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AGGIORNAMENTO AL 31.12.2015 |
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FINALMENTE:
una Sezione di controllo della Corte dei
Conti che si è posta il nostro stesso
interrogativo!! |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 31.12.2014 (in evidenza) (proprio un anno fa ...) avevamo affrontato la
problematica circa la riconoscibilità -o meno-
dell'incentivo alla progettazione interna
relativamente alla figura del R.U.P..
Nella fattispecie de qua,
davamo conto di
come sussistesse -nella giurisprudenza di controllo
delle varie Sezioni regionali della Corte dei Conti-
una contrapposizione che è all'incirca pari al
50% fra due tesi: 1) chi sostiene
l’erogazione dell’incentivo al
R.U.P. sempre e comunque
e 2) chi sostiene l’erogazione dell’incentivo
al R.U.P. solo in caso di
progettazione interna.
Ebbene, in illo tempore davamo conto di come un comune avesse
formulato un quesito alla Sez. controllo della
Lombardia, della Corte dei Conti, rappresentando
l'evidente contrasto interpretativo cui fece seguito
un'incomprensibile "non risposta" e
limitandosi la Corte de qua a riconfermare il proprio
orientamento di cui al
parere 01.10.2014 n. 247.
Per fortuna, ora, il nostro auspicio di far chiarezza
definitivamente
(a livello centrale) è stato condiviso dalla sez.
controllo dell'Emilia Romagna, la cui deliberazione
è riportata a seguire: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La Sezione, in presenza del contrasto interpretativo sulle
questioni oggetto della richiesta di parere, dispone la
rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti
per le valutazioni di competenza
in ordine all’opportunità di
sottoporre alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni
Riunite, le seguenti questioni di massima:
1) “se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui
all’art. 93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile
unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le
attività che la legge individua come incentivabili, sia di
progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo,
siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti
all’uopo incaricati”;
2) “se la nozione di "collaboratori" di cui al comma
7-ter dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento
solamente ai collaboratori con professionalità tecnica
(componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall'art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori”.
---------------
Con nota del 28.10.2015, pervenuta a questa Sezione
l’01.12.2015 per il tramite del CAL, il Presidente della
Provincia di Teramo ha trasmesso una richiesta di parere
concernente la corretta interpretazione delle norme in tema
di incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 del
Decreto legislativo n. 163/2006.
Più precisamente, l’ente, in sede di predisposizione del
regolamento richiesto dalla norma per disciplinare le
modalità di erogazione degli incentivi, ravvisa la necessità
di un intervento interpretativo di questa Corte sui seguenti
due quesiti, tra loro strettamente connessi:
1) la possibilità di riconoscere l’incentivo in favore
del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi
in cui tutte le attività che la legge individua come
incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei
lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno
dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati;
2) se la nozione di “collaboratori” di cui al
comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia
riferimento solamente ai collaboratori con professionalità
tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori.
...
La questione in esame concerne la disciplina degli incentivi
alla progettazione di cui all’art. 93 del Decreto
legislativo n. 163/2006, su cui si è andata formando nel
tempo una copiosa giurisprudenza della Corte dei conti in
funzione consultiva, sia in sede regionale sia in sede
centrale nomofilattica.
La normativa di riferimento, a seguito delle modifiche
introdotte dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014, convertito
con legge n. 114/2014 –che non hanno tuttavia innovato in
modo sostanziale la disciplina rilevante ai fini della
soluzione dei quesiti in esame– è rappresentata dai commi
7-bis e ter dell’art. 93 del D.Lgs n. 163/2006 i quali
recitano: “7-bis - A valere sugli stanziamenti di cui al
comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo
per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in
misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a
base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale
effettiva è stabilita da un regolamento adottato
dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare.
7-ter - L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta
offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del
presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione
dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti
elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d).
La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o
dal responsabile di servizio preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.".
La ratio della norma, come precisato dalle SS.RR. in
sede di controllo (deliberazione
04.10.2011 n. 51),
è quella di destinare una quota di risorse pubbliche “a
incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione
di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta
all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di
prestazioni professionali specialistiche offerte da
personale qualificato in servizio presso l’amministrazione
pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non
disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero
ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti
esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio
dell’ente interessato”.
In linea con i principi di efficienza ed economicità, il
legislatore mostra un favor per l’affidamento a
professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici
di incarichi consistenti in prestazioni d’opera
professionale, consentendo il riconoscimento agli Uffici
tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso
ulteriore e speciale, in deroga ai due principi cardine del
pubblico impiego: di onnicomprensività della retribuzione e
di definizione contrattuale delle componenti economiche,
sanciti, rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal
successivo art. 45, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165
(cfr. Sezione delle Autonomie
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come si evince dal richiamato testo novellato,
la legge individua alcune regole generali per la
ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la
disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto
regolamentare interno alla singola amministrazione, assunto
previa contrattazione decentrata.
Su alcuni punti fermi che il regolamento interno deve
rispettare si registra una generale uniformità di lettura da
parte delle Sezioni regionali di controllo, che di seguito
si richiamano:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti agli appalti di
lavori (non, pertanto, negli appalti di fornitura di beni o
di servizi);
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili
(responsabile del procedimento, progettista,
responsabili della sicurezza, direttore dei lavori,
collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro
i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza
(cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno la graduazione delle
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione (si rinvia all’Autorità di vigilanza,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti
interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in
conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità
discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli
incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione n. 114/2014).
Diversamente, si rilevano contrasti interpretativi in
relazione ad entrambi i quesiti formulati dalla Provincia di
Teramo.
Quesito n. 1
In merito alla possibilità di riconoscere l’incentivo in
favore del Responsabile unico del procedimento, anche
nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua
come incentivabili (di progettazione, di direzione dei
lavori e di collaudo) siano state svolte all’esterno
dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati, una prima
linea di lettura appare incline a fornire risposta positiva;
tale orientamento, in sintesi, poggia sull’assunto che
l’incentivo economico sia finalizzato a remunerare le figure
professionali elencate nella norma, inclusa quella del
Responsabile del procedimento, purché ricoperte da personale
interno all’amministrazione e operanti nell’ambito di
procedimenti volti alla realizzazione di opere pubbliche e
lavori.
In tal senso può essere richiamata la deliberazione
della Sezione di controllo per la Liguria (cfr.
parere
18.04.2013 n. 18) secondo la quale “La soluzione del
quesito proposto presuppone la preventiva analisi del ruolo
assolto dal Responsabile unico del procedimento, il quale
svolge una funzione pregnante all’interno del medesimo,
gestendone le varie fasi, assicurando il contraddittorio con
le parti private e il coordinamento con gli uffici interni.
Tali compiti assumono particolare rilevanza nell’ambito
delle procedure di affidamento di opere o servizi. Ciò è
confermato dal fatto che anche in caso di incarichi di
progettazione o pianificazione a soggetti esterni deve
essere nominato comunque un Responsabile unico che coordini
le diverse attività svolte dagli incaricati.
Tale considerazione induce a ritenere che debba essere
riconosciuto a tale figura il diritto ad una quota parte
dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale
affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione
ed esecuzione dell’opera”.
In sostanza, secondo l’interpretazione precedentemente
descritta, al Responsabile unico del procedimento, in caso
di opere pubbliche e lavori, può essere legittimamente
attributo l’incentivo economico, anche se l’attività di
progettazione è completamente affidata a figure esterne;
ciò, secondo quanto precisato dalla Sezione Liguria,
troverebbe giustificazione nella circostanza che i compiti
svolti dal RUP nel caso della realizzazione di opere
pubbliche e lavori rimarrebbero sostanzialmente uguali, a
prescindere dall’esternalizzazione delle altre attività
contemplate dall’art. 93 del D.lgs. 163 del 2006.
Questa prospettiva riecheggia anche in più recenti pronunce
della Sezione regionale di controllo per la Lombardia; tra
tutte, il
parere 01.10.2014 n. 247 collega l’erogazione
dell’incentivo all’espletazione degli “incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di
un appalto di fornitura di beni o di servizi)”, escludendo
che la norma richieda “ai fini della legittima erogazione,
il necessario espletamento interno di una o più attività
(per esempio, la progettazione), purché il regolamento
ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e devolva in economia la quota
relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”.
In linea con questa interpretazione possono essere citate
anche le pronunce della medesima Sezione Lombardia,
parere 28.10.2015 n. 351 e
parere 20.07.2015 n. 236, le quali, sebbene vertenti su quesiti
differenti dalla tematica in esame, ribadiscono la
possibilità di incentivare le attività strumentali alla
progettazione anche qualora la stessa venga esternalizzata
integralmente.
Una seconda linea interpretativa delle disposizioni in
commento emerge dal
parere 02.10.2014 n. 197 della
Sezione regionale di controllo per il Piemonte, la quale,
chiamata a rispondere in merito alla riconoscibilità
dell’incentivo economico al RUP in ipotesi di progettazione
affidata all’esterno (sia nel caso in cui anche le altre
attività di direzione lavori e collaudo risultino
esternalizzate, sia nel caso di direzione lavori interna e
collaudo esterno), ha fornito una lettura più
restrittiva dell’art. 93 (peraltro già preceduta dal
parere 30.08.2012 n. 290 e
parere 19.12.2013 n. 434),
stabilendo un nesso funzionale tra il compenso incentivante
e lo svolgimento dell’attività di progettazione all’interno
dell’Ente.
Le citate deliberazioni subordinano il diritto al
compenso incentivante non al mero espletamento delle
attività indicate nella norma nell’ambito della
realizzazione di opere pubbliche o lavori, ma alla
circostanza che la progettazione sia avvenuta all’interno
dell’amministrazione.
Conseguentemente, “con specifico
riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.),
occorre rilevare che questi normalmente, in base alle
previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti
dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art.
92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione
dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di
progettazione collegati alla realizzazione di opere
pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua
partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi
del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti,
non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione
al complessivo svolgimento interno dell’attività di
progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta
internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo,
collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del
regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione
dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra
specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto
del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso
per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi
compiti e doveri d’ufficio”.
Con successiva pronuncia (parere
20.01.2015 n. 17), la
Sezione di controllo per il Piemonte ha ulteriormente
precisato che, ai fini della riconoscibilità dell’incentivo
al RUP, non è necessario che tutte le fasi della
progettazione (preliminare, definitiva e esecutiva) siano
svolte da personale interno all’Ente, purché il regolamento
ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e devolva in economia le quota
relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
La soluzione al quesito relativo alla possibilità di
attribuire l’incentivo economico al RUP anche in presenza di
progettazione, direzione dei lavori e collaudo
esternalizzati va, ad avviso di questa Sezione, ricercata
richiamando i principi alla base delle disposizioni di cui
ai commi 7-bis - 7-quinquies dell’art. 93 del d.lgs.
163/2006 (ex art. 92, commi 5 e 6) e al comma 6 dell’art.
90, come individuati dalle stesse SS.RR in sede di controllo
e dalla Sezione delle Autonomie nelle deliberazioni
precedentemente richiamate; le disposizioni in commento,
infatti, cercano di contemperare il principio di economicità
ed efficienza gestionale dell’amministrazione con l’esigenza
di valorizzazione del personale interno chiamato a svolgere
attività di natura professionale legate alla progettazione
di opere pubbliche.
Sotto il primo profilo, l’art. 90, comma
6, limita la possibilità di ricorso dell’amministrazione
aggiudicatrice all’esternalizzazione delle attività di
progettazione, evitando così aggravi di spesa; sotto il
secondo profilo, l’art. 93, commi 7-bis – 7-quinquies,
consente, in deroga al principio di onnicomprensività della
retribuzione del pubblico impiego, il riconoscimento di
utilità economiche aggiuntive in ragione delle prestazioni
professionalmente qualificate, legate all’attività di
progettazione, richieste alle specifiche figure
professionali ivi indicate, per le quali l’amministrazione
evita di avvalersi di soggetti esterni.
Secondo questa ricostruzione l’incentivo economico non
appare associato al mero espletamento di funzioni, ma
risulta funzionale a favorire l’esercizio di attività legate
alla progettazione all’interno dell’amministrazione. In
questo modo, infatti, si realizza il bilanciamento di
interessi (economia di spesa – valorizzazione delle attività
professionali del personale interno) perseguito dalla norma,
bilanciamento che verrebbe invece meno qualora
l’amministrazione esternalizzasse integralmente le attività
incentivate.
Il nesso funzionale tra incentivo e attività di
progettazione sembrerebbe inoltre confermato anche dalla
collocazione sistematica dell’art. 93 all’interno della
Sezione I “Progettazione interna ed esterna” del codice,
dalla rubrica della norma “Livelli della progettazione per
gli appalti e per le concessioni” e dalla denominazione del
fondo “per la progettazione (80% delle risorse) e
l’innovazione (20% delle risorse)”.
Con particolare riferimento alla figura del RUP, oggetto del
contrasto interpretativo tra Sezioni regionali, appare
condivisibile l’impostazione di fondo della Sezione Piemonte
secondo la quale l’attribuzione dell’incentivo non risulta
collegata alla mera qualifica; diversamente non si
comprenderebbe la ratio dell’esclusione dal compenso
aggiuntivo del RUP nelle procedure di affidamento di beni e
servizi, anch’esso investito di una serie di compiti
assimilabili a quelli svolti dal RUP negli appalti di
lavori.
L’incentivo deve essere invece correlato alle attività
specifiche che il RUP, nelle fattispecie di realizzazione di
opere pubbliche e lavori, è chiamato a svolgere a supporto
dell’attività di progettazione.
Ciò premesso, in ipotesi di esternalizzazione di tutte le
figure previste dall’art. 93, ed in particolare della fase
di progettazione, non appare tuttavia possibile escludere a
priori che al RUP sia richiesto l’esercizio di compiti
funzionali alla progettazione tra quelli elencati nell’art.
10 del Regolamento di cui al DPR 207/2010; si fa
riferimento, a titolo esemplificativo, alla redazione del
documento preliminare alla progettazione (lettera c); al
coordinamento delle attività in presenza di progettazione
preliminare (lettera e), definitiva ed esecutiva (lettera
f).
Al riguardo, in linea con quanto sopra, la Sezione
giurisdizionale per la Calabria (sentenza
03.02.2014 n. 22) ha
riconosciuto la legittimità dell’incentivo concesso al RUP,
pur in presenza di esternalizzazione delle attività di
progettazione, avendo quest’ultimo redatto il documento
preliminare alla progettazione.
In queste ipotesi, dovrebbe essere compito del regolamento
dosare l’attribuzione dell’incentivo in relazione alle
responsabilità effettivamente assunte, anche eventualmente
operando differenziazioni tra le ipotesi di progettazione
esternalizzata o interna.
Quesito n. 2
Il secondo quesito attiene alla nozione di “collaboratori”
di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006;
la Provincia di Teramo chiede se tale nozione faccia
riferimento solamente ai collaboratori con professionalità
tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori.
Anche su questo quesito –strettamente connesso con il primo–
si riscontra un contrasto interpretativo tra Sezioni
regionali. Più precisamente, con
parere 17.12.2014 n. 141, la Sezione regionale di controllo per le Marche ha
fornito una lettura restrittiva della nozione di
collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa
per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a) addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai
frazionamenti;
c) responsabile o addetto allo svolgimento della procedura
di gara.
Facendo applicazione del principio di tassatività, la
pronuncia recita: “come si è avuto modo di chiarire, il
Fondo previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato
esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi
individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa
interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero
dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi
dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori,
dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e
dai relativi collaboratori, benché svolgano attività
comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche
possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari
istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie
stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro”.
Elementi in favore di una lettura più ampia della nozione di
collaboratore e delle attività incentivabili possono trarsi
dalla pronuncia della Sezione regionale di controllo per la
Lombardia (parere
20.07.2015 n. 236) la quale, sebbene non
avesse ad oggetto la qualificazione della nozione di
collaboratore, ha ritenuto ammissibile l’incentivo economico
anche per le attività attinenti alla fase di gestione degli
appalti di opere nel caso di attività di progettazione
esterna, in particolare con riferimento a quelle relative
alle operazioni di scelta del contraente, di redazione del
bando di gara, dei procedimenti di aggiudicazione,
liquidazione, verifica in corso d’opera e controllo di
conformità dell’opera. Ciò nella considerazione che tali
attività possano essere considerate di supporto alla
progettazione.
Ad avviso di questa Sezione, la tesi restrittiva sostenuta
dalla Sezione di controllo per le Marche appare maggiormente
in linea con il principio di tassatività che caratterizza la
disciplina degli incentivi alla progettazione, derogatoria
rispetto al principio di onnicomprensività delle
retribuzioni del pubblico impiego e, pertanto, non
suscettibile di estensione analogica.
Conseguentemente, la
nozione di collaboratore dovrebbe essere limitata allo staff
tecnico di supporto alle figure professionali esplicitamente
individuate dall’art. 93 d.lgs. 163/2006, per lo svolgimento
di attività strettamente connesse con la progettazione,
evitando così un’estensione del perimetro applicativo degli
incentivi, attraverso la nozione di “collaboratore”.
P.Q.M.
la Sezione, in presenza del contrasto interpretativo sulle
questioni oggetto della richiesta di parere, dispone la
rimessione degli atti al Presidente della Corte dei conti
per le valutazioni di competenza, ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del d.l. n. 174 del 10/10/2012, convertito con
legge n. 213 del 07/12/2012, in ordine all’opportunità di
sottoporre alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni
Riunite, le seguenti questioni di massima:
1) “se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui
all’art. 93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile
unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le
attività che la legge individua come incentivabili, sia di
progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo,
siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti
all’uopo incaricati”;
2) “se la nozione di "collaboratori" di cui al comma
7-ter dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento
solamente ai collaboratori con professionalità tecnica
(componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall'art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori”.
La pronuncia sulla richiesta di parere formulata dalla
Provincia di Teramo è conseguentemente sospesa (Corte dei
Conti, Sez. controllo Abruzzo,
deliberazione 22.12.2015 n. 358). |
Nel contempo, vogliamo
evidenziare (a seguire) il recente parere della Sez.
di controllo del Veneto sulla questione
rappresentata
con l'AGGIORNAMENTO
AL 21.12.2015 ovverosia se spetti, o
meno, l'incentivo sulle attività di manutenzione
straordinaria anche a seguito delle modifiche
normative introdotte dall’articolo 13-bis del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114,
fattispecie deferita dalla Corte dell'Emilia Romagna
alla Sez. Autonomie.
Ebbene, secondo i giudici Veneti l'interrogativo non
sussisterebbe laddove sostengono che "la
questione possa considerarsi ormai definitivamente
risolta dal legislatore che, nell’abrogare il citato
art. 92, comma 5, e nella formulazione della nuova
disciplina di cui al citato comma 7-ter (in sede di
riparto della neo istituito fondo per la
progettazione), esclude tout court la
riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero
delle attività qualificabili come “manutentive”
(quindi sia ordinarie che straordinarie),
a prescindere dalla presenza o meno di una
preventiva attività di progettazione". |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Circa
l'incentivo alla progettazione interna in materia di
servizi manutentivi, è emerso un orientamento
consolidato della giurisprudenza consultiva per quanto
attiene ad alcuni principi generali che si illustrano di
seguito:
• la possibilità di corrispondere
l’incentivo in argomento è limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi
manutentivi;
• in ragione della natura eccezionale della deroga,
l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di
manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori
finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e
sempre che alla base sussista una necessaria attività
progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di
tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare,
definitiva ed esecutiva);
• si devono escludere dall’ambito di applicazione
dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui
affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara
(com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in
economia).
