alla interpretazione negoziale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., in quanto le stesse siano espressione di principi logici, prima che giuridici: sul punto, in generale si veda C.d.S. sez. VI 10.01.2007 n. 37.
Risultano in particolare applicabili i canoni di cui all’art. 1367, per cui l’atto nel dubbio va interpretato nel senso in cui possa avere qualche effetto, anziché in quello in cui non ne avrebbe alcuno, e di cui all’art. 1369, per cui l’atto va inteso nel senso ritenuto più conveniente alla propria natura e al proprio oggetto: su tale ultimo punto, v. sempre la citata C.d.S. 37/2007.
8. Applicando tali principi al caso di specie, si deve allora affermare in primo luogo che l’art. 5 delle NTA in parola prevede una sorta di ultrattività dei piani attuativi, i quali, quand’anche sia scaduto il termine di legge previsto per la loro efficacia, sono tenuti per fermi dallo strumento urbanistico di livello superiore quanto alle previsioni di “infrastrutture” e di “servizi”.
In proposito, si deduce allora secondo logica che tale previsione sarebbe del tutto inutile se si volesse interpretare come rinvio alla generale potestà del Comune di localizzare in una data area servizi pubblici; essa invece, per avere un significato, va riferita a servizi già individuati nella loro particolarità, i quali non possono che essere quelli già a suo tempo previsti dal piano attuativo, in ossequio alla regola dell’art. 1367 c.c..
9. Al medesimo risultato si perviene poi, come correttamente evidenziato dalla difesa del Comune (memoria 22.10.2010, p. 9, terzo paragrafo, anche per altra via, ovvero ricordando che il potere di pianificazione rispetto ai servizi pubblici medesimi spetta in prima battuta al Comune –oppure, in casi particolari qui non ricorrenti, all’ente territoriale di livello superiore- e non certo al privato.
Sarebbe pertanto assurdo, e in tal senso contrario alla regola dell’art. 1369, ritenere in via interpretativa che tale potere passi in mano al privato per il mero fatto della scadenza di validità di uno strumento attuativo, e consenta in tal caso al privato stesso una libera scelta in ordine ai servizi da realizzare.
Deve pertanto tenersi ferma la necessità di realizzare nell’area in questione i servizi previsti dal pregresso piano attuativo, tra i quali 9.300 mq di parcheggi, costituenti come detto in narrativa la quota minima prevista (cfr. doc. 3 Comune, cit.).
10. E’ a sua volta infondato il secondo motivo di ricorso, incentrato su un presunto superamento delle clausole della convenzione urbanistica conclusa fra la ricorrente e il Comune a seguito della decisione, assunta nella competente sede ministeriale, di non realizzare il nuovo Palazzo di giustizia.
In tal senso,
la ricorrente invoca, se pure senza nominarlo, l’istituto, di creazione dottrinale e giurisprudenziale, della cd. presupposizione, secondo il quale si dovrebbe ritenere che un accordo contrattuale non è più vincolante allorquando muti il complesso delle circostanze la cui supposizione, pur non dedotta nella manifestazione negoziale, sia stata determinante nella decisione di concluderlo.
Nel caso di specie, come ben si comprende, il contratto in questione sarebbe la scrittura privata autenticata Notaio Nicolini 17.10.2001 rep. n. 63802 racc. n. 28061 (doc. 7 Comune, cit.), con le successive integrazioni e modificazioni;
la presupposizione che modificandosi lo avrebbe caducato, almeno quanto alla previsione dei parcheggi, sarebbe appunto la sorte del progetto del nuovo edificio giudiziario.
11. Al riguardo, peraltro, è sufficiente osservare che
per parlarsi di presupposizione si deve essere in presenza di un fatto considerato dalle parti come rilevante, ma non enunciato in modo espresso nel regolamento contrattuale di che trattasi: in tal senso, per tutte, Cass. civ. sez. II 18.09.2009 n. 20245.
Ciò non ricorre nel caso di specie, in cui, come si è detto in narrativa, le parti hanno espressamente preso in esame il punto, ed hanno convenuto, in buona sostanza, che la realizzazione ovvero non realizzazione del Palazzo di giustizia si considerasse irrilevante sull’assetto di interessi previsto dalla convenzione, e in particolare sulla necessità di realizzare la quota minima di parcheggi.
Tale è, all’evidenza, il senso della clausola già riportata per cui “la superficie lorda del Palazzo di giustizia è stimata in fase di pianificazione in mq 40.000, ma le previsioni relative a tale opera pubblica, seppure necessariamente produttive di effetti rispetto alle edificazioni da realizzare nel comparto C/2, sono escluse dalla presente convenzione e rinviate a successive determinazioni comunali”, clausola seguita, come evidenziato in premesse, dall’obbligo di realizzare comunque i più volte citati 9.300 mq di spazi parcheggio, previsti appunto come quota minima nel piano attuativo (cfr. sempre doc. 3 Comune, cit.) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2012 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La "presupposizione" è configurabile quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso -pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali- come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.
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Orbene, l'interpretazione del contratte), consistendo in un'operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un'indagine di fatto riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche, che deve essere specificamente indicata in modo da dimostrare -in relazione al contenuto del testo contrattuale- l'erroneo risultato interpretativo cui per effetto della predetta violazione è giunta la decisione, che altrimenti sarebbe stata con certezza diversa la decisione: la deduzione deve essere, altresì, accompagnata dalla trascrizione integrale del testo contrattuale in modo da consentire alla Corte di Cassazione, che non ha diretto accesso agli atti, di verificare la sussistenza della denunciata violazione decisività.
Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati: occorre ricordare che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l'interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).
Nella specie, il ricorso difetta di autosufficienza laddove non e trascritto il testo integrale del contratto, non specifica il canone interpretativo violato in relazione alle singole clausole e non dimostra il diverso risultato interpretativo al quale si sarebbe con certezza pervenuti ove fossero state rispettati i criteri ermeneutici: come si è detto, le doglianze si risolvono nella formulazione di una soggettiva interpretazione del contratto in contrapposizione con quella accolta dalla sentenza impugnata.
D'altra parte, la sentenza ha correttamente escluso che potesse configurarsi nella specie l'istituto della presupposizione, avendo ritenuto -come si è detto- che il rilascio della concessione era stato dalle parti previsto quale oggetto della obbligazione posta a carico del committente, atteso che
la "presupposizione" è configurabile quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso -pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali- come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.
Pertanto,
non si configura la "presupposizione" in un contratto di fornitura e posa in opera di materiali con riferimento all'ipotesi di mancato rilascio della concessione edilizia, ove tale situazione di diritto presupposta sia stata espressamente prevista e sia stato posto nell'accordo stesso a carico del committente un preciso obbligo di attivarsi per ottenerla (Cass. 19144/2004) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, civile, sentenza 20.12.2011 n. 27781).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza pacifica, "sono realizzabili con denuncia di inizio attività (D.I.A.) gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti dell'immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall'art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001, che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari, o modifiche del volume, sagoma, prospetti e superfici, e per i quali è necessario il preventivo permesso di costruire".
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Secondo la giurisprudenza di questa Corte la "sanatoria prevista dall'art. 37 del DPR 06.06.2001 n. 380 può essere chiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività (DIA), previsti dall'art. 22, commi primo e secondo, del DPR citato e non è estensibile anche agli interventi edilizi di cui al comma terzo della richiamata disposizione per i quali la DIA si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cd. super DIA), applicandosi in tale ultima ipotesi la sanatorio mediante procedura di accertamento di conformità di cui all'art. 36 del medesimo DPR".

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3) Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1) I Giudici di merito hanno accertato (sul punto concorda anche la sentenza di primo grado) che le opere realizzate in difformità del progetto approvato consistevano in un diverso posizionamento dei pilastri, in quanto ai confini ovest e nord risultava inferiore ai cinque metri dal confine, ed in un ampliamento del piano interrato con aumento della superficie (cfr. pag. 1 sent. Trib. e pag. 3 sent. app.).
Sulla base di tale accertamento in fatto la Corte territoriale, disattendendo le conclusioni cui era inopinatamente pervenuto il primo giudice, ha, correttamente, escluso che siffatte "difformità" fossero assentibili con una DIA in corso d'opera.
L'art. 22, comma 2, DPR 380/2001 stabilisce, invero, che "sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività le varianti a permesso di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire".
Ma, nel caso di specie, sia per l'aumento della superficie del piano interrato che per il diverso posizionamento del fabbricato in violazione delle distanze minime previste dallo strumento urbanistico, non era consentito il ricorso al regime autorizzatorio della DIA.
Per giurisprudenza pacifica, "sono realizzabili con denuncia di inizio attività (D.I.A.) gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti dell'immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dall'art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001, che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari, o modifiche del volume, sagoma, prospetti e superfici, e per i quali è necessario il preventivo permesso di costruire" (cfr. ex multis Cass. pen., sez. 3, 23.01.2007 n. 1893).
Altrettanto ineccepibilmente la Corte territoriale ha ritenuto che non potesse neppure farsi ricorso alla DIA in sanatorio ex art. 37 DPR 380/2001.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, la "sanatoria prevista dall'art. 37 del DPR 06.06.2001 n. 380 può essere chiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività (DIA), previsti dall'art. 22, commi primo e secondo, del DPR citato e non è estensibile anche agli interventi edilizi di cui al comma terzo della richiamata disposizione per i quali la DIA si pone quale titolo abilitativo alternativo al permesso di costruire (cd. super DIA), applicandosi in tale ultima ipotesi la sanatorio mediante procedura di accertamento di conformità di cui all'art. 36 del medesimo DPR" (cfr. ex multis Cass. pen., sez. 3, n. 28048 del 19.05.2009).
E si è visto come l'intervento realizzato in difformità del progetto autorizzato non fosse assentibile con DIA (ai sensi dei commi 1 e 2 dell'art. 22 cit.) sia per l'aumento della superficie del piano interrato che per il diverso posizionamento dei pilastri.
Ha rilevato, infine, la Corte territoriale, da un lato, che l'eliminazione postuma delle difformità non escludeva la configurabilità dell'illecito e, dall'altro, che anche per la sanatoria ex art. 37, comma 4, DPR 380/2001 è, comunque, necessario che "l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.11.2011 n. 47437 - udienza).

URBANISTICALe clausole inserite in un contratto stipulato per atto pubblico o in forma pubblica amministrativa, ancorché si conformino alle condizioni poste da uno dei contraenti, non possono considerarsi come “predisposte” dal contraente medesimo ai sensi dell’art. 1341 cod. civ. e, pertanto, pur se vessatorie, non richiedono approvazione specifica per iscritto, in quanto la particolare forma contrattuale rivestita dall’accordo esclude la necessità di una approvazione siffatta.
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Le restanti questioni concernono l’invocata risoluzione della convenzione. Sennonché,
quanto alla c.d. “presupposizione”, non trova riscontro alcuno la tesi secondo cui l’accordo era stato stipulato sulla base dell’inespressa condizione del non verificarsi dell’ipotesi dell’ampliamento della “tangenziale” fino ad invadere l’area di ubicazione dell’impianto; al contrario, la previsione di cui all’art. 7 della convenzione evidenzia come di una simile eventualità si fosse tenuto conto, regolandone gli effetti.
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... per la declaratoria di nullità ed inefficacia dei patti n. 5, 6 e 7 della convenzione stipulata tra il Comune di Parma e la società ricorrente in data 08.02.2001, rep. n. 33358;
- di risoluzione, anche per eccessiva onerosità, della convenzione suindicata;
- per l’annullamento della determinazione dirigenziale n. DD/2005-458 del 01.03.2005, recante la fissazione dell’indennità provvisoria di esproprio;
- del decreto di esproprio n. 69573 in data 13.05.2005 dell’area individuata al NCT di S. Lazzaro P.se al fg. 33, mapp. 19 e 23, finalizzato alla realizzazione del progetto di svincolo a livelli sfalsati con la via Budellungo.
...
Allo scopo di conseguire il titolo edilizio necessario alla temporanea realizzazione di un impianto di distribuzione di carburante in via Budellungo di S. Lazzaro P.se per una superficie di mq. 4.000, entro un’area ubicata in fascia di rispetto stradale disciplinata dall’art. 13 delle norme di attuazione del p.r.g., la società ricorrente stipulava con il Comune di Parma, in data 08.02.2001, la convenzione rep. n. 33358, della durata di anni 18. Successivamente, in data 08.03.2001, la ditta otteneva il rilascio della concessione edilizia e l’autorizzazione ad esercitare l’attività di erogazione del carburante, venendo poi i relativi lavori terminati in data 24.06.2003 e quindi avviata l’attività.
In séguito, il Comune di Parma comunicava alla ricorrente che, per effetto dell’approvazione del progetto preliminare relativo alla realizzazione del sottopasso di via Budellungo (delib. giunt. n. 1188 del 16.10.2003), si dava inizio al procedimento amministrativo per l’approvazione del progetto definitivo dei lavori, che avrebbero coinvolto anche l’area di proprietà della ditta (v. nota prot. n. 129923 del 04.11.2003), in un primo tempo esclusa dalla procedura espropriativa ma poi, in ragione della variazione del progetto dell’opera pubblica derivante della sopraggiunta necessità di rispettare tassative norme tecniche prescritte dall’ANAS e dal d.m. 5 novembre 2001, interessata da un intervento tale da comportare addirittura la necessità di rimozione dell’impianto di distribuzione di carburante e quindi la cessazione dell’attività.
Infine, l’Amministrazione comunale determinava l’indennità provvisoria di esproprio in € 16.345,00 (determinazione dirigenziale n. DD/2005-458 del 01.03.2005), obiettando alla ditta che alle maggiori somme invocate a titolo di indennizzo si opponevano gli accordi racchiusi negli artt. 5, 6 e 7 della convenzione dell’08.02.2001; indi, veniva emanato il decreto di esproprio (n. 69573 del 13.05.2005).
Ritenendo illegittime le determinazioni assunte dall’ente locale e, in via subordinata, nulli i patti della convenzione sulla cui base il Comune di Parma aveva fondato la quantificazione dell’indennizzo, e comunque meritevole della declaratoria di risoluzione la convenzione stessa per esserne venuto meno un presupposto oltre che per l’eccessiva onerosità sopravvenuta, la società ricorrente ha adito il giudice amministrativo.
Assume erroneamente interpretata la convenzione laddove ai patti 5, 6 e 7 prevede la rinuncia ad eventuali indennizzi risarcitori, nel senso che detta rinuncia dovrebbe intendersi riferita solo alla fase temporale coincidente con la scadenza naturale della convenzione –e cioè al diciottesimo anno dalla stipula–, non anche all’ipotesi di acquisizione dell’area da parte dell’Amministrazione intervenuta in un momento antecedente; lamenta che, in violazione del patto n. 7 della convenzione, il decreto di esproprio non sia stato preceduto dal preavviso di un anno dell’avvio della procedura ablatoria; denuncia la nullità e/o inefficacia dei patti 5, 6 e 7 della convenzione –ove da interpretare nel senso preteso dall’Amministrazione– per indeterminatezza ed indeterminabilità dell’oggetto (art. 1346 cod.civ.), per contrasto con la disposizione di natura imperativa di cui all’art. 32, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, ma anche con la prescrizione generale di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990, per carenza di causa negoziale in assenza di interessi meritevoli di tutela (art. 1322 cod.civ.), per trattarsi di clausole vessatorie ex art. 1341 cod.civ. e quindi necessitanti di una specifica approvazione per iscritto; invoca, in via subordinata, la dichiarazione di risoluzione della convenzione in applicazione del principio della presupposizione (nella considerazione comune alle parti che, per la sua particolare collocazione e distanza dalla viabilità, la stazione di servizio non avrebbe potuto mai essere danneggiata nel caso di ampliamento della strada) o per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cod.civ. (per l’intervenuto sconvolgimento dell’equilibrio economico della convenzione e del suo sinallagma funzionale).
Di qui la richiesta di declaratoria di nullità ed inefficacia dei patti n. 5, 6 e 7 della convenzione e, in via subordinata, di risoluzione della convenzione medesima, nonché di annullamento della determinazione dirigenziale n. DD/2005-458 del 01.03.2005 e del decreto di esproprio n. 69573 in data 13.05.2005.
Si è costituito in giudizio il Comune di Parma, resistendo al gravame.
L’istanza cautelare della società ricorrente veniva respinta dalla Sezione alla Camera di Consiglio del 07.06.2005 (ord. n. 176/2005).
All’udienza del 29.06.2011, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione.
Il ricorso è infondato.
Una prima questione attiene alla portata interpretativa dell’art. 7 della convenzione (“Nel caso invece che il Comune si dovesse trovare nella necessità di dover disporre dell’area, si dovrà avviare regolare procedura di esproprio, comunicata con preavviso scritto, a mezzo raccomandata A.R., non inferiore ad un anno (1 anno), fermo restando la rinuncia da parte della ditta di ogni indennità sia in ordine alle predette attrezzature ed impianti che ai lavori di rimozione, nonché in ordine all’avviamento commerciale”), in quanto la società ricorrente ritiene che la rinuncia alle indennità riguardi unicamente l’esproprio intervenuto alla scadenza naturale della convenzione, in coerenza con le fattispecie di cui all’art. 5 (“La ditta Saccomandi & Malagoli S.p.A. ed i successivi aventi causa, si impegnano fin da ora a rendere libera da persone e cose, l’area su cui è costruita la stazione di servizio per la distribuzione di carburante, e quindi a rimuovere a propria cura e spese tutte le attrezzature ed impianti esistenti, alla scadenza della presente convenzione che ha durata diciottennale a partire dalla data di stipula, rinnovabile un anno prima della scadenza su espressa richiesta degli interessati”) e all’art. 6 (“La ditta Saccomandi & Malagoli S.p.A. intestataria della richiesta di concessione edilizia, dichiara di rinunciare sin da ora ad eventuali indennità sia in ordine alle predette attrezzature ed impianti che ai lavori di rimozione, nonché in ordine all’avviamento commerciale”), mentre l’Amministrazione comunale ritiene, al contrario, che l’ipotesi regolata dall’art. 7 includa qualsiasi situazione di apprensione coattiva dell’immobile, anche se anteriore alla scadenza naturale della convenzione.
In quest’ultimo caso, naturalmente, ove pure non fossero ancora trascorsi i prescritti diciotto anni, nulla spetterebbe alla ditta, se non il valore del terreno espropriato.
Il Collegio è dell’avviso che siano corrette le conclusioni del Comune di Parma.
In effetti, dopo avere disciplinato la fattispecie del ripristino dello stato dei luoghi al momento della naturale scadenza del rapporto (artt. 5 e 6), la convenzione si occupa del caso in cui l’Amministrazione debba acquisire l’area per esigenze pubbliche e, senza alcun riferimento alla propria «scadenza», introduce l’obbligo del preavviso scritto e ribadisce la rinuncia della ditta alle indennità, rinuncia che sarebbe stato del tutto superfluo richiamare se l’art. 7 avesse preso unicamente a riferimento la fase temporale successiva alla naturale conclusione del rapporto –per avervi già provveduto il precedente art. 6–, mentre la disposizione di cui all’art. 7 regola una fattispecie del tutto distinta dall’altra, e ciò, come si è detto, si ricava anche dal mancato riferimento alla «scadenza» della convenzione.
Del resto,
se è pur vero che, dovendosi fare applicazione alle convenzioni urbanistiche dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. cod.civ. (v., ex multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 18.05.2011 n. 1281), non ci si può arrestare al tenore letterale delle parole ma occorre tenere conto degli ulteriori elementi all’uopo previsti, nulla tuttavia ha in concreto addotto la società ricorrente per dimostrare che da altre espressioni contenute nella convenzione o dal comportamento complessivo delle parti si dovesse desumere un diverso significato di dichiarazioni negoziali che si presentano in sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi; in particolare, non v’è ragione di richiamarsi all’interpretazione di buona fede di cui all’art. 1366 cod.civ. –in quanto l’esigenza di far prevalere il significato che il destinatario può ragionevolmente intendere secondo il criterio di affidamento dell’uomo medio appare pienamente coerente nella fattispecie con una interpretazione della convenzione che carichi sul privato gli oneri legati alla rimozione degli impianti e alla cessazione dell’attività, in qualunque momento avvenuti (non a caso l’art. 2 della convenzione vincola la ditta agli obblighi previsti “… per tutta la sua durata come meglio precisato agli artt. 5, 6 e 7 …”)–, né v’è motivo di invocare il significato meno gravoso per l’obbligato ai sensi dell’art. 1371 cod. civ. –per operare invero tale principio in via del tutto subordinata quando l’accordo rimanga oscuro nella sua portata–.
Né, poi, convince la doglianza imperniata sulla carenza del «preavviso» considerato dall’art. 7 della convenzione, nell’assunto –a dire della società ricorrente– che la comunicazione ivi imposta riguarderebbe una formalità diversa dal mero avviso ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, già insito nell’ordinamento e quindi inutilmente ribadito nella convenzione.
Sennonché –osserva il Collegio– lungi dal duplicare gli adempimenti previsti dalla legge n. 241 del 1990, è evidente che l’esigenza da soddisfare era quella di una comunicazione effettuata con congruo anticipo, onde consentire al privato di disporre di un adeguato periodo di tempo per curare i propri interessi; non v’è, dunque, una differenza di contenuti tra la comunicazione ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 e quella di cui all’art. 7 della convenzione, tant’è che appare adeguato allo scopo l’avviso nella fattispecie inviato alla ricorrente il 04.11.2003, anche perché risulta che lo stesso ha rispettato il termine di un anno fissato dalla convenzione.
Quanto, poi, all’invocata nullità, per indeterminatezza ed indeterminabilità dell’oggetto (art. 1346 cod.civ.), del patto convenzionale consistente nella rinuncia alle indennità derivanti dalla rimozione delle attrezzature e dalla cessazione dell’attività commerciale, osserva il Collegio che in realtà si tratta di oggetto determinabile attraverso il riferimento al tipo di impianto che il ricorrente aveva chiesto venisse assentito; risulta, quindi, assolta nella circostanza la fondamentale esigenza, sottesa alla disposizione di cui all’art. 1346 cod.civ., che il contraente, al momento dell’accordo, sia a conoscenza dell’impegno che egli in concreto assume, seppure in relazione a fatti il cui accadimento non è certo.
Né un profilo di nullità scaturisce dall’asserita incompatibilità con l’art. 32 del d.P.R. n. 327 del 2001 (in tema di determinazione dell’indennità di espropriazione) e con l’art. 11 della legge n. 241 del 1990 (in tema di indennizzo spettante al privato che subisca pregiudizio dal recesso unilaterale dell’Amministrazione dall’accordo), in quanto quelli del privato sono pur sempre diritti disponibili e quindi ben possono costituire oggetto di rinuncia.
Né, ancora, convince l’assunto per cui una simile rinuncia implicherebbe la carenza di «causa», per non realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322, comma 2, cod.civ.); invero, come è noto, la valutazione di meritevolezza non deve essere effettuata ex post sulla base del risultato economico concretamente conseguito, ma ex ante sulla base della struttura negoziale astratta posta in essere dalle parti, sicché occorre accertare che lo schema astratto persegua un interesse meritevole di tutela e non che tale schema sia sicuramente conveniente per entrambe le parti, con la conseguenza che la libera scelta del privato di accollarsi nella fattispecie i costi di chiusura anticipata dell’attività commerciale rispetto alla naturale scadenza della convenzione, in presenza di un’eventuale sopraggiunta esigenza di acquisizione dell’area alla mano pubblica per la salvaguardia di interessi di carattere generale, si raccorda con la peculiare localizzazione dell’impianto di distribuzione di carburante in fascia di rispetto stradale posta a margine del tracciato di una “tangenziale” ancora in corso di realizzazione e potenzialmente interessata da un ampliamento di sede, ovvero si tratta di vicenda che l’accordo delle parti mira a regolare attraverso la distribuzione degli oneri tra le stesse in misura tale da non lasciare al privato solo i vantaggi economici dell’operazione e da non far gravare unicamente sull’Amministrazione comunale le spese legate al possibile intervento pubblico sull’area temporaneamente utilizzata dalla ditta.
Né, infine, ha ragione il ricorrente nel richiamarsi all’art. 1341, comma 2, cod. civ. e alla pretesa inefficacia delle clausole in esame perché non oggetto di specifica approvazione per iscritto; indipendentemente, infatti, dalla correttezza o meno delle qualificazione delle stesse come «vessatorie», va fatto rinvio a quel consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui
le clausole inserite in un contratto stipulato per atto pubblico o in forma pubblica amministrativa, ancorché si conformino alle condizioni poste da uno dei contraenti, non possono considerarsi come “predisposte” dal contraente medesimo ai sensi dell’art. 1341 cod. civ. e, pertanto, pur se vessatorie, non richiedono approvazione specifica per iscritto, in quanto la particolare forma contrattuale rivestita dall’accordo esclude la necessità di una approvazione siffatta (v., tra le altre, Cass. civ., Sez. I, 21.09.2004 n. 18917).
Le restanti questioni concernono l’invocata risoluzione della convenzione. Sennonché,
quanto alla c.d. “presupposizione”, non trova riscontro alcuno la tesi secondo cui l’accordo era stato stipulato sulla base dell’inespressa condizione del non verificarsi dell’ipotesi dell’ampliamento della “tangenziale” fino ad invadere l’area di ubicazione dell’impianto; al contrario, la previsione di cui all’art. 7 della convenzione evidenzia come di una simile eventualità si fosse tenuto conto, regolandone gli effetti.
Quanto, invece, all’eccessiva onerosità di cui all’art. 1467 cod. civ., appare assorbente di ogni altra considerazione la circostanza che si trattava di rischio esplicitamente assunto dalla parte, sì da esulare dall’ambito di operatività della norma, che fa riferimento agli accadimenti estranei all’ordinario svolgimento della tipologia di contratto prescelta e al cui rischio neppure implicitamente la parte si è sottoposta.
In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 13.09.2011 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAUn cittadino aveva venduto al Comune un suo vasto terreno (mq. 159.375) al prezzo unitario di lire 800 a mq. sul presupposto -inespresso ma chiaro- che le aree sarebbero state dal Comune destinate a interventi di ERP, come per vero precisato nelle anteriori delibere.
Tuttavia, a stipula avvenuta, il terreno era stato lottizzato e destinato a vendita a privati al prezzo unitario di lire 2.500 a mq, sicché l'appellante ha riferito che i contratti, per effetto del venir meno della presupposizione, dovevano essere annullati ed il Comune comunque condannato al ristoro dei danni.
Va premesso che la statuizione della Corte di Appello è stata resa in sede di rinvio dalla sentenza rescindente di questa Corte n. 4293/1997 che, nei ravvisare il menzionato grave vizio di motivazione,
ha portato ad emergere in diritto l'obbligo del Comune di seguire le proprie delibere e pertanto ha attribuito rilevanza oggettiva al vincolo assunto implicitamente con il contraente privato, escludendo che l'autonomia dell'Amministrazione potesse incidere in senso "risolutorio" sull'affidamento creato nel contraente privato.
La predetta sentenza ha infatti affermato che "
il Comune, una volta acquisite, sia pure con uno strumento negoziale, aree inserite in un piano di localizzazione non è libero "di diversamente determinarsi" in ordine alla loro utilizzazione, essendo vero al contrario che essa deve avvenire nel rispetto delle indicazioni del piano e delle norme dettate al riguardo dal legislatore. Ciò spiega perché la difesa del Comune si sia premurata di porre in evidenza che la mancata destinazione delle aree al programma costruttivo originariamente individuato nell'ambito delle finalità connesse all'applicazione dell'art. 51 della legge n. 865/1971 sia stata determinata dal mancato conseguimento del finanziamento statale preventivato, e quindi per fatti ad esso non imputabili".
Un successiva diversa opinione di questa Corte ha posto in evidenza la base solo soggettiva della finalità espressa nel contratto di compravendita e la legittimità di un suo mutamento per ragioni di pubblico interesse (Cass. 17698/2007 e 5390/2006): il caso che occupa resta ovviamente regolato dalla diversa connotazione del principio di diritto formulato dalla sentenza del 1997.