Questo Collegio ritiene che la questione possa considerarsi
ormai definitivamente risolta dal legislatore che,
nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, e nella
formulazione della nuova disciplina di cui al citato comma
7-ter (in sede di riparto della neo istituito fondo per la
progettazione), esclude tout court la riconoscibilità
dell’incentivo all’intero novero delle attività
qualificabili come “manutentive” (quindi sia
ordinarie che straordinarie), a prescindere dalla presenza o
meno di una preventiva attività di progettazione.
---------------
Nell'operare una distinzione tra i
collaboratori del responsabile unico del procedimento (RUP)
e gli altri collaboratori che svolgono attività
amministrativa e/o contabile strettamente collegate
ai lavori, con riferimento a questi ultimi, si deve evidenziare che non
può escludersi, in via di principio, la possibilità che i “collaboratori”
cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da
dipendenti appartenenti a profili amministrativi e
contabili.
Tuttavia, va tenuto in debito conto che la
maggior parte delle attività incentivate dall’art. 92 cit.,
presenta un contenuto strettamente tecnico (progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva, redazione piano di
sicurezza, direzione lavori, collaudo).
Siccome la ratio della normativa in questione mira
alla valorizzazione delle professionalità interne ed a
limitare il conferimento di incarichi professionali,
le
figure di “collaboratori” cui fa riferimento l’art. 92 cit.
sono da individuare –di norma– tra il personale tecnico che
di volta in volta partecipa alla redazione dei vari
elaborati o al compimento di specifiche attività tecniche.
Discorso diverso, invece, va fatto per i collaboratori del
RUP che è titolare di una pluralità di competenze che
coinvolgono tutte le fasi di realizzazione dell’opera
pubblica (progettazione, affidamento dei lavori, esecuzione
dei lavori), per cui non tutte le competenze del RUP hanno
necessariamente un contenuto strettamente tecnico. Per
questo motivo, il RUP ben può avvalersi di collaboratori
appartenenti al ruolo del personale amministrativo, purché
in possesso delle necessarie competenze professionali. Da
ciò consegue che anche i suddetti collaboratori possono
essere ricompresi nella ripartizione degli incentivi in
argomento.
---------------
Si ribadisce che il fondo di cui all’art.
92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche
figure professionali ivi individuate, nonché ai loro
collaboratori.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed
amministrativi– diversi dal RUP, dal progettista, dal
direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza,
dal collaudatore e dai relativi collaboratori, “benché
svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di
opere pubbliche, possono essere incentivati utilizzando
soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative
risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti
contratti collettivi nazionali di lavoro”.
---------------
Relativamente alla questione
di diritto intertemporale della disciplina da
applicare, ai fini del riconoscimento dell’incentivo
in questione, al progetto di opera o lavoro
approvato prima del 19/08/2014 (data di entrata in
vigore della legge n. 114/2014 di conversione del
d.l. 90/2014) con riferimento alle attività svolte
successivamente a tale data,
“la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova
regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe da
ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene
compiuta … e neppure nel momento in cui la prestazione resa
viene remunerata, bensì nel momento in cui l’opera o il
lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di
programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento”.
Pertanto, il riferimento
temporale ai fini dell’individuazione della disciplina da
applicare va fissato nel momento dell’approvazione
dell’opera, prescindendo dal momento in cui le prestazioni
incentivate siano state in concreto poste in essere.
---------------
Il Commissario Straordinario del Comune di Rovigo, con la
nota indicata in epigrafe, ha posto una serie di quesiti
relativi all’interpretazione dell’art. 92 del d.lgs.
21.04.2006, n. 163 alla luce delle modifiche apportate dal
d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla
legge 11.08.2014, n. 114.
Con il primo quesito viene chiesto se tra le attività
previste per la ripartizione delle risorse del fondo per la
progettazione e l'innovazione rientrino i lavori di
manutenzione straordinaria che comportano attività di
progettazione (preliminare, definitiva ed esecutiva
approvate rispettivamente dagli organi competenti),
direzione lavori e collaudo.
Al riguardo, viene richiamata il
parere 17.12.2014 n. 141
della Sezione regionale di controllo delle Marche nella
quale, rifacendosi ad un precedente della Sezione regionale
di controllo della Toscana (parere
19.03.2013 n. 15), viene
affermato che “le manutenzioni straordinarie sarebbero
riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione
di opere pubbliche al compimento delle quali la norma
subordina l'erogazione dell'incentivo. Il Collegio non ha
motivi per discostarsi dal predetto orientamento
interpretativo ritenendo che la modifica al testo dell'art.
92 operata con il d.l. 90/2014 non abbia inciso in modo
restrittivo sul regime degli incentivi relativi agli
interventi di manutenzione straordinaria”.
Con il secondo quesito si chiede se tra i "collaboratori”
del responsabile del procedimento, degli incaricati della
redazione del progetto, del piano di sicurezza, della
direzione lavori e del collaudo, possano rientrare i
dipendenti che prestano, nell'ambito della struttura
competente alla realizzazione dell'opera, attività
amministrative strettamente collegate ai lavori. In
particolare, viene richiesto se i collaboratori,
appartenenti al ruolo del personale amministrativo, debbano
essere in possesso di specifiche competenze professionali,
con la conseguente individuazione precisa dell'attività
svolta all'interno del gruppo di lavoro individuato o se,
non essendo personale tecnico con attività chiaramente
identificate ai sensi del D.P.R. 05.10.2010, n. 207, sia
sufficiente l'inserimento del solo nominativo nel gruppo di
lavoro.
Il terzo quesito mira a sapere se il fondo per la
progettazione possa essere utilizzato per incentivare il
personale tecnico amministrativo addetto ai procedimenti di
esproprio, oppure alle attività relative agli accatastamenti
e ai frazionamenti, o al responsabile o addetto allo
svolgimento della procedura di gara.
Con il quarto quesito, infine, vengono richieste una
serie di specificazioni, in ordine alla questione di diritto
intertemporale, sulla disciplina da applicare al progetto di
opera o lavoro approvato prima all’entrata in vigore della
legge 114/2014, di conversione del d.l. 90/2014.
Nello specifico, il Commissario Straordinario del Comune di
Rovigo chiede se si debba applicare:
a) la disciplina previgente, per le attività svolte prima e anche
per quelle portate a compimento dopo il 19/08/2014 (data di
entrata in vigore della sopra citata legge 114/2014) con i
criteri disciplinati dal precedente regolamento sia per la
quantificazione del fondo sia per la distribuzione
(supportati dall'affidamento degli incarichi del gruppo di
lavoro con l'individuazione delle percentuali assegnate a
ciascun dipendente);
b) la disciplina previgente solo per le attività svolte
antecedentemente al 19/08/2014; mentre per quelle portate a
compimento successivamente, troverebbero applicazione le
nuove misure e le modalità stabilite dalla legge di riforma
e dal nuovo regolamento attuativo.
Con riferimento a questa ultima ipotesi, viene richiesto, in
particolare, la modalità di liquidazione dell'incentivo
trattandosi di incarichi professionali conferiti prima
dell'entrata in vigore dell'attuale legge (anche se portati
a compimento dopo) e che trovano copertura nei quadri
economici dei progetti approvati ed inseriti nei documenti
di programmazione vigenti nell'esercizio di riferimento.
A questo riguardo viene richiamata il
parere 14.04.2015 n. 211 di questa
Sezione che ribadisce l’orientamento espresso dalla
Sezione delle Autonomie (con
deliberazione 24.03.2015 n. 11) in base al quale “la soluzione si
deve collocare nell'alveo dell'irretroattività della norma e
del criterio tempus regit actum, in guisa che la linea di
demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione
della materia incentivante, non sarebbe, da ricercarsi nel
momento in cui l'attività incentivata viene compiuta … e
neppure nel momento in cui la prestazione resa viene
remunerata, bensì nel momento in cui l'opera o il lavoro
sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione
vigenti nell'esercizio di riferimento”, individuando nel
momento dell'approvazione dell'opera il riferimento
temporale per la scelta della disciplina da applicare al
caso di specie, prescindendo dal momento in cui le
prestazioni incentivate siano state in concreto poste in
essere.
...
... i quesiti sopra illustrati, proposti dal Commissario
Straordinario del Comune di Rovigo, possono ritenersi solo
parzialmente ammissibili.
In particolare, sono da considerare inammissibili il
secondo quesito -nella parte in cui viene richiesto se “i
collaboratori appartenenti al ruolo del personale
amministrativo debbano essere in possesso di specifiche
competenze professionali con la conseguente individuazione
precisa dell'attività svolta all'interno del gruppo di
lavoro individuato o se, non essendo personale tecnico con
attività chiaramente identificate ai sensi del DPR 207/2010,
è sufficiente l'inserimento del solo nominativo nel gruppo
di lavoro”– ed il quarto quesito, nella parte in
cui si chiedono in concreto le modalità della liquidazione
dell’incentivo in questione, dovendo la Sezione limitarsi
alla definizione della linea interpretativa che, tra
l’altro, il richiedente ben dimostra di conoscere.
Nei limiti di quanto sopra rappresentato, la Sezione può
passare all’esame del merito dei quesiti presentati, tutti
inerenti alle problematiche relative alle modifiche
introdotte dal citato d.l. 90/2014 (e dalla relativa legge
di conversione) alla disciplina dell’incentivo alla
progettazione di cui all’art. 92 del d.lgs. 163/2006.
Infatti, l’art. 13 del suddetto provvedimento ha
espressamente abrogato i commi 5 e 6 dell’art. 92, in
materia di incentivi per la progettazione; mentre l’art.
13-bis, introdotto in sede di conversione, ha previsto
l’istituzione, a carico delle stazioni appaltanti e per le
finalità descritte, di un fondo per la progettazione e
l’innovazione, destinato alle risorse umane e strumentali
necessarie per tali finalità.
In particolare, in base alla nuova disciplina, le
amministrazioni pubbliche destineranno a un fondo per la
progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un’opera o di un lavoro, secondo modalità
determinate da un regolamento adottato dall’amministrazione.
Sempre tale regolamento dovrà definire i criteri di riparto
di tali somme, ferme restando le ripartizioni direttamente
disposte dall’atto normativo.
In ordine a questa novella legislativa, viene posto il
primo quesito, relativo alla riconoscibilità
dell’incentivo in argomento, anche ai casi di lavori di
manutenzione straordinaria che comportano attività di
progettazione, direzione lavori e collaudo posto che il
comma 7-ter del citato art. 13-bis, esclude espressamente le
“attività manutentive” dal novero delle attività da
prendere in considerazione ai fini del riparto delle risorse
destinate nel fondo per la progettazione e l’innovazione di
nuova istituzione, senza operare nessuna differenziazione
tra attività manutentive ordinarie e straordinarie.
Per comprendere la portata del quesito sottoposto
all’attenzione di questo Collegio è opportuno ricordare che
il tema dei presupposti e delle modalità applicative
previste dall’abrogato comma 5 dell’art. 92, d.lgs. n.
163/2006, è stato diffusamente affrontato dalla
giurisprudenza contabile in sede consultiva e numerose
pronunce hanno riguardato, in particolare, proprio la
questione della possibilità di ricomprendere nell’ambito di
operatività della norma anche ipotesi di interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, fatti eseguire dagli
enti locali (Sez. Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 28.05.2014 n. 188; Sez.
Liguria
parere 10.05.2013 n. 24; Sez. Piemonte
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97,
Sez. Umbria
parere 14.05.2015 n. 71 e da ultimo
parere 09.09.2015 n. 393 di questa
Sezione).
Sul tema, quindi, è emerso un orientamento
consolidato della giurisprudenza consultiva per quanto
attiene ad alcuni principi generali che si illustrano di
seguito:
• la possibilità di corrispondere
l’incentivo in argomento è limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi
manutentivi;
• in ragione della natura eccezionale della deroga,
l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di
manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori
finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e
sempre che alla base sussista una necessaria attività
progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di
tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare,
definitiva ed esecutiva);
• si devono escludere dall’ambito di applicazione
dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui
affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara
(com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in
economia).
Questo Collegio ritiene che la questione possa considerarsi
ormai definitivamente risolta dal legislatore che,
nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, e nella
formulazione della nuova disciplina di cui al citato comma
7-ter (in sede di riparto della neo istituito fondo per la
progettazione), esclude tout court la riconoscibilità
dell’incentivo all’intero novero delle attività
qualificabili come “manutentive” (quindi sia
ordinarie che straordinarie), a prescindere dalla presenza o
meno di una preventiva attività di progettazione.
In merito all’interpretazione fornita dalla Sezione
regionale di controllo per le Marche nel
parere 17.12.2014 n. 141, citata nella richiesta di parere a sostegno della
riconoscibilità dell’incentivo in questione anche alle
attività di manutenzione straordinaria, si fa presente
quanto segue.
La succitata deliberazione richiama il
parere 19.03.2013 n. 15 della Sezione regionale di controllo per la Toscana,
nella quale si prendono in considerazione le sole ipotesi di
attività di manutenzione ordinaria, senza peraltro
pronunciarsi sull’attività di manutenzione straordinaria ai
fini del riconoscimento dell’incentivo de quo.
La stessa Sezione regionale di controllo per la Toscana ha
successivamente affrontato, in più occasioni (parere
12.11.2014 n. 237 e
parere 28.10.2015 n. 490) la questione interpretativa
concernente la spettanza dell’incentivo di progettazione
alle attività di manutenzione straordinaria escludendo le
attività manutentive dall’ambito di applicazione dell’art.
92, alla luce dell’intervenuta novella legislativa che
preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità
dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili
come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a
prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività
di progettazione (cfr. anche Sezione regionale di controllo
per l’Umbria
parere 14.05.2015 n. 71).
In ordine al secondo quesito, in cui viene chiesto se
tra i collaboratori del responsabile del procedimento, degli
incaricati della redazione del progetto, del piano di
sicurezza, della direzione lavori e del collaudo, possano
rientrare i dipendenti che prestano, nell’ambito della
struttura competente alla realizzazione dell’opera, attività
amministrative strettamente collegate ai lavori, la Sezione
richiama l’orientamento espresso dal citato
parere 17.12.2014 n. 141 della Sezione di controllo per le Marche, che
l’Amministrazione dimostra di conoscere.
Nella suddetta pronuncia viene operata una distinzione tra i
collaboratori del responsabile unico del procedimento (RUP)
e gli altri collaboratori che svolgono attività
amministrativa e/o contabile strettamente collegate ai
lavori.
Con riferimento a questi ultimi, si deve evidenziare che non
può escludersi, in via di principio, la possibilità che i “collaboratori”
cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da
dipendenti appartenenti a profili amministrativi e
contabili. Tuttavia, va tenuto in debito conto che la
maggior parte delle attività incentivate dall’art. 92 cit.,
presenta un contenuto strettamente tecnico (progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva, redazione piano di
sicurezza, direzione lavori, collaudo).
In virtù di questo contenuto specialistico delle prestazioni
sopra evidenziate, in caso di affidamento esterno, le
stazioni appaltanti dovrebbero far ricorso a professionisti
esterni abilitati ed iscritti ai rispettivi albi
professionali (art. 90, d.lgs. 163/2006).
Siccome la ratio della normativa in questione mira
alla valorizzazione delle professionalità interne ed a
limitare il conferimento di incarichi professionali,
le
figure di “collaboratori” cui fa riferimento l’art. 92 cit.
sono da individuare –di norma– tra il personale tecnico che
di volta in volta partecipa alla redazione dei vari
elaborati o al compimento di specifiche attività tecniche.
Discorso diverso, invece, va fatto per i collaboratori del
RUP che è titolare di una pluralità di competenze che
coinvolgono tutte le fasi di realizzazione dell’opera
pubblica (progettazione, affidamento dei lavori, esecuzione
dei lavori), per cui non tutte le competenze del RUP hanno
necessariamente un contenuto strettamente tecnico. Per
questo motivo, il RUP ben può avvalersi di collaboratori
appartenenti al ruolo del personale amministrativo, purché
in possesso delle necessarie competenze professionali. Da
ciò consegue che anche i suddetti collaboratori possono
essere ricompresi nella ripartizione degli incentivi in
argomento.
Con riferimento al terzo quesito sulla possibilità
dell’utilizzazione del fondo per incentivare il personale
tecnico-amministrativo addetto alle procedure di esproprio,
alle attività di accatastamento ed allo svolgimento delle
procedure di gara, si ribadisce che il Fondo di cui all’art.
92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche
figure professionali ivi individuate, nonché ai loro
collaboratori.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed
amministrativi– diversi dal RUP, dal progettista, dal
direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza,
dal collaudatore e dai relativi collaboratori, “benché
svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di
opere pubbliche, possono essere incentivati utilizzando
soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative
risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti
contratti collettivi nazionali di lavoro” (Sez.
controllo Marche,
parere 17.12.2014 n. 141).
Con riferimento, infine, all’ultimo quesito relativo
limitatamente alla questione di diritto
intertemporale della disciplina da applicare, ai
fini del riconoscimento dell’incentivo in questione,
al progetto di opera o lavoro, approvato prima del
19/08/2014 (data di entrata in vigore della legge n.
114/2014 di conversione del d.l. 90/2014) con
riferimento alle attività svolte successivamente a
tale data, la Sezione richiama l’orientamento,
espresso dalla Sezione delle Autonomie
con
deliberazione 24.03.2015 n. 11 e
ripresa dal
parere 14.04.2015 n. 211 di questa Sezione –e
che l’Amministrazione dimostra di conoscere-
in base al
quale “la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova
regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe da
ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene
compiuta … e neppure nel momento in cui la prestazione resa
viene remunerata, bensì nel momento in cui l’opera o il
lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di
programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento”.
Alla luce di tale orientamento, pertanto, il riferimento
temporale ai fini dell’individuazione della disciplina da
applicare va fissato nel momento dell’approvazione
dell’opera, prescindendo dal momento in cui le prestazioni
incentivate siano state in concreto poste in essere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 17.12.2015 n. 568). |
Ed anche la Sez. Campania (col parere riportato a
seguire) non ha dubbi laddove ha recentissimamente
statuito quanto segue: "Già
in costanza della previgente normativa,
l’orientamento maggioritario delle Sezioni regionali
di controllo in sede consultiva limitava fortemente
le ipotesi di incentivazione per le attività di
progettazione collegate ai servizi di
manutenzione fino a giungere all’adozione di
un’interpretazione restrittiva, in base alla quale
“l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione,
nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata
alla costruzione dell’intera opera pubblica
progettata”, e traendone la conclusione che, a
priori, "i lavori di manutenzione ordinaria
non siano da ricomprendere tra le attività
retribuibili con l’incentivo in questione”.
Ancora più restrittiva appare la novella normativa
che esclude “tout court” che gli incentivi si
estendano agli appalti di servizi di manutenzione
ordinaria e straordinaria: le
disposizioni di cui all'art. 13-bis, d.l. n. 90 del
2014, nel modificare il cit. art. 93, pur ricalcando
in linea di massima il testo del previgente art. 92,
comma 5, escludono “expressis verbis” (nel comma
7-bis) le attività manutentive dalle opere che i
regolamenti degli enti possono considerare ai fini
del riparto del fondo per la progettazione e
l'innovazione". |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Questa
Sezione ha avuto già modo di affrontare numerose
questioni interpretative attinenti alla novella
normativa (art.
13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90)
con il
parere 23.02.2015 n. 20 (da intendersi
qui integralmente richiamato), al quale si rinvia
per una completa disamina della disciplina in
materia.
In quella sede, venivano richiamati i principi
generali e i divieti previsti o desumibili dalla
normativa, con riferimento a:
- limite percentuale massimo complessivo e computo
nel quadro economico;
- divieto di estensione dell’incentivo agli appalti
di fornitura e servizi;
- rilevanza tecnica dei lavori e delle opere;
- necessario raggiungimento della fase di
pubblicazione del bando di gara o di spedizione
degli inviti;
- necessaria predeterminazione dei criteri di
ripartizione dell’incentivo;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale
effettiva complessiva;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale
effettiva individuale;
- tassatività dell’elenco dei possibili beneficiari;
- tetto quantitativo individuale;
- principio di effettività delle attività
incentivate;
- principio dell’alterità;
- divieto di redistribuzione delle quote di
incentivo non ripartite a causa dell’affidamento
all’esterno all’organico o all’assenza di attività
connesse all’appalto da parte dei soggetti
destinatari;
- divieto di distribuire quote di incentivo per atti
di pianificazione non collegati direttamente alla
realizzazione di opere pubbliche;
- necessaria sussistenza di un interesse pubblico
all’erogazione di compensi incentivanti.
L’attività regolamentare e
contrattuale degli enti locali non potrà non tenere
conto dell’intero complesso dei principi e dei
divieti sopra richiamati in via esemplificativa,
onde non incorrere nella violazione del regime
vincolistico cui soggiace l’attività di spesa nella
materia “de qua”, con conseguenti effetti sul piano
della responsabilità amministrativo-contabile.
---------------
Va ribadito che l’incentivo per la
progettazione dà luogo ad una ipotesi derogatoria
del principio di onnicomprensività e determinazione
contrattuale della retribuzione, e non si presta
pertanto a interpretazione analogica.
Altresì, si ritiene che la
possibilità di corrispondere l’incentivo è
strettamente limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori.
Già in costanza della previgente
normativa, l’orientamento maggioritario delle
Sezioni regionali di controllo in sede consultiva
limitava fortemente le ipotesi di incentivazione per
le attività di progettazione collegate ai servizi di
manutenzione
fino a giungere all’adozione di
un’interpretazione restrittiva, in base alla quale
“l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione,
nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata
alla costruzione dell’intera opera pubblica
progettata”, e traendone la conclusione che, a
priori, "i lavori di manutenzione ordinaria
non siano da ricomprendere tra le attività
retribuibili con l’incentivo in questione”.
Ancora più restrittiva appare la
novella normativa che esclude “tout court” che gli
incentivi si estendano agli appalti di servizi di
manutenzione ordinaria e straordinaria:
le disposizioni di cui all'art. 13-bis, d.l. n. 90
del 2014, nel modificare il cit. art. 93, pur
ricalcando in linea di massima il testo del
previgente art. 92, comma 5, escludono “expressis
verbis” (nel comma 7-bis) le attività manutentive
dalle opere che i regolamenti degli enti possono
considerare ai fini del riparto del fondo per la
progettazione e l'innovazione.
---------------
Va qui
richiamato quanto già precisato da questa Sezione
in relazione alla “ratio”
delle disposizioni in commento, volte, da un lato, a
contenere i costi connessi alla progettazione delle
opere pubbliche valorizzando le professionalità
interne alla pubblica amministrazione, dall’altro a
incentivare i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni che svolgono attività professionali
strettamente connesse alla realizzazione di opere
pubbliche.
Soltanto tali finalità possono giustificare la
deroga al principio dell’onnicomprensività del
trattamento economico per il personale coinvolto,
per cui qualunque previsione derogatoria è da
considerarsi di natura speciale e intesa a
consentire l’ottimale utilizzo delle professionalità
interne ad ogni amministrazione e ad assicurare un
risparmio di spesa sugli oneri che la stessa
amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno gli incarichi tecnici.
---------------
“I collaboratori”, cui fa
riferimento la norma, sono da individuare
esclusivamente tra il personale del ruolo tecnico
che partecipa alla redazione dei vari elaborati del
progetto o del piano della sicurezza ovvero al
compimento di specifiche attività, quali la
direzione lavori e il collaudo, al fine di
valorizzare le professionalità interne e di limitare
nel contempo, nell’ottica del contenimento della
spesa, il conferimento di incarichi esterni
professionali.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco
della Città metropolitana di Napoli ha formulato,
con un’unica istanza, due articolate richieste di
parere.
Con un primo quesito, ...
Con un secondo quesito, si rappresenta quanto
segue: “a seguito del decreto legge 24.06.2014 n.
90 convertito con modificazioni dalla legge
11.08.2014 n. 114 questo Ente ha in corso l’adozione
del nuovo regolamento per fissare i criteri per
l’utilizzo del fondo per la progettazione e
l’innovazione. Si chiede di conoscere se, alla
luce della nuova disciplina legislativa, è possibile
prevedere la corresponsione dell’incentivo nel caso
di manutenzione ordinaria e straordinaria per le
quali è prevista un’attività di progettazione.
Si chiede, altresì, se è possibile la
corresponsione dell’incentivo ai collaboratori
amministrativi dei soggetti (es. rup, progettisti,
direttore dei lavori, ecc.) coinvolti nel
procedimento di progettazione e realizzazione
dell’opera e/o del lavoro”.
...
Quanto al secondo quesito, va parimente
esclusa qualsiasi valutazione sulle prospettate
modifiche che l’ente intende apportare al
Regolamento per fissare i criteri per l’utilizzo del
fondo per la progettazione e l’innovazione. Va,
infatti, evitato qualsiasi coinvolgimento della
Sezione regionale di controllo nell’attività
regolamentare dell’ente, consistente, come richiesto
nel caso di specie, nella valutazione “ex ante”
della legittimità dei contenuti di un atto
regolamentare.
Esclusivamente in relazione alla disamina dei
principi generali desumibili dalla normativa in
materia di incentivi per la progettazione, inseriti
nel più ampio quadro delle norme di contenimento
della spesa, possono svolgersi le seguenti
considerazioni.
L’art. 93 del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163
è stato oggetto di modifiche mediante l’art. 13-bis
del decreto legge 24.06.2014, n. 90, recante misure
urgenti per la semplificazione e la trasparenza
amministrativa e per l'efficienza degli uffici
giudiziari, convertito con modificazioni dalla legge
11.08.2014, n. 114.
Il cit. d.l. 24.06.2014, n. 90 ha inoltre abrogato
il comma 5 dell’art. art. 92, comma 5.
Nel merito, questa Sezione ha avuto
già modo di affrontare numerose questioni
interpretative attinenti alla predetta novella
normativa con il
parere 23.02.2015 n. 20 (da intendersi
qui integralmente richiamato), al quale si rinvia
per una completa disamina della disciplina in
materia.
In quella sede, venivano richiamati i principi
generali e i divieti previsti o desumibili dalla
normativa, con riferimento a:
- limite percentuale massimo complessivo e computo
nel quadro economico;
- divieto di estensione dell’incentivo agli appalti
di fornitura e servizi;
- rilevanza tecnica dei lavori e delle opere;
- necessario raggiungimento della fase di
pubblicazione del bando di gara o di spedizione
degli inviti;
- necessaria predeterminazione dei criteri di
ripartizione dell’incentivo;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale
effettiva complessiva;
- criteri di (pre)determinazione della percentuale
effettiva individuale;
- tassatività dell’elenco dei possibili beneficiari;
- tetto quantitativo individuale;
- principio di effettività delle attività
incentivate;
- principio dell’alterità;
- divieto di redistribuzione delle quote di
incentivo non ripartite a causa dell’affidamento
all’esterno all’organico o all’assenza di attività
connesse all’appalto da parte dei soggetti
destinatari;
- divieto di distribuire quote di incentivo per atti
di pianificazione non collegati direttamente alla
realizzazione di opere pubbliche;
- necessaria sussistenza di un interesse pubblico
all’erogazione di compensi incentivanti.
L’attività regolamentare e
contrattuale degli enti locali non potrà non tenere
conto dell’intero complesso dei principi e dei
divieti sopra richiamati in via esemplificativa,
onde non incorrere nella violazione del regime
vincolistico cui soggiace l’attività di spesa nella
materia “de qua”, con conseguenti effetti sul
piano della responsabilità amministrativo-contabile.
Per quanto qui più interessa, va
ribadito che l’incentivo per la progettazione dà
luogo ad una ipotesi derogatoria del principio di
onnicomprensività e determinazione contrattuale
della retribuzione, e non si presta pertanto a
interpretazione analogica
(ex multis, Sez. controllo Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 28.05.2014 n. 188; Sez. controllo
Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24; Sez. controllo
Piemonte, Piemonte
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo
Toscana,
parere 13.11.2012 n. 293 e
parere 19.03.2013 n. 15).
Quanto alle tipologie di attività di progettazione
comprese nel novero delle norme, nel confermare il
maggioritario orientamento delle Sezioni regionali
di controllo, si ritiene che la
possibilità di corrispondere l’incentivo è
strettamente limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori.
Già in costanza della previgente
normativa, l’orientamento maggioritario delle
Sezioni regionali di controllo in sede consultiva
limitava fortemente le ipotesi di incentivazione per
le attività di progettazione collegate ai servizi di
manutenzione
(Sez. controllo Puglia,
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114)
fino a giungere all’adozione di
un’interpretazione restrittiva, in base alla quale “l’art.
92 presuppone l’attività di progettazione, nelle
varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla
costruzione dell’intera opera pubblica progettata”,
e traendone la conclusione che, a priori, "i
lavori di manutenzione ordinaria non siano da
ricomprendere tra le attività retribuibili con
l’incentivo in questione”
(Sez. controllo Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15;
Sez. Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24).
Ancora più restrittiva appare la
novella normativa che esclude “tout court”
che gli incentivi si estendano agli appalti di
servizi di manutenzione ordinaria e
straordinaria: le disposizioni di cui all'art.
13-bis, d.l. n. 90 del 2014, nel modificare il cit.
art. 93, pur ricalcando in linea di massima il testo
del previgente art. 92, comma 5, escludono “expressis
verbis” (nel comma 7-bis) le attività
manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti
possono considerare ai fini del riparto del fondo
per la progettazione e l'innovazione
(Sezione regionale di controllo per la Liguria,
parere 24.10.2014 n. 60, Sezione
regionale di controllo per la Toscana,
parere 28.10.2015 n. 490).
Quanto al novero dei soggetti potenzialmente
destinatari degli incentivi si ritiene di riportare
il testo del cit. art. 93, il quale prevede che: “7.
Gli oneri inerenti alla progettazione, alla
direzione dei lavori, alla vigilanza e ai collaudi,
nonché agli studi e alle ricerche connessi, gli
oneri relativi alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e dei piani generali di
sicurezza quando previsti ai sensi del decreto
legislativo 14.08.1996, n. 494, gli oneri relativi
alle prestazioni professionali e specialistiche atte
a definire gli elementi necessari a fornire il
progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, ivi
compresi i rilievi e i costi riguardanti prove,
sondaggi, analisi, collaudo di strutture e di
impianti per gli edifici esistenti, fanno carico
agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa
o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma
7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un
fondo per la progettazione e l'innovazione risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
degli importi posti a base di gara di un'opera o di
un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da
un regolamento adottato dall'amministrazione, in
rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da
realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del
fondo per la progettazione e l'innovazione è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le
modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale
e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis,
tra il responsabile del procedimento e gli
incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli
importi sono comprensivi anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i
criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo
conto delle responsabilità connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere, con particolare riferimento
a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta, della
complessità delle opere, escludendo le attività
manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di
realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi
previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i
criteri e le modalità per la riduzione delle risorse
finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi
previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del
regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso
d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo
periodo del presente comma, non sono computati nel
termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti
a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo
132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto
alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai
predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente
corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del
trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a
prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in
quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il
presente comma non si applica al personale con
qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse
finanziarie del fondo per la progettazione e
l'innovazione è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie
funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione delle banche dati per il controllo e
il miglioramento della capacità di spesa per centri
di costo nonché all'ammodernamento e
all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei
servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i
soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b)
e c), possono adottare con proprio provvedimento
criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis,
7-ter e 7-quater del presente articolo”.
Evidentemente, anche in ragione della specificità
della richiesta di parere prospettata dall’ente
istante e delle conseguenze che dalle scelte
gestionali potrebbero derivare in termini di
responsabilità amministrativo contabile, questa
Sezione non può esprimersi nel dettaglio circa i
destinatari degli incentivi.
Tuttavia, va qui richiamato quanto già precisato da
questa Sezione nel citato
parere 23.02.2015 n. 20
in relazione alla “ratio”
delle disposizioni in commento, volte, da un lato, a
contenere i costi connessi alla progettazione delle
opere pubbliche valorizzando le professionalità
interne alla pubblica amministrazione, dall’altro a
incentivare i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni che svolgono attività professionali
strettamente connesse alla realizzazione di opere
pubbliche.
Soltanto tali finalità possono giustificare la
deroga al principio dell’onnicomprensività del
trattamento economico per il personale coinvolto,
per cui qualunque previsione derogatoria è da
considerarsi di natura speciale e intesa a
consentire l’ottimale utilizzo delle professionalità
interne ad ogni amministrazione e ad assicurare un
risparmio di spesa sugli oneri che la stessa
amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno gli incarichi tecnici.
Prescindendo dai profili più strettamente
contrattuali di pertinenza di altre sedi
magistratuali, da una interpretazione teleologica e
sistematica, oltre che letterale, delle disposizioni
in parola deriva, ai fini giuscontabili qui in
esame, che “i collaboratori”,
cui fa riferimento la norma, sono da individuare
esclusivamente tra il personale del ruolo tecnico
che partecipa alla redazione dei vari elaborati del
progetto o del piano della sicurezza ovvero al
compimento di specifiche attività, quali la
direzione lavori e il collaudo, al fine di
valorizzare le professionalità interne e di limitare
nel contempo, nell’ottica del contenimento della
spesa, il conferimento di incarichi esterni
professionali
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 21.12.2015 n. 254). |
A questo punto, pertanto, non ci resta che attendere il
responso definitivo da Roma.
31.12.2015
- LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione non si prescrive.
L’ordine di
demolizione del manufatto abusivo è una sanzione
amministrativa e non si prescrive.
Cassazione. La rimozione dell’abuso edilizio è una sanzione
amministrativa che ha scopo di tutelare il territorio.
Con la
sentenza 15.12.2015 n. 49331,
la Corte di Cassazione ricorda che l’ordine di demolizione
anche, se arriva dal giudice penale, non ha finalità
punitive. L’intervento non può dunque essere considerato una
sanzione penale, nel senso indicato dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, ma ha il solo scopo di
tutelare il territorio riportando i luoghi nello stato in
cui erano prima dell’abuso.
La Suprema corte accoglie il ricorso del Pm contro
l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato
estinto per «decorso del tempo» l’ordine di demolizione di
alcuni immobili abusivi. Alla base della scelta la
convinzione che l’atto, qualificato come pena secondo i
principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, fosse ormai prescritto come indicato
dall’articolo 173 del codice penale che prevede l’estinzione
delle pene, dell’arresto e dell’ammenda dopo 5 anni. Una
conclusione che parte da premesse sbagliate.
Il Procuratore
della Repubblica chiede alla Cassazione di annullare
un’ordinanza adottata senza tenere conto che l’ordine di
demolizione, come affermato anche dalla dottrina, é una
sanzione amministrativa di tipo ablatorio, accessoria alla
sentenza di condanna impartita dal giudice penale. Il Pm nel
suo ricorso sottolinea le differenze esistenti tra l’ordine
di demolizione e la confisca, applicabile in caso di
lottizzazione abusiva: distinguo che sottraggono la prima
alla prescrizione.
l ricorso è fondato su solide ragioni. Per la Suprema corte
il Tribunale si è concentrato, sbagliandone
l’interpretazione sulla giurisprudenza di Strasburgo, senza
considerare la vigente disciplina urbanistica (Dpr 380/2001)
che regola la procedura di demolizione degli immobili
abusivi. Nel mirino finisce il solo immobile “irregolare”
che può essere demolito d’ufficio a prescindere
dall’accertamento delle responsabilità. L’ordine di
demolizione come sanzione amministrativa non presuppone,
infatti, la sussistenza di un danno né un elemento
psicologico del responsabile dell’abuso ed è applicabile,
anche in caso di violazioni incolpevoli, tanto alle persone
fisiche come a quelle giuridiche e agli enti di fatto e in
alcuni casi persino “trasmissibile” agli eredi del
responsabile o a chi acquista la disponibilità del bene.
Il provvedimento finalizzato alla demolizione ha una sua
autonomia rispetto a quanto avviene in sede di processo
penale tanto è vero -sottolinea la Cassazione- che neppure
il sequestro penale dell’immobile è di ostacolo alla sua
“distruzione”. Una lettura che non si pone in contrasto con
le norme Cedu: per l’interpretazione di Strasburgo la
demolizione, a differenza della confisca, non è una pena
(sentenza 20.01.2009 caso Sud Fondi contro Italia) (articolo Il Sole 24 Ore del
16.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
3. Nel concentrare, infatti, l'attenzione sull'analisi
della giurisprudenza della Corte EDU, il Tribunale ha del
tutto omesso di considerare nel suo complesso l'articolata
procedura relativa alla demolizione degli immobili abusivi
delineata dalla vigente disciplina urbanistica.
L'art. 27 del d.P.R. 380/2001 attribuisce al dirigente o al
responsabile del competente ufficio comunale il potere
dovere di vigilare, anche secondo le modalità stabilite
dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale, al fine di
assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Il medesimo articolo, al comma 2, stabilisce che il
dirigente o il responsabile dell'ufficio tecnico comunale, «quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o
da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di
cui alla legge 18.04.1962, n. 167, e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi".
Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al
R.D. 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni
disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle
aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490 (ora
d.lgs. n. 42 del 2004), il dirigente provvede alla
demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa
comunicazione alle amministrazioni competenti le quali
possono eventualmente intervenire, ai fini della
demolizione, anche di propria iniziativa.
Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati
monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge
o dichiarati di interesse particolarmente importante ai
sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490 (ora articoli 13 e 14 del d.lgs. n. 42
del 2004) o su beni di interesse archeologico, nonché per le
opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo
o di inedificabilità assoluta in applicazione delle
disposizioni del Titolo Il del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490 (ora Parte Terza del d.lgs. n. 42 del
2004), il Soprintendente, su richiesta della regione, del
comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero
decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento
dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi
delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56
dell'articolo 2 della legge 23.12.1996, n. 662.