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... sul ricorso iscritto al n. 12287 R.G. dell'anno 2005 proposto da:
Comune di Orgiano, ...
contro
Vi.St., Vi.An., Vi.Fi., Ru.Cl. ...
avverso la sentenza n. 567 della Corte d'Appello di Venezia depositata il 01.04.2004 ...
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 23.10.1982 Lu.Be. convenne innanzi al Tribunale di Venezia il Comune di Orgiano riferendo che
aveva venduto al Comune stesso in data 26.12.1972 un suo vasto terreno (mq. 159.375) al prezzo unitario di lire 800 a mq. e sul presupposto -inespresso ma chiaro- che le aree sarebbero state dal Comune destinate a interventi di ERP, come per vero precisato nelle anteriori delibere, che nondimeno, a stipula avvenuta, il terreno era stato lottizzato e destinato a vendita a privati al prezzo unitario di lire 2.500 a mq, che pertanto i contratti, per effetto del venir meno della presupposizione, dovevano essere annullati ed il Comune comunque condannato al ristoro dei danni, che in tal senso concludevano.
Costituitosi il Comune, il Tribunale, con sentenza 24.04.1988, rigettò la domanda escludendo che fosse entrata nel contratto, a livello di presupposizione, la destinazione a ERP delle aree acquisite dal Comune e la Corte di Appello rigettò il gravame della Bertoli condividendo le tesi del Comune di Orgiano.
Deceduta la Be., l'erede Lu.Fr.Vi. propose ricorso per cassazione denunziando, con un primo motivo, la violazione degli arti. 1362 e 1363 c.c. e 51 legge 865 del 1971 e ribadendo con un secondo mezzo la disattesa richiesta di retrocessione.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 4293 del 1997 accolse il primo motivo, assorbito il secondo, sul rilievo per il quale, destinate le aree a interventi di ERP e tal destinazione valendo quale dichiarazione di pubblica utilità ex art. 51 della legge 865 del 1971, doveva ritenersi viziata da incongruità ed illogicità la motivazione della sentenza di appello che non aveva dato ragione della rilevanza nel contratto di compravendita 26.12.1972 delle anteriori delibere e determinazioni di destinazione delle aree ad interventi di ERP.
La causa è stata quindi riassunta dal Vicariotto e, costituitosi il Comune, la Corte di Appello di Trento, in sede di rinvio, con sentenza 01.04.2004 ha dichiarato risolti i contratti preliminare e definitivo inter partes per effetto della presupposizione comune venuta meno successivamente, ed ha quindi condannato il Comune a risarcire il danno patito dalla stipulante e determinato in € 119.280 oltre rivalutazione ISTAT dal 1972 alla decisione ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata.
In motivazione la Corte di merito ha ravvisato l'intento del Comune, volto a destinare le aree compromesse in vendita ad interventi di ERP, nelle delibere 27.01.1972 e 25.06.1972 e nella precisazione dell'intento di ricorrere a finanziamento statale ex art. 64 legge 865/1971 commisurato alla indennità di espropriazione, ed ha escluso che la parte privata ignorasse tale delibera (debitamente pubblicata) o che di essa rilevassero eventuali vizi per mancata copertura finanziaria, ed ha pertanto ricavato dalla comune consapevolezza di tale destinazione delle aree una vera e propria presupposizione.
Ha quindi soggiunto che, incontestata la diversa destinazione e non avveratasi la condizione inespressa, il contratto andava incontro alla risoluzione o, nella impossibilità di operarla per la avvenuta destinazione a edilizia privata delle aree, alla condanna del Comune al risarcimento dei danni, che, alla stregua delle corrette stime dell'area in lire 2.300 a mq., andava liquidato nella somma di € 119.280 al 26.12.1972, oltre ai successivi accessori.
Per la cassazione di tale sentenza il Comune di Orgiano ha proposto ricorso notificato il 06.05.2005 agli eredi di Lu.Vi. ed articolato su sei motivi, ai quali si sono opposti i predetti eredi con controricorso del 14.06.2005.
Entrambi i difensori hanno depositato memorie e discusso oralmente il ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il Collegio che il ricorso debba essere rigettato, nessuna delle censure sulle quali esso si fonda meritando di essere condivisa.
Va premesso che la statuizione della Corte di Appello è stata resa in sede di rinvio dalla sentenza rescindente di questa Corte n. 4293/1997 che, nei ravvisare il menzionato grave vizio di motivazione,
ha portato ad emergere in diritto l'obbligo del Comune di seguire le proprie delibere e pertanto ha attribuito rilevanza oggettiva al vincolo assunto implicitamente con il contraente privato, escludendo che l'autonomia dell'Amministrazione potesse incidere in senso "risolutorio" sull'affidamento creato nel contraente privato.
La predetta sentenza ha infatti affermato che "
il Comune, una volta acquisite, sia pure con uno strumento negoziale, aree inserite in un piano di localizzazione non è libero "di diversamente determinarsi" in ordine alla loro utilizzazione, essendo vero al contrario che essa deve avvenire nel rispetto delle indicazioni del piano e delle norme dettate al riguardo dal legislatore. Ciò spiega perché la difesa del Comune si sia premurata di porre in evidenza che la mancata destinazione delle aree al programma costruttivo originariamente individuato nell'ambito delle finalità connesse all'applicazione dell'art. 51 della legge n. 865/1971 sia stata determinata dal mancato conseguimento del finanziamento statale preventivato, e quindi per fatti ad esso non imputabili".
Un successiva diversa opinione di questa Corte ha posto in evidenza la base solo soggettiva della finalità espressa nel contratto di compravendita e la legittimità di un suo mutamento per ragioni di pubblico interesse (Cass. 17698/2007 e 5390/2006): il caso che occupa resta ovviamente regolato dalla diversa connotazione del principio di diritto formulato dalla sentenza del 1997.
Può quindi procedersi all'esame dei singoli motivi.
Con il primo motivo il Comune si duole del fatto che sia stata ravvisata la condizione inespressa comune ad entrambe le parti nelle delibere del 1972 che non è prova fossero dalla Bertoli in alcun modo conosciute, ancorché fossero conoscibili.
Il motivo è del tutto infondato: la valutazione per la quale dalla conoscibilità delle delibere è dato presumere la sua conoscenza è immune da vizi logici, applicandosi senza alcun dubbio detta presunzione semplice ad una vendita di un terreno da un privato ad un Comune che non poteva non agire per scopi "palesi" e nella piena ed agevole accessibilità del contraente agli atti presupposti.
Gli elementi afferenti il sol "tardivo" riferimento a dette delibere da parte della Be. (udienza del 16.12.1983) attengono ad una circostanza priva di rilievo, in quanto espressiva di una strategia processuale e non indicativa di una "ignoranza" delle scelte comunali all'atto della compravendita risalente a più di dieci anni innanzi.
Con il secondo motivo si lamenta lacuna argomentativa sulle ragioni della mancata realizzazione della condizione inespressa.
Il motivo è inammissibile per assoluta genericità, non essendo prospettato con la doverosa precisione il rilievo del preteso silenzio motivazionale.
Con il terzo motivo si lamenta la esclusione di rilevanza delle ragioni (invalidità della prima delibera per assenza di finanziamento) che impedirono la realizzazione della situazione presupposta.
La doglianza appare inammissibile: la rilevanza delle ragioni sopravvenute ed impeditive è stata rettamente esclusa dalla Corte di Appello ed era stata esclusa del resto, dal quadro degli elementi valutabili, dalla sentenza rescindente la quale ha ricostruito ut supra i dati presupposti ed ha ricavato (come rammentato in premessa) un inespresso ma inemendabile vincolo di buona fede del Comune alla destinazione dei fondi acquistati.
E' invero affatto inammissibile porre oggi, e comunque riproporlo all'indomani della sentenza del 1997 di questa Corte, il problema della assenza di legittimità delle delibere del 1972: la sentenza rescindente, in accoglimento di un motivo afferente la assenza di motivazione sulla sussistenza della presupposizione, ha negato implicitamente che a configurare detta condizione inespressa facessero ostacolo ragioni di nullità degli impegni oggetto di presupposizione, posto che, evidentemente, il Comune non aveva prospettato tali ragioni quali elementi ostativi alla verifica in fatto della presupposizione stessa.
Con il quarto motivo si esprime dissenso dalla individuazione nelle pregresse delibere delle ragioni per far ritenere esistente la presupposizione (la previsione di una estensione superiore a quella del fondo Be. e l'impegno a richiedere contributo pari al solo 25% dell'importo). Si lamenta ancora che la sentenza non abbia dato risposta alle osservazioni poste dalla difesa del Comune nella conclusionale del 05.03.2003.
Sotto il primo profilo la doglianza è inammissibile perché non evidenzia vizi logici ma espone solo dissenso dalle non persuasive valutazioni. Sotto il secondo profilo la doglianza è affatto carente di autosufficienza, tentando di onerare questa Corte del compito di leggere gli atti per rinvenire ...nella conclusionale menzionata questioni alle quali la sentenza impugnata non avrebbe dato esaustiva risposta.
Con il quinto motivo si enumerano sei punti di censura alla CTU, le cui conclusioni furono ad avviso del Comune ricorrente acriticamente recepite dalla Corte: il motivo è radicalmente inammissibile:
A) da un canto perché appunta le sue espressioni di dissenso sulla CTU e non sulla sentenza che, lungi dal recepirla acriticamente, ha dedicato alla stima le pagine 15 e 16;
B) dall'altro canto perché non deduce di avere posto tali rilievi alla Corte stessa, ricevendone risposta omessa o illogica, ma tali rilievi formula puramente e semplicemente a carico della CTU, in tal guisa confessando pienamente che trattasi di rilievi affatto nuovi e pertanto in questa sede irricevibili.
Rigettato il ricorso, graveranno sul Comune ricorrente le spese del giudizio sostenute dai controricorrenti (in solido).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il Comune di Orgiano a corrispondere ai controricorrenti in solido per spese di giudizio la somma di € 8.200 (di cui € 200 per esborsi) oltre a spese generali e ad accessori di legge (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 11.03.2011 n. 5875).

URBANISTICA: Il punto di causa è se il Comune nuovo proprietario delle aree a standard (acquisite gratuitamente) possa -o meno- fare sulle stesse quello che vuole ignorando gli accordi e cioè le convenzioni stipulate al tempo col privato ora ex proprietario.
Pacifica la doglianza che sorregge il ricorso, vale a dire un lamentato inadempimento comunale quanto all’impegno alla realizzazione nel comparto di interesse di standards urbanistici siccome pretermessa essa realizzazione dalla successiva previsione contenuta nella variante generale di PRG di ubicazione in loco del palazzo di giustizia, va puntualizzato che ad essi standards di lotto il Comune si era obbligato in apposita convezione col privato proprietario di aree che le aveva cedute gratuitamente all’Ente locale perché vi fossero realizzati gli standards urbanistici (strade, parcheggi, verde, ecc).
A fronte di ciò
non pare revocabile in dubbio che si controverti sul comportamento dell’amministrazione e/o comunque suoi atti (variante generale al PRG) in tema di uso del territorio.
Tale essendo l’oggetto del contendere, in tema di giurisdizione sovviene l’art. 34 del d.lgs. 31.03.1998 che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i comportamenti ed i provvedimenti delle amministrazione pubblica in materia di urbanistica ed edilizia e che viene a riguardare la totalità degli aspetti dell’uso del territorio, nessuno escluso.
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Le convenzioni urbanistiche ben rientrano nel modello procedimentale di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990 (accordi sostitutivi del provvedimento) con lo scopo di definire il contenuto sostanziale di un accordo pianificatorio territoriale tra l’autorità pubblica ed il privato contraente
.
Orbene
è noto che le controversie in tema di formazione, conclusione ed esecuzione di essi accordi sono riservate (vedi 5° comma di esso art. 11 legge 241) alla giurisdizione esclusiva del G.A..
La conclusione è che deve parlarsi solo ed esclusivamente di giurisdizione del G.A. e non del G.O., sia che si faccia applicazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998 come modificato dalla legge 205/2000, sia che si faccia riferimento all’art. 11 (comma 5) legge 241; tra le due citate norme entrambe conferenti col problema che ne occupa, v’è questa differenziazione, che appare da subito ad una loro semplice lettura: nella prima la giurisdizione viene individuata per materia con riferimento agli atti della p.a.; nella seconda viene stabilita non per materia ma in virtù della tipologia dell’atto che è fonte del rapporto,vale a dire l’accordo.
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Il punto di causa è se il Comune nuovo proprietario delle aree possa o meno fare sulle stesse quello che vuole ignorando gli accordi e cioè le convenzioni stipulate al tempo col privato ora ex proprietario in cui aveva assunto l’obbligo di realizzarvi gli standards di comparto
(il ricorrente nel suo atto introduttivo si esprime a riguardo in termini di “urbanizzazione generale”); di poi l’Ente locale con la variante generale al PRG ha deciso di realizzarvi un edificio destinato a palazzo di giustizia.
La tesi del ricorrente, da cui poi muove tutto il gravame, è che al quesito dianzi espresso non si possa che dare una risposta negativa; essa tesi non viene però condivisa dal Collegio.
Se è vero che le convenzioni urbanistiche hanno natura contrattuale, e di conseguenza deve opinarsi non consentita la modifica autoritativa degli obblighi determinati anche col consenso del privato, deve però ritenersi che essa convenzione sia un contratto di natura peculiare talché sarebbero comunque possibili variazioni introdotte in virtù della iniziativa di parte pubblica e questo in sede di emanazione di un nuovo strumento urbanistico generale, implicando quest’ultimo la revisione generale dell’intero assetto urbanistico del territorio comunale.
Si è pure detto che il contrattualismo nella lettura della Cassazione non giunge sino al punto di riconoscere che la convenzione vincoli la p.a. a conservare l’assetto urbanistico previsto dalla convenzione stessa; v’è cioè la possibilità di un riedizione del potere pianificatorio da parte dell’Ente pubblico da esercitarsi, perché non debordi nell’arbitrio, in sede di esame e definizione di problematiche di ordine generale quale può essere, ad esempio, la revisione dell’assetto del territorio: in tali e limitati casi di riesercizio del potere, la posizione soggettiva del cittadino è di interesse legittimo e non di diritto soggettivo.
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Nel caso all’esame si contesta dal ricorrente che nella nuova pianificazione urbanistica generale (variante al PRG) che ha portato ad allocare in zona il palazzo di giustizia, sia carente una motivazione specifica che sopporti la scelta pianificatoria assunta in deroga all’obbligo convenzionale.
Anche la particolare censura non regge.
Osservato che la essa opera, ripetesi: palazzo degli uffici giudiziari, non è poi completamente avulsa da una sua invece possibile ricomprensibilità nell’ambito delle urbanizzazioni secondarie (al pari per esempio di un edificio destinato ad istruzione secondaria), giova richiamare principi giurisprudenziali in materia di motivazione delle scelte pianificatorie e loro sindacabilità giurisdizionale, alla stregua dei quali le determinazione assunte all’atto dell’adozione di PRG ovvero di variante al piano medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità salvo che non siano inficiate da errori di fatto ob abnormi illogicità, e non necessitano di apposita motivazione oltre a quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico discrezionali seguiti nell’impostazione del piano e/o della variante generale.
Va comunque osservato ed a favore della legittimità della individuata allocazione che
il Comune viene a prevedere la ubicazione del palazzo di giustizia in area ormai di sua proprietà, il che ben può sorreggere la scelta pianificatoria effettuata perché in tal modo non si viene a gravare sulle casse comunali per l’esproprio di un suolo di proprietà di altri ove andare ad ubicare l’opera di interesse collettivo a farsi.

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... per l'annullamento della delibera della G.R. 10.05.2001 n. 527 pubblicata sul B.U.R.P. n. 96 del 04.07.2001 con cui è stata approvata in via definitiva la variante al piano regolatore generale di Molfetta, nella parte in cui destina ad uffici giudiziari le aree cedute dal ricorrente per destinarle a standards; nonché di ogni altro atto connesso presupposto o consequenziale a quello impugnato con particolare riferimento –ed ove occorra- alle delibere di C.C. Molfetta n. 127 del 26.09.1996 di adozione e delib. Comm. Molfetta n. 92 del 22.03.2001 ed ad altri eventuali atti dell’Amministrazione comunale, non noti, con i quali si è provveduto a variare la destinazione in uffici giudiziari delle aree cedute dal ricorrente;
...
FATTO
Con atto notificato e depositato rispettivamente in data 18 sett. e 27 sett. del 2001
il ricorrente <proprietario di aree facenti parte dell’UMI (unità minima di intervento) numero 7 e 3 del comparto edificatorio denominato “Lotto Due” del Comune di Molfetta e che ebbe a stipulare insieme ad altri proprietari delle aree convenzioni col Comune con cui cedeva gratuitamente delle aree perché fossero destinate ad urbanizzazione generale e nel contempo altre aree onerosamente perché fossero destinate ad edilizia economica e popolare (in particolare, detratto il suolo di sedime e pertinenza dei fabbricati da realizzarsi, cedeva al Comune gratuitamente il 60% della sua proprietà ed a titolo oneroso il rimanente 40%)> ha provveduto ad impugnare la delibera regionale in epigrafe meglio indicata di approvazione della variante al PRG nella parte in cui destina ad uffici giudiziari le aree cedute dal ricorrente per destinarle a standards; nel contempo svolge azione di condanna per risarcimento danni che assume derivantigli per violazione da parte comunale delle convenzioni sottoscritte.
A sostegno dell’azione impugnatoria deduce violazione della motivazione specifica in merito a motivi di interesse pubblico che deve assistere la possibilità di derogare ad un obbligo convenzionalmente assunto in precedenza dovendosi fornire spiegazione sul perché non sia stata individuata altra zona libera nell’ambito del territorio comunale.
In ordine al’azione risarcitoria, richiama giurisprudenza della Cassazione (Cass. Sez. unite n. 1917 del 09.03.1990) che abilita il privato ad essa azione a seguito di inadempimento del Comune per obblighi nascenti da convenzioni urbanistiche previo annullamento dell’atto che generava tale lesione, significando che essa azione va ora proposta dinanzi al G.A. stante la modifiche legislative di cui all’art. 34 d.lgs. n. 80/1998 recepite dalla legge 205/2000.
Si è costituito in giudizio il Comune opponendosi al’avverso gravame di cui, in via preliminare, ha eccepito, oltre alla sua intempestività, difetto di giurisdizione in capo all’adito G.A. e ciò a favore di quella del G.O., evidenziando pure una carenza interesse del privato (che già come nella specie ha ricevuto il corrispettivo della c.e.) e comunque un suo difetto di legittimazione a dolersi del fatto che l’amministrazione abbia deciso una diversa utilizzazione dell’area già cedutale dal privato in virtù di apposite convenzioni.
Nel merito la difesa comunale ha fatto presente che le scelte effettuate dall’amministrazione in sede di adozione di PRG o sua variante generale si appartengono a sue specifici apprezzamenti di merito che in quanto tali non necessitano di puntuale motivazione, come si assume ex adverso, oltre a quella che si evince dai criteri generali eseguiti nell’impostazione del piano.
Parte ricorrente con memoria ha provveduto a contestare le avverse eccezioni, ribadendo da un lato la giurisdizione del G.A. e rivendicando il proprio interesse essendosi il Comune sottratto agli obblighi di dotare il comparto di standards (verde pubblico, parcheggi, strade) e ribadendo che il Comune ancorché nuovo proprietario delle aree, non può fare sulle stesse quello che vuole, ignorando una lottizzazione già operativa.
DIRITTO
Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di rito sollevate dal resistente Comune.
Sulla giurisdizione osserva questo Collegio che essa si appartiene all’adito G.A. e non al G.O..
Pacifica la doglianza che sorregge il ricorso, vale a dire un lamentato inadempimento comunale quanto all’impegno alla realizzazione nel comparto di interesse di standards urbanistici siccome pretermessa essa realizzazione dalla successiva previsione contenuta nella variante generale di PRG di ubicazione in loco del palazzo di giustizia, va puntualizzato che ad essi standards di lotto il Comune si era obbligato in apposita convezione col privato proprietario di aree che le aveva cedute gratuitamente all’Ente locale perché vi fossero realizzati gli standards urbanistici (strade, parcheggi, verde, ecc).
A fronte di ciò
non pare revocabile in dubbio che si controverti sul comportamento dell’amministrazione e/o comunque suoi atti (variante generale al PRG) in tema di uso del territorio. Tale essendo l’oggetto del contendere, in tema di giurisdizione sovviene l’art. 34 del d.lgs. 31.03.1998 che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i comportamenti ed i provvedimenti delle amministrazione pubblica in materia di urbanistica ed edilizia e che viene a riguardare la totalità degli aspetti dell’uso del territorio, nessuno escluso (Cass. Civile Sez. Unite n. 494 del 04.07.2000).
Sotto altro profilo e sempre al fine di individuare il giudice fornito di giurisdizione, aggiunge il Collegio che
le convenzioni urbanistiche ben rientrano nel modello procedimentale di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990 (accordi sostitutivi del provvedimento) con lo scopo di definire il contenuto sostanziale di un accordo pianificatorio territoriale tra l’autorità pubblica ed il privato contraente –cfr. a riguardo Cass. Sez. unite 01.07.2009 n. 15388-; si discuteva in quel caso di una convenzione di lottizzazione diretta a disciplinare il successivo rilascio di concessioni edilizie in esecuzione concordata tra le parti di opere di urbanizzazione; la fattispecie esaminata dalla Cass., in essa decisione, è ben sovrapponibile al caso in esame atteso che più volte lo stesso ricorrente nei suoi scritti difensivi viene a parlare di “convenzioni di lottizzazione” in riferimento alle due convenzioni stipulate col Comune con atti notarili del 10.02.1988 rep. n. 1347 e n. 1350, del cui inadempimento si discute.
Orbene
è noto che le controversie in tema di formazione, conclusione ed esecuzione di essi accordi sono riservate (vedi 5° comma di esso art. 11 legge 241) alla giurisdizione esclusiva del G.A.. La conclusione è che deve parlarsi solo ed esclusivamente di giurisdizione del G.A. e non del G.O., sia che si faccia applicazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 80/1998 come modificato dalla legge 205/2000, sia che si faccia riferimento all’art. 11 (comma 5) legge 241; tra le due citate norme entrambe conferenti col problema che ne occupa, v’è questa differenziazione, che appare da subito ad una loro semplice lettura: nella prima la giurisdizione viene individuata per materia con riferimento agli atti della p.a.; nella seconda viene stabilita non per materia ma in virtù della tipologia dell’atto che è fonte del rapporto,vale a dire l’accordo.
Passando ora ad esaminare l’eccezione di carenza di interesse e della stessa legittimazione- in capo al ricorrente al presente gravame (eccezione che muove dal presupposto che il privato ha avuto a contropartita della cessione della sua area la concessione edilizia e quindi non avrebbe più altro da pretendere), ne rileva il il Collegio la infondatezza. Infatti esso interesse (che si ritiene dal deducente completamente assente) non può invece del tutto escludersi in quanto nei confronti del lottizzante compartista si era quantomeno creato un affidamento all’esecuzione di opere di urbanizzazione su dette aree, giusta –lo si ripete- apposita convenzione, anche trascritta, il che determina una posizione qualificata e differenziata di esso ex proprietario rispetto agli altri cittadini, e quindi una sua legittimazione ad impugnare gli atti del Comune che esso impegno vengono a disattendere.
Va pure reietta l’eccezione di tardività del gravame, sollevata da parte resistente in base alla considerazione che il Comune già in precedenza (vedi delibera n. 482/88) aveva adottato una variante al PRG, rimasta al tempo e nel tempo inoppugnata. Orbene essa precedente variante non può costituire un valido precedente con le conseguenze che il deducente ne fa discendere in tema di tempestività dell’odierna impugnativa, poiché aveva ricevuto il parere negativo del C.U.R. (parere n. 63/97 relativo all’adunanza del 27.11.1997) e quindi non aveva ricevuto alcuna approvazione regionale (sul punto non è seguito atto di smentita del Comune).
Sgombrato il campo dalle varie eccezioni di rito, nel merito il gravame all’esame non si presenta fondato.
Il punto di causa è se il Comune nuovo proprietario delle aree possa o meno fare sulle stesse quello che vuole ignorando gli accordi e cioè le convenzioni stipulate al tempo col privato ora ex proprietario in cui, come più volte detto, aveva assunto l’obbligo di realizzarvi gli standards di comparto (il ricorrente nel suo atto introduttivo si esprime a riguardo in termini di “urbanizzazione generale”); di poi l’Ente locale con la variante generale al PRG ha deciso di realizzarvi un edificio destinato a palazzo di giustizia.
La tesi del ricorrente, da cui poi muove tutto il gravame, è che al quesito dianzi espresso non si possa che dare una risposta negativa; essa tesi non viene però condivisa dal Collegio.
Se è vero che le convenzioni urbanistiche hanno natura contrattuale, e di conseguenza deve opinarsi non consentita la modifica autoritativa degli obblighi determinati anche col consenso del privato, deve però ritenersi –come affermato dalla giurisprudenza amministrativa che si è interessata del problema (CdS Sez. V, 04.01.1993)- che essa convenzione sia un contratto di natura peculiare talché sarebbero comunque possibili variazioni introdotte in virtù della iniziativa di parte pubblica e questo in sede di emanazione di un nuovo strumento urbanistico generale, implicando quest’ultimo la revisione generale dell’intero assetto urbanistico del territorio comunale.
Si è pure detto che il contrattualismo nella lettura della Cassazione non giunge sino al punto di riconoscere che la convenzione vincoli la p.a. a conservare l’assetto urbanistico previsto dalla convenzione stessa; v’è cioè la possibilità di un riedizione del potere pianificatorio da parte dell’Ente pubblico da esercitarsi, perché non debordi nell’arbitrio, in sede di esame e definizione di problematiche di ordine generale quale può essere, ad esempio, la revisione dell’assetto del territorio: in tali e limitati casi di riesercizio del potere, la posizione soggettiva del cittadino è di interesse legittimo e non di diritto soggettivo.

Nel caso all’esame si contesta dal ricorrente che nella nuova pianificazione urbanistica generale (variante al PRG) che ha portato ad allocare in zona il palazzo di giustizia, sia carente una motivazione specifica che sopporti la scelta pianificatoria assunta in deroga all’obbligo convenzionale.
Anche la particolare censura non regge.
Osservato che la essa opera, ripetesi: palazzo degli uffici giudiziari, non è poi completamente avulsa da una sua invece possibile ricomprensibilità nell’ambito delle urbanizzazioni secondarie (al pari per esempio di un edificio destinato ad istruzione secondaria), giova richiamare principi giurisprudenziali in materia di motivazione delle scelte pianificatorie e loro sindacabilità giurisdizionale, alla stregua dei quali le determinazione assunte all’atto dell’adozione di PRG ovvero di variante al piano medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità salvo che non siano inficiate da errori di fatto ob abnormi illogicità, e non necessitano di apposita motivazione oltre a quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico discrezionali seguiti nell’impostazione del piano e/o della variante generale.
Va comunque osservato ed a favore della legittimità della individuata allocazione che
il Comune viene a prevedere la ubicazione del palazzo di giustizia in area ormai di sua proprietà, il che ben può sorreggere la scelta pianificatoria effettuata perché in tal modo non si viene a gravare sulle casse comunali per l’esproprio di un suolo di proprietà di altri ove andare ad ubicare l’opera di interesse collettivo a farsi.
In conclusione l’azione impugnatoria va respinta, il che porta anche alla reiezione della pure svolta azione risarcitoria, in quanto allo stato è carente la dimostrazione della illegittimità del provvedimento che costituisce necessario presupposto per l’applicazione della norma di cui all’art. 2043 del cod. civ..
L’intero ricorso va quindi rigettato. Spese come da dispositivo e secondo la regola della soccombenza (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 31.01.2011 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA - VARI: In materia contrattuale, affinché sia configurabile la fattispecie della c.d. "presupposizione" (o condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venire meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti stesse.
Il relativo accertamento, esaurendosi sul piano propriamente interpretativo del contratto, costituisce una valutazione di fatto, riservata, come tale, al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici o giuridici.

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La prima censura concerne vizi di motivazione e violazione dell'art. 2722 c.c., artt. 184 e 356 c.p.c.: il ricorrente torna a sostenere che il contratto era caratterizzato dalla presupposizione che al promissario acquirente fosse erogato un mutuo da parte di un istituto di credito, circostanza non trasferita espressamente in una clausola, ma ben presente al promittente venditore.
A tal fine deduce che aveva dedotto prove testimoniali, che sarebbero state utili ad accertare l'esistenza della presupposizione, ma che il giudice d'appello si era limitato a confermare quanto ritenuto dal giudice di primo grado.
Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 1183 e 1453 c.c. dell'art. 112 c.p.c. e vizi di motivazione.
Il ricorrente lamenta che non si sia proceduto a comparare gli inadempimenti delle parti, facendo derivare la risoluzione del contratto dalla sua mancata partecipazione (dopo aver ricevuto diffida) alla stipula del definitivo, mentre in precedenza un appuntamento presso altro notaio era risultato vano perché parte dei. terreni non era intestata al G., che aveva promesso in vendita terreni non suoi.
Il giudice d'appello, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto determinare, come richiestogli, la data del rogito ai sensi dell'art. 1183 c.c. atteso che "l'esistenza della dedotta presupposizione faceva sì che il termine di adempimento fosse a favore del C., in quanto proprio esso G. aveva inutilmente concluso un preliminare di compravendita, senza possedere la titolarità parziale dei diritti in esso dedotti".
Entrambe le doglianze, che è possibile trattare congiuntamente per il legame che lo stesso ricorrente ha loro impresso, sono infondate.
I giudici d'appello hanno già affrontato e risolto le questioni poste dal C. e in particolare l'esistenza di una presupposizione secondo la quale l'acquisto del terreno "sarebbe stato subordinato all'erogazione del mutuo da parte della banca" (sentenza appello pag. 4), e l'imputabilità del ritardo di un anno nella stipula al fatto che "una parte dei terreni non risultava intestata al venditore" (pag. 5).
La sentenza ricostruisce la vicenda negoziale ricordando che dopo la regolarizzazione catastale, avvenuta il (OMISSIS), era venuto meno ogni motivo di ritardo nei pagamento; che il convenuto ne era stato informato (vengono citati i documenti 14 e 15, contro i quali nulla è stato dedotto in ricorso); che il (OMISSIS) ora stata inoltrata diffida ad adempiere e che il legale del C. aveva risposto con una lettera dilatoria, inidonea a giustificare la mancata stipula, con conseguente risoluzione ex art. 1454 c.c..
Il Collegio d'appello ha quindi considerato, per un duplice ordine di motivi, "assolutamente superflue" le prove orali volte a dimostrare la presupposizione. In primo luogo perché la esistenza e l'effetto della presupposizione non erano stati opposti neppure in occasione della diffida ad adempiere. In secondo luogo perché l'evento relativo alla concessione del mutuo si era ormai verificato, come attestato dal documento 13 dell'appellato.
Orbene, i motivi di ricorso, sopra riassunti, non si sono fatti carico di criticare l'apparato argomentativo della sentenza e di spiegare per qual motivo, il promissario acquirente, già nel possesso dei beni, a fronte della regolarizzazione formale della proprietà già avvenuta da un anno, nel (OMISSIS) non avesse opposto l'esistenza della presupposizione, invocata nel successivo giudizio.
Dai documenti 14 e 15 la Corte territoriale aveva tratto prova della inesistenza di ostacoli alla vendita sin dal (OMISSIS), circostanza che risulta non confutata in ricorso. Par intenti, non è stato negato che la disponibilità della banca ad erogare il mutuo fosse stata conseguita già da tempo e che quindi l'evento dedotto come presupposizione si era già avverato, secondo quanto risultante da un documento, il n. 13, che parte ricorrente non ha riportato né analizzato, come invece era indispensabile per inficiare la validità del convincimento tratto dalla Corte.
Si badi in proposto che l'indagine volta a stabilire se una determinata situazione sia stata tenuta presente dai contraenti nella formulazione del consenso secondo lo schema della presupposizione, si colloca sul piano propriamente interpretativo del contratto, e costituisce, pertanto, una valutazione di fatto, riservata, come tale, al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici o giuridici (Cass. 14629/2001).
La prova della pattuizione della presupposizione è stata affidata da parte ricorrente, con la censura per vizio di motivazione, alla richiesta di ammissione ed espletamento delle prove testimoniali. respinte dai giudici di merito. La richiesta è però doppiamente incongrua. Un primo rilievo che le si oppone è che con essa la parte istante non si è fatta carico di criticare le motivazioni svolte dalla sentenza impugnata, che imponevano di spiegare:
a) la novità della tesi della presupposizione, mai dedotta nel lungo rapporto intrecciatosi prima che fossero adite la vie legali;
b) per qual motivo la disponibilità della banca a erogarle il mutuo fosse stata ritirata dall'istituto di credito, circostanza rilevante e decisiva per escludere che il mancato avveramento della presupposizione non fosse ad essa imputabile, come richiesto dalla configurazione dell'istituto (cfr. Cass. 6631/2006 e Cass. 19144/2004, 14629/2001 per le quali il venir meno o il verificarsi dalla presupposizione deve essere del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti).
Ai giudici d'appello, in sostanza, è apparso evidente che quand'anche la presupposizione fosse stata pattuita, essa aveva trovato avveramento con la dichiarata disponibilità della banca a erogare il mutuo nel (OMISSIS). Per dimostrare la persistente attualità della condizione, la parte istante doveva quindi dimostrare che le successive vicende che avevano portato alla successiva mancata erogazione (nonostante la lunga attesa del venditore) non lo erano imputabili.
Parte ricorrente non offre neppure in questa sede indicazioni utili a superare la rilevanza del cd. avveramento. Né le prove testimoniali avrebbero raggiunto lo scopo, perché qui cade il secondo rilievo che impedisce di accogliere la censura - non indicavano la motivazione data dalla banca al rifiuto di nuova erogazione (capo 4) e miravano a far affermare al teste l'esistenza della condizione, chiedendogli in sostanza un giudizio sul contenuto di una pattuizione che non era stata riportata in contratto, benché fosse di tale enorme rilevanza da contraddire sia l'avvenuta consegna anticipata dei terreni, sia il mancato richiamo di essa per i tre anni in cui si era dipanata la vicenda.
Bene ha fatto quindi la Corte territoriale a ritenere superflue le prove orali dedotte, che per la loro incompletezza e genericità non avrebbero scalfito le tesi accolte in motivazione.
E' quindi priva di pregio la censura relativa alla mancata comparazione degli inadempimenti delle parti: il rinvio del rogito nel (OMISSIS) per provvedere alla regolarizzazione dell'intestazione al promittente venditore fu infatti concordemente accettato e non risulta che vi sia nesso di causalità tra detto rinvio e il rifiuto della banca, nel (OMISSIS), di dar corso alla deliberata concessione del mutuo. La Corte d'appello ha chiaramente fatto riferimento a una risposta meramente dilatoria del legale del ricorrente a fronte delle sollecitazioni a comparire davanti al notaio. La circostanza, non specificamente confutata con l'esame del relativo documento (l'accesso al quale è precluso alla Corte trattandosi di denuncia di vizio in indicando), conferma la irrilevanza causale, nello svolgersi della vicenda, del rinvio del rogito del (OMISSIS), al quale peraltro, a suo tempo, se si fosse trattato di inadempienza, il promissario acquirente avrebbe potuto reagire chiedendo la risoluzione del contratto.
Il rigetto dei profili esaminati del ricorso comporta l'assorbimento della censura relativa all'omessa pronunci a sulla fissazione del termine per la stipula ai sensi dell'art. 1183 c.c., che avrebbe avuto senso solo in caso di insussistenza dell'inadempimento di parte acquirente e accoglimento del ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 18.09.2009 n. 20245).