Si tratta, in tali casi, della c.d. demolizione d'ufficio,
la quale non è preceduta da alcuna attività procedimentale
finalizzata all'individuazione di soggetti responsabili o
alla irrogazione di sanzioni, in quanto la norma
attribuisce, al responsabile dell'ufficio tecnico ed agli
altri soggetti indicati, la possibilità di diretta azione
per la demolizione del manufatto abusivo durante tutto il
corso della sua esecuzione ed in tutti i casi di contrasto
con la disciplina urbanistica e gli strumenti urbanistici,
da eseguirsi con le modalità indicate dall'art. 41 d.P.R.
380/2001.
Al di fuori delle ipotesi sopra ricordate, l'art. 27, comma
3, d.P.R. 380/2001 stabilisce che, «qualora sia
constatata, dai competenti uffici comunali d'ufficio o su
denuncia dei cittadini, l'inosservanza delle norme,
prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio, ordina l'immediata sospensione
dei lavori, che ha effetto fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da
adottare e notificare entro quarantacinque giorni
dall'ordine di sospensione dei lavori. Entro i successivi
quindici giorni dalla notifica il dirigente o il
responsabile dell'ufficio, su ordinanza del sindaco, può
procedere al sequestro del cantiere».
li successivo comma 4 dispone, inoltre, che «gli
ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ove nei luoghi
in cui vengono realizzate le opere non sia esibito il
permesso di costruire, ovvero non sia apposto il prescritto
cartello, ovvero in tutti gli altri casi di presunta
violazione urbanistico-edilizia, ne danno immediata
comunicazione all'autorità giudiziaria, al competente organo
regionale e al dirigente del competente ufficio comunale, il
quale verifica entro trenta giorni la regolarità delle opere
e dispone gli atti conseguenti».
Per le opere eseguite da amministrazioni statali provvede
l'art. 28 d.P.R. 380/2001, imponendo al responsabile del
competente ufficio comunale, qualora ricorrano le ipotesi di
cui all'articolo 27, di informare immediatamente la regione
e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, al
quale compete, d'intesa con il presidente della giunta
regionale, la adozione dei provvedimenti previsti dal
richiamato articolo 27.
4. Le disposizioni in precedenza ricordate prevedono,
dunque, un immediato intervento demolitorio, effettuato
d'ufficio sul solo presupposto della presenza sul territorio
di un immobile abusivo, perché eseguito in assenza di titolo
abilitativo o in difformità dalle norme urbanistiche o dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, che prescinde da
qualsivoglia accertamento di responsabilità, riguarda
esclusivamente l'immobile ed ha, quale unico scopo, la sua
eliminazione ed il ripristino dell'originario stato del
territorio.
A ciò si aggiunge, per gli interventi diversi da quelli
soggetti a demolizione d'ufficio, la possibilità di
interventi cautelari urgenti di cui all'art. 27, comma 3, e
la particolare procedura di segnalazione dell'abuso da parte
della polizia giudiziaria di cui all'art. 27, comma 4, che
vede distinti gli obblighi di segnalazione all'autorità
giudiziaria ed a quella amministrativa per l'adozione dei
provvedimenti di competenza di quest'ultima.
Il successivo art. 31 d.P.R. 380/2001 disciplina, inoltre,
l'ingiunzione alla demolizione delle opere eseguite in
assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali, disposizioni applicabili, secondo
quanto disposto dal comma 9-bis del medesimo articolo, anche
agli interventi eseguiti in base a d.i.a. sostitutiva del
permesso di costruire ai sensi dell'art. 22, comma 3, d.P.R.
380/2001.
Accertata l'esecuzione di tali interventi, il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale deve ingiungere
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o
la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che, in
caso di inottemperanza , viene acquisita di diritto, ai
sensi del successivo comma 3 (il comma 4 stabilisce,
inoltre, che l'accertamento dell'inottemperanza alla
ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3,
previa notifica all'interessato, costituisce titolo per
l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente).
I successivi commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, introdotti dalla
legge 164/2014, prevedono anche, in caso di accertata
inottemperanza, l'irrogazione di una sanzione amministrativa
pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro,
salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da
norme vigenti, la quale, in caso di abusi realizzati sulle
aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi
comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o
molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima.
Le
regioni a statuto ordinario possono aumentare l'importo
delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal comma
4-bis e stabilire che siano periodicamente reiterabili
qualora permanga l'inottemperanza all'ordine di demolizione.
I proventi delle sanzioni spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico La mancata o
tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte
salve le responsabilità penali, costituisce elemento di
valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente.
L'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del comune
ha, quale finalità, la demolizione a spese dei responsabili
dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si
dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e
sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi
urbanistici o ambientali.
Il comma 8 dell'art. 31 individua i poteri sostitutivi del
competente organo regionale in caso di inerzia.
L'art. 31, al comma 9, infine, dispone che, per le opere
abusive cui esso si riferisce, «il giudice, con la
sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44,
ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia
stata altrimenti eseguita».
5. Come si evince dal complesso delle disposizioni appena
richiamate, la disciplina urbanistica individua la
demolizione dell'abuso edilizio come un'attività avente
finalità ripristinatorie dell'originario assetto del
territorio imposta all'autorità amministrativa, che deve
provvedervi direttamente nei casi previsti dall'art. 27,
comma 2, o attraverso la procedura di ingiunzione.
Si tratta, come osservato anche dalla più attenta dottrina,
di sanzioni amministrative che prescindono dalla sussistenza
di un danno e dall'elemento psicologico del responsabile, in
quanto applicabili anche in caso di violazioni incolpevoli,
sono rivolte non solo alle persone fisiche, ma anche alle
persone giuridiche ed agli enti di fatto e sono generalmente
trasmissibili nei confronti degli eredi del responsabile
(v., ad es., Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 3206 del
30.05.2011) e dei suoi aventi causa che a lui subentrino
nella disponibilità del bene (v., ad es. Consiglio di Stato,
Sez. 4, n. 2266 del 12.04.2011; Consiglio di Stato, Sez. 4,
n. 6554 del 24.12.2008. V. anche n. Cass. Sez. 3, n. 48925
del 22/10/2009, Viesti, Rv. 245918).
La particolarità della demolizione ha portato, sempre in
dottrina, anche a dubitare della riconducibilità della
stessa nel novero delle sanzioni amministrative propriamente
dette ed ha indotto ad operare anche una condivisibile
distinzione tra natura «ripristinatoria» della
demolizione, natura «riparatoria» dell'interesse
pubblico leso dell'acquisizione gratuita e delle sanzioni
pecuniarie alternative alla demolizione e natura «punitiva»
delle sanzioni pecuniarie aggiuntive alla riduzione in
pristino, nonché quelle conseguenti all'inottemperanza
all'ingiunzione a demolire.
6. Va altresì rilevato che, considerato il complesso delle
disposizioni sopra richiamate, i provvedimenti finalizzati
alla demolizione dell'immobile abusivo adottati
dall'autorità amministrativa risultano completamente
autonomi rispetto alle eventuali statuizioni del giudice
penale e, più in generale, alle vicende del processo penale,
tanto è vero che si è affermato, ad esempio, come il
sequestro penale dell'immobile non sia ostativo alla
demolizione (v., ad es,. Consiglio di Stato Sez. 6, n. 3626
del 09.07.2013; Sez. 4, n. 1260 del 06.03.2012. V. anche
Cass. Sez. 3, n. 17188 del 24/03/2010, Marinelli, Rv.
247152; Sez. 3, n. 9186 del 14/01/2009, RM. in proc. Mancini
e altro, Rv. 243098)
7. Per ciò che concerne, in particolare, la demolizione
ordinata dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, d.P.R., 380/2001, va rilevato, in primo luogo, che la
disposizione si pone in continuità normativa con il
previgente art. 7 della legge 47/1985 (Sez. 3, n. 32211 del
29/05/2003, Di Bartolo, Rv. 225548) e costituisce atto
dovuto del giudice penale, esplicazione di un potere
autonomo e non alternativo al quello dell'autorità
amministrativa, con il quale può essere coordinato nella
fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013
(dep. 2014), Russo, Rv. 258518; Sez.3, n. 37906 del
22/05/2012, Mascia ed altro, non massimata; Sez. 6, n. 6337
del 10/03/1994, Sorrentino Rv. 198511 ed altre prec. conf.
Ma si vedano anche Sez. U, n. 15 del 19/06/1996, RM. in
proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996
(dep. 1997), Luongo, Rv. 206659).
La disposizione, inoltre, si pone come norma di chiusura del
complesso sistema sanzionatorio amministrativo in precedenza
descritto (cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/01/1990; ord. 308
del 09/07/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di
Gennaro, Rv. 185699).
Quanto alla sua natura, va osservato che trattasi di una
sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del
territorio ed ha carattere reale.
Per tali ragioni, l'ordine di demolizione impartito dal
giudice può essere revocato dallo stesso giudice che lo ha
emesso quando risulti incompatibile con un provvedimento
adottato dall'autorità amministrativa, indipendentemente dal
passaggio in giudicato della sentenza (Sez. 3, n. 47402 del
21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972; Sez. 3, n. 3456 del
21/11/2012 (dep.2013), Oliva, Rv. 254426; Sez. 3, n. 25212
del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050 Sez. 3, n. 73 del
30/04/1992, Rizzo, Rv. 190604; Sez. 3, n. 3895 del
12/02/1990, Migno, Rv. 183768), ad esso non sono applicabili
l'amnistia e l'indulto (Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010 (dep.
2011), D'Avino, Rv. 249309; Sez. 3, n. 6579 del 01/04/1994,
Galotta ed altri, Rv. 198063; Sez. F, n. 14665 del
30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699, cit.).
Il giudice può inoltre emettere l'ordine di demolizione
anche nell'ipotesi dell'applicazione della pena ai sensi
dell'art. 444 cod. proc. pen. indipendentemente dall'accordo
delle parti ed esso resta eseguibile indipendentemente dal
decorso del termine previsto dall'art. 445, comma secondo,
cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 18533 del 23/3/2011, Abbate, Rv.
250291), dovendosi escludere la sua natura di pena
accessoria (Sez. 3, n. 24087 del 07/03/2008, Caccioppoli, Rv.
240539; Sez. 6, n. 2880 del 10/06/2002 (dep. 2003), Gobbi,
Rv. 223716; Sez. 3, n. 64 del 14/1/1998, P.M. in proc.
Corrado F, Rv. 210128 ed altre prec. conf.),
il che
determina anche la inapplicabilità della sospensione
condizionale della pena (Sez. 3, n. 34297 del 05/07/2007,
Moretti, Rv. 237220; Sez. 3, n. 36555 del 09/07/2002,
Prencipe, Rv. 222485; Sez. 3, n. 2294 del 18/06/1999, Neri
F, Rv. 215070 ed altre prec. conf.).
In caso di omessa statuizione da parte del primo giudice,
l'ordine può essere impartito dal giudice dell'appello (Sez.
5, n. 13812 del 11/11/1999, Giovannella F ed altro, Rv.
214608) o direttamente dalla Corte di cassazione (Sez. 3, n.
18509 del 15/1/2015, RG. in proc. Gioffrè, Rv. 263557; Sez.
3, n. 1365 del 18/09/1992, P.M. in proc. Marchese, Rv.
192057).
L'eventuale alienazione a terzi dell'immobile abusivo non
impedisce, come si è accennato in precedenza, la demolizione
(Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802; Sez.
3, n. 801 del 2/12/2010 (dep. 2011), Giustino e altri, Rv.
249129; Sez. 3, n. 45301 del 7/10/2009, Roscetti, Rv. 245213
ed altre prec. conf.), così come la sua locazione (Sez. 3,
n. 37051 del 08/07/2003, Moressa, Rv. 226319)
e l'ordine demolitorio non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
alla irrevocabilità della sentenza (Sez. 3, n. 3861 del
18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317; Sez. 3, n. 3720
del 24/11/1999 (dep. 2000), Barbadoro G, Rv. 215601).
La sua efficacia, poi, si estende all'intero manufatto,
comprensivo di aggiunte o modifiche successive all'esercizio
dell'azione penale e/o alla condanna per il reato edilizio
(Sez. 3, n. 38947 del 9/7/2013, Amore, Rv. 256431; Sez. 3,
n. 21797 del 27/4/2011, Apuzzo, Rv. 250389 ed altre prec.
conf.). Esso opera anche in caso di avvenuta acquisizione
dell'immobile al patrimonio comunale (Sez. 3, n. 26149 del
09/06/2005, Barbadoro, Rv. 231941; Sez. 3, Sentenza n. 37120
del 08/07/2003, Bommarito ed altro, Rv. 226321).
8. La natura dell'ordine di demolizione impartito dal
giudice è stata presa in considerazione anche con
riferimento alla questione oggetto del presente
procedimento, concernente la eventuale estinzione dello
stesso per il decorso del tempo.
Si è così stabilito che l'ordine impartito dal giudice, che
configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela
del territorio, non è soggetto alla prescrizione
quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative
dall'art. 28 della l. 689/1981, che riguarda le sanzioni
pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 16537 del
18/02/2003, Filippi, Rv. 227176) e, stante la sua natura di
sanzione amministrativa, non si estingue neppure per il
decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3,
n. 36387 del 7/7/2015, Formisano, non ancora massimata; Sez.
3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336;
Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670),
atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole
pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv. 226573).
9. I principi in precedenza menzionati sono pienamente
condivisi dal Collegio, che ad essi intende dare continuità.
Essi non si pongono, inoltre, in contrasto con la
giurisprudenza della Corte EDU che il provvedimento
impugnato richiama.
Va a tale proposito rilevato come questa Corte abbia già
avuto modo di affermare la compatibilità dell'ordine di
demolizione e del sequestro eseguiti dopo la cessione a
terzi del manufatto abusivo con le norme CEDU, come
interpretate dalla Corte Europea con sentenza 20.01.2009,
nel caso Sud Fondi c/ Italia (Sez. 3, n. 48925 del
22/10/2009, Viesti e altri, Rv. 245918. Nello stesso senso,
Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403).
Si è in quell'occasione precisato che proprio considerando
le argomentazioni sviluppate dalla Corte di Strasburgo
poteva ricavarsi che la demolizione, a differenza della
confisca, non può considerarsi una «pena» nemmeno ai sensi
dell'art. 7 della CEDU, perché «essa tende alla
riparazione effettiva di un danno e non è rivolta nella sua
essenza a punire per impedire la reiterazione di
trasgressioni a prescrizioni stabilite dalla legge».
Si osservava, inoltre, che la sentenza «nel mentre ha
ritenuto ingiustificata rispetto allo scopo perseguito dalla
norma, ossia mettere i terreni interessati in una situazione
di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche, la
confisca (anche di terreni non edificati) in assenza di
qualsiasi risarcimento, ha invece espressamente ritenuto
giustificato e conforme anche alle norme CEDU un ordine di
demolizione delle opere abusive incompatibili con le
disposizioni degli strumenti urbanistici eventualmente
accompagnato da una dichiarazione di inefficacia dei titoli
abilitativi illegittimi. Sembra quindi confermato che la
invocata sentenza della Corte di Strasburgo non solo non ha
escluso un sequestro o un ordine di demolizione dell'opera
contrastante con le norme urbanistiche nei confronti di
chiunque ne sia in possesso, anche qualora si tratti di
terzo acquirente estraneo al reato, ma ha addirittura
implicitamente ritenuto che una tale sanzione
ripristinatoria può considerarsi giustificata rispetto allo
scopo perseguito dalle norme interne di assicurare una
ordinata programmazione e gestione degli interventi edilizi
e non contrastante con le norme CEDU richiamate dai
ricorrenti».
10. Tali considerazioni vanno qui ribadite, ricordando anche
come autorevole dottrina abbia recentemente ricordato, nel
commentare la «sentenza Varvara» (Corte EDU Varvara c.
Italia, del 29/10/2013) e la lettura datane dalla Corte
Costituzionale (sent. 49/2015), che le sentenze della Corte
europea non vanno interpretate ricorrendo all'apparato
concettuale e linguistico proprio del diritto interno, in
quanto la Corte, quando non utilizza termini che richiamano
espressamente il significato che essi hanno nel diritto
nazionale, utilizza nozioni definite «autonome»,
rilevando anche come un diverso approccio potrebbe portare a
incomprensioni o distorsioni foriere di gravi conseguenze.
11. Alla luce delle considerazioni sopra svolte deve dunque
pervenirsi alla conclusione che l'ordine di demolizione
dell'immobile abusivo impartito dal giudice penale ai sensi
dell'art. 31, comma 9, d.P.R. 380/2001, diversamente da quanto
sostenuto nell'impugnato provvedimento, non ha affatto
natura di sanzione penale nel senso individuato dalla
normativa CEDU, ostandovi non soltanto la qualificazione
giuridica attribuitagli attraverso l'analisi
giurisprudenziale, dianzi ricordata, ma anche il fatto che
la demolizione imposta dal giudice, come si è più volte
rilevato in precedenza, non ha finalità punitive.
L'intervento del giudice penale si colloca, come pure si è
detto, a chiusura di una complessa procedura amministrativa
finalizzata al ripristino delle originario assetto del
territorio alterato dall'intervento edilizio abusivo,
nell'ambito del quale viene considerato il solo oggetto del
provvedimento (l'immobile da abbattere), prescindendo del
tutto dall'individuazione di responsabilità soggettive,
tanto che la demolizione si effettua anche in caso di
alienazione del manufatto abusivo a terzi estranei al reato,
i quali potranno poi far valere in altra sede le proprie
ragioni.
L'intervento del giudice penale, inoltre, non è
neppure scontato, dato che egli provvede ad impartire
l'ordine di demolizione se la stessa ancora non sia stata
altrimenti eseguita.
12. Va conseguentemente affermato il seguente principio di
diritto: la demolizione del manufatto
abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi
dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti
eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve
ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico
leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha
carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in
rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o
meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e
non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173
cod. pen.. |
UTILITA' |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Agenti inquinanti aria indoor: la guida al gas radon.
Guida al gas radon, un nuovo opuscolo del Ministero sugli
effetti dell’esposizione al radon e le misure per prevenirne
i rischi (... continua) (30.12.2015 - link a
www.acca.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Le
(povere) pensioni del 2016 - Adeguamenti e riforma Fornero
tagliano gli assegni e alzano l’età pensionabile
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
FONDO PREVIDENZA COMPLEMENTARE “PERSEO SIRIO” NON
FACCIAMOCI INGANNARE
(CSA di Milano,
nota 14.12.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI:
G.U. 30.12.2015 n. 302, suppl. ord. n. 70/L, "Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (legge di stabilità 2016)"
(Legge
28.12.2015 n. 208).
---------------
Si legga anche:
Legge di stabilità 2016, ok definitivo dal Senato. Tutte le
misure comma per comma.
Nel 2016 risorse pari a 2,4 miliardi per le infrastrutture,
le periferie e l'edilizia scolastica (22.12.2015 -
link a www.casaeclima.com). |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 30.12.2015 n. 302
"Modalità tecniche di emissione della Carta d’identità
elettronica" (Ministero dell'Interno,
decreto 23.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
30.12.2015 n. 302 "Proroga di termini previsti da
disposizioni legislative"
(D.L.
30.12.2015 n. 210).
---------------
Si legga anche:
Milleproroghe, slitta al 01.01.2017 la pubblicazione
telematica di bandi di gara e avvisi.