EDILIZIA PRIVATASecondo le disposizioni contenute nel P.T.P., sono consentiti, tra l''altro, interventi di ristrutturazione edilizia che non comportino incrementi dei volumi edilizi esistenti e nei limiti dettati dal precedente art. 7 (art. 12). In tale zona risulta comunque vietato <<qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti… gli attraversamenti di elettrodotti o di altre infrastrutture aeree… la coltivazione delle cave…l’ampliamento delle grotte e delle cavità esistenti>> (art. 12, comma 3).
Come rilevato in precedenti decisioni giurisprudenziali “l’indicata normativa, nell’ammettere alcuni limitatissimi interventi nella zona in questione, non consente invece, in modo rigoroso, la possibile realizzazione di nuovi volumi o, comunque, di nuove opere edilizie, tra cui rientrano quelle opere che si configurano come volumi rilevanti ai fini paesaggistici, senza che al riguardo sia dato distinguere tra volumi esterni (ritenuti non consentiti anche ove si tratti di volumi tecnici) e volumi interrati".
Occorre infatti, a tal riguardo, distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici. Difatti, lo stesso volume che a fini edilizi -per le sue caratteristiche- può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, ove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
Ed infatti le norme di tutela -al fine di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali- possono ben vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, ritenuti irrilevanti secondo le norme che regolano l’attività edilizia.
Ne consegue, per restare al caso in esame, che anche la realizzazione di volumi sotterranei (ai quali in ogni caso, come descritto nella stessa relazione tecnica-agronomica agli atti, avrebbero dovuto affiancarsi interventi “esterni” quali la realizzazione di terrazze di contenimento, rampe e scale oltre naturalmente alla rampa di accesso ed al suo conseguente muro di contenimento laterale) determinano opere rilevanti ai fini paesaggistici e come tali si pongono in contrasto con quelle disposizioni volte ad impedire la realizzazione di nuove strutture stabili rilevanti ai fini paesaggistici.
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Anche il Consiglio di Stato sul punto ha precisato che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, ed è stato ritenuto che costituisce opera valutabile come aumento di volume anche la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto <<ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi: proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire>>.