Prorogato al 30.04.2016 il termine per l'affidamento dei
lavori di messa in sicurezza degli edifici scolastici (24.12.2015
- link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 53 del 30.12.2015, "Disposizioni
per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria
regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della l.r.
31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della
programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della
Regione) - Collegato 2016" (L.R.
29.12.2015 n. 42).
---------------
Di interesse si leggano:
●
Art. 7 - (Modifiche agli articoli 1, 17 e 20 della l.r.
19/2008)
●
Art. 15 - (Modifiche all’articolo 1 della l.r. 35/2014)
●
Art. 16 - (Modifiche all’articolo 8 della l.r. 33/2015)
●
Art. 20 - (Personale trasferito in Regione in attuazione
della legge 07.04.2014, n. 56) |
PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 29.12.2015 n. 301 "Regolamento in materia di
parametri fisici per l’ammissione ai concorsi per il
reclutamento nelle Forze armate, nelle Forze di polizia a
ordinamento militare e civile e nel Corpo nazionale dei
vigili del fuoco, a norma della legge 12.01.2015, n. 2" (D.P.R.
17.12.2015 n. 207). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
28.12.2015 n. 300 "Approvazione del modello unico di
dichiarazione ambientale per l’anno 2016" (D.P.C.M.
21.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 28.12.2015,
"Nono aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali
idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r.
12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 21.12.2015 n. 11595). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 24.12.2015,
"Modulistica unificata e standardizzata per la
presentazione della denuncia di inizio attività alternativa
al permesso di costruire (DIA): adeguamento della
modulistica nazionale alle normative specifiche e di settore
di Regione Lombardia e integrazioni alla d.g.r. n. 3543
dell’08.05.2015" (deliberazione
G.R. 17.12.2015 n. 4601).
---------------
Si legga (utilizzi) anche la
modulistica senza l'intestazione del BURL. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 22.12.2015 "Approvazione
delle linee guida per l’infrastruttura di ricarica dei
veicoli elettrici" (deliberazione
G.R. 14.12.2015 n. 4593).
---------------
Di interesse si leggano i seguenti punti:
6 DISPOSIZIONI PER GLI ENTI LOCALI
6.1 Pianificazione e predisposizione dei progetti delle
infrastrutture di ricarica
6.2 Strumenti di supporto da parte degli Enti Locali |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U.
21.12.2015 n. 296 "Regolamento recante norme
regolamentari in materia di revisioni periodiche, di
adeguamenti tecnici e di varianti costruttive per i servizi
di pubblico trasporto effettuati con funivie, funicolari,
sciovie e slittinovie destinate al trasporto di persone" (Ministero
delle Infrastrutture ed ei Trasporti,
decreto 01.12.2015 n. 203). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
VARI:
OGGETTO: Sede dell’impresa individuale - Richiesta
chiarimenti (Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 28.12.2015 n. 283970 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: entrata in vigore delle sanzioni
(ANCE di Bergamo,
circolare 22.12.2015 n. 239). |
APPALTI:
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – responsabilità
solidale in materia contributiva – limite di due anni
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 15.12.2015 n. 29/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche RAEE -
Istruzioni operative per la gestione e lo smaltimento dei
pannelli fotovoltaici incentivati (ai sensi dell’art. 40 del
D.Lgs. 49/2014) (G.S.E. - Gestore Servizi
Energetici, 14.12.2015). |
VARI: Oggetto:
Accertamenti su copertura assicurativa. Termini di validità
e applicazione artt. 180-193 del Codice della Strada
(Ministero dell'Interno,
nota 10.12.2015 n. 8593 di prot.). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: D.P.C.M. 29.08.2014 n. 171, art. 16, comma 2,
lett. o), Direzione Generale Arte e Architettura
Contemporanee e Periferie Urbane - "Attività di vigilanza
sulla realizzazione delle opere d'arte negli edifici
pubblici ai sensi della legge 29.07.1949, n. 717 e
successive modificazioni" (MIBACT,
nota 10.12.2015 n. 2798 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: chiarimenti interpretativi e disposizioni
applicative in materia di distanze relative agli artt. da
900 "Specie di finestre" a 907 "Distanza delle
costruzioni dalle vedute" c.c. (Comune di Verona,
circolare 24.11.2015 n. 59). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Cumulabilità del congedo parentale fruito in
modalità oraria con altri riposi o permessi. Chiarimenti
(INPS,
messaggio 03.11.2015 n. 5704 - link a
www.inps.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Decreto legislativo n. 80 del 15.06.2015 in attuazione
dell’art. 1, commi 8 e 9 della legge delega n. 183 del 2014
(Jobs Act) - Fruizione del congedo parentale in modalità
oraria
(INPS,
circolare 18.08.2015 n. 152
- link a www.inps.it). |
VARI:
OGGETTO: Sede dell’imprenditore individuale - Richiesta
parere (Ministero dello Sviluppo Economico, nota
14.01.2013 n. 5095 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Sportello unico per l'edilizia, nuove norme nel Collegato
ambientale.
La tutela dell'assetto idrogeologico entra nelle materie di
competenza dello sportello unico (28.12.2015 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Sinisi,
La nuova azione amministrativa: il “tempo” dell’annullamento
d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori in caso di
s.ci.a. Certezza del diritto, tutela dei terzi e falsi miti
- Riflessioni a margine della legge 07.08.2015, n. 124
(23.12.2015 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La configurazione del potere di
autotutela caducatoria tra la storicità delle proprie radici
e la nuova veste attribuita dalla legge 124/2015 – 2. Il
rapporto tra autotutela e principio di legalità così come
rivisitato alla stregua del limite temporale imposto per
l’annullamento d’ufficio. Riflessioni in ambito nazionale e
sovranazionale. – 3. Autotutela e potere inibitorio della
p.a.: il nuovo art. 19, commi 3 e 4. – 4. Potere di
autotutela e sospensione: art. 21-quater, comma 2. Cenni. –
5. La deroga al termine dei diciotto mesi: l’art. 21-nonies,
comma 2-bis. – 6. Considerazioni di sintesi. |
APPALTI - AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - ESPROPRIAZIONE:
Green economy, il Collegato ambientale è legge. Focus sulle
(tante) novità.
Modifiche alla disciplina dei sistemi efficienti di utenza (SEU),
appalti verdi, credito di imposta alle imprese per la
bonifica dell'amianto, fondo per la progettazione degli
interventi contro il dissesto idrogeologico (22.12.2015
- link a www.casaeclima.com). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Linee Guida per lo svolgimento delle Ispezioni.
Sono state pubblicate le “Linee Guida per lo Svolgimento
delle Ispezioni”, un documento volto a regolare e
definire l’attività ispettiva dell’ANAC in tutte le materie
sottoposte alla vigilanza della stessa, attraverso
l’indicazione di precise regole comportamentali e di
specifici protocolli adottabili in tale sede, al fine
precipuo di assicurare adeguata trasparenza e omogeneità
nella conduzione della delicata ed importante attività
accertativa svolta fuori sede (14.12.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI: Le clausole sociali devono garantire appalti efficienti.
Lavoro. Cantone: conta la scelta d’impresa.
La clausola sociale che impone il riassorbimento dei
lavoratori nel passaggio tra un appaltatore e un altro non
deve ostacolare la possibilità di organizzare in modo più
efficiente la gestione del contratto. Giusto tutelare i
lavoratori, ma l'impresa che subentra nel contratto deve
essere libera di organizzarsi al meglio puntando alla
massima efficienza possibile.
In sintesi è quello che l'Autorità Anticorruzione
ha messo nero su bianco nel parere
10.12.2015 n. 16723 di prot. rilasciato alla
commissione Lavoro del Senato (su richiesta del presidente
Maurizio Sacconi) che ha avanzato dei dubbi sulle clausole
sociali contenute in più punti del disegno di legge delega
per la riforma degli appalti, licenziato la settimana scorsa
dalla commissione lavori pubblici di Palazzo Madama.
Per il presidente dell'Autorità Raffaele Cantone, che ha
firmato il parere, «il riassorbimento dei lavoratori deve
essere armonizzabile con l'organizzazione dell'impresa
subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di
manodopera previste nel nuovo contratto». Corollario:
l'applicazione della clausola sociale può essere consentita
soltanto dopo aver valutato la sua «compatibilità con
l'organizzazione di impresa».
«La clausola sociale -chiarisce Cantone-, non può alterare o forzare la
valutazione dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento
dell'impresa e, in tal senso, non può imporre un obbligo di
integrale riassorbimento dei lavoratori del pregresso
appalto, senza adeguata considerazione delle mutate
condizioni del nuovo appalto, del contesto sociale e di
mercato o del contesto imprenditoriale in cui dette
maestranze si inseriscono».
«Prevale e non può che essere
così -ha commentato Sacconi- , l'esigenza di garantire ai
servizi in appalto una sempre maggiore efficienza che, nel
caso dell'appaltante pubblico, significa un determinante
contributo alla spending review. Cosa ben diversa è il
dumping sociale di coloro che non rispettano i minimi
contrattuali».
L'interpretazione di Cantone è stata fatta
propria dalla commissione Lavoro, che nel parere sulla
delega appalti ha chiesto di rivedere i quattro punti del
provvedimento che impongono al governo di tenere conto della
stabilità occupazionale nella riforma del sistema dei
contratti pubblici da varare al più tardi entro luglio 2016.
Tra questi figura anche l'obbligo di riassorbimento dei
lavoratori nell'avvicendamento degli appalti relativi ai call center. Difficile che il testo della delega arrivato al
traguardo della terza lettura in Senato, dopo oltre un anno
di cammino parlamentare,venga a questo punto ritoccato,
imponendo un nuovo passaggio alla Camera. Ma è chiaro che
l'interpretazione dell'Authority non potrà essere ignorata
nella stesura del nuovo codice.
Da parte di Cantone è arrivata poi anche una nuova bocciatura
del maxi appalto da 157milioni bandito dal Comune di Bologna
per assegnare in un colpo solo la manutenzione degli
impianti e delle strutture degli edifici comunali. Appalto
giudicato «restrittivo della concorrenza» per non essere
stato suddiviso in più lotti, favorendo la partecipazione
delle Pmi (articolo Il Sole 24 Ore del
16.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Addio alle clausole sociali.
È libera l'azienda subentrante negli appalti.
Il presidente dell'Anac Raffaele Cantone sulle misure del
ddl delega.
Stop alle clausole sociali nei cambi di appalto. L'azienda
subentrante non sarà costretta, come oggi, ad assumere il
personale in forza nell'azienda cedente. Il riassorbimento,
infatti, sarà armonizzabile con l'organizzazione
dell'impresa subentrante. Ciò vuol dire che, qualora il
cambio d'appalto avvenga tra un'azienda poco e una più
informatizzata, il riassorbimento del personale sarà
condizionato e limitato alle reali necessità di manodopera
della nuova azienda.
A stabilirlo è il ddl delega sugli
appalti pubblici, che giovedì ha ricevuto l'ok della
commissione lavoro sulla base anche del parere positivo di
Raffaele Cantone, presidente dell'Anac, espresso nella nota
10.12.2015 n. 16723 di prot..
Le clausole sociali. Le clausole sociali sono speciali
patti, generalmente di natura contrattuale, che impongono a
carico dei soggetti appaltatori o concessionari di pubblici
servizi, nella fase di esecuzione dell'appalto, vincoli che
condizionano oppure limitano la libertà d'iniziativa
economica, al fine di tutelare interessi collettivi dal
punto di vista sociale.
La fonte normativa è l'art. 69 del dlgs n. 163/2006 che riconosce la piena legittimità alla
previsione di patti del genere da parte delle stazioni
appaltanti, se attinenti «a esigenze sociali o ambientali».
Nella traduzione pratica, questi patti costituiscono
«clausole sociali» (di cui sono pieni di disciplinari di
gara): veri e propri obblighi per l'impresa aggiudicataria
che subentra nell'esecuzione di un appalto di garantire i
livelli occupazionali, procedendo ad assumere il personale
già in forza nell'impresa cessante.
Limiti alla libertà d'impresa. Le clausole sociali,
evidentemente, limitano la concorrenza e libertà d'impresa
riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione,
perché restringe all'impresa l'ambito operativo entro cui
può organizzare il proprio lavoro (nello specifico quello
acquisito con un appalto).
Lavoro che non è solo
rappresentato da impianti e attrezzature, ma anche dalla
manodopera, per cui invece è stabilito l'obbligo del
riassorbimento del personale già in servizio.
Stop alle clausole sociali. Il ddl delega sugli appalti
pubblici prevede di limitare le clausole sociali o, quanto
meno, una lettura diversa. Circa la legittimità delle nuove
norme, che sostanzialmente mirano a rendere «legislativa» (e
non più contrattuale) la previsione di clausole sociali (nei
call center, per fare un esempio, sarà un decreto a
disciplinarle), la commissione lavoro alla camera aveva
chiesto due pareri all'autorità nazionale anticorruzione e
all'autorità garante della concorrenza e del mercato (si
veda ItaliaOggi del 3 dicembre).
Con la citata nota prot. n. 16723/2015, Cantone scrive alla
commissione lavoro evidenziando «che, secondo il
consolidato orientamento dell'Autorità, il riassorbimento
dei lavoratori deve essere armonizzabile con
l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze
tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo
contratto e che pertanto può essere consentito soltanto
previa valutazione di compatibilità con l'organizzazione di
impresa. La clausola sociale, infatti», aggiunge infine
nella nota, «non può alterare o forzare la valutazione
dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento
dell'impresa e, in tal senso, non può imporre un obbligo
d'integrale riassorbimento dei lavoratori del pregresso
appalto, senza adeguata considerazione delle mutate
condizioni del nuovo appalto, del contesto sociale e di
mercato o del contesto imprenditoriale in cui dette
maestranze si inseriscono»
(articolo ItaliaOggi del 12.12.2015). |
APPALTI:
Appalti pubblici, i collegi arbitrali aperti agli
ex magistrati. Dall'autorità
nazionale anticorruzione gli aggiornamenti alla legge
Severino.
Collegi arbitrali per appalti pubblici aperti ai magistrati
in pensione; sanabili a posteriori le clausole
compromissorie non autorizzate dai bandi di gara; arbitro di
nomina pubblica non ricusabile.
Sono queste alcune delle indicazioni fornite dall'Autorità
nazionale anticorruzione con la
determinazione 10.12.2015 n. 13,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 300 del 28.12.2015
che aggiorna la precedente determina n. 6 del 18.12.2013
sulle modifiche apportate alla disciplina dell'arbitrato nei
contratti pubblici dalla legge 190/2012 (cosiddetta legge
Severino).
Con la legge 190 la disciplina degli arbitrati nei contratti
pubblici è stata radicalmente modificata introducendo, per
esempio, il divieto di nomina dei magistrati e degli
avvocati dello stato nel collegio arbitrale e sottoponendo
il ricorso all'arbitrato ad apposita autorizzazione
dell'organo amministrativo della stazione appaltante.
L'intervento dell'Anac si è reso necessario per chiarire
alcuni profili interpretativi che possono avere rilevanza
per l'attività della camera arbitrale costituita presso Anac,
e risolvere alcuni dubbi di diritto transitorio. In
particolare la determina chiarisce che il divieto di nomina
dei magistrati, degli avvocati dello stato e dei componenti
delle commissioni tributarie opera per quelli in servizio,
mentre potendo essere nominati coloro che sono in pensione.
Dal punto di vista del diritto intertemporale il divieto non
ha efficacia retroattiva e non può applicarsi ai collegi già
costituiti, o alle nomine già disposte e accettate alla data
di entrata in vigore della legge, ancorché il collegio non
sia stato ancora costituito e sia stata presentata alla
camera arbitrale la richiesta di nomina del terzo arbitro.
Per quel che concerne l'arbitro di nomina pubblica
(preferibilmente scelto fra dirigenti dell'amministrazione)
la determina precisa che non si applica l'istituto della
ricusazione e che per la nomina si devono seguire le regole
generali sulle incompatibilità.
Sul tema dell'autorizzazione preventiva all'inserimento
della clausola compromissoria nel bando di gara la determina
chiarisce che l'obbligo si applica ai bandi pubblicati dopo
l'entrata in vigore della legge con la conseguenza che le
clausole previste nei contratti stipulati dopo novembre 2012
senza autorizzazione preventiva contenuta nel bando di gara,
sono da intendersi nulle.
Si salverebbero soltanto gli arbitrati già conferiti (nomina
effettuata e accettata) prima del novembre 2012. La
determina però afferma la legittimità dell'autorizzazione a
posteriori al fine di salvare le clausole compromissorie già
inserite nei contratti evitando disparità di trattamento fra
contratti in corso e futuri contratti
(articolo ItaliaOggi del
30.12.2015). |
APPALTI:
Oggetto: Indicazioni interpretative concernenti le
modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei
contratti pubblici dalla legge 06.11.2012, n. 190, recante
disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione
(determinazione
10.12.2015 n. 13, recante l’aggiornamento della
determinazione 18.12.2013 n. 6 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Oggetto: Richiesta di chiarimenti in merito alle modalità
di verifica dei requisiti ex art. 38 del d.lgs. 163/2006
sull’aggiudicatario di una gara esperita sul Mercato
Elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA) (comunicato
del Presidente 10.12.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI: Nelle convenzioni per le gare obblighi informativi chiari.
Nelle convenzioni fra comuni per la gestione delle gare, è
necessaria una puntuale indicazione dei soggetti tenuti agli
obblighi informativi verso l'Anac e alla legittimazione
attiva e passiva per il contenzioso con le imprese.
È questa
l'indicazione fornita dal presidente dell'Autorità nazionale
anticorruzione Raffaele Cantone con il comunicato
del Presidente 02.12.2015, reso noto ieri, sugli adempimenti ex art. 33,
comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici.
Le indicazioni seguono il precedente comunicato del 10
novembre nel quale si precisava che non sarebbe stato
rilasciato il Cig (codice identificativo gara) ai comuni non
capoluogo di provincia che non avessero adempiuto
all'obbligo di espletare le procedure di acquisizione di
lavori servizi e forniture, attraverso le unioni di comuni,
sottoscrivendo accordi consortili e avvalendosi dei
competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo
agli strumenti elettronici di acquisto gestiti dalla Consip
o da altro soggetto aggregatore di riferimento.
La norma prevede tale obbligo dal primo novembre 2015, ma la
legge di stabilità 2016 prevede a partire dal 01.01.2016 la possibilità per i comuni con meno di 10.000 abitanti
di procedere ad acquisti autonomi, anche in deroga a quanto
stabilito all'articolo 33, comma 3-bis, del Codice appalti,
per gli acquisti di importo sotto ai 40.000 euro.
Sopra i 40.000 euro, invece, l'Autorità ha preso infatti
atto di alcuni problemi che insorgono nell'ipotesi in cui i
comuni optino per la convenzione con altra amministrazione,
fattispecie in cui non si procede alla istituzione di un
autonomo soggetto dotato di personalità giuridica per lo
svolgimento delle procedure di aggiudicazione.
Per risolvere questi problemi, che attengono alle competenze
su singoli atti e alle responsabilità anche rispetto agli
adempimenti verso l'Anac e verso gli operatori economici, il
comunicato invita gli enti locali ad una attenta valutazione
sugli elementi inerenti la ripartizione degli obblighi
informativi tra amministrazioni deleganti e delegate e sulla
identificazione del soggetto che ha la legittimazione attiva
e passiva in giudizio, nelle ipotesi di contenzioso che
riguardi la gara. Il comunicato precisa che è la convenzione
la sede nella quale provvedere ad una dettagliata disciplina
del raccordo tra le amministrazioni coinvolte nelle diverse
fasi del medesimo procedimento di aggiudicazione.
Nella convenzione, in particolare, devono essere definite le
modalità di conduzione del procedimento e, in generale, il
raccordo fra le diverse funzioni. Pertanto nella convenzione
deve essere individuata non solo «la struttura o
l'ufficio preposto alla gestione centralizzata della gara»,
ma anche «la disciplina che assicurerà il suo legittimo e
corretto funzionamento, alla luce del quadro normativo di
riferimento».
L'invito è quindi a provvedere ad una «puntuale
predeterminazione dei soggetti sui quali ricadranno sia gli
obblighi informativi che la legittimazione attiva e passiva
in giudizio, riservando a tali finalità apposite clausole
delle convenzioni»
(articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Oggetto: indicazioni operative sugli adempimenti ex art.
33, comma 3-bis, decreto legislativo 12.04.2006 n.163 e
ss.mm.ii. (comunicato
del Presidente 02.12.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Relazione annuale del Responsabile della prevenzione
della corruzione – proroga al 15.01.2016 del termine per la
pubblicazione (comunicato
del Presidente 25.11.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Unioni,
un'occasione mancata. I mini enti le snobbano. Pochi
risparmi e doppie spese. La Corte conti in audizione (alla
camera: solo il 30% dei piccoli comuni si è associato.
L'associazionismo comunale forzoso ha fallito. Le unioni
continuano a essere snobbate dai piccoli comuni.
Solo il 30% degli enti con popolazione al di sotto dei 5.000
abitanti (1.735 enti sul totale di 5.646) ha infatti aderito
al modello delle unioni. Mentre le fusioni, dopo il piccolo
exploit del 2014 (quando si sono contati 24 «matrimoni» tra
enti che hanno fatto scomparire dallo scenario
amministrativo 57 comuni) procedono a rilento. Nel 2015 sono
state solo 6, mentre l'anno prossimo se ne attendono una
ventina.
In audizione sulla
gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali, la
sezione autonomie della Corte dei conti ha certificato un
dato già evidenziato in passato.
I mini enti non credono nelle unioni, nonostante, come messo
in luce dalla Corte, questo modello di governance
locale stia iniziando a produrre i primi frutti in termini
di risparmi. La sezione autonomie ha passato al setaccio un
campione di unioni (164, rappresentative di 722 comuni
associati, sul totale di 444) scelte tra quelle che hanno
inviato per gli esercizi 2013-2014 i certificati di conto
consuntivo, disponibili presso il Viminale.
E ha evidenziato come l'aumento della spesa corrente da
parte delle unioni (trend assolutamente normale visto
l'incremento delle funzioni fondamentali associate) sia
ampiamente compensato dalla riduzione della spesa corrente
dei comuni associati: 76,6 milioni di giuro nel 2014 a
fronte di 40,4 milioni di extra costi sostenuti dalle
unioni. Certo, osserva la Corte nell'audizione
01.12.2015 dinanzi alla commissione affari
costituzionali della camera, «l'azzeramento della spesa
per le funzioni associate non si è verificato per tutti i
comuni interessati, in quanto, ove così fosse stato, la
riduzione complessiva degli impegni avrebbe dovuto avere una
consistenza più significativa».
I più «virtuosi» secondo l'indagine della Corte dei
conti, sono stati gli enti sopra i 5.000 abitanti che hanno
ridotto gli impegni correnti del 4%. I mini enti, invece,
hanno tagliato i costi solo dell'1,3% e per due funzioni in
particolare: giustizia e cultura. Dal campione di enti
esaminato dalla Corte emerge che le funzioni maggiormente
delegate dai comuni alle unioni nel 2014 sono state la
cultura (74%), i servizi produttivi (63%), il turismo (47%),
lo sviluppo economico (34%) e la polizia locale (19%). Vi
sono invece altre funzioni che i comuni continuano a gestire
in proprio nonostante siano associati in unioni.
Dall'istruzione all'amministrazione, dalla viabilità ai
trasporti, dal sociale alla gestione del territorio e
dell'ambiente, le voci di spesa non si riducono, anzi
raddoppiano.
Perché queste funzioni sono proprio quelle per cui le unioni
finiscono per spendere di più. Sulle difficoltà incontrate
dall'associazionismo comunale è intervenuta anche la
Conferenza delle regioni.
In audizione i rappresentanti del parlamentino dei
governatori regionali hanno sottolineato «la difficoltà
nella gestione contabile delle forme associate, nel raccordo
con i bilanci dei comuni aderenti». In particolare,
secondo le regioni, «le funzioni fondamentali non hanno
ancora un'articolazione in servizi e non sono riconducibili
ai programmi del bilancio armonizzato. La normativa pertanto
condiziona le potenzialità di intervento del legislatore
regionale, in quanto la ricerca di sinergie fra enti minori
ed enti più strutturati resta affidata alla sola libera
iniziativa degli amministratori locali. Ciò è ancora più
evidente nelle regioni dove è alto il numero dei comuni
sotto la soglia dei 5.000 abitanti»
(articolo ItaliaOggi del
03.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI: REVISORI ENTI LOCALI/
Occhio di bue. Chiarezza sul taglio dei compensi.
Che la Sez. autonomie della Corte dei Conti si sia
espressa (con
deliberazione 29.09.2015 n. 29) implicitamente a favore del
taglio del 10% sui compensi spettanti ai revisori a seguito
all'applicazione del dl 78/2010 è un fatto.
Sì, perché in realtà il dispositivo della delibera non
prende posizione «esplicita» bensì dice che non ricorrono i
presupposti per l'adozione di una procedura di orientamento
interpretativo ai sensi dell'art. 6, comma 4, del dl 10.10.2012, n. 174, ma in premessa sostiene che resta
«ferma la giurisprudenza delle sezioni regionali di
controllo», le quali già nel 2010 (Toscana), nel 2011
(Campania, Emilia Romagna e Lombardia) e nel 2015 (Lombardia
e Puglia) si erano espresse a favore del taglio.
Diventa,
pertanto, definitiva l'interpretazione che accomuna i
revisori degli enti locali agli amministratori pubblici,
quali sindaci, assessori e consiglieri comunali, per quanto
riguarda il taglio dei compensi.
Fa piacere sentire al
convegno nazionale Ancrel di Padova del 3 ottobre scorso,
che una autorevole voce del ministero dell'economia, come
quella dell'Ispettore capo Salvatore Bilardo, si sia
espressa davanti a tutti sostenendo che è un errore
considerare il compenso dei revisori un «costo della
politica» e quindi assoggettarlo al taglio del 10% previsto
dal dl 78/2010.
Ma è anche vero che non possiamo dare colpa ai giudici se da
loro viene data tale interpretazione che annovera i
revisori, invece, tra i destinatari del taglio.
È compito del legislatore far chiarezza, soprattutto dopo
aver caricato di innumerevoli nuovi adempimenti e
responsabilità i revisori senza che a questo abbia fatto
seguito un giusto riconoscimento anche in termini di
compensi.
Considerando, poi, che è dal 2005 che non vengono adeguati i
compensi, anche se la legge prevede un aggiornamento
triennale, si ritiene che il legislatore debba intervenire
urgentemente e porvi rimedio.
Diversamente nessuno in futuro vorrà più accettare un
incarico da revisore di ente locale e i revisori degli enti
locali scompariranno come sono scomparsi un tempo i
sistematori di birilli
(articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale, assunzioni bloccate dalla spesa. Il
censimento.
La gran parte dei Comuni, sulla base
dei dati del censimento del personale degli enti locali del
ministero dell’Interno, non può effettuare assunzioni anche
se ha rispettato il Patto di stabilità, effettua i pagamenti
entro i termini e ha tagliato la spesa del personale. E ciò
perché la spesa corrente è calata in misura ancora maggiore
e, di conseguenza, l’incidenza percentuale degli oneri per i
dipendenti sul totale delle spese di esercizio è aumentata.
Questa situazione determina, sulla base della
deliberazione 18.09.2015 n. 27
della sezione Autonomie
della Corte dei Conti, il divieto di effettuare assunzioni e
di inserire risorse nella parte variabile del fondo per la
contrattazione decentrata.
Sono evidenti le conseguenze assai negative per molte
amministrazioni e, soprattutto, il paradossale effetto che
di produce, quello di disincentivare i comuni dal perseguire
efficaci politiche di contenimento della spesa.
Vediamo i dati resi noti dal censimento al 31.12.2014.
L’incidenza della spesa del personale sulla spesa corrente è
stata pari al 31,8% nel 2014, al 29,31% nel 2013, al 30,80%
nel 2012, al 31,73% nel 2011 ed al 31,84% del 2010. Va
ricordato che il parere dei giudici contabili indica come
base di riferimento il triennio 2011/2013, quindi il valore
medio del 30,61, cifra che nel 2014 è stata superata.
Lo stesso censimento dice che nel 2014 il 97,4% enti
soggetti al Patto di stabilità ed il 90,1% delle
amministrazioni non soggette al Patto hanno rispettato il
tetto di spesa del personale, che è fissato nel valore medio
del triennio 2011/2013 negli enti soggetti al Patto e nel
2008 negli enti non soggetti al Patto. Quindi hanno
applicato in modo “virtuoso” le disposizioni in
vigore. Ma ciò oggi non basta.
Infatti, sulla base dei dati appena ricordati, la stragrande
maggioranza dei Comuni non può effettuare assunzioni di
personale a nessun titolo, ambito che comprende non solo
quelle a tempo indeterminato, ma anche quelle a tempo
determinato, i co.co.co. e le altre forme di assunzioni
flessibili. E non può inserire, neppure come riproposizione,
somme nella parte variabile del fondo del personale o
incrementare per i nuovi servizi il fondo dei dirigenti.
La conseguenza ancora più paradossale è data dal fatto che
il contenimento della spesa corrente in molte
amministrazioni è frutto non solo dei tagli alle dotazioni
finanziarie e della necessità di rispettare il patto di
stabilità, ma di decisioni autonome dei singoli enti: basta
pensare agli effetti che si producono con i piani di
razionalizzazione e con le dismissioni. Comportamenti che
vengono così scoraggiati. Come viene scoraggiato il ricorso
ai piani di contenimento della spesa corrente che, in caso
di effettivo conseguimento degli obiettivi prefissati,
consente di destinare una quota fino al 50% alla
incentivazione del personale e/o fino al 100% al recupero
delle somme illegittimamente inserite nei fondi per la
contrattazione decentrata.
Non si può infine mancare di sottolineare che le scelte
delle amministrazioni sono state compiute senza che fossero
noti gli effetti dell’aumento della incidenza della spesa
del personale sulla spesa corrente. Infatti solamente dallo
scorso autunno è stata tratta la conseguenza che il
superamento di questo rapporto produce effetti
immediatamente "cogenti” (articolo Il Sole 24 Ore del
28.12.2015). |
QUESITI & PARERI |
PATRIMONIO:
Spese per acquisto arredi per la Protezione civile.
Applicazione art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, negli enti
locali.
L'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012,
contiene disposizioni in materia di riduzione della spesa
delle pubbliche amministrazioni, ivi compresi gli enti
locali, specificamente per l'acquisto di mobili e arredi. Il
comma 144 del medesimo articolo prevede delle fattispecie di
salvezza, tra cui gli acquisti effettuati per i servizi
istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica: in detta eccezione non sembrano rientrare gli
acquisti di mobili e arredi per la Protezione civile.
La Corte costituzionale ha affermato che i vincoli posti dal
legislatore statale per ragioni di coordinamento della
finanza pubblica possono considerarsi rispettosi
dell'autonomia delle Regioni quando stabiliscono un limite
complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di
allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise
dal legislatore.
Sulla scia di questi principi espressi dalla Consulta, la
Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, ha ritenuto che
una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 1, comma
141, suddetto, obbliga gli enti locali al rispetto
complessivo del tetto di spesa risultante dall'applicazione
dell'insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per
consumi intermedi previsti da norme in materia di
coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo
stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spesa
soggette a limitazione avvenga in base alle necessità
derivanti dalle attività istituzionali dell'ente.
Il Comune pone dei quesiti in ordine alle limitazioni di
spesa vigenti per acquisti di mobili e arredi, in
particolare, se sia possibile acquistare scaffali ed arredi
per la nuova sede della protezione civile, e se, per la base
di calcolo in percentuale della spesa ammissibile per detti
beni mobili, si debba o meno tener conto di quanto speso nel
2010 per gli arredi scolastici.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprime quanto segue.
Le questioni poste dall'Ente concernono una norma statale,
per cui è d'obbligo precisare che competenti ad esprimersi
sulla sua corretta applicazione sono gli uffici statali. Le
riflessioni che seguono vengono, pertanto, formulate in via
meramente collaborativa.
L'articolo 1, comma 141, della legge 228/2012 dispone che
negli anni 2013, 2014 e 2015 gli enti locali non possono
effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per
l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso
scolastico e dei servizi all'infanzia [1],
salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili.
Ai sensi dell'art. 1, comma 144, L. n. 228/2012, sono
esclusi espressamente dal campo di applicazione del comma
141 gli acquisti effettuati per le esigenze del Corpo
nazionale dei vigili del fuoco, per i servizi istituzionali
di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, per i
servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli
essenziali di assistenza.
In generale, la Corte dei conti ha affermato che la
disposizione di cui al comma 141 mira a contenere la spesa
pubblica complessiva per l'acquisto di mobili e arredi ed ha
portata generale tale da ricomprendere anche gli arredi
necessari ad allestire opere di nuova realizzazione,
collegati quindi ad opere di nuova costruzione o
ristrutturazione comportanti un ampliamento. Dette spese
sono dunque da ricomprendere nel limite stabilito dalla
norma, che non può essere di ammontare superiore al 20%
della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011, salvo
che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese
connesse alla conduzione degli immobili [2].
Per quanto concerne le fattispecie di salvezza di cui al
comma 144, ed in particolare quella relativa alla tutela
dell'ordine e della sicurezza pubblica, questo Servizio si è
già espresso nel senso di non potervi ricondurre gli
acquisti delle autovetture riferite alla protezione civile
[3].
In particolare, si è segnalato quanto chiarito dal Governo,
con riferimento al DPCM 03.08.2011 (oggi abrogato e trasfuso
nel DPCM 25.09.2014) che prevede l'esclusione dal proprio
ambito applicativo delle autovetture, tra le altre, 'adibite
ai servizi operativi di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica' [4].
In particolare, il Governo [5]
ha ritenuto che non rientrino nell'esclusione stessa, tra le
altre, per quanto qui di interesse, le auto utilizzate per
servizi di protezione civile.
Si ritiene che simili considerazioni possano valere anche
per l'acquisto dei beni mobili (scaffali ed arredi) di cui
si discute nel caso in esame per la nuova sede della
protezione civile, con la conseguenza di non potersi
ricondurre gli stessi all'eccezione di cui al comma 144
riferita agli acquisti (tra l'altro) per i servizi
istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza
pubblica.
Peraltro, il rispetto delle norme di contenimento della
spesa pubblica -quale è l'art. 1, comma 141, in commento- va
valutato anche tenuto conto delle modalità di applicazione
di queste nelle autonomie locali, alla luce di quanto
espresso al riguardo dalla Corte costituzionale.
La Consulta ha affermato che il legislatore statale può
legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di
coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali,
condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle
politiche di bilancio. Questi vincoli possono considerarsi
rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali
quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli
enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra
le varie voci di spesa incise dal legislatore
[6].
Nel quadro di questi principi espressi dalla Corte
costituzionale, il Giudice contabile ha mostrato un
orientamento non univoco in ordine all'applicazione negli
enti locali delle norme di contenimento della spesa pubblica
dettate dal legislatore statale.
Le Sezioni riunite della Corte dei conti per la regione
siciliana, con parere n. 94 del 30.11.2012, hanno affermato
che il limite di spesa posto per le autovetture dall'art. 5,
comma 2, DL n. 95/2012, deve essere interpretato alla
stregua di quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella
pronuncia n. 139/2012, con possibilità di compensazioni
nell'ambito delle singole voci di spesa (in quel caso la
richiesta di parere faceva riferimento alle tipologie di
spesa di cui all'art. 6, DL n. 78/2010) [7].
Di diverso tenore è, invece, l'orientamento espresso dalla
Corte dei conti Lombardia, la quale sempre con riferimento
al limite di spesa posto dall'art. 5, DL n. 95/2012, in tema
di autovetture, ha affermato che non ne risulta possibile la
deroga compensando lo sforamento con una maggiore riduzione
delle altre voci di spesa oggetto di contenimento in base ad
altre disposizioni di legge [8].
A fronte delle diverse posizioni espresse dalle sezioni
regionali di controllo in ordine all'applicazione negli enti
locali delle norme di contenimento delle spese per il
funzionamento degli apparati amministrativi, la Corte dei
conti sezione Lombardia [9],
chiamata questa volta ad esprimersi proprio sull'art. 1,
comma 141, L. n. 228/2012, oggetto d'esame, ha deferito alla
Sezione delle Autonomie la questione concernente la sua
corretta interpretazione, in particolare in ordine alla
possibilità di conseguire l'obiettivo di riduzione delle
spese per mobili e arredi (e in generale per i consumi
intermedi) in maniera complessiva, avuto riguardo alle
distinte previsioni di legge di contenimento della spesa
[10], e
dunque al risparmio complessivo di spesa derivante da
queste.
Ebbene, la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie
[11], ha
ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata
dell'art. 1, comma 141, impone la ricerca di una soluzione
interpretativa che salvaguardi le scelte decisionali degli
enti locali in tema di allocazione delle risorse, ed ha
espresso il seguente principio di diritto, al quale si
devono conformare tutte le sezioni regionali di controllo: 'L'art.
1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel disporre
limiti puntuali alle spese per l'acquisto di mobili e
arredi, obbliga gli enti locali al rispetto complessivo del
tetto di spesa risultante dall'applicazione dell'insieme dei
coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi
previsti da norme in materia di coordinamento della finanza
pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le
diverse tipologie di spesa soggette a limitazione avvenga in
base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali
dell'ente'.
In particolare, e venendo al quesito dell'Ente circa la
quantificazione della spesa ammissibile per mobili e arredi,
questa, in mancanza di precise indicazioni sul punto dei
competenti organi statali, sembrerebbe ricavarsi applicando
il relativo coefficiente di riduzione alla totalità della
spesa sostenuta negli anni 2010 e 2011 per i mobili e
arredi, ivi compresi quelli scolastici.
Si ritiene, infatti, che l'esclusione [12]
degli acquisti di mobili ed arredi destinati all'uso
scolastico ed ai servizi dell'infanzia dall'applicazione
delle norme di contenimento della spesa non possa comportare
la sottrazione dalla base di calcolo percentuale, riferita
alla spesa media degli anni 2010-2011, della spesa sostenuta
per le suddette specifiche categorie di mobili e arredi,
atteso che tale operazione si tradurrebbe in una limitazione
del quantum disponibile per tutte le tipologie di mobili e
arredi, non espressamente prevista dal legislatore.