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5.- Si può quindi passare al merito delle censure sollevate avverso il provvedimento della Soprintendenza impugnato.
Con il primo ed il secondo motivo la ricorrente sostiene l’illegittimità del decreto indicato in epigrafe (per la violazione dell’articolo 159 del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e dell’articolo 12, nn. 3 e 4 del Piano Territoriale Paesistico di Posillipo), in quanto la Soprintendenza ha ritenuto vietata in zona RUA la realizzazione di nuovi volumi anche interrati, malgrado sia evidente che questi non arrecano pregiudizio ai valori paesaggistici, non sussistendo ingombro visivo.
Peraltro, questa era l’interpretazione della norma ritenuta compatibile con il PTP sia dall’amministrazione comunale che dalla stessa Soprintendenza, fino al parere reso dall’Avvocatura in data 08.05.2008.
Inoltre il provvedimento impugnato contraddittoriamente richiamerebbe un principio richiamato nell’art. 12 punto 3 riguardo agli “interventi ammissibili” per affermare che il progetto approvato dal Comune di Napoli contrasterebbe con la norma del Piano paesistico in quanto <<non è orientato alla ricostruzione del verde secondo l’applicazione di principi fitosociologici che rispettino i processi dinamico-evolutivi e di potenzialità delle vegetazioni delle aree>>, laddove invece i “divieti e le limitazioni” sono contenuti nel punto 4 del citato art. 14.
6.- Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, non risultano fondate.
Il P.T.P. dell’area di Posillipo, approvato con D.M. 14.12.1995 (in G.U. n. 47 del 26.02.1996), sottopone infatti a disposizioni di tutela particolarmente rigorose una delle aree di maggiore rilevanza, sotto il profilo naturalistico, ambientale e paesistico della città di Napoli.
Secondo le disposizioni contenute nel P.T.P., anche nelle aree R.U.A., di Recupero urbanistico edilizio e di Restauro paesistico-ambientale, in cui è collocata l’area in questione, sono consentiti, oltre agli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di bonifica e ripristino ambientale del sistema vegetale, previsti in generale dall’art. 9, solo interventi volti alla conservazione del verde agricolo residuale, per la ricostituzione del verde, per la riqualificazione di strade, piazze e marciapiedi nonché interventi di ristrutturazione edilizia che non comportino incrementi dei volumi edilizi esistenti e nei limiti dettati dal precedente art. 7 (art. 12).
In tale zona risulta comunque vietato <<qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti… gli attraversamenti di elettrodotti o di altre infrastrutture aeree… la coltivazione delle cave…l’ampliamento delle grotte e delle cavità esistenti>> (art. 12, comma 3).
Come rilevato in precedenti decisioni giurisprudenziali “l’indicata normativa, nell’ammettere alcuni limitatissimi interventi nella zona in questione, non consente invece, in modo rigoroso, la possibile realizzazione di nuovi volumi o, comunque, di nuove opere edilizie, tra cui rientrano quelle opere che si configurano come volumi rilevanti ai fini paesaggistici, senza che al riguardo sia dato distinguere tra volumi esterni (ritenuti non consentiti anche ove si tratti di volumi tecnici) e volumi interrati".
Occorre infatti, a tal riguardo, distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici. Difatti, lo stesso volume che a fini edilizi -per le sue caratteristiche- può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, ove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
Ed infatti le norme di tutela -al fine di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali- possono ben vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, ritenuti irrilevanti secondo le norme che regolano l’attività edilizia.
Ne consegue, per restare al caso in esame, che anche la realizzazione di volumi sotterranei (ai quali in ogni caso, come descritto nella stessa relazione tecnica-agronomica agli atti, avrebbero dovuto affiancarsi interventi “esterni” quali la realizzazione di terrazze di contenimento, rampe e scale oltre naturalmente alla rampa di accesso ed al suo conseguente muro di contenimento laterale) determinano opere rilevanti ai fini paesaggistici e come tali si pongono in contrasto con quelle disposizioni volte ad impedire la realizzazione di nuove strutture stabili rilevanti ai fini paesaggistici.
6.- Anche il Consiglio di Stato sul punto ha precisato che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (Consiglio di. Stato, Sezione IV, n. 102 del 1997), ed è stato ritenuto che costituisce opera valutabile come aumento di volume anche la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto <<ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi: proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire>> (Consiglio di Stato sentenza n. 2388 dell’11.05.2005 citata).
A ciò si deve aggiungere che le rigorosissime norme di tutela che si sono richiamate (artt. 9 e 12, punto 3 del P.T.P.) non consentono nel territorio di Posillipo (tanto in zona RUA che di PI) nemmeno “l’ampliamento delle grotte e delle cavità esistenti”, concetto che da questa stessa sezione è stato interpretato in senso assolutamente restrittivo con riferimento a “qualsiasi modificazione, alterazione, modifica di destinazione d’uso”, anche non comportante aumento di volume (TAR Napoli, IV sez. n. 21568 del 29.12.2008): a maggior ragione, quindi, si deve ritenere vietata anche la creazione di nuovi volumi, benché sotterranei.
7. In pratica, fatti salvi i limitati interventi che si sono sommariamente indicati, nell’area in questione, come già affermato da questo TAR con la sentenza n. 494 del 27.01.2004, adottata in un’altra vicenda riguardante la realizzazione di un parcheggio interrato (decisione poi confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2388 dell’11.05.2005; per una questione analoga riguardante l’area di San Martino si veda anche la sentenza di questa Sezione n. 492 del 27.01.2004, poi confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza della VI Sezione n. 6756 del 29.11.2005), sono vietate tutte quelle opere che determinano un’alterazione dello stato dei luoghi e, per quel che qui interessa, è vietato qualsiasi intervento che comporti la manomissione e l’alterazione delle superfici destinate a verde (aree vegetazionali naturali), atteso che l’art. 12 al punto 3 espressamente vieta- oltre agli attraversamenti di elettrodotti o di altre infrastrutture aeree- addirittura anche “il taglio e l’espianto della vegetazione arbustiva di macchia mediterranea spontanea, fatta eccezione per le sole ipotesi in cui le essenze arboree siano interessate da affezioni fitopatologiche –per motivi di sicurezza della ulteriore vegetazione esistente- quando sia strettamente necessario “per gli scavi e il restauro di monumenti antichi da parte delle competenti Soprintendenze” (art. 12 del P.T.P.).
Nel caso in esame, è la stessa Relazione tecnico-agronomica (all. 9 del ricorso) a chiarire –a nulla rilevando che si tratti di vegetazione che non presenta nessun carattere di pregio storico-botanico- che “la flora esistente sarà mantenuta (solo) ove possibile”, nel senso che ove l’effettuazione degli scavi comporti –come è logico- la distruzione della vegetazione esistente, il progetto ne avrebbe comportato, nell’intenzione della ricorrente, la ricostituzione secondo l’originaria consistenza.
Inoltre, per la parte “non interessata dal manufatto in progetto”, le pratiche di sistemazione avrebbero riguardato “una messa a regime della flora esistente per correggerne la sostanziale fittezza”, con previsione anche di “incremento e sostituzione di piante, per la realizzazione di percorsi fruibili dai visitatori”, interventi non ammissibili ai sensi del punto 4 dell’art. 12 del PTP che in zona RUA ammette esclusivamente “interventi volti alla conservazione del verde agricolo residuale” ed espressamente vietati ai sensi del punto 3 che vieta “il taglio e l’espianto di alberi di alto fusto e della vegetazione arbustiva di macchia mediterranea spontanea”.
8. In relazione a quanto esposto, si deve pertanto ritenere che, come sostenuto dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici ed il Paesaggio di Napoli e Provincia, l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Napoli in favore del ricorrente per la realizzazione del parcheggio interrato, ai sensi dell’art. 159 del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42, risultasse viziata per la mancata osservanza delle indicate disposizioni del P.T.P. dell’area di Posillipo, con la conseguente illegittimità della stessa autorizzazione per violazione di legge.
Legittimamente, pertanto, la Soprintendenza ne ha disposto l’annullamento sulla base del potere di annullamento d'ufficio per motivi di legittimità, riconosciuto al Ministero per i Beni Culturali, ai sensi dell'art. 159, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (ex multis: TAR Puglia Lecce, sez. I, 17.04.2008, n. 1141, TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.02.2008, n. 551) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 04.03.2009 n. 1267 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’approvazione del nuovo piano cave e la previsione all’interno dello stesso della possibilità di estrarre materiale per almeno 3.000.000 mc configurano una presupposizione comune, ossia, secondo la definizione accettata in giurisprudenza, una condizione non sviluppata o inespressa (in questo caso di diritto), avente carattere oggettivo, a cui è subordinata la persistenza degli effetti derivanti dal contratto.
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... per l'adempimento dell’atto unilaterale d’obbligo sottoscritto da Consorzio dell’Isola, Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl in data 05.12.2003;
...
1. La vicenda in esame si colloca nella transizione dal vecchio piano cave della Provincia di Bergamo (approvato dalla Regione con DCR n. 4/1731 del 09.11.1989 e con DCR n. 4/1968 del 21.03.1990) al nuovo piano in itinere (adottato dalla Provincia con DCP n. 16 del 16.03.2004, approvato dalla giunta regionale con DGR n. 8/1547 del 22.12.2005 e trasmesso al consiglio regionale per l’approvazione definitiva).
2. Occorre premettere subito che in base all’art. 10, comma 4, della LR 08.08.1998 n. 14 il piano cave per i settori sabbia, ghiaia e argille ha validità massima di 10 anni a decorrere dalla data di esecutività. Il successivo art. 42, commi 2 e 3, della medesima legge stabilisce però che i piani approvati dalla Regione nella vigenza della precedente disciplina conservano efficacia sino all’esecutività dei nuovi piani e costituiscono la base per l’autorizzazione da parte delle province dell’attività estrattiva nei limiti della disponibilità residua di materiale nonché per l’approvazione di nuovi progetti di gestione produttiva all’interno dei singoli ambiti estrattivi.
3. Il piano cave del 1990 (esecutivo dal 02.05.1990) ha individuato tra gli altri l’ambito estrattivo BP8g situato nel territorio dei Comuni di Calusco d’Adda, Medolago e Solza all’interno del Parco Adda Nord. Nel suddetto ambito (avente superficie pari a 42 ettari, di cui 26 destinati allo scavo e 16 come area residua) era prevista l’estrazione di sabbia e ghiaia per una produzione massima di 600.000 mc all’anno e di 6.000.000 mc nel decennio 1985-1994. Al termine dell’utilizzazione come cava era previsto il recupero dell'area per usi naturalistici e agricoli.
4. La Regione con DCR n. 6/555 del 09.04.1997 ha approvato la revisione del piano cave del 1990 per il settore sabbia e ghiaia. La superficie dell’ambito estrattivo BP8g è stata aumentata a 51,5 ettari, la produzione massima annua è stata confermata in 600.000 mc, mentre la produzione complessiva del periodo 1995-2000 è stata fissata in 2.750.000 mc.
Al termine dell’attività estrattiva è prevista la destinazione agricola e naturalistica con fruizione pubblica. Una novità importante, che costituisce il centro della presente controversia, è data dall’aggiunta di una prescrizione in base alla quale l’autorizzazione dell’attività estrattiva è subordinata a un’intesa da definire attraverso una conferenza di servizi tra gli enti e gli organi interessati.
5. L’ambito estrattivo BP8g è coltivato dal Consorzio dell’Isola, costituito nel 1977 dalle ditte Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl. Queste società sono proprietarie di un’area di circa 450.000 mq ricompresa nell’ambito estrattivo.
6. Dopo la revisione del piano cave del 1997 il Consorzio dell’Isola ha presentato alla Provincia in data 09.07.1997 una domanda di autorizzazione al proseguimento dell’attività estrattiva di sabbia e ghiaia e una contestuale domanda di concessione mineraria per due mappali di proprietà di terzi, precisamente il mappale n. 968 nel Comune di Calusco d’Adda e il mappale n. 449 nel Comune di Solza.
Le richieste avevano come oggetto una quantità di materiale pari a 1.700.000 mc. La Provincia ha avviato una procedura per raggiungere un accordo tra le parti pubbliche e private nel rispetto di quanto stabilito dalla revisione del piano cave del 1997. La metodologia utilizzata consiste nella ricerca di un’intesa tra le parti pubbliche (nella forma dell’accordo di programma) preceduta da una conforme dichiarazione di volontà dei privati mediante atti unilaterali d’obbligo e seguita dal richiamo di questi atti all’interno delle convenzioni aventi ad oggetto l’attività estrattiva.
7. La prima dichiarazione finalizzata al raggiungimento di una posizione condivisa è l’atto unilaterale d’obbligo sottoscritto dalle ditte del Consorzio dell’Isola il 29.07.1998. Tale atto è stato poi modificato con dichiarazioni del 09.12.1998 e del 16.03.1999.
Tenendo conto delle modifiche sopravvenute il contenuto degli obblighi assunti dai privati può essere sintetizzato nel seguente schema:
   a) la zona di scavo è puntualmente delimitata (con indicazione dei relativi mappali);
   b) la quantità massima di materiale estraibile è determinata in complessivi 4.700.000 mc: di questi 1.700.000 mc sono oggetto della richiesta di autorizzazione già presentata il 09.07.1997 e i restanti 3.000.000 mc si intendono autorizzabili in un secondo momento (per il rilascio della prima autorizzazione è fissato il termine indicativo del 31.03.1999 e lo stesso termine vale per il rilascio della concessione mineraria riguardante i due mappali di proprietà di terzi, con la specificazione che in ogni caso gli atti autorizzativi non possono ritardare di oltre 30 mesi dalla stipula dell’accordo di programma);
   c) l’attività estrattiva deve comunque terminare entro il 30.06.2006;
   d) le ditte del Consorzio dell’Isola si impegnano a cedere gratuitamente ai Comuni tutte le aree di loro proprietà inserite nell’ambito estrattivo BP8g al momento del rilascio dell’autorizzazione relativa all’escavazione di 1.700.000 mc conservando il diritto di usufrutto sino al termine dell’attività estrattiva e comunque non oltre il 30.06.2006;
   e) il trasferimento della nuda proprietà è sottoposto a una condizione risolutiva costituita dal rilascio dell’autorizzazione all’escavazione di 3.000.000 mc entro il 31.03.2002: in caso contrario ai Comuni è riservata la scelta tra la retrocessione delle aree e l’acquisizione definitiva delle stesse al prezzo di espropriazione;
   f) gli impianti devono essere completamente smantellati entro il 30.06.2010 previo ripristino ambientale del sito.
La dichiarazione del 16.03.1999 precisa che i termini indicati nell’atto unilaterale d’obbligo si intendono prorogati sino alla definizione dei procedimenti autorizzativi dell’attività di escavazione.
8. L’intesa tra le parti pubbliche è stata raggiunta con l’accordo di programma stipulato in data 17.03.1999 dai Comuni di Calusco d’Adda, Medolago e Solza, dalla Provincia, dalla Regione e dal Consorzio del Parco Adda Nord. Questo accordo non è stato sottoscritto né dal Consorzio dell’Isola né dalle ditte che ne fanno parte.
La finalità dichiarata dagli enti pubblici è di ottenere la cessazione dell’attività di escavazione (che i Comuni considerano una fonte di rischio ambientale) entro un termine certo assicurando nel contempo alle ditte del Consorzio dell’Isola la possibilità di estrarre una congrua quantità di materiale (stimata dal Consorzio del Parco Adda Nord precisamente in 3.000.000 mc, che si aggiungono alla quantità di 1.700.000 mc già prevista dal piano cave del 1990).
Il bilanciamento di interessi è definito negli stessi termini esposti nell’atto unilaterale d’obbligo (v. sopra al punto 7), con la precisazione che il rilascio dell’autorizzazione per lo scavo di 3.000.000 mc presuppone l’adeguamento del piano cave e del piano del Parco Adda Nord. Vi è difformità nella previsione relativa allo smantellamento degli impianti (per il quale è indicato il termine finale del 31.12.2008).
9. La procedura per il rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.700.000 mc è proseguita con la sottoscrizione da parte del Consorzio dell’Isola di tre distinte (ma analoghe) convenzioni con i Comuni di Calusco d’Adda (20 maggio 1999), Medolago (21.05.1999) e Solza (04.05.1999). Tali convenzioni, previste dall’art. 15 della LR 14/1998 quali condizioni necessarie per il rilascio dell’autorizzazione, riportano l’elenco delle aree da scavare e il contributo spettante ai Comuni per le spese collegate alla presenza delle cave.
Nella medesima convenzione (per quanto riguarda il Comune di Medolago) e in atti separati (per gli altri due Comuni) il Consorzio dell’Isola ha inoltre assunto obblighi ulteriori (versamenti di somme una tantum, realizzazione di strade e piste ciclabili, costruzione di impianti sportivi). In data 28.05.1999 è stata stipulata anche una convenzione con il Consorzio del Parco Adda Nord.
10. L’autorizzazione allo scavo di 1.700.000 mc è stata rilasciata dalla Provincia in due parti: una prima autorizzazione annuale per 480.000 mc con DGP n. 828 del 12 ottobre 1999 (a cui si aggiunge la concessione mineraria triennale riguardante lo sfruttamento dei mappali n. 968 e 449 di proprietà di terzi) e una seconda autorizzazione per 1.220.000 mc con determinazione dirigenziale n. 1284 del 13.06.2001. In realtà quest’ultimo provvedimento indica un quantitativo superiore (1.340.000 mc) perché si è tenuto conto del materiale non utile (120.000 mc) scavato sulla base della prima autorizzazione.
Essendo ormai scaduto (in data 2 maggio 2000) il vecchio piano cave la seconda autorizzazione è stata rilasciata in regime transitorio sulla base di quanto previsto dall’art. 42, comma 2, della LR 14/1998. Il termine finale della seconda autorizzazione è stato fissato al 02.05.2003 per quanto riguarda l’attività di estrazione e al 02.05.2005 per gli interventi di ripristino ambientale. Con determinazione dirigenziale n. 2950 del 07.10.2002 il termine per l’estrazione è stato prorogato al 20.09.2003, e il termine per il ripristino ambientale è stato prorogato al 20.09.2005.
11. Benché con il rilascio delle autorizzazioni riguardanti lo scavo di 1.700.000 mc si fosse realizzato il presupposto per il trasferimento delle aree ai Comuni secondo quanto previsto dall’atto unilaterale di impegno del 29.07.1998 e dall’accordo di programma (v. sopra ai punti 7 e 8) le parti non hanno proceduto in questo senso ma hanno ridefinito i reciproci rapporti prendendo come riferimento la successiva fase di escavazione.
12. Precisamente, in data 20.12.2002 il Consorzio dell’Isola ha chiesto alla Provincia, ancora in regime transitorio, l’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc quale prima parte del quantitativo di 3.000.000 mc previsto dall’accordo di programma.
Al fine di ottenere la predetta autorizzazione (nonché la proroga della concessione mineraria relativa al mappale n. 968) il Consorzio dell’Isola e le ditte che lo compongono hanno sottoscritto in data 05.12.2003 un’integrazione all’atto unilaterale d’obbligo con il seguente contenuto:
   a) l’escavazione complessiva di 3.000.000 mc (suddivisa in due blocchi rispettivamente di 1.225.000 mc e di 1.775.000 mc) deve essere conclusa entro il 31.12.2008;
   b) rimane confermato l’impegno delle ditte del Consorzio dell’Isola a cedere gratuitamente ai Comuni tutte le aree di loro proprietà inserite nell’ambito estrattivo BP8g (di cui è riportato l’elenco);
   c) tuttavia la cessione è graduata diversamente: tutte le aree sono cedute entro 15 giorni dal rilascio dell’autorizzazione all’escavazione di 1.225.000 mc (e dalla proroga della concessione mineraria relativa al mappale n. 968) ma per una parte (aree elencate al paragrafo 2.1) la cessione è a titolo definitivo mentre per la restante parte (aree elencate al paragrafo 2.2) è sottoposta a condizione risolutiva;
   d) tale condizione è costituita dal rilascio dell’autorizzazione all’escavazione di 1.775.000 mc entro il 31.12.2006: se la condizione non si realizza ai Comuni è riservata la scelta tra la retrocessione e l’acquisizione definitiva al prezzo di espropriazione; e) il diritto di usufrutto si conserva (su tutte le aree) fino al 31.12.2008 per quanto riguarda l’attività estrattiva e prosegue fino al 31.12.2010 per gli interventi di ripristino ambientale.
13. L’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 è stato recepito dai Comuni attraverso le successive convenzioni stipulate con il Consorzio dell’Isola ai sensi dell’art. 15 della LR 14/1998. La sottoscrizione è avvenuta rispettivamente il 15.12.2003 (Comuni di Calusco d’Adda e Solza) e il 16.12.2003 (Comune di Medolago).
Le convenzioni riportano l’elenco delle aree da scavare e il contributo spettante ai Comuni per le spese collegate alla presenza delle cave. Anche in questo caso come già nel 1999 il Consorzio dell’Isola ha assunto obbligazioni ulteriori, nella medesima convenzione (per quanto riguarda il Comune di Medolago) e in atti separati (per gli altri due Comuni): si tratta di versamenti di somme una tantum e della realizzazione di opere di urbanizzazione e di manutenzione della viabilità comunale.
14. La Provincia con determinazione dirigenziale n. 1291 del 06.04.2004, preso atto della stipula delle convenzioni con i Comuni, ha autorizzato lo scavo di 1.225.000 mc e la proroga della concessione mineraria relativa al mappale n. 968 (in entrambi i casi è stato dato termine fino al 31.12.2004 per l’estrazione e fino al 31.12.2006 per il recupero ambientale). Con determinazione dirigenziale n. 4579 del 03.12.2004 questi termini sono stati così prorogati: fino al 07.10.2006 per l’estrazione e fino al 07.10.2008 per il recupero ambientale.
15. L’autorizzazione allo scavo del restante quantitativo di 1.775.000 mc non è mai stata rilasciata. Il ritardo può essere addebitato alla situazione di incertezza causata dalla mancanza del nuovo piano cave, che seppure adottato nel 2004 (v. sopra al punto 1) non è ancora stato definitivamente approvato. Nel piano in itinere l’ambito estrattivo BP8g è stato mantenuto con la denominazione di ATEg31.
La superficie prevista è di 58,5 ettari con una produzione consentita di 3.500.000 mc nel decennio di validità. Quale destinazione finale è ancora prevista quella agricola e naturalistica con fruizione pubblica (da ripristinare entro il 2010). Tra le prescrizioni è inserito un richiamo all’accordo di programma del 17.03.1999 e al successivo aggiornamento: in particolare si precisa che nel totale dei 3.500.000 mc consentiti sono compresi i 500.000 mc scavati dopo il 31.12.2002 e i 3.000.000 mc previsti dall’accordo di programma.
Il Consorzio dell’Isola ha presentato osservazioni alla Regione il 19.04.2006 e il 25.05.2006 chiedendo tra l’altro l’ampliamento dell’ambito estrattivo a 63,1 ettari, l’eliminazione di ogni riferimento all’accordo di programma del 17.03.1999 e al relativo aggiornamento, e l’eliminazione della data del 2010 quale termine ultimo tanto per l’escavazione quanto per il recupero ambientale. Al momento della decisione della presente controversia è in corso l’istruttoria in sede consiliare.
16. I Comuni con nota del 12.05.2004 (e successivi solleciti del 05.07.2005, 23.09.2005, 18.11.2006, 23.11.2006 e 24.11.2006) hanno chiesto al Consorzio dell’Isola di cedere le aree indicate nell’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 (v. sopra al punto 12) essendosi verificato il presupposto consistente nel rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc e nella proroga della concessione mineraria relativa al mappale n. 968. Il Consorzio dell’Isola e le ditte che lo compongono hanno però rifiutato preferendo attendere il nuovo piano cave.
17. Al fine di ottenere la cessione delle suddette aree i Comuni di Calusco d’Adda, Medolago e Solza hanno presentato ricorso con atto notificato il 22.12.2006 e depositato il 04.01.2007. In particolare i Comuni chiedono che sia accertato l’obbligo di cessione gratuita sorto in seguito al rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc e alla proroga della concessione mineraria relativa al mappale n. 968, e che sia pronunciata una sentenza ai sensi dell’art. 2932 cc. che tenga luogo del contratto di cessione.
Il Consorzio dell’Isola e le società Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl si sono costituiti in giudizio chiedendo la reiezione delle domande dei ricorrenti sia in rito (per difetto di giurisdizione) sia nel merito, e proponendo a loro volta tre domande:
   a) annullamento, risoluzione o dichiarazione di nullità dell’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003;
   b) annullamento o dichiarazione di nullità delle convenzioni del 1999 e del 2003 con le quali il Consorzio dell’Isola ha assunto obblighi ulteriori nei confronti dei Comuni;
   c) condanna dei Comuni a restituire gli importi spesi o versati dal Consorzio dell’Isola e dalle ditte componenti sulla base delle suddette convenzioni (somma stimata in € 1.128.549,03 per il Comune di Calusco d’Adda, € 905.070,19 per il Comune di Medolago, e € 223.295,39 per il Comune di Solza) oltre a interessi e rivalutazione.
18. Per quanto riguarda la giurisdizione si osserva che l’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 ridefinisce il contenuto del precedente atto unilaterale del 29.07.1998, il quale a sua volta è richiamato nell’accordo di programma del 17.03.1999. Quest’ultimo è stato previsto dalla revisione del piano cave del 1997 quale condizione per le successive autorizzazioni provinciali allo scavo.
Gli atti unilaterali sono richiamati anche nelle convenzioni del 1999 e del 2003 tra il Consorzio dell’Isola e i Comuni ricorrenti in vista del rilascio delle autorizzazioni provinciali. Risulta quindi evidente che gli atti unilaterali sono dichiarazioni di volontà inserite in un più ampio quadro negoziale che integra le premesse e il contenuto dei provvedimenti amministrativi riguardanti l’attività estrattiva.
Si sottolinea al riguardo che il principale obbligo previsto negli atti unilaterali, ossia l’impegno a cedere le aree di proprietà da parte delle ditte che compongono il Consorzio dell’Isola, è strutturato in due forme: a) cessione gratuita nel caso di rilascio dell’autorizzazione allo scavo dell’intera quantità di materiale preventivata; b) cessione onerosa (con corrispettivo pari all’indennità di espropriazione) nel caso di autorizzazione parziale.
La possibilità di cedere a prezzo di espropriazione è una facoltà prevista dall’art. 14, comma 3, della previgente LR 30.03.1982 n. 18 per il caso in cui il piano cave stabilisca una destinazione finale di tipo pubblico (come nel caso in esame): il contenuto puntuale di tale facoltà è poi rimesso agli accordi tra le parti. A sua volta l’art. 15, comma 2, della LR 14/1998 disciplina la possibilità per le parti di convenire la cessione dell’area di escavazione una volta esaurito il giacimento.
Gli atti unilaterali e il quadro negoziale in cui gli stessi si collocano rappresentano un’applicazione particolare delle suddette norme, e dunque si inseriscono pienamente nella categoria degli accordi integrativi di cui all’art. 11 della legge 07.08.1990 n. 241. Per questi accordi la giurisdizione amministrativa riguarda non soltanto la formazione e la conclusione ma anche l’esecuzione.
19. Passando al merito, occorre approfondire il meccanismo di scambio tra le parti.
Come si è visto sopra ai punti 7 e 12, mentre il primo atto unilaterale (29.07.1998) prevedeva la cessione gratuita al momento del rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.700.000 mc sotto la condizione risolutiva costituita dal rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 3.000.000 mc entro il 31.03.2002, nel secondo atto unilaterale (05.12.2003) la cessione segue all’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc (e alla proroga della concessione mineraria relativa al mappale n. 968) ma la condizione risolutiva (costituita dal rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.775.000 mc entro il 31.12.2006) riguarda solo una parte delle aree (quelle elencate al paragrafo 2.2).
In entrambi i casi la cessione delle aree è collegata alla prosecuzione dell’escavazione nella fase transitoria. L’elemento che differisce (a parte i riferimenti temporali) è unicamente la misura delle aree che sono soggette all’eventualità della retrocessione o dell’acquisto a prezzo di espropriazione (tutte le aree nel primo atto unilaterale, solo una parte nel secondo).
Poiché si tratta di quantitativi di sabbia e ghiaia di cui si dispone in via anticipata rispetto al nuovo piano cave, che rappresenta la cornice regolatoria indispensabile per ratificare l’escavazione già avvenuta e per individuare il limite delle nuove autorizzazioni, si può ritenere che le parti abbiano negoziato sul presupposto che il nuovo piano cave consenta l’escavazione di materiale per almeno 3.000.000 mc.
Risulta infatti chiaro l’intento delle parti di raggiungere un equilibrio economico basato sullo scambio tra la consumazione del territorio per un valore economico corrispondente a 3.000.000 mc di materiale (oltre al quantitativo di 1.700.000 già garantito dal vecchio piano cave) e l’acquisto gratuito al patrimonio comunale delle aree per la successiva fruizione pubblica.
Il trasferimento della proprietà prima che sia verificata la possibilità di estrarre l’intero quantitativo di 3.000.000 mc sulla base del nuovo piano cave creerebbe una distorsione non bilanciata dalla clausola di retrocessione, sia perché la retrocessione è prevista per una parte soltanto delle aree sia perché può essere sostituita a scelta dei Comuni con il pagamento del prezzo di espropriazione (che rappresenta un valore indennitario non coincidente con il valore di mercato).
Senza un’adeguata provvista di materiale nel nuovo piano cave non è quindi possibile rispettare l’equilibrio economico voluto dalle parti.
Per questo motivo
l’approvazione del nuovo piano cave e la previsione all’interno dello stesso della possibilità di estrarre materiale per almeno 3.000.000 mc configurano una presupposizione comune, ossia, secondo la definizione accettata in giurisprudenza (v. Cass. civ. Sez. II 14 agosto 2007 n. 17698; Cass. civ. Sez. III 25 maggio 2007 n. 12235; Cass. civ. Sez. III 24 marzo 2006 n. 6631), una condizione non sviluppata o inespressa (in questo caso di diritto), avente carattere oggettivo, a cui è subordinata la persistenza degli effetti derivanti dal contratto.
20. Occorre precisare che il nuovo piano cave può condizionare sotto il profilo dell’efficacia ma non può travolgere la sistemazione di interessi voluta dalle parti, che si radica nella disciplina del vecchio piano e ha dato origine a posizioni ormai cristallizzate. L’eventuale speranza dei privati che il nuovo piano cave contenga una disciplina più favorevole rimane una semplice riserva mentale e non consente agli stessi di sottrarsi agli obblighi assunti, i quali formano la legge speciale dell’ambito estrattivo in questione.
Pertanto non è condivisibile la tesi del Consorzio dell’Isola e delle società Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl secondo cui gli atti unilaterali e l’accordo di programma sarebbero destinati a rimanere senza effetti in mancanza del nuovo piano cave e verrebbero comunque sostituiti dallo stesso una volta entrato in vigore.
Sotto il primo profilo è vero che nell’accordo di programma si precisa che il rilascio dell’autorizzazione per lo scavo di 3.000.000 mc presuppone l’adeguamento del piano cave (v. sopra al punto 8) ma questa clausola non è mai stata intesa dalle parti come una condizione sospensiva, e in effetti a ciascun atto unilaterale sono seguite le autorizzazioni provinciali allo scavo (v. sopra ai punti 10 e 14) e così il Consorzio dell’Isola ha potuto estrarre dapprima un quantitativo di materiale pari a 1.700.000 mc e poi un altro pari a 1.225.000 mc.
Poiché il comportamento delle parti è un parametro di interpretazione dei contratti (art. 1362 cc.) risulta chiaro che nella rappresentazione comune il nuovo piano cave non è la condizione per effettuare l’escavazione ma l’atto amministrativo che accertando definitivamente la quantità massima di materiale scavabile consolida la composizione di interessi già definita.
21. Più in dettaglio per quanto riguarda le conseguenze del nuovo piano cave, escluso che lo stesso possa sciogliere le parti dai vincoli assunti convenzionalmente, occorre distinguere: a) il caso in cui sia prevista una quantità di materiale inferiore a quella presupposta dalle parti; b) il caso in cui tale quantità coincida; c) il caso in cui sia prevista una quantità superiore.
Nella prima ipotesi sarebbe impossibile autorizzare per intero lo scavo di 1.775.000 mc e dunque sarebbe necessario avviare nuove trattative per ridefinire l’acquisizione delle aree da destinare alla fruizione pubblica tenendo conto del quantitativo di materiale scavabile. Nella seconda ipotesi vi sarebbe il consolidamento puro e semplice delle statuizioni delle parti.
Infine nella terza ipotesi vi sarebbe parimenti il consolidamento degli impegni assunti dalle parti e sorgerebbe la necessità di disciplinare in separata sede lo scavo della quantità eccedente e il regime delle eventuali aree non prese in considerazione dalle parti.
22. Gli altri elementi previsti dagli atti unilaterali, dall’accordo di programma e dalle convenzioni finalizzate all’escavazione devono essere interpretati all’interno del quadro generale sopra delineato. In particolare la tempistica deve essere letta tenendo conto sia dell’evoluzione dei rapporti tra le parti sia dei ritardi della procedura autorizzativa derivanti a cascata dalla mancata approvazione del nuovo piano cave.
Della possibilità di ritardi le parti erano consapevoli fin dall’inizio, come risulta dalle specificazioni sul carattere indicativo dei termini e dalla dichiarazione del 16.03.1999 che chiarisce il significato del primo atto unilaterale (v. sopra al punto 7). Dunque è irrilevante tanto il fatto che la procedura autorizzativa non si sia conclusa nei termini previsti dal primo atto unilaterale quanto il fatto che non sia ancora stata autorizzata l’escavazione dell’ultimo blocco di materiale pari a 1.775.000 mc.
Con riguardo in particolare a quest’ultima circostanza si ribadisce che il superamento del termine del 31.12.2006 non incide sull’accordo nel suo complesso ma sulla retrocessione (oltretutto parziale) delle aree, la quale rimane una facoltà dei Comuni ricorrenti in alternativa al pagamento di un prezzo pari all’indennità di espropriazione.
23. Interpretando l’accordo secondo buona fede (art. 1366 cc.) si deve ritenere che se non viene rispettato il termine per il rilascio dell’autorizzazione allo scavo devono essere correlativamente differiti i termini per la conclusione dell’attività estrattiva e per il ripristino ambientale. Poiché le parti hanno definito un intervallo minimo di 2 anni tra l’ultimo giorno utile per il rilascio dell’autorizzazione (31.12.2006) e il completamento dell’escavazione (31.12.2008), nonché un intervallo di altri 2 anni per gli interventi di ripristino ambientale (31.12.2010), i medesimi intervalli devono essere riconosciuti a partire dalla data della futura autorizzazione allo scavo di 1.775.000 mc.
L’equilibrio economico viene in questo modo salvaguardato secondo l’intenzione comune delle parti garantendo a ciascuna il conseguimento del proprio interesse (come descritto sopra al punto 19) ma seguendo una diversa modulazione temporale (che peraltro potrebbe essere ridefinita dal nuovo piano cave o da ulteriori accordi tra le parti). In questa ricostruzione l’unico adempimento che rimane privo di un termine preciso è il rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.775.000 mc.
Si tratta però di un elemento integrabile secondo i principi generali (art. 1183 cc.) tenendo conto delle circostanze già utilizzate dalle parti nella definizione dei reciproci rapporti, e quindi considerando da un lato l’esigenza del Consorzio dell’Isola di proseguire senza soluzione di continuità nell’estrazione e dall’altro l’esigenza di verificare se effettivamente il piano cave in itinere consenta l’autorizzazione di un tale quantitativo (circostanza che appare probabile sulla base dello schema attualmente disponibile: v. sopra al punto 15). Pertanto l’autorizzazione dovrà essere rilasciata entro un termine ragionevole (in considerazione degli adempimenti istruttori) a partire dall’entrata in vigore del nuovo piano cave.
24. Le questioni circa la validità dell’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 e degli obblighi aggiuntivi assunti mediante le convenzioni del 1999 e del 2003 (v. sopra ai punti 9 e 13) non possono essere esaminate in questa sede come azioni perché non è stato instaurato il contraddittorio mediante ricorso incidentale (v. CS Sez. V 31.01.2001 n. 353) ma devono essere prese in considerazione come eccezioni di merito astrattamente idonee a impedire l’accoglimento del ricorso. Peraltro gli argomenti del Consorzio dell’Isola e delle società Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl non sono condivisibili.
Gli atti unilaterali e le predette convenzioni non sono atti posti in essere al di fuori dei principi dell’ordinamento: al contrario (come si è visto sopra al punto 18) fanno parte del procedimento autorizzativo e sono uno strumento legittimamente utilizzabile per garantire il conseguimento di finalità pubbliche. Non si tratta neppure di atti annullabili per violenza ai sensi dell’art. 1434 cc. o per minaccia ex art. 1438 cc. con riguardo al rischio di cessazione dell’attività estrattiva.
In concreto le parti, attraverso contatti che si sono protratti nel tempo, hanno raggiunto un bilanciamento di interessi basato su una stima attendibile delle potenzialità estrattive del sito (contestata solo ex post nel presente giudizio dai resistenti, che affermano ora la presenza di riserve illimitate). A fronte dell’interesse economico collegato all’escavazione doveva necessariamente essere tutelato l’interesse pubblico alla conservazione del territorio, che costituisce una causa legittima di limitazione delle aspettative dei cavatori. Non vi è stato quindi alcun abuso da parte delle amministrazioni ma la semplice attuazione della regia pubblica prevista dalla revisione del piano cave del 1997 (v. sopra al punto 4).
Per quanto riguarda poi gli impegni ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 15 della LR 14/1998 si osserva che valgono in proposito considerazioni analoghe a quelle svolte dalla giurisprudenza circa la legittimità delle convenzioni urbanistiche contenenti per i privati oneri maggiori di quelli previsti ex lege (v. CS Sez. IV 28.07.2005 n. 4015; TAR Brescia 10.01.2007 n. 2).
Nei settori dove i privati consumano risorse di interesse pubblico (sotto questo profilo non vi è differenza tra il territorio, l’ambiente o il materiale estrattivo) la ricerca di un punto di equilibrio tra interessi privati e pubblici passa normalmente attraverso atti negoziali nei quali la definizione dei rispettivi obblighi e vantaggi è lasciata alla disponibilità delle parti. Pertanto le somme spese o versate sulla base delle convenzioni del 1999 e del 2003 non sono ripetibili.
25. Tenendo conto delle considerazioni svolte ai punti precedenti la domanda dei Comuni ricorrenti, che ha come oggetto una sentenza ex art. 2932 cc., non può essere accolta integralmente. Occorre precisare che l’azione ex art. 2932 cc. ha un duplice contenuto, accertativo e costitutivo. L’accertamento del diritto è pregiudiziale alla pronuncia che tiene luogo del contratto e comporta l’esame della validità e dell’efficacia del negozio posto a fondamento della domanda (v. Cass. civ. Sez. II 28.05.2007 n. 12398).
Per questa parte il ricorso risulta fondato, in quanto è stato accertato che il Consorzio dell’Isola e le ditte che lo compongono sono obbligati a cedere gratuitamente ai Comuni ricorrenti tutte le aree di loro proprietà indicate nell’atto unilaterale del 05.12.2003. Alla pronuncia di accertamento non può tuttavia essere associata quella costitutiva. Come si è visto sopra ai punti 19 e 21 l’equilibrio economico definito dalle parti può essere mantenuto solo qualora il nuovo piano cave consenta l’escavazione di almeno 3.000.000 mc.
La presenza di questa presupposizione non consente di emettere una sentenza che produca gli effetti del contratto, in quanto fino all’entrata in vigore del nuovo piano cave non vi è la certezza legale della quantità di materiale scavabile. Peraltro la pronuncia di accertamento e quella costitutiva possono essere scisse, anche quando l’accertamento riguardi un diritto condizionato (nel caso in esame la presupposizione opera analogamente a una condizione risolutiva).
Si osserva in proposito che la giurisprudenza considera ammissibile l'azione di accertamento di un diritto sottoposto a condizione in quanto, anche per il diritto condizionato, l'interesse ad agire deriva dalla sussistenza di un oggettivo stato di incertezza che l'attore ha interesse a rimuovere (v. Cass. civ. lav. 19.02.2000 n. 1936).
26. In conclusione è accertato il diritto dei Comuni ricorrenti a ottenere la cessione gratuita di tutte le aree indicate nell’atto unilaterale del 05.12.2003 ma è respinta la richiesta di una sentenza che produca gli effetti del contratto. Di conseguenza il Consorzio dell’Isola e le ditte che lo compongono dovranno effettuare direttamente la cessione gratuita, nel temine stimato congruo di 120 giorni dall’entrata in vigore del nuovo piano cave, una volta verificato che lo stesso contiene una provvista di volumetria di almeno 3.000.000 mc.
La complessità di alcune questioni consente l’integrale compensazione delle spese tra le parti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.09.2008 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Allorquando un privato venda un immobile con l'obbligo del comune acquirente di destinarlo alla realizzazione di un centro scolastico e, successivamente, il comune ne modifichi la destinazione urbanistica e lo ceda a privati per realizzare insediamenti residenziali e terziari, non ricorrono i presupposti per dichiarare risolto il contratto, sotto il profilo della presupposizione, per il venir meno di un presupposto tenuto presente dai contraenti nella formazione del loro consenso e condizionante l'esistenza ed il permanere del vincolo negoziale.
Ciò poiché la compravendita costituisce momento attuativo di una convenzione urbanistica che non priva il comune del potere di imprimere alle aree (interessate da una anteriore cessione) una diversa destinazione, la quale è situazione dipendente dalla volontà dello stesso comune.

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Nel resto è sufficiente rilevare che, secondo l'accertamento risultante dalla decisione impugnata,
la compravendita rappresentava il momento attuativo di una convenzione urbanistica che, come questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare (cfr.: Cass. civ., sez. 2^, sent. 28.08.2000, n. 11208; Cass. civ., sez. 1^, sent. 08.06.1995, n. 6482), non priva il Comune del potere di imprimere una diversa destinazione alle aree interessate da una anteriore cessione, e non lo strumento negoziale attraverso il quale, in presenza di un piano di localizzazione e, in ogni caso, di una dichiarazione di pubblica utilità, il privato soggiace al diritto del Comune di acquisire la proprietà della superficie con conseguente assenza di libertà dell'ente di determinarsi diversamente in ordine alla sua utilizzazione (cfr.: Cass. civ., sez. 1^, sent. 15.05.1997, n. 4293).
Esattamente, quindi, la decisione di secondo grado, dopo avere premesso, in applicazione di principi ripetutamente affermati da questa Corte, che la presupposizione nel contratto di una futura situazione, di fatto o di diritto, ricorre quanto, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle relative clausole, la stessa è stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto avente valore determinante ai fini dell'esistenza e del permanere del vincolo contrattuale, e la sua esistenza, cessazione e verificazione abbia carattere obiettivo, in quanto sia del tutto indipendente dall'attività o dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione (cfr.: Cass. civ., sez. 3^, sent. 24.03.2006, n. 6631; Cass. civ., sez. 2^, sent. 23.09.2004, n. 19144; Cass. civ., sez. 1^, sent. 21.11.2001, n. 14629), ha escluso la sussistenza in concreto di una ipotesi di presupposizione essendo la conservazione od il mutamento della destinazione dell'area una variabile esterna al contratto in quanto dipendente dalla volontà del Comune (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.08.2007 n. 17698).

ATTI AMMINISTRATIVI: Presupposizione, causa, differenze, motivi, differenze.
Presupposizione – causa – differenze – motivi – differenze – criteri di interpretazione contrattuale – comportamento delle parti.
La presupposizione non è prevista da alcuna norma di legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca), che viene costantemente definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde -integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.
A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi -essenziali o accidentali- del contratto.
A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare: i cd. presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa dello stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano, diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per la conseguente invalidità del negozio).
Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.
La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una qualità giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacché a parte il rilievo che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno a fortiori tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della presupposizione, giacché l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto.
Come correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione, assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere -come detto- dedotte specificamente quale condizione del contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es. l'ottenimento dello sperato finanziamento).
Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di inefficacia del contratto, né a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c., art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione, bensì all'esercizio del potere di recesso (anche qualora il presupposto obiettivo del contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi).
Nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun contraente presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della dovuta diligenza.
Per interpretare correttamente la volontà contrattuale delle parti, bisogna considerare anche il comportamento.

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MASSIMA
Sotto il primo profilo il ricorrente in particolare si duole che la corte di merito abbia escluso, violando la legge ed illogicamente motivando, la ricorrenza nel caso della figura della
presupposizione, da rinvenirsi allorquando "una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso -pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali  come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine:
1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti;
2) che l'evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla condizione);
3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione
(Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629).
S
icché la "presupposizione è ... configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all'esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento" (Cass. 09.11.1994, n. 9304)
".
Orbene,
la presupposizione -vale anzitutto osservare- non è invero prevista da alcuna norma di legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca) contestato da gran parte della dottrina, che vi ravvisa una condizione non sviluppata del negozio o un motivo non assurto a clausola condizionale, ma accolto in giurisprudenza anche di legittimità, ove viene costantemente definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde -integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (v. Cass., 23/09/2004, n. 19144; Cass., 04/03/2002, n. 3052; Cass., 21/11/2001, n. 14629; Cass., 08/08/1995, n. 8689).
Va al riguardo ulteriormente precisato che,
come posto in rilievo da una parte della dottrina, la presupposizione costituisce in realtà un fenomeno articolato, cui vengono ricondotti fatti e circostanze sia di carattere obiettivo che valorizzati dalla volontà delle parti.
A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi -essenziali o accidentali- del contratto.

A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare (cfr. Cass., 08/05/2006, n. 10490).
I cd. presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa dello stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano, diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per la conseguente invalidità del negozio).
Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.

La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una qualità giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto: cfr. Cass., 19/03/1981, n. 1635).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacché a parte il rilievo che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della presupposizione, giacché l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto.
Come correttamente osservato in dottrina,
alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione, assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere -come detto- dedotte specificamente quale condizione del contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es. l'ottenimento dello sperato finanziamento).
Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di inefficacia del contratto, né a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c., art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass., 22/09/1981, n. 5168 ), bensì all'esercizio del potere di recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi).
Nel caso di specie il ricorrente, che non ha esercitato il recesso, non deduce la violazione della causa o dell'oggetto o della condizione del contratto, ma lamenta invero l'erroneità della ravvisata esclusione di rilevanza nel caso proprio della specifica figura della presupposizione, dolendosi che la corte di merito non abbia accolto il prospettato riverberarsi sul relativo profilo causale.
Sul piano della validità del contratto, dunque. Ovvero, secondo ulteriore ed alternativa impostazione, su quello della inefficacia del contratto laddove i fatti e le circostanze che la integrano determinano l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Orbene, va al riguardo affermato che in base al significato del contratto -accertato facendo esercizio dei poteri loro spettanti- i giudici del merito hanno invero escluso, dandone congrua motivazione, che nel caso le parti abbiano assegnato rilievo, quale specifico presupposto oggettivo, all'idoneità al normale funzionamento dell'impianto di depurazione in questione.
A fronte della questione già in sede di gravame di merito oggetto di censura da parte dell'allora appellante Comune, la corte d'appello ha infatti al riguardo posto in rilievo che "la semplice lettura delle premesse e dell'art. 2 del contratto evidenzia come, a fronte dell'impegno dell'Ilva spa di trasferire al Comune la proprietà di un consistente appezzamento di terreno di sua proprietà e di garantirne il funzionamento, l'Ente locale avesse assunto l'obbligo di fornire alla società, ripartiti uniformemente in un ventennio, duecento milioni di metri cubi di acqua trattata e depurata nell'impianto realizzando "o eventualmente proveniente in tutto o in parte da altre fonti sostitutive" con le modalità ed alle condizioni nel contratto in seguito elencate".
Altresì sottolineando essere "evidente come una tale prospettazione dei reciproci obblighi, con l'aggiunta nel quadro complessivo della fornitura costante di ossigeno al depuratore a prezzo di costo, accollasse al Comune il rischio di avvenimenti successivi che per malfunzionamento dell'impianto determinassero il ricorso per la fornitura di acqua a risorse esterne a quelle offerte dal depuratore e, quindi, in realtà attribuissero al Comune l'onere di apprestare e realizzare un impianto idoneo ad evitare il verificarsi di una tale onerosa eventualità ... infatti, sebbene alle condizioni che saranno in seguito meglio illustrate, la fornitura di acqua sostitutiva si presentava in contratto non come subordinata, ma, semplicemente, come alternativa a quella depurata".
Se ne è quindi tratto che "l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi ... cioè il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito paragrafo (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna uniforme dell'acqua proveniente da fonti sostitutive".
Il rischio della fornitura sostitutiva, si sottolinea nell'impugnata sentenza, era stato cioè assunto come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal malfunzionamento dell'impianto di depurazione. Tanto più che, comunque, nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, né in se stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, né nelle loro dimensioni, mentre in tale contesto (tra l'altro i malfunzionamenti sembrano essere iniziati nel 1985 e proseguiti a partire dal 1989) non vi sono in causa elementi minimi idonei che consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a fornire acqua depurata idonea ad usi industriali.
Tale interpretazione della corte di merito risulta invero correttamente operata e congruamente motivata, in conformità ai principi più sopra richiamati, da essa con tutta evidenza emergendo come l'idoneità dell'impianto di depurazione al normale funzionamento nella specie in realtà inerisca alla qualità giuridica del bene. A tale stregua, pertanto, quale presupposto intrinseco della prestazione dall'Amministrazione comunale nel caso contrattualmente assunta, il cui difetto se del caso diversamente rileva, alla stregua di quanto sopra esposto, sul piano dell'inadempimento.
La censura del ricorrente non può trovare d'altro canto accoglimento nemmeno riguardando l'inidoneità al normale funzionamento del depuratore de quo sotto il profilo dell'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Va al riguardo anzitutto esclusa l'ammissibilità della prospettazione dell'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione.
Pur se in passato da questa Corte in effetti non sempre respinta (v. Cass., 17/05/1976, n. 1738), va al riguardo osservato che -come in dottrina non si e invero mancato di porre in rilievo-
il riferimento alla presupposizione viene a far inammissibilmente ridondare l'eccessiva onerosità sul piano dell'interpretazione del contratto, laddove essa viceversa rileva a prescindere dalla volontà delle parti, quale rimedio dall'ordinamento concesso in reazione all'alterazione non già dei presupposti specifici (valorizzati appunto dalla presupposizione) bensì dei presupposti generici del contratto, subordinandone cioè il mantenimento alla persistenza delle normali condizioni di mercato e di vita sociale su di esso incidenti.
L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (diversamente dalla più sopra evocata impossibilità sopravvenuta della prestazione, quale rimedio all'alterazione del cd. sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta) non incide sulla causa del contratto, non impedendo l'attuazione dell'interesse con esso concretamente perseguito, ma trova diversamente fondamento nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo eccezionale aggravamento economico derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici.

Mentre nei contratti a titolo gratuito l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario della prestazione ed il valore successivo, trattandosi come nella specie di contratto oneroso(pennuta), l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni, laddove una prestazione non trova più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva (v. Cass., 13/02/1995, n. 1559).
Atteso un tanto, risponde invero a principio recepito che, per poter ai sensi dell'art. 1467 c.c. determinare la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere determinata dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili.
Il carattere della straordinarietà è di natura obiettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi (come la frequenza, le dimensioni, l'intensità, ecc.) suscettibili di misurazione, tali pertanto da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quantomeno di ordine statistico
(v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/02/2001, n. 2661; Cass., 09/04/1994, n. 3342).
Il carattere della imprevedibilità deve essere valutato secondo criteri obiettivi, riferiti ad una normale capacità e diligenza media, avuto riguardo alle circostanze concrete del caso sussistenti al momento della conclusione del contratto (v. Cass., 13/02/1995, n. 1559), non essendo invero sufficiente l'astratta possibilità dell'accadimento.
L'accertamento da parte del giudice di merito della sussistenza o meno dei caratteri di straordinarietà ed imprevedibilità degli eventi che hanno determinato l'eccessiva onerosità di una delle prestazioni corrispettive previste in contratti ad esecuzione differita spetta peraltro al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione
(v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/02/2001, n. 2661).
Orbene, il Comune ricorrente basa la propria odierna impugnazione sulla distinzione tra meri "casi eccezionali specificamente previsti" di variazione e "impossibilità assoluta di effettuare la depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" quale fattore di alterazione dell'"equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta)".
A parte il rilievo che nell'adombrare siffatta prospettazione omette di considerare che il mutamento di valore concerne nel caso entrambe le prestazioni, laddove in presenza di contratto come nella specie oneroso l'aggravio consiste -come sopra esposto- nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni corrispettive, e non già nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario ed il valore successivo della singola prestazione (viceversa rilevante per i contratti a titolo gratuito), dovendo pertanto considerarsi non solamente il valore della prestazione a suo carico in ragione del diverso costo dell'acqua oggetto di fornitura ma anche il valore dei beni immobili ricevuti in permuta con relativa valutazione comparativa in ragione dei rispettivi attualizzati valori che non risulta nel caso invero compiuta, va osservato che diversamente da quanto dal medesimo lamentato la corte di merito ha invero esaminato e specificamente disatteso l'argomento secondo cui si sia nel caso trattato di un evento imprevedibile.
Nel sottolineare che il fenomeno dell'allaccio abusivo di scarichi era al contrario senz'altro prevedibile, a fortiori per chi -come appunto l'odierno ricorrente- è addirittura investito ex lege della funzione pubblica di controllare e monitorare nonché regolare in concreto gli interventi in materia, anche avvalendosi dei poteri di competenza quale soggetto di diritto pubblico ("da ciò consegue come l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi"), non configurandosi invero al riguardo il pericolo di commistione di funzione e di ruoli paventato dal ricorrente, la corte di merito ha invero posto in rilievo come nel caso le parti abbiano espressamente preso in considerazione l'eventualità del non corretto funzionamento dell'impianto di depurazione, specificamente prevedendo in contratto una prestazione sostitutiva ("il Comune, consapevole che l'Italsider non intendeva correre alcun rischio relativo a inadeguatezze dell'impianto di depurazione, circa l'entità e la qualità dell'acqua da ricevere in contropartita della cessione del terreno, se ne è accollato totalmente il carico anche economico, chiedendo un contributo del 30%, come subito dopo nel contratto specificato, nel solo caso in cui il ricorso a fonti sostitutive fosse reso necessario da cause di forza maggiore consistenti in eventi naturali, tra cui pacificamente non rientrano gli scarichi abusivi di cui si tratta;
... dunque, non essendo indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi addirittura prevista la continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali, non sembra sostenibile, di fronte all'obbligo inderogabile di rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider, la tesi per cui possa ritenersi caso eccettuato od imprevedibile quello di inidoneità permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di un evento tra l'altro così prevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di rilievo
").
Costituisce d'altro canto principio recepito in giurisprudenza di legittimità quello per il quale nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun contraente presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della dovuta diligenza (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989).
Orbene, in esplicazione dei poteri ad essi spettanti i giudici di merito hanno nel caso accertato essere stato tale fenomeno invero contrattualmente previsto e regolato "il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito paragrafo") (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna "uniforme" dell'acqua proveniente da fonti sostitutive ... cioè il rischio della fornitura sostitutiva era stato assunto come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal mal-funzionamento dell'impianto di depurazione ... d'altra parte e comunque, nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, né in se stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, né nelle loro dimensioni ...".
Né può d'altro canto nella specie assegnarsi in qualche modo rilievo alla tesi dottrinaria secondo cui la sopravvenienza di circostanze pur prevedibili rende comunque eccessivamente gravosa, e pertanto inesigibile, l'adempimento della prestazione, giacché come si è al riguardo da altra parte della dottrina correttamente obiettato si viene in tal caso a vertere in tema d'inadempimento, e non già di alterazione dell'economia contrattuale (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 25.05.2007 n. 12235 - link a www.altelax.com).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA: La cessione volontaria costituisce un contratto c.d. ad oggetto pubblico che si inserisce necessariamente nell'ambito del procedimento di espropriazione, che l'espropriando ha il diritto di convenire in seguito ad un subprocedimento predisposto dalla L. n. 865 del 1971, art. 12 e ad un prezzo pur esso predeterminato in base a criteri inderogabili stabiliti dalla legge del tempo, che costui può soltanto accettare (o rifiutare); e che ha anche l'effetto di porre termine al procedimento, eliminando la necessità dell'emanazione del decreto di espropriazione (richiesto, invece, nel caso di mancata accettazione dell'offerta) e dello svolgimento del subprocedimento di determinazione dell'indennità definitiva.
Da qui gli elementi costitutivi indispensabili per configurarla e che valgono altresì a differenziarla dalla compravendita di diritto comune:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo del quale, dunque, la cessione costituisce un momento avente la funzione di conseguirne il risultato peculiare (acquisizione della proprietà dell'immobile all'espropriante) con uno strumento alternativo di natura privatistica;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di P.U. dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata (puramente e semplicemente) con la sequenza e le modalità previste dal menzionato art. 12;
c) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo deve correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per la sua espropriazione, dai quali non è possibile in alcun modo discostarsi.
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La presupposizione è configurabile solo quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo subordinatamente all'esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto della volontà negoziale, la mancanza del quale provoca la caducazione del contratto, ancorché a tale situazione comune ad entrambi i contraenti non si sia fatto nell'atto espresso riferimento; l'indagine diretta all'identificazione della sussistenza di una presupposizione costituisce accertamento riservato all'apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici (nella specie, la S.C. ha giudicato incensurabile la sentenza impugnata, che aveva ritenuto non ravvisare ipotesi di presupposizione, in relazione ad una compravendita, nella destinazione a edilizia scolastica di un immobile acquistato da un Comune, non trattandosi di base obiettiva influente sull'assetto degli interessi delle parti, corrispondendo invece allo scopo soggettivo per cui l'amministrazione acquirente, previo esperimento della procedura di evidenza pubblica, si era determinata alla stipulazione del contratto).