Resta inteso che su queste considerazioni, rese in via
meramente collaborativa, prevarranno gli eventuali
chiarimenti di diverso avviso che dovessero pervenire dai
competenti uffici statali.
---------------
[1] Eccezione introdotta a seguito della novella recata
dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l. 21.06.2013 n. 69,
introdotto dalla legge di conversione 09.08.2013 n. 98.
[2] Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per
l'Emilia Romagna, deliberazione n. 244 del 25.06.2013.
[3] Cfr. note n. 8908 del 20.03.2013, n. 33498 del
18.11.2013 e n. 4319 del 10.02.2014.
[4] DPCM 25.09.2014 recante: 'Determinazione del numero
massimo e delle modalità di utilizzo delle autovetture di
servizio con autista adibite al trasporto di persone'. Vedi
in particolare l'art. 1, c. 2, del DPCM 25.09.2014 (in cui è
stato trasfuso l'art. 1, c. 3, del DPCM 03.08.2011).
[5] Governo italiano, Ministero per la pubblica
amministrazione e la semplificazione, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Censimento permanente delle auto di
servizio della pubblica amministrazione, Decreto Presidenza
del Consiglio 03.08.2011, Formez PA, FAQ n. 9.
[6] Corte costituzionale, 04.06.2012, n. 139. In quella
sede, la Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità
di alcune disposizioni dell'art. 6, DL n. 78/2010, ha
affermato che tale norma prevede puntuali misure di
riduzione di singole voci di spesa, ma ciò non esclude che
da esse possa desumersi un limite complessivo nell'ambito
del quale le Regioni (e gli enti locali, n.d.r.) restano
libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e
obiettivi di spesa.
[7] Le Sezioni riunite per la regione siciliana,
specificano, peraltro, che per le autovetture il limite
complessivo di spesa è quello previsto dall'art. 6, c. 14,
DL n. 78/2010 (80% della spesa sostenuta nel 2011), che
coesiste col limite previsto dal sopravvenuto art. 5, DL n.
95/2012 (30% della spesa sostenuta nel 2011 a seguito della
novella recata dall'art. 15, c. 1, D.L. n. 66/2014).
[8] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Lombardia, deliberazione n. 114 del 26.03.2013, secondo cui
non si può ritenere possibile estendere il principio di
compensazione a una serie eterogenea e di fonte non comune
di obblighi di riduzione di spese del tutto differenziate
(in quella fattispecie il comune richiedente citava l'art.
6, DL n. 78/2010, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012, etc.).
[9] Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione
Lombardia, deliberazione n. 296/2013.
[10] Nella specie, l'ente che aveva formulato la richiesta
di parere indicava l'art. 6, DL n. 78/2010, l'art. 5, c. 2,
DL n. 95/2012, l'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012.
[11] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, 30.12.2013,
n. 26, la quale osserva come l'inciso posto all'inizio del
comma 141 'Ferme restando le misure di contenimento della
spesa già previste dalle vigenti disposizioni', tende a
considerare le norme finalizzate alla riduzione delle spese
per consumi intermedi in un'ottica complessiva, con
possibilità di compensazione tra le singole voci di spesa
nel rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a
bilancio.
[12] Prevista dall'art. 18, comma 8-septies, del d.l.
21.06.2013 n. 69, introdotto dalla legge di conversione
09.08.2013 n. 98, di novella dell'art. 1, comma 141, L. n.
228/2012 (29.12.2015 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Fattura elettronica: emissione e pagamento.
DOMANDA:
Il consorzio per la gestione dei rifiuti emette fattura di
servizio smaltimento al comune datata 09.12.2014. La fattura
per un disguido non viene inviata al comune solo dopo
verifica il consorzio invia il documento in forma cartacea
in data 14.09.2015.
Il comune può pagare tale fattura in formato cartaceo o deve
necessariamente chiedere la trasformazione in fattura
elettronica?
RISPOSTA:
Va innanzitutto detto che le fatture cartacee emesse
antecedentemente al 31.03.2015, benché il comma 210
dell’art. 1 della L. 244/2007 sembri escluderlo, sono
comunque pagabili anche dopo il 30.06.2015 senza le
necessità di riemettere i medesimi documenti in formato
elettronico. Queste sono le istruzioni rese dal MEF,
Dipartimento delle Finanze, con la circolare 1/DF del
31.03.2015.
Si riporta il passaggio che qui interessa: “…l'emissione
di una seconda fattura in formato elettronico a fronte di
una fattura correttamente e legittimamente emessa in formato
cartaceo non e' consentito dalla normativa IVA. Non sarebbe,
infatti, possibile emettere note di credito a storno delle
fatture cartacee già emesse perché queste ultime non
presenterebbero alcuno dei vizi che ne permettono una
rettifica ai fini IVA. Conseguentemente, ove allo scadere
del termine di cui al comma 210 una pubblica amministrazione
stesse ancora processando una fattura emessa in forma
cartacea prima dello scadere del termine di cui al comma
209, l'amministrazione dovrà senz'altro portare a compimento
il relativo procedimento e, ove sussistano tutte le altre
condizioni, procedere al pagamento”.
Detto ciò, poiché nel quesito si fa riferimento ad una
fattura non inviata, è necessario puntualizzare che per la
legge IVA una fattura si ha per emessa quando all'atto della
sua consegna, spedizione, trasmissione o messa a
disposizione del cessionario o committente. Il che significa
che se il Consorzio nel 2014 non ha consegnato, spedito o
trasmesso la fattura al Comune, ma soltanto redatto il
documento, l’emissione è inesistente e pertanto il medesimo
dovrà procedere all’emissione della fattura elettronica ai
fini del pagamento (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La conservazione digitale.
DOMANDA:
In riferimento alla conservazione digitale CAD obbligatoria
si chiede come procedere nei seguenti casi:
- alcune deliberazioni non sono state firmate digitalmente
dal Segretario Comunale in quanto deceduto, pertanto risulta
la verbalizzazione e la sola firma digitale del Sindaco;
- presso questo Ente si è insediato l'Organismo
Straordinario Liquidazione composto da tre membri che
attualmente firmano in modo autografo.
RISPOSTA:
A) In relazione alla prima domanda, si fa presente che la
fase di conservazione documentale ha il solo effetto di
garantire che il documento informatico conservi nel tempo il
suo valore legale; di conseguenza i documenti andranno
versati in conservazione, secondo le cadenze previste nel
Manuale di conservazione (da adottarsi ai sensi dell’art. 8,
D.P.C.M. 03.12.2013, recante “regole tecniche in materia
di sistema di conservazione”) per il periodo prescritto.
Nel caso di specie, si ritiene che le delibere in questione
-pur essendo prive della sottoscrizione del Segretario
Comunale, in quanto deceduto- debbano essere versate in
conservazione nello stato in cui si trovano, rimettendo,
tuttavia, all’amministrazione ogni valutazione in merito ai
profili di legittimità di tali deliberazioni e in merito
all’opportunità di una loro rinnovazione.
B) Per quanto riguarda la seconda domanda, posto che l’art.
44, comma 1, del CAD disciplina espressamente il sistema di
conservazione di documenti informatici, salvo voler
procedere alla digitalizzazione degli originali dei
documenti sottoscritti con firma autografa dall’Organismo
Straordinario di Liquidazione insediatosi presso l’Ente, e
alla successiva certificazione di conformità degli stessi,
si ritiene opportuno che l’Organismo in questione si doti di
tutti gli strumenti necessari alla formazione degli
originali dei propri documenti con mezzi informatici, in
conformità a quanto disposto dall’art. 40, comma 1, del CAD
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
In cosa consiste la registrazione degli atti. Che cosa vuol
dire registrazione in caso d'uso?
La registrazione degli atti è un'operazione che consiste nel
loro deposito presso l'agenzia delle entrate competente (in
origine presso l'ufficio del registro) e nel correlativo
onere di pagamento di un'imposta, vale a dire l'imposta di
registro.
La normativa di riferimento è rappresentata dal d.p.r. n.
131/1986:
DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 26.04.1986, n. 131.
Ai sensi dell'art. 1 del suddetto decreto presidenziale: “l'imposta
di registro si applica, nella misura indicata nella tariffa
allegata al presente testo unico, agli atti soggetti a
registrazione e a quelli volontariamente presentati per la
registrazione”.
Si è soliti dire che gli atti devono essere registrati:
a) obbligatoriamente;
b) in caso d'uso;
c) volontariamente.
Un esempio di atto che dev'essere registrato
obbligatoriamente è rappresentato dal contratto di locazione
ad uso abitativo.
Che cosa vuol dire registrazione in caso d'uso?
Ai sensi dell'art. 6 del d.p.r. n. 131/1986, si ha caso
d'uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli
atti, presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di
attività amministrative o presso le amministrazioni dello
Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi
organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini
dell'adempimento di un'obbligazione delle suddette
amministrazioni, enti o organi ovvero sia obbligatorio per
legge o regolamento.
Se si litiga in merito, ad esempio, ad un contratto di
locazione stipulato per un periodo di tempo inferiore a
trenta giorni e la parte che pretende, ad esempio, un
credito o un risarcimento lo deposita presso la cancelleria
tra gli atti offerti al giudice per la decisione, allora
quel contratto dev'essere registrato?
Non rappresenta caso d'uso, questo almeno il consolidato
orientamento espresso dalla dottrina, il deposito di atti
eventualmente soggetto a registrazione in caso d'uso in
occasione di azioni giudiziarie non rappresenta quel così
detto caso d'uso di cui stiamo trattando.
La tariffa allegata al d.p.r. n. 131/1986 determina
l'importo dell'imposta che il depositante è tenuto a
versare.
L'art. 39 del d.p.r. n. 131/1986 ricorda che: “per gli
atti soggetti a registrazione in caso d'uso l'imposta è
applicata in base alle disposizioni vigenti al momento della
richiesta di registrazione”.
Per portare un esempio di atto soggetto a registrazione in
caso d'uso, facciamo riferimento all'art. 2-bis della parte
seconda della tariffa allegata al d.p.r. n. 131/1986. A
mente di tale disposizioni sono soggetti a registrazione in
caso d'uso: “Locazioni ed affitti di immobili, non
formati per atto pubblico o scrittura privata autenticata di
durata non superiore a trenta giorni complessivi nell'anno”.
Come ricorda l'agenzia delle entrare per calcolare i
suddetti trenta giorni occorre “far riferimento al
rapporto di locazione e di affitto dell'immobile intercorso
nell'anno con lo stesso locatario e affittuario”
(Circolare n. 12/E del 16.01.1998).
È utile ricordare, infine, che la registrazione attribuisce
data certa al documento che ne rappresenta l'oggetto (28.12.2015
- link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Serve l'autorizzazione comunale per installare le
inferriate? Installazione inferriate è necessaria
l'autorizzazione comunale?
Abito al piano rialzato di un edificio
in condominio e dopo alcuni furti nella zona ho deciso
d'installare delle inferriate alle mie finestre e
portefinestre per ovvie ragioni di sicurezza.
Per l'installazione devo domandare l'autorizzazione al
comune di residenza?
Questa la domanda che ci giunge da un nostro lettore.
Sebbene il suo quesito sia limitato ai rapporti con la
pubblica amministrazione riteniamo utile richiamare
l'attenzione anche sugli aspetti condominiali; lo facciamo
rimandando alla lettura di questo articolo:
Installazione inferriate su portefinestre.
L'attività edilizia è distinguibile in due categorie:
a) attività edilizia libera;
b) attività edilizia soggetta ad autorizzazioni
amministrative.
Rispetto alla prima, sebbene non sempre obbligatorio (cfr.
art. 6 d.p.r. n. 380/2001) è sempre consigliabile inviare
una comunicazione d'inizio attività al comune competente,
ossia il comune nel cui territorio è ubicato l'immobile
oggetto d'intervento.
A titolo di esempio rientra nell'ambito dell'attività
edilizia libera la
manutenzione ordinaria finalizzata alla “riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici”
(cfr. artt. 3 e 6 d.p.r. n. 380/2001).
Quanto alle autorizzazioni amministrative, si tratta di
procedimenti finalizzati ad ottenere un placet alla
esecuzione delle opere che s'intendono realizzare. A seconda
degli interventi si parla, ad esempio, di permesso di
costruire (il caso più significativo è la costruzione di un
nuovo edificio) o di SCIA (segnalazione certificata di
inizio attività).
Poiché l'installazione ex novo di inferriate non può
essere ricondotta nell'ambito dell'attività edilizia libera,
per rispondere alla domanda del nostro lettore è necessario
prima d'ogni cosa comprendere in quale categoria tra quelle
indicate nel testo unico in materia edilizia (d.p.r. n.
380/2001) possano essere ricondotte.
Osservate le norme definitorie contenute nell'art. 3 del
d.p.r. summenzionato, ad avviso di chi scrive,
l'installazione delle inferriate dev'essere ricompresa
nell'ambito degli interventi di restauro o risanamento
conservativo così definiti: "c) "interventi di restauro e
di risanamento conservativo", gli interventi edilizi rivolti
a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che,
nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei
all'organismo edilizio” (art. 3, primo comma, lett. c)
d.p.r. n. 380/2001).
Le inferriate possono essere considerate
elementi accessori.
In questo contesto, pertanto, deve farsi riferimento
all'art. 22 del d.p.r. n. 380/2001 a mente del quale: “Sono
realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio
attività gli interventi non riconducibili all'elenco di cui
all'articolo 10 e all'articolo 6, che siano conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”.
Prima di iniziare l'attività d'installazione, dunque, è
necessario segnalarla al comune competente non con una
semplice comunicazione, ma secondo le indicazioni previste
dal testo unico per l'edilizia e dai regolamenti edilizi
locali (relazione di un tecnico, ecc.). E' comunque
consigliabile, vista l'importanza delle norme locali,
reperire informazioni più dettagliate presso gli sportelli
unici dell'edilizia del comune competente (24.12.2015
- link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito all'ammissibilità di interventi di
installazione di impianti di comunicazioni elettroniche da
installare su tralicci inferiori a mt. 6 su edifici
esistenti nel centro storico - Comune di Velletri
(Regione Lazio,
parere 21.12.2015 n.
433845 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Abuso d'ufficio della Giunta sulla Municipalizzata.
IL CASO: l'azienda speciale di un
Comune, costituita per la gestione di servizi comunali e
sociali, su indicazione del sindaco e di alcuni assessori
del Comune, assumeva alcuni dipendenti indicati dagli stessi
componenti della giunta per l'erogazione di servizi fittizi.
Nel caso di specie, lo sviamento del potere e la violazione
dell'art. 97 della Costituzione, possono essere ritenuti
violazioni di legge alla stregua dei quali può essere
contestato il reato di abuso di ufficio?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
La norma che disciplina il reato di abuso di ufficio è
l'art. 323 del Codice Penale.
La norma così dispone: "Salvo che il fatto non
costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento
delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di
legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto
o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé
o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca
ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno
a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il
vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".
La norma, in sostanza, vuole punire l'abuso funzionale, che
si evidenzia su un piano oggettivo prima ancora che
psicologico, che porta la violazione del buon andamento e
dell'imparzialità della pubblica amministrazione tutelati
dall'articolo 97 della Costituzione.
Per l'accertamento di tale reato occorre evidenziare in
termini precisi, oltre all'individuazione di norme
procedurali violate, anche quale aspetto le violazioni
abbiano inciso sulla violazione delle buon andamento
dell'amministrazione.
Più nello specifico, infatti, la giurisprudenza ha chiarito
come, in tema di abuso d'ufficio, il requisito della
violazione di norme di legge può essere integrato anche solo
dall'inosservanza del principio costituzionale di
imparzialità dell'organizzazione per la parte in cui esprime
il divieto di ingiustificate preferenze favoritismi che
impone al pubblico ufficiale e all'incaricato incaricato di
pubblico servizio una regola di comportamento di immediata
applicazione.
Così, nel caso di specie sopra descritto, non può
ravvisarsi, come potrebbe apparire ad un primo esame,
un'ipotesi di "eccesso di potere" (che non sarebbe da
solo fonte di responsabilità penale), bensì una vera e
propria ipotesi di "sviamento del potere".
Infatti, deve ritenersi sussistente il requisito della
violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico
ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano
l'esercizio del potere, ma anche quando il comportamento
incriminato sia orientato alla sola realizzazione di un
interesse collidente con quello per il quale il potere è
attribuito: in questo caso si realizza il tipico vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge in
quanto il potere non viene esercitato secondo lo schema
normativo che legittima l'attribuzione, ma persegue
obiettivi non previsti nella ponderazione tra interesse
pubblico e interessi privati (Sez. un., n. 155 del
29/09/2011, Rossi).
Allo stesso modo, nel caso di specie, la condotta degli
organi di indirizzo politico del Comune nonché del Direttore
dell'Azienda speciale, costituiscono senz'altro violazione
dell'art. 97 della Costituzione che, come visto, ha natura
di precetto immediatamente applicabile (la cui violazione
comporta anche l'abuso d'ufficio) quando pone il divieto di
favoritismi, cioè impone l'obbligo di trattare i soggetti
portatori di un interesse tutelato con la medesima misura
Il meccanismo con cui avvenivano le assunzioni, infatti, era
ispirato dall'intento di favorire alcune persone vicine ai
componenti della Giunta. Infatti, risulta l'attuazione di un
meccanismo diretto a realizzare veri e propri favoritismi
nelle assunzioni, consistito negli stanziamenti per far
fronte a progetti fittizi, a vantaggio esclusivo degli
assunti in maniera irregolare, perché in violazione delle
norme finanziarie e di quelle che regolano le assunzioni
presso gli enti locali.
In altri, invece, l'abuso d'ufficio non è stato ravvisato
nella condotta consistita nella inosservanza delle
disposizioni inserite nel bando di concorso il quale è atto
amministrativo e, quindi, fonte normativa non riconducibile
a quelle tassativamente indicate dal citato articolo 323
(cioè, la legge o il regolamento) (tratto dalla
newsletter 21.12.2015 n. 131 di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico extra-ufficio: portata e limiti dell'autorizzazione
iniziale.
IL CASO: dopo l'autorizzazione per
l'incarico extra ufficio relativo al collaudo
tecnico-funzionale di una discarica per RSU servita da
impianti di pretrattamento e di lavorazione, seguiva il
conferimento di numerosi successivi incarichi, rimasti
tuttavia privi di autorizzazione, relativi al collaudo di
varianti e ad impianti aggiuntivi.
La mancata autorizzazione delle numerose successive
"estensioni" ricade nel divieto di svolgere incarichi in
assenza di autorizzazione con conseguente obbligo, per il
dipendente, di riversare il compenso nel conto dell'entrata
del bilancio?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Il dubbio in ordine alla violazione del divieto di svolgere
incarichi extra ufficio in assenza di preventiva
autorizzazione sorge, nel caso di specie, per il fatto che
gli incarichi successivi all'originario titolo
autorizzativo-ampliativo si riferiscono a varianti e,
addirittura a impianti aggiuntivi, ne consegue che l'oggetto
della prestazione risulta indubbiamente modificato, non
trattandosi più della stessa opera da collaudare. Non avendo
più il collaudo ad oggetto la medesima opera, non si
tratterebbe della stessa obbligazione extra ufficio
autorizzata, bensì altra e diversa prestazione, da
sottoporre, conseguentemente, alla valutazione preventiva
per verificarne la compatibilità con il lavoro d'ufficio, e
l'assenza del conflitti di interessi.