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2. Con il primo motivo del ricorso, C.A., deducendo violazione della L. n. 2359 del 1865, art. 13 e 39, della L. n. 17 del 1962, art. 2, L. n. 1063 del 1962, art. 7, L. n. 1358 del 1964, art. 2, L. n. 1 del 1978, n. 1, nonché delle Leggi Rag. Lombarda n. 40 del 1974, censura la sentenza impugnata per aver respinto la domanda di retrocessione per mancanza di un contratto di cessione volontaria e di un procedimento espropriativo senza considerare:
a) che sussisteva una valida dichiarazione di P.U. dell'opera da realizzare, contenuta nel D.P.R. Lombarda 21.12.1977, ancora valido al tempo della cessione perché il termine di 36 mesi da esso previsto riguardava soltanto l'inizio dei lavori ed aveva quindi natura meramente ordinatoria;
b) che il termine di decadenza della dichiarazione di P.U. introdotto dalla L. n. 1 del 1978, art. 1, non era applicabile a fattispecie espropriative previste da normative speciali, quali la Legge reg. Lombardia n. 40 del 1974;
c) che in data 12.12.1979, in cui era ancora in corso il predetto termine di 36 mesi, l'amministrazione comunale aveva approvato il primo programma pluriennale di attuazione del piano di fabbricazione del comune, relativo agli interventi da attuare nel triennio 1979/1981, comprendente l'acquisizione dell'ex Convento ubicato nell'immobile in questione;
d) che in data 30.06.1981 era stato definitivamente approvato il P.R.G. del comune di Chiavenna; per cui l'inclusione di un'area privata in detto piano che ne contemplava la destinazione alla realizzazione di edifici scolastici, assumeva comunque valore di dichiarazione di P.U.;
e) che tanto nel decreto sindacale di accesso nell'immobile in data 22.10.1981, quanto in ogni altro atto del comune e nello stesso rogito notarile si dava atto della procedura espropriativa in corso;
f) che il prezzo della cessione corrispondeva a quello di legge essendo stato individuato tenendo conto del valore venale del terreno già edificato ed in misura sicuramente inferiore, come accertato dalla consulenza tecnica espletata, al prezzo di mercato dell'epoca.
2.1. Il motivo è del tutto inconsistente.
Il ricorrente muove infatti dal presupposto che la cessione dell'immobile prevista dalla L. n. 865 del 1971, art. 12, comma 1, e L. n. 359 del 1992, art. 5-bis, si distingua dalla vendita di cui agli art. 1470 cod. civ. e segg., solo sotto un profilo temporale, funzione del momento in cui sia stata stipulata rispetto alla dichiarazione di P.U., nel senso che se questo momento è successivo, essa debba ritenersi compiuta "in costanza di procedura espropriativa" (pag. 15) ed assumere sempre e comunque tale nomen iuris piuttosto che quello di compravendita; e quanto al prezzo, che la differenza sia meramente quantitativa nel senso che soltanto nella vendita di diritto comune -e non anche nella cessione- esso possa o debba raggiungere il valore di mercato dell'immobile.
Ragion per cui anche in questo grado del giudizio ha incentrato le proprie difese sull'asserita preesistenza di una dichiarazione di P.U., prospettata come ancora valida ed efficace, alla data (01.12.1981) del rogito notarile che ne ha operato il trasferimento; e sulla non corrispondenza del prezzo di cessione convenuto tra le parti nella misura di L. 420.000.000 all'effettivo valore commerciale del bene asseritamene stimato dalla consulenza eseguita nel giudizio di primo grado nel maggior importo di L. 795.000.000, perciò solo qualificando il contratto di cessione volontaria conclusa nell'ambito di detta procedura ablativa ed invocando il diritto di ottenere la chiesta retrocessane dell'immobile per essersi verificati i presupposti dalla L. n. 2359 del 1865, art. 63, della mancata esecuzione dell'opera pubblica programmata e della scadenza dei termini assegnati dalla dichiarazione di P.U..
Sennonché questa Corte fin dalle pronunce meno recenti ha specificato che
la cessione volontaria costituisce un contratto c.d. ad oggetto pubblico che si inserisce necessariamente nell'ambito del procedimento di espropriazione, che l'espropriando ha il diritto di convenire in seguito ad un subprocedimento predisposto dalla L. n. 865 del 1971, art. 12 e ad un prezzo pur esso predeterminato in base a criteri inderogabili stabiliti dalla legge del tempo, che costui può soltanto accettare (o rifiutare); e che ha anche l'effetto di porre termine al procedimento, eliminando la necessità dell'emanazione del decreto di espropriazione (richiesto, invece, nel caso di mancata accettazione dell'offerta) e dello svolgimento del subprocedimento di determinazione dell'indennità definitiva (Cass. 17102/2002; 8970/2001; 14901/2000).
Da qui
gli elementi costitutivi indispensabili per configurarla e che valgono altresì a differenziarla dalla compravendita di diritto comune:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un procedimento espropriativo del quale, dunque, la cessione costituisce un momento avente la funzione di conseguirne il risultato peculiare (acquisizione della proprietà dell'immobile all'espropriante) con uno strumento alternativo di natura privatistica;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo della dichiarazione di P.U. dell'opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell'indennità da parte dell'espropriante che deve essere da quest'ultimo offerta e dall'espropriando accettata (puramente e semplicemente) con la sequenza e le modalità previste dal menzionato art. 12;
c) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo deve correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per la sua espropriazione, dai quali non è possibile in alcun modo discostarsi
(Cass. 24589/2005; 11435/1999; 4759/1996; 2513/1994).
In conformità a questi principi, risultava già decisivo per escludere la ricorrenza di una cessione volontaria quanto accertato dalla sentenza impugnata (pag. 10) in merito a queste ultime due condizioni, che cioè l'amministrazione comunale non aveva determinato l'indennità provvisoria di espropriazione di cui al ricordato dalla L. n. 865 del 1971, art. 12 e non l'aveva offerta ai C. che conseguentemente non avevano potuto accettarla; e, per converso, che il prezzo di vendita era stato concordato tra le parti con contratto preliminare del 27.10.1961 -e poi recepito nel rogito definitivo dell'1 dicembre successivo- in seguito a perizia estimativa stragiudiziale, eseguita per incarico del comune con riferimento al valore venale dell'immobile: senza alcuna correlazione, dunque, con i parametri di stima dell'indennità allora costituiti dalla L. n. 385 del 1980, che ne aveva reintrodotto la determinazione sia pure a titolo provvisorio, e con salvezza espressa di conguaglio, in base ai valori tabellari di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 16.2.2.
Il C. non ha, infatti, contentato alcuna di dette circostanze, che ha anzi confermato nel ricorso (pag. 25 e segg.) ove ha riferito di averle prospettate fin dall'atto introduttivo del giudizio (pag. 3, 4, 9), per cui divengono del tutto ininfluenti le considerazioni sulla dedotta non corrispondenza del prezzo di vendita -determinato dalle parti al di fuori della procedura ablativa e dei criteri inderogabili dalla stessa predisposti- con quelli effettivi di mercato praticati nel 1981 nel comune di Chiavenna per immobili aventi caratteristiche analoghe.
Ma perde soprattutto di rilievo il dibattito riproposto nel ricorso, sull'esistenza di una procedura ablativa in corso alla data del rogito notarile, che il comune ha escluso in radice ravvisando nel D.Pr. Regione Lombardia 21.12.1977 la mera individuazione, conforme alla previsione della L.R. n. 40 del 1974, art. 9 (da cui secondo lo stesso ricorrente e la sentenza impugnata era disciplinata la realizzazione dell'opera pubblica), delle aree all'interno del territorio comunale da adibire ad edilizia scolastica: poi seguita nel termine di 36 mesi concesse dal provvedimento dalla specificazione delle relative opere nel successivo programma pluriennale di attuazione del 12.12.1979 che ha indicato anche l'edificio scolastico da realizzare sul terreno del C.. E che, per converso quest'ultimo non è riuscito a dimostrare neppure nel ricorso attribuendo al termine in questione efficacia meramente acceleratoria di previsione della sola data di inizio "dei lavori e delle eventuali espropriazioni" posto che l'assunto comporterebbe addirittura la nullità della dichiarazione di P.U. ravvisata dalla sentenza impugnata nel provvedimento suddetto, in quanto priva dei termini finali della L. n. 2359 del 1865, ex art. 13, per il loro compimento e perché l'omissione non potrebbe considerarsi integrata e sanata neppure dagli atti e dai provvedimenti successivi indicati dal ricorrente (Cass. Sez. un. 9532/2004; 460/1999; 11351/1998).
D'altra parte, non può giovargli neanche l'addebito rivolto alla sentenza impugnata di non aver collegato i provvedimenti urbanistici adottati dal comune di Chiavenna nel triennio 1979-1981 ed individuato nel loro succedersi la localizzazione dell'opera scolastica programmata dal comune, anzitutto, perché in mancanza del progetto richiesto della L.R. n. 40 del 1974, art. 10, non e ravvisabile alcuna (nuova) dichiarazione di P.U. (per il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi non ricavabile da atti dell'amministrazione, rivolti per legge a finalità diverse).
E, soprattutto per il fatto obbiettivo che quest'ultima costituisce soltanto il presupposto (pur indispensabile) per l'insorgenza del potere ablativo; per cui era necessario altresì documentare che il procedimento oltre ad essere iniziatoci era svolto ed era stato portato a compimento con le modalità ed i contenuti richiesti dalla L. n. 865 del 1971, art. 12, per configurare la conclusione del contratto di cessione volontaria.
Laddove lo stesso C. li ha ulteriormente e definitivamente esclusi trascrivendo nel ricorso la delibera consiliare 28.10.1981, n. 103, con cui il comune sul presupposto che l'immobile in questione avesse una destinazione pubblica specifica ex art. 42 Cost., e potesse dunque essere sottoposto ad espropriazione, rinveniva l'opportunità e la convenienza di provvedere al suo acquisto diretto dai proprietari mediante un negozio di diritto comune e senza necessità di ricorso a pur possibili procedure espropriative.
3. Con il secondo motivo, il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 1321 e segg., art. 1325, 1467 e 1418, cod. civ. , nonché dei principi in materia di presupposizione, addebita alla sentenza impugnata di aver escluso la nullità del contratto e comunque la risoluzione di esso per essere mancata o venutamene la presupposizione sulla quale le parti lo avevano fondato, senza considerare:
a) l'intero sviluppo procedimentale della vicenda dal quale risulta che la realizzazione di opere di edilizia scolastica nel centro di Chiavenna aveva costituito il presupposto comune che aveva indotto le parti a stipulare la vendita;
b) che ogni atto posto in essere dall'amministrazione evidenziava e confermava l'esistenza del fine pubblico dell'utilizzazione suddetta; che contestare siffatte circostanze significherebbe addebitare al comune di Chiavenna un comportamento contrario al principio di buona fede, a sua volta causa di invalidità contrattuale;
c) che il fatto presupposto non aveva potuto realizzarsi per il venir meno di alcuni dati obbiettivi esterni alla volontà del comune, quali la modificazione legislativa delle competenze comunali nella materia a favore delle Province;
d) che egli, infine, non aveva denunciato la contrarietà del contratto a norme imperative, bensì la nullità della cessione per assenza di causa, ove fosse stata accertato il difetto della situazione presupposta già al momento della conclusione del negozio.
Anche questo motivo è del tutto infondato.
3.1. Al riguardo il collegio deve rilevare, anzitutto, che quando sulla controversia sia intervenuta sentenza d'appello, questa si sostituisce completamente alla sentenza di primo grado, anche se sia interamente confermativa della precedente; e quindi, che tanto la portata della decisione, quanto le situazioni di fatto e di diritto che devono ritenersi accertate vanno desunte esclusivamente in base ai criteri ed ai limiti della nuova motivazione della sentenza di appello (Cass. 15185/2003; 14892/2000).
Sicché avendo la Corte di Appello respinto le domande subordinate del C. di risoluzione e di nullità del contratto di vendita fondate sull'asserita presupposizione che l'immobile dovesse essere destinato ad edilizia scolastica, per aver ritenuto che non ne ricorrevano gli elementi costitutivi -che detta destinazione si sostanziasse in un presupposto obbiettivo, essendo invece imputabile al comportamento stesso dell'acquirente- nessun rilievo può essere attribuito:
a) alle circostanze che sarebbero risultate pacifiche nel procedimento di primo grado, quali le dichiarazioni dell'amministrazione comunale sull'esistenza della dichiarazione di P.U. e di un procedimento espropriativo in atto;
b) agli accertamenti al riguardo che sarebbero stati compiuti dalla sentenza del Tribunale, peraltro non riportata nel ricorso, anche con riferimento ai vantaggi di natura fiscale che avrebbero indotto il comune ad acquistare il terreno (circostanza questa riportata dalla decisione impugnata come mera "prospettazione dell'appellante", e poi ritenuta ininfluente con riguardo alla ratio decidendi recepita: pag. 12).
E devono, del pari, dichiararsi inammissibili i tentativi del ricorrente di ampliare il thema decidendum, nonché la causa petendi dell'originaria domanda subordinata con la prospettazione di asseriti comportamenti del comune comprovanti naia fede durante l'esecuzione del contratto, nonché, ancor prima, durante le trattativa al fine di mutare l'intendimento originario dei C. di non vendere l'immobile (pag. 34); o rivolti a trarli in errore sulla situazione urbanistica e sulla destinazione pubblicistica di questo, o addirittura a coartarne la volontà che li indusse alla conclusione del rogito notarile (pag. 32).
E di conseguenza gli addebiti mossi alla decisione di non averli esaminati e valorizzati, in quanto il vizio di omessa pronuncia o di omesso esame di punti decisivi (Cass. 10156/2004; 3692/2003) non è configurabile con riguardo a deduzioni estranee al thema della presupposizione, nonché a circostanze prive di qualsiasi rapporto di causalità logica con le situazioni che il ricorrente era tenuto a dimostrare per confermarne la ricorrenza nel contratto di vendita.
3.2.
La presupposizione, infatti, come già rilevato dalla Corte di Appello, è configurabile solo quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo subordinatamente all'esistenza di una data "situazione di fatto" che assurga a presupposto della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta appunto la caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione comune ad entrambi i contraenti (ed indipendente, nel suo verificarsi, dalla volontà dei medesimi) non si sia fatto, nell'atto, espresso riferimento (Cass. 19563/2004; 19144/2004; 14629/2001).
L'istituto, pertanto, estende la sua configurazione generica tanto al campo della condizione come a quello del presupposto in quanto l'evento può essere presente, passato o futuro; ma si specifica rispetto all'uno e all'altra in quanto la sua esistenza non risulta da una dichiarazione, ma dalle stesse circostanze di fatto che i contraenti abbiano tenuto presente come premessa implicita del consenso, indipendentemente dalla loro volontà, onde la presupposizione viene sistematicamente intesa a guisa di una condizione inespressa.
E l'indagine diretta a stabilire se una determinata situazione sia stata dai contraenti, nella formulazione del consenso, tenuta presente secondo il delineato schema si esaurisce sul piano propriamente interpretativo del contratto, costituisce, anch'essa, una valutazione di fatto riservata al Giudice del merito; ed è incensurabile sede di legittimità ove immune di vizi logici e giuridici
(Cass. 3083/1998; 191/1995).
In ottemperanza a questi principi la sentenza impugnata con motivazione che non presta il fianco a censura, ha escluso che la destinazione del complesso immobiliare dei C. ad uso di edilizia scolastica abbia rappresentato una base obiettiva influente sull'assetto degli interessi delle parti, corrispondendo, invece, allo scopo soggettivo che aveva mosso l'amministrazione acquirente alla conclusione del contratto; e sul quale anche dopo il rogito avrebbe potuto incidere soltanto il comportamento di quest'ultima.
E la Corte deve rilevare che si trattava dello scopo imposto all'autorità comunale direttamente dalla legge che non poteva perciò mancare né nel suddetto negozio, né come evidenziato dallo stesso ricorrente, nei provvedimenti amministrativi che lo hanno preceduto, individuando esso l'interesse pubblico specifico cui deve essere preordinato qualsiasi atto della pubblica amministrazione sia esso di natura pubblicistica, che come nel caso concreto, di diritto Comune; e che nella fattispecie era necessario al comune per legittimare l'intero procedimento amministrativo nonché il negozio di esso conclusivo per l'acquisizione dell'immobile C. (cfr. del R.D. n. 383 del 1934, art. 284 nonché alla L. n. 142 del 1990, art. 56, secondo cui la determinazione a contrarre deve indicare tra l'altro "il fine che con il contratto si intende perseguire").
E' noto, infatti, che
l'attività della P.A. anche quando meramente discrezionale non e mai libera (come quella dei privati), ma rivolta comunque a conseguire nel caso concreto l'interesse collettivo generale, nonché fra i diversi fini pubblici perseguibili nell'ambito di un medesimo potere attribuitole, lo speciale interesse collettivo che sta alla base del particolare compito amministrativo da attuare nel caso specifico, che, attenendo dunque all'aspetto funzionale di ogni atto dalla stessa compiuto, rappresenta lo scopo ultimo inerente al potere pubblico esercitato nel caso concreto ed è perciò immanente all'atto da compierei nel duplice senso che esso non può mancare e non essere esplicitato nelle forme previste dall'evidenza pubblica nell'atto medesimo, e che, costituendone la specifica funzione istituzionale, neppure l'autorità amministrativa che lo ha adottato può discostarsene.
Questa regola, ricorrente con maggior rigore negli atti amministrativi incidenti sulla proprietà privata, come le espropriazioni per P.U. la cui legittimità è subordinata dallo stesso art. 42 Cost. alla sussistenza di cause tipiche di pubblica utilità (fra cui appunto la realizzazione di opere pubbliche), non viene meno allorquando l'amministrazione per la realizzazione delle medesima finalità, ricorra agli strumenti giuridici che sono ordinariamente propri dei soggetti privati, quale è certamente il contratto di compravendita, in quanto anche in tal caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte, solo l'attività negoziale, per tutto quel che riguarda la disciplina dei rapporti che dalla stessa scaturiscono, rimane assoggettata ai principi ed alle regole del diritto comune.
Ma non per questo cessano le interferenze delle norme di diritto pubblico attinenti in particolare alla formazione ed estrinsecazione delle sue determinazioni che si concludono con la delibera a contrarre, nonché all'individuazione dell'interesse pubblico specifico da realizzare nella fattispecie costituito proprio dalla destinazione del terreno da acquisire con il contratto alla realizzazione di opere di edilizia scolastica del comune, perciò da non confondere
, come ha fatto il ricorrente (pag. 38 - 39), con l'esistenza di un (valido) procedimento di espropriazione e con le rappresentazioni soggettive delle parti in merito ad essa, per tale ragione non esaminate dalla Corte di Appello.
Il che del resto trova conferma proprio nelle considerazioni con cui costui ha ricordato che detta finalità specifica si trova espressa in tutti indistintamente gli atti amministrativi attraverso cui si era svolto il procedimento rivolto a conseguire l'acquisizione suddetta (cui si potrebbero aggiungere anche i provvedimenti anteriori indicati dalla sentenza impugnata, quali il menzionato D.P.R. Lombardia 21.12.1977), fino alla delibera consiliare n. 183 del 1981, di approvazione del ricorso al contratto di compravendita; che pur si sono concretati in attività interna alla stessa amministrazione, meramente preparatoria e perciò inidonea ad incidere sull'assetto degli interessi del ricorrente, ai quali è rimasta necessariamente estranea.
Ed ha riferito, altresì, che pur dopo la stipula del rogito -in cui si riaffermava che l'acquisto dell'immobile era finalizzato alla realizzazione di opere di edilizia scolastica (pag. 29)- l'amministrazione comunale con delibera n. 83 del 1987 aveva manifestato l'intendimento di provvedere alla costruzione dell'edificio scolastico, non potuto realizzare perché la L.R. n. 23 del 1996, aveva trasferito il relativo compito alle Province: in tal modo ribadendo che la destinazione del terreno C. ad edilizia scolastica sia prima del contratto di compravendita, che in occasione della stipula dell'atto ed anche successivamente aveva costituito non già una situazione obbiettiva di fatto esterna al contratto di compravendita; bensì un interesse primario specifico della amministrazione comunale, sussistente già prima di detto negozio, ribadito in occasione della stipula dell'atto e da essa continuato a perseguire anche successivamente fino alla perdita della relativa competenza istituzionale per effetto delle sopravvenute disposizioni legislative di cui si è detto.
3.3. Tutto ciò non comporta che il proprietario del bene non sia pur esso titolare di un interesse a che l'autorità comunale persegua effettivamente il fine istituzionale dichiaratole che non possa denunciarne le eventuali deviazioni, nonché più a monte, i profili di illegittimità in cui sia incorsa nella scelta del proprio immobile in luogo di altri, per realizzarlo o nell'applicazione delle leggi statali e regionali invocate, nella materia dell'edilizia scolastica.
Ma trattandosi comunque di un interesse legittimo, tanto le menzionate violazioni di legge quanto i possibili sviamenti dal fine suddetto, possono essere fatti valere soltanto davanti agli organi giurisdizionali amministrativi.
4. Con il terzo motivo, deducendo violazione degli artt. 180 e 183 cod. proc. civ., il C. si duole che la Corte di Appello abbia confermato la declaratoria di inammissibilità della domanda di annullamento del contratto di vendita per errore o dolo, malgrado:
a) non corrispondesse al vero che egli l'aveva formulata nell'udienza di trattazione, perché proposta già nell'udienza di prima comparazione di cui all'art. 180 cod. proc. civ.;
b) essa traeva origine dal fatto nuovo e diverso dedotto dal comune nella comparsa di costituzione, costituito dal riconoscimento di aver utilizzato espressioni atte a dichiarare l'esistenza di un procedimento ablativo, non corrispondenti alla realtà, essendo state utilizzate onde ottenere agevolazioni fiscali a vantaggio della stessa amministrazione;
c) si trattava in ogni caso di un nuovo e diverso fatto giuridico, ben più rilevante di un'eccezione in senso proprio, perché immutava i termini della controversia ed attribuiva all'attore il diritto di avvalersi del disposto dall'art. 183 cod. proc. civ., comma 4.
La doglianza è infondata.
Anche con riguardo a questa censura il Collegio deve ribadire che non possono assumere rilevanza per le considerazioni esposte nel motivo precedente l'interpretazione della sentenza di primo grado da parte della decisione impugnata, né le ragioni per le quali la domanda in esame era stata considerata tardiva e, quindi, inammissibile dal Tribunale; o il riferimento di detto Giudice al momento processuale in cui sarebbe stata effettivamente formulata.
Così come qualsiasi disputa sul contenuto effettivo di dette ragioni, in quanto la decisione di primo grado non e soggetta al controllo di legittimità ed il ricorso per Cassazione deve dirigersi esclusivamente contro la sentenza di appello. La quale ha confermato l'inammissibilità della richiesta di annullamento del contratto di vendita ex artt. 1427, 1429 e 1439 cod. civ. , perché non proposta nell'atto di citazione (come ha sempre riconosciuto lo stesso C.); e perché non rientrante nello spazio di ammissibilità delle domande nuove consentite all'attore dall'art. 183 cod. proc. civ., fino alla prima udienza di trattazione.
Siffatta statuizione e le ragioni che la sostengono risultano conformi alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui:
a) il quarto comma dell'art. 183 cod. proc. civ., nella vigente formulazione, consente all'attore di proporre nella prima udienza di trattazione domande nuove e diverse rispetto a quella originariamente proposta solo ove trovino giustificazione nella domanda riconvenzionale o nelle eccezioni avanzate dal convenuto;
b) tale limitata deroga, è rivolta a tutelare la parta attrice, a fronte di iniziative difensive della parte convenuta che mutino i termini oggettivi della controversia, o comunque introducano nel processo ulteriori questioni;
c) la deroga suddetta, non può essere estesa alle semplici controdeduzioni del convenuto volte a contestare le condizioni dell'azione; ma deve intendersi riferita all'eccezione in senso stretto, e postula che rispetto ad essa la nuova domanda o la nuova eccezione dell'attore devono presentarsi come consequenziali: e quindi configurarsi come una controiniziativa necessaria per replicare all'eccezione medesima (Cass. 14581/2004; 12545/2004; 3991/2003).
Nel caso concreto, invece, ad entrambe le (originarie) domande del ricorrente -quella principale di retrocessione dell'immobile (ovvero di declaratoria di impossibilità della stessa per la sua avvenuta irreversibile trasformazione) e quella di risoluzione o di nullità del contratto di vendita per il venir meno della dedotta presupposizione- il comune di C. si è limitato a replicare che ne difettavano i presupposti sopra evidenziati a proposito di ciascuna di esse, ed a sollecitare l'esercizio da parte del Giudice del potere-dovere di riscontrare la ricorrenza delle condizioni e dei requisiti necessari per l'accoglimento delle domande della controparte senza eccepire alcun fatto estintivo, modificativo o impeditivo della situazione di fatto e di diritto relativa ad ognuna, né formulare a maggior ragione richieste riconvenzionali; per cui il dibattito si è incentrato unicamente sulla sussistenza delle condizioni suddette, affermate dal C. e contestate dal comune.
E la Corte di Appello le ha respinte proprio per aver accertato che tra le parti
non era intercorsa alcuna cessione volontaria (requisito indispensabile per l'operatività della L. n. 2359 del 1865, art. 63); e che non poteva qualificarsi "presupposizione" insita nel contratto di compravendita, per mancanza di tutti i presupposti dell'istituto elaborati da dottrina e giurisprudenza, la destinazione o utilizzazione scolastica dell'immobile menzionata nell'atto.
Pertanto, qualunque possa essere stata la valutazione del comune in ordine "alle prospettazioni ed alle dichiarazioni formali, contenute nelle delibere e negli atti comunali antecedenti e concomitanti al rogito", è certo che la stessa non ha comportato l'allegazione di una situazione giuridica diversa, con mutamento del fatti affermati dall'attore, ma ha assunto carattere strumentale di deduzione difensiva onde illustrare l'infondatezza dei menzionati fatti costitutivi delle domande e del diritto dedotto dalla controparte: non ha modificato il thema decidendum da questa proposto che si è incentrato esclusivamente su di essi.
E non è stata presa in considerazione dalla motivazione della decisione impugnata sulla quale non ha influito sotto nessun profilo; tant'è che il ricorrente le ha ripetutamente mosso l'addebito di non aver esaminato le asserite conseguenze pregiudizievoli che tali espressioni gli avrebbero arrecato (cfr. p. 3.1).
La domanda di annullamento dal contratto per errore o dolo ha conclusivamente introdotto una richiesta nuova per causa petendi e natura, oltre che entità, del petitum, solo fattualmente ed occasionalmente collegata dal ricorrente alle dette contestazioni e difese del convenuto, nel senso della sua proposizione in via meramente aggiuntiva, subordinata ed alternativa per il caso di accoglimento delle deduzioni in questione e di consequenziale reiezione delle sue originarie domande, per cui del tutto correttamente la Corte Territoriale l'ha considerato estranea all'ambito di applicazione dell'art. 183 cod. proc. civ. , comma 4, e ne ha confermato l'inammissibilità (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 11.03.2006 n. 5390).

ATTI AMMINISTRATIVILa presupposizione è configurabile quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro.
Si tratta, quindi, di una determinata situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, che non deve corrispondere all'oggetto di un'obbligazione assunta dai contraenti.
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L'istituto civilistico della presupposizione ricorre quando una determinata situazione di fatto o di diritto, di carattere obiettivo, si verifichi o meno in maniera del tutto indipendente dall'attività e dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione, ma possa comunque ritenersi tenuta presente dagli stessi nella formazione del loro consenso come presupposto comune avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale; e non anche quando la situazione di fatto -come nel caso di specie- sia rimessa alle scelte volontarie discrezionali dell'amministrazione nel perseguimento del pubblico interesse.

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Nel merito il ricorso è infondato.
La convenzione stipulata il 21.05.1998 individua gli immobili concessi in uso alla Sias (punto a dell’art. 1 della Convenzione), mentre le altre aree (punto d) “sono escluse dalla presente concessione e rimangono a disposizione dei Comuni comproprietari; le aree suddette verranno concesse in uso alla Sias s.p.a. in occasioni di manifestazioni di particolare importanza, in numero non superiore a cinque l’anno, salvo ulteriori richieste della Sias, da autorizzarsi preventivamente da parte dei Comuni comproprietari”.
E’ evidente dunque che tutte queste aree sono nella piena disponibilità dell’Amministrazione comunale, che ne riconosce il diritto della Sias all’uso solo nei periodi di manifestazioni sportive, come nel caso del Gran premio di Formula 1. Solo in tali casi, la Sias ha, quindi, diritto di regolamentarne l’uso da parte di terzi anche con recinzioni, all’evidenza mobili, in quanto possono restare solo per il tempo necessario alla preparazione e allo svolgimento delle cinque manifestazioni annuali di cui alla convenzione, salvo ulteriori autorizzazioni.
Rispetto ai cancelli, la convenzione prevede espressamente che “tutti gli accessi attuali saranno mantenuti per le manifestazioni di particolare importanza. Al di fuori di tali manifestazioni, resta inteso che l’apertura e la chiusura del Parco verranno disciplinate dall’Amministrazione del Parco. La Sias in tal caso dovrà utilizzare l’ingresso di Santa Maria delle Selve”.
Tale ultimo accesso, pacificamente, non è interessato dall’intervento; rispetto agli altri accessi la Sias, in base alla convenzione, ha diritto di regolamentarli solo nelle manifestazioni di particolare importanza, in quanto in tutti gli altri periodi dell’anno gli accessi sono di competenza dell’Amministrazione del Parco.
In particolare poi l’intervento per cui è causa, essendo stato eliminato l’intervento sull’ingresso relativo al passaggio tra il Bosco Principe Umberto e l’area cd. del Golf, prevede la rimozione solo del cancello dell'ingresso pedonale cd Mirabello.
Le argomentazioni della società ricorrente per cui le recinzioni esistenti sarebbero state pertinenze del bene in concessione è priva di fondamento.
Le recinzioni non possono considerarsi una pertinenza. Infatti, considerate le recinzioni come bene mobile, si devono ritenere un bene cd. accessorio, il quale una volta incorporato al suolo perde la sua individualità, che è propria, invece, del bene pertinenziale.
Le pertinenze, infatti, da distinguersi sia dalle cose composte sia dalle universalità di cose, si inquadrano nel concetto di aggregazione funzionale e non strutturale di cosa a cosa; al contrario costituisce parte integrante di una cosa quella che è necessaria per la sua stessa esistenza e che, pertanto, assurge a requisito della sua struttura, mancando il vincolo di subordinazione tra l'"accessorium" e il principale, richiesto dall'art. 817 c.c., con la conseguenza che in questi casi è esclusa la natura pertinenziale.
La circostanza che le recinzioni, che avevano delimitato in un tempo passato le aree in concessione alla Sias, quando il rapporto convenzionale era regolato diversamente, siano state mantenute, non può far sorgere alcun diritto in capo al concessionario, essendovi una esplicita regolamentazione nella convenzione successiva alla posa delle recinzioni.
Anche la tesi che vi sarebbe una presupposizione ovvero una condizione implicita tenuta presente dalla parti al momento della stipulazione della convenzione è priva di fondamento.
La presupposizione è configurabile quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (Cassazione civile, sez. II, 23.09.2004, n. 19144).
Si tratta, quindi, di una determinata situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, che non deve corrispondere all'oggetto di un'obbligazione assunta dai contraenti.
Nel caso di specie, la problematica relativa alla disciplina degli accessi e alle recinzioni è stata infatti espressamente regolata nella convenzione attribuendo alla Sias il potere di regolamentare tali chiusure in concomitanza con le manifestazioni sportive.
L'istituto civilistico della presupposizione ricorre quando una determinata situazione di fatto o di diritto, di carattere obiettivo, si verifichi o meno in maniera del tutto indipendente dall'attività e dalla volontà dei contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione, ma possa comunque ritenersi tenuta presente dagli stessi nella formazione del loro consenso come presupposto comune avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale; e non anche quando la situazione di fatto -come nel caso di specie- sia rimessa alle scelte volontarie discrezionali dell'amministrazione nel perseguimento del pubblico interesse (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 29.07.2003, n. 4312).
Nel caso di specie, il mantenimento delle recinzioni e la chiusura dei cancelli sono del tutto incompatibili con l’assetto dei rapporti tra le parti come definito dalla convenzione.
Ciò è confermato anche dalla clausola che prevede espressamente l’obbligo per la Sias di aprire al pubblico la zona denominata “Bosco Bello” (autodromo) nel periodo dell'anno in cui l’impianto non viene normalmente utilizzato per le manifestazioni sportive (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 16.12.2005 n. 5006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La cessione gratuita di un'area all'amministrazione concedente, per l'esecuzione di opere di urbanizzazione, non trova il suo corrispettivo (e la sua causa) nella effettiva realizzazione di quelle opere, ma, per l'appunto, soltanto nel rilascio della concessione edilizia, senza che il privato stipulante possa pretendere l'annullamento della convenzione nel caso che l'Amministrazione concedente, per qualunque motivo, decida una diversa utilizzazione dell'area (il che può avvenire anche per sopravvenute esigenze di pubblico interesse e, comunque, nei limiti del legittimo esercizio della potestà discrezionale dell'amministrazione di modificare i programmi urbanistici).
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Il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine di realizzazione di opere di urbanizzazione.
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Le convenzione edilizie non privano il Comune del potere di imprimere una diversa destinazione alle aree dalle stesse interessate.
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la cessione al Comune da parte del privato in previsione della realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione.

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Contro tale decisione Vi.Ce. proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di appello di Palermo con sentenza del 16.04.1997, con la seguente motivazione: “
Ed invero, l'esame in punto di fatto dei problemi insorti riguardo alla realizzazione della strada prevista sull'area ceduta ai Comune convenuto dall'appellante, appare in definitiva alquanto ridondante, rispetto all'affermazione da parte dei primi giudici, del principio di diritto relativo alla ininfluenza della effettiva utilizzazione dell'area da parte del Comune convenuto secondo le previsioni della convenzione stipulata tra le parti ex art. 10 L. 765/1967.
Le convenzioni urbanistiche, infatti, hanno natura contrattuale (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. V 04.01.1993 n. 14) e costituiscono uno dei possibili modi in cui si esprime il principio della normale onerosità della concessione edilizia per il privato richiedente.
In questo ordine di principi,
la cessione gratuita di un'area all'amministrazione concedente, per l'esecuzione di opere di urbanizzazione, non trova quindi il suo corrispettivo (e la sua causa) nella effettiva realizzazione di quelle opere, ma, per l'appunto, soltanto nel rilascio della concessione edilizia, senza che il privato stipulante possa pretendere l'annullamento della convenzione nel caso che l'Amministrazione concedente, per qualunque motivo, decida una diversa utilizzazione dell'area (il che può avvenire anche per sopravvenute esigenze di pubblico interesse e, comunque, nei limiti del legittimo esercizio della potestà discrezionale dell'amministrazione di modificare i programmi urbanistici). Semmai, come bene rileva il Tribunale, solo il mancato esercizio dell'attività edificatoria assentita, potrebbe incidere sulla causa della convenzione (cfr. TAR di Sicilia sez. II Catania, 17.06.1994 n. 1306), ma si tratta di un profilo del tutto diverso, questo sì incidente sull'interesse del richiedente, e che nella specie concorre ad escludere la fondatezza delle domande, avendo il Cerami invece realizzato le opera previste nella concessione edilizia rilasciatagli dal Comune
.”.
...
La Corte di appello, infatti, ha ritenuto superfluo approfondire la questione della destinazione assunta dalla striscia di terreno per cui è causa a seguito del provvedimento dell'Assessore al Territorio ed ambiente, in quanto
il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine di realizzazione di opere di urbanizzazione.
...
Va, infine, rilevato che questa S.C. ha avuto più volte occasione di affermare che
le convenzione edilizie non privano il Comune del potere di imprimere una diversa destinazione alle aree dalle stesse interessate (sent. 09.03.1990 n. 1917; 25.07.1980 n. 4833).
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la cessione al Comune da parte del privato in previsione della realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 28.08.2000 n. 11208).

URBANISTICA: La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che le convenzioni di lottizzazione di cui alla legge 06.08.1967 n. 765 (che ha innovato l'art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150) costituiscono contratti di natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, ivi compresa la facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze sopravvenute e, quindi, a maggior ragione, per l'obbligatorio adeguamento a modifiche normative (come nel caso di specie, in cui la delibera del Comune convenuto è stata determinata dalla necessità di adeguarsi agli standards urbanistici imposti dal D.M. n. 1444 del 1968).
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1. - Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 42 Cost., artt. 1321, 1322, 1323, 1362, 1372 C.C.) e vizi di motivazione su un punto decisivo della controversia (il sinallagma contrattuale).
I ricorrenti censurano l'impugnata sentenza perché, pur avendo ritenuto che la convenzione di lottizzazione è un contratto e quindi che nel momento iniziale il sinallagma è sorto per concorde volontà di entrambe le parti, ha poi ritenuto che nel momento funzionale dello stesso esso è venuto meno legittimamente per volontà di una sola della parti.
I ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata non motiva perché sia legittima la caduta del sinallagma nel momento funzionale.
2. - Il motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza di questa Corte (Sez. Un. 12.06.1982 n. 3541; 19.04.1984 n. 2567; 05.03.1993 n. 2669) è costante nell'affermare che le convenzioni di lottizzazione di cui alla legge 06.08.1967 n. 765 (che ha innovato l'art. 28 della legge 17.08.1942 n. 1150) costituiscono contratti di natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, ivi compresa la facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze sopravvenute e, quindi, a maggior ragione, per l'obbligatorio adeguamento a modifiche normative (come nel caso di specie, in cui la delibera del Comune convenuto è stata determinata dalla necessità di adeguarsi agli standards urbanistici imposti dal D.M. n. 1444 del 1968) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.06.1995 n. 6482).

URBANISTICA: Le cosiddette convenzioni edilizie stipulate nell'ambito dei piani di lottizzazione ad iniziativa privata di cui all'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 nel testo modificato dalla legge 06.08.1967, n. 765, pur avendo natura contrattuale con effetti vincolanti anche nei confronti del Comune, non possono in alcun modo interferire sulle potestà pubblicistiche spettanti all'Ente in materia di disciplina dell'assetto del territorio e di regolamentazione urbanistica, sicché, ove tali potestà vengano esercitate, i diritti derivanti dalla convenzione degradano a meri interessi legittimi che abilitano il soggetto soltanto all'impugnativa dei provvedimenti pregiudizievoli in sede giurisdizionale amministrativa, l'azione risarcitoria da lesione dei diritti soggettivi potendosi proporre solo a seguito dell'annullamento dei provvedimenti stessi.
Ove venga richiesto il risarcimento dei danni derivati dal provvedimento della P.A. che si assuma illegittimo, la disapplicazione dell'atto che il richiedente invochi a tal fine, in quanto costituisce ragione diretta del petitum e non attiene soltanto ad un presupposto del quale il giudice debba conoscere incidenter tantum, equivale a domanda di annullamento dell'atto stesso, la quale rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.

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Questa Corte ha già ripetutamente chiarito (v. sent. n. 3541/1982, n. 2433/1983, n. 1157/1984, n. 2567/1984, n. 580/1985, n. 665/1986, n. 307/1987) che le cosiddette convenzioni edilizie stipulate nell'ambito dei piani di lottizzazione ad iniziativa privata di cui all'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 nel testo modificato dalla legge 06.08.1967, n. 765, pur avendo natura contrattuale con effetti vincolanti anche nei confronti del Comune, non possono in alcun modo interferire sulle potestà pubblicistiche spettanti all'Ente in materia di disciplina dell'assetto del territorio e di regolamentazione urbanistica, sicché, ove tali potestà vengano esercitate, i diritti derivanti dalla convenzione degradano a meri interessi legittimi che abilitano il soggetto soltanto all'impugnativa dei provvedimenti pregiudizievoli in sede giurisdizionale amministrativa, l'azione risarcitoria da lesione dei diritti soggettivi potendosi proporre solo a seguito dell'annullamento dei provvedimenti stessi.
È necessario ulteriormente precisare che ove venga richiesto il risarcimento dei danni derivati dal provvedimento della P.A. che si assuma illegittimo, la disapplicazione dell'atto che il richiedente invochi a tal fine, in quanto costituisce ragione diretta del petitum e non attiene soltanto ad un presupposto del quale il giudice debba conoscere incidenter tantum, equivale a domanda di annullamento dell'atto stesso, la quale rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Né può avere rilievo di per sé il petitum, ossia il risarcimento del danno, che come effetto consequenziale può chiedersi soltanto a seguito dell'annullamento dell'atto.
Devesi dunque dichiarare il difetto di giurisdizione dell'A.G.O. e la giurisdizione del Giudice amministrativo (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 09.03.1990 n. 1917).

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