Sennonché, tale conclusione di carattere generale, non può
dirsi affatto scontata con riferimento ai singoli casi
concreti che si possono verificare, in quanto la soluzione
dipende non già dal mero confronto tra l'incarico
originariamente conferito e quelli successivamente affidati
ma dalla verifica, in concreto ed a svolgersi caso per caso,
della riconducibilità degli incarichi successivi all'ambito
oggettivo dell'unico titolo ampliativo originariamente
rilasciato.
Nel caso di specie, è evidente che l'autorizzazione
rilasciata per il collaudo funzionale di una "discarica per
RSU servita da impianti di pretrattamento e di lavorazione"
ha un ambito oggettivo estremamente vasto, tendenzialmente
idoneo a ricomprendere non soltanto il collaudo
tecnico-funzionale della discarica in sé, ma anche il
collaudo tecnico funzionale degli impianti accessori, di
compostaggio, nonché dei relativi ampliamenti e varianti.
Tuttavia, ai fini della riconducibilità degli incarichi
successivi all'originario titolo autorizzatorio, è
necessario che questo presenti un orizzonte temporale
sostanzialmente "aperto", come avviene tutte le volte in
cui, nel nulla osta, viene inserita la richiesta,
all'amministrazione o al soggetto privato conferente
l'incarico, di fornire all'amministrazione di appartenenza
del dipendente comunicazione relativa alla data di
cessazione dall'incarico.
In presenza di una riconducibilità, da intendersi come
sostanziale inerenza materiale, logica e giuridica dei
successivi incarichi al nulla osta originario, nonché in
presenza di una connotazione del nulla osta come
autorizzazione "a tempo indeterminato", fino alla
comunicazione della data di cessazione dell'incarico, è
allora possibile ritenere che l'originario titolo ampliativo
"copra" anche gli incarichi successivamente conferiti.
È evidente che l'amministrazione, laddove giunga, a seguito
di una indagine puntuale e concreta, a tale conclusione non
è tenuta ad informare la Procura della corte dei conti in
ordine alla circostanza che il dipendente non ha riversato
nell'entrata del bilancio il compenso ricevuto per gli
incarichi successivamente espletati.
In proposito va rilevato che il versamento del compenso
ricevuto nelle casse del Comune costituisce una sanzione per
i soli dipendenti che svolgono incarichi extra ufficio in
assenza di autorizzazione, così come previsto dall'art. 53,
comma 7, del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165 secondo cui "I
dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi
retribuiti che non siano stati conferiti o previamente
autorizzati dall'amministrazione di appartenenza (.) in caso
di inosservanza del divieto (.) il compenso dovuto per le
prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura
dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto
dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di
appartenenza del dipendente per essere destinato ad
incremento del fondo di produttività o di fondi
equivalenti".
Aggiunge il successivo articolo 7-bis che "l'omissione del
versamento del compenso da parte del dipendente pubblico
indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità
erariale soggetto alla giurisdizione della corte dei conti",
che, nel caso di specie, per quanto anzidetto, non parrebbe
configurabile (tratto dalla newsletter 14.12.2015 n. 130
di http://asmecomm.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Il consigliere non gestisce.
Non può compiere atti di amministrazione.
I paletti posti dalla giurisprudenza agli atti di delega dei
sindaci.
Le deleghe conferite ai consiglieri comunali con decreto
sindacale possono determinare un'impropria commistione tra
funzioni di governo e funzioni di controllo politico?
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è
ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché
il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione
istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre
considerare, quale criterio generale, che il consigliere può
essere incaricato di studi su determinate materie, di
compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura
di situazioni particolari che non implichino la possibilità
di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere,
infatti, svolge la sua attività istituzionale in qualità di
componente di un organo collegiale, quale il consiglio, che
è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle
leggi e dallo statuto. Poiché il consiglio svolge attività
di indirizzo e controllo politico-amministrativo, ne
scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione
nell'ambito dell'attività di controllo.
Tale criterio
generale può ritenersi derogabile solo in taluni casi
previsti dalla legge. In proposito, il Tar Toscana, con
decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una
norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di
funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva
implicitamente che potessero essere delegati compiti di
amministrazione attiva, tali da comportare «l'inammissibile
confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di
controllore e di controllato».
Considerato che, nel caso di
specie, le norme statutarie non contengono un'espressa
previsione che consenta l'attribuzione di deleghe ai
consiglieri, potrebbe determinarsi con la suddetta
attribuzione una situazione, perlomeno potenziale, di
conflitto di interesse.
A rafforzare tale orientamento soccorre il parere n. 4883/2011
reso in data 17.10.2012 dal consiglio di stato che, in un
caso analogo, ha affermato di non condividere
l'argomentazione difensiva dell'amministrazione secondo cui,
mancando nella normativa comunale un'esplicita previsione
che vieti al sindaco di conferire ai consiglieri comunali
deleghe di studio e consulenza, il loro conferimento sarebbe
legittimo (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Surroga.
Ricorrono i presupposti per l'applicazione dell'art. 141,
comma 1, lett. b), n. 4, del Tuel qualora il consiglio possa
procedere alla surroga di uno solo dei due consiglieri da
ultimo dimessisi, attribuendo il seggio al candidato che,
nella medesima lista, segue immediatamente l'ultimo eletto?
Nella fattispecie in esame, il comune ha rinnovato i propri
organi a seguito delle elezioni amministrative, in esito
alle quali sono stati eletti, oltre al sindaco, dodici
consiglieri. Nel corso della consiliatura hanno rassegnato
le dimissioni quattro consiglieri che sono stati surrogati
con apposite delibere adottate, in seconda convocazione, con
la presenza di quattro consiglieri.
In merito al quorum
necessario al fine della validità delle sedute, il
segretario comunale ha reso parere favorevole in quanto
l'art. 273, comma 6, del Tuel detta una disciplina
transitoria che legittima l'applicazione dell'art. 127 del
T.u. n. 148/1915, fino all'adeguamento della normativa
locale ai criteri indicati dal citato decreto legislativo n.
267/2000.
Peraltro, il comune non ha adottato una disciplina
regolamentare concernente il quorum per le sedute di seconda
convocazione avverso le deliberazioni di surroga è stato
proposto ricorso al Tar e, nelle more della pronuncia del
giudice amministrativo, il consiglio di stato ha sospeso
l'efficacia degli atti impugnati accogliendo la relativa
richiesta di sospensiva. Precedentemente a tale pronuncia si
erano dimessi altri due consiglieri, e, poiché il
consigliere dimessosi per primo non è più surrogabile per
assenza di ulteriori candidati nella medesima lista, da
alcuni consiglieri è stata formulata istanza ai sensi
dell'art. 141, comma 1, lett. b), n. 4, del Tuel.
Nel caso di
specie, però, non sussistono i presupposti giustificativi
per l'applicazione del richiamato art. 141 in quanto il
consiglio è tenuto a provvedere alla surroga del consigliere
dimessosi per secondo, ai sensi degli artt. 38, comma 8, e
45, comma 1, attribuendo il seggio al candidato che, nella
medesima lista, segue immediatamente l'ultimo eletto.
Infatti, solamente uno dei due consiglieri dimessosi
successivamente non sarebbe surrogabile per mancanza di
ulteriori candidati nella medesima lista.
Le norme citate,
peraltro, impongono al consiglio l'obbligo di procedere alla
surroga, configurando, quindi, la relativa attività come
vincolata e non facoltativa. Inoltre, lo statuto del comune,
prevede la presenza della metà dei consiglieri per la
validità delle sedute. Pertanto, il consiglio, potendo
funzionare anche con la presenza di sei consiglieri, dovrà
procedere alla surroga del consigliere, elevando a sette il
numero dei propri componenti.
Infine, anche qualora dovesse intervenire l'annullamento
delle delibere consiliari da parte del Tar adito, i medesimi
atti potranno essere comunque adottati nuovamente
rispettando gli eventuali criteri dettati dal giudice
amministrativo con riferimento al quorum necessario
al fine della validità della seduta (articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Corruzione: quali sono le "altre utilità".
IL CASO: il Comandante del Corpo della polizia locale
nell'anno 2009, con atti contrari ai doveri d'ufficio,
affida ad una società operante nel settore del lavori
stradali un servizio di ripristino della viabilità
post-incidente all'interno del territorio comunale.
A distanza di due anni, l'amministratore di quella stessa
società corrisponde la somma di Euro 30.000 al gruppo
sportivo dei vigili urbani, gestito dal medesimo Comandante
del corpo. Tale corresponsione può essere considerata come
"altra utilità" ai fini della contestazione del reato di
corruzione ex art. 319 c.p.?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Preliminarmente è necessario richiamare l'art. 319 c.p. che
disciplina il reato di corruzione.
La norma così dispone: "Il pubblico ufficiale che, per
omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto
del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un
atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un
terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è
punito con la reclusione da sei a dieci anni.".
In tema di corruzione per atto contrario ai doveri
d'ufficio, ai fini dell'accertamento della controprestazione
offerta dal corruttore, la nozione di "altra utilità" quale
oggetto della dazione o della promessa al pubblico
ufficiale, come è stato chiarito dalla giurisprudenza, non
va circoscritta soltanto alle utilità di natura
patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi sociali le
cui ricadute patrimoniali siano mediate e indirette.
In tal senso, la Cassazione penale ha precisato, inoltre,
che la nozione di "altra utilità", quale oggetto della
dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio
materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che
abbia valore per il pubblico agente (Sez. 6, n. 29789 del
27/06/2013), corrispondente, nel caso di specie, al
Comandante della Polizia locale.
Più nello specifico, poi, sempre la giurisprudenza della
Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che il reato
di corruzione di cui all'art. 319 c.p. "sussiste ogni qual
volta la dazione in favore del pubblico ufficiale
costituisca il compenso del favore ottenuto, a nulla
rilevando che la stessa sia avvenuta a distanza di tempo
dalla formazione dell'atto".
Alla luce dei chiarimenti ermeneutici sopra descritti, è
evidente come nel caso di specie possa ravvisarsi il reato
di corruzione propria, in quanto le somme di denaro
corrisposte dall'amministratore dell'operatore economico che
si era visto aggiudicare il contratto, benché non
corrisposte direttamente al Comandante della Polizia Locale,
venivano corrisposte (anche se a due anni di distanza) al
Gruppo Sportivo dei Vigili urbani gestito proprio dallo
stesso Comandante.
E' evidente come, in tal modo, il medesimo Comandante ne
ottenga un vantaggio indiretto anche solo sotto il profilo
del vantaggio sociale che ciò comporta.
Il concetto di "altra utilità" previsto dal reato di
corruzione (come peraltro previsto anche nei reati di
concussione e induzione indebita a dare e promettere
utilità), è, come visto, molto esteso. La giurisprudenza,
infatti, ne ha dilatato la portata, proprio per comprendere
nella fattispecie punitiva quelle condotte poste in essere
dai soggetti che commettono il delitto, per evitare, per
quanto possibile, l'accertamento del sodalizio che porta
alla commissione del reato.
Anche in un caso come quello descritto, in cui il lasso di
tempo trascorso (più di due anni) e i destinatari della
corresponsione di denaro (un Gruppo sportivo) potevano
creare dubbi interpretativi, la giurisprudenza non ha avuto
incertezze, richiamando i principi pronunciati dalla
Cassazione, nell'inquadrare quelle medesime condotte nel
reato di corruzione propria di cui all'art 319 c.p. (tratto
dalla newsletter 09.12.2015 n. 129 di http://asmecomm.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Oneri di urbanizzazione secondaria –
destinazione della quota spettante alle chiese ed altri
edifici per servizi religiosi - Parere (Regione Emilia
Romagna,
parere 04.12.2015 n. 862614 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI - VARI:
Indebite pressioni sugli organi politici.
IL CASO: Un "consigliere politico" di un noto parlamentare,
accetta importanti somme di denaro per fare pressioni
affinché venga approvato, da un ente ministeriale, un
importante finanziamento a favore di un consorzio per il
completamento di un'opera di pubblico interesse. I fatti
avvengono prima dell'entrata in vigore della L. 190/2012.
Nel
caso di specie, il "consigliere politico" può rispondere
anche del reato di corruzione o risponde di altro reato?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
Nel caso di specie, va preliminarmente esclusa la
possibilità di ravvisare il reato di corruzione nei fatti
prospettati nel quesito.
Ed in vero la figura del "consigliere politico", che negli
ultimi anni si è spesso vista associata a organi
ministeriali, non è in realtà prevista da alcuna norma
giuridica, non facendo parte di alcun organico ministeriale.
Spesso si tratta di parlamentari che proprio grazie rapporti
di fiducia con un determinato ministro vengono
discrezionalmente designati come loro consiglieri personali
su temi concernenti la politica.
Il "consigliere politico", quindi, non ricopre un incarico
istituzionalizzato e le azioni da questi svolte non
rientrano e non sono riconducibili all'esercizio di alcuna
delle pubbliche funzioni richiamate lo stesso codice penale
all'articolo 357.
Conseguentemente, non può essere attribuita alla figura del
"consigliere politico" la qualifica di pubblico ufficiale né
di incaricato di pubblico servizio. Questo presupposto, fa
quindi venir meno la possibilità che allo stesso possa
essere contestato il reato tipico della corruzione, non
avendo agito quale espressione di una pubblica funzione ma
sostanzialmente quale soggetto privato ben inserito e
introdotto nei meccanismi ministeriali.
Viene invece in rilievo, nel caso di specie, il nuovo reato
di traffico di influenze illecite, articolo 346-bis c.p.,
così come introdotto dalla legge 190/2012. La norma così
dispone: "Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di
cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni
esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di
un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come
prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico
ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per
remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario
ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto
del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre
anni. La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o
promette denaro o altro vantaggio patrimoniale".
Prima dell'entrata in vigore dell'art. 346-bis c.p., queste
stesse fattispecie erano incriminabili per "millantato
credito" (art. 346 c.p.).
Basti ricordare, infatti, che la giurisprudenza più recente
aveva esteso il concetto di millanteria, al punto che si è
considerata non necessaria una condotta ingannatoria o
raggirante, perché ciò che rileva è la vanteria
dell'influenza sul pubblico ufficiale, che, da sola, a
prescindere dai rapporti effettivamente intrattenuti,
offende l'immagine della pubblica amministrazione (v. ex plurimis, Cass., Sez. 6,
04.03.2003 n. 16255, Pirosu, rv
224872; idem, 17.03.2010 n. 13479, D'Alessio, rv 246734).
Nel caso di specie, quindi, con fatti avvenuti prima del
novembre 2012, ovvero dell'entrata in vigore del nuovo reato
di traffico di influenze illecite, sarebbe stato applicabile
proprio tale tipo di contestazione penale. In realtà, con la
nuova norma il Legislatore individua l'autore del reato non
più in chi millanta influenze, non importa se vere o false,
ma unicamente in chi sfrutta influenze effettivamente
esistenti (il che giustifica il diverso trattamento
riservato a chi sborsa denaro ripromettendosi di trarne
vantaggio: non punibile nel primo caso, che ha per
protagonista un millantatore puro sedicente faccendiere,
concorrente nel reato nel secondo caso, che vede all'opera
un faccendiere vero realmente in contatto con il pubblico
ufficiale).
Tuttavia, in considerazione del fatto che il nuovo art. 346-bis prevede norme più miti rispetto al reato di millantato
credito, e in applicazione del principio della applicazione
della norma più favorevole al reo, ne consegue che i fatti
commessi prima dell'entrata in vigore della L. n. 190 del
2012, nei quali il cosiddetto faccendiere ha ottenuto la
promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul
pubblico ufficiale effettivamente esistente, che
pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346
c.p., devono ora essere ricondotti nella nuova.
Si tratta, come già ha avuto modo di osservare la
Cassazione, di un risultato paradossale determinato da una
riforma presentata all'insegna del rafforzamento della
repressione dei reati contro la pubblica amministrazione che
ha prodotto, almeno in questo caso, l'esito contrario.
Infatti, mentre l'art. 346 c.p., comma 1, stabilisce la pena
della reclusione da uno a cinque anni, l'art. 346-bis c.p.,
commina la reclusione da uno a tre anni, ossia una pena il
cui massimo edittale, nel caso di affermazione della
responsabilità penale, comporta l'irrogazione di una
sanzione meno severa e, peraltro, preclude l'applicazione di
qualsivoglia misura cautelare.
Per tale ragione, nel caso di specie descritto, dovendosi
qualificare il fatto nell'alveo del reato di traffico di
influenze illecite, non potranno applicarsi misure cautelari
quali la custodia cautelare in carcere o gli arresti
domiciliari (tratto dalla newsletter 01.12.2015 n. 128
di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Doppio lavoro del dipendente,
la PA deve sempre denunciare il fatto.
IL CASO: A seguito di una segnalazione, l'amministrazione è
venuta a conoscenza che un suo dipendente di ruolo, a tempo
pieno, ha svolto e tuttora svolge attività lavorativa libero
professionale retribuita presso soggetti privati.
L'amministrazione è tenuta a denunciare il fatto tenuto
conto che, in realtà, non vi è certezza né alcuna prova che
il lavoratore abbia effettivamente svolto l'attività extra
lavorativa segnalata?
(Risponde l’Avv. Nadia Corà)
In presenza di segnalazione o di esposto con il quale si
evidenzia all'amministrazione l'attività extra lavorativa
del dipendente, quest'ultima, verificata l’assenza di una
preventiva autorizzazione, ha l'obbligo di intimare al
dipendente di versare, entro un termine prefissato, nelle
casse dell'ente la somma esattamente equivalente
all'ammontare dei compensi percepiti per l'attività extra
istituzionale non autorizzata, ai sensi dell'articolo 53,
comma 7, del decreto legislativo 165/2001.
L'omesso adempimento dell'intimazione, e la conseguente
omissione del versamento del compenso da parte del
dipendente, di regola motivati sulla base della negazione
dell'esistenza di lavoro non autorizzato, non esime
l'amministrazione dall’obbligo di denuncia del fatto alla
Corte dei conti.
Si tratta, laddove venga accertato il fatto, di un caso di
lesione del principio di esclusività della prestazione nei
confronti dell'ente pubblico, contrattualmente previsto, e
di mancato riversamento nel bilancio dell'ente di
appartenenza dei compensi percepiti dal dipendente non
autorizzato.
Per tale motivo, in mancanza di versamento del compenso
entro il termine assegnato nell'intimazione, sorge in capo
all'amministrazione il preciso obbligo di denunciare, alla
competente sezione regionale della Corte dei conti, la
condotta del dipendente potendosi configurare, in tale
ipotesi, e qualora i fatti risultino accertati, la
responsabilità amministrativa-contabile del dipendente
medesimo, per aver prestato attività libero-professionale
retribuita presso soggetti privati pur non avendo mai
presentato all'amministrazione richiesta di autorizzazione
allo svolgimento di detta attività.
Va rilevato che, a seguito della denuncia alla Corte dei
conti, il procedimento che si incardina prevede l’apertura,
da parte della Procura contabile, di norma mediante delega
alla Guardia di finanza, di una apposita indagine
finalizzata all'accertamento dello svolgimento delle
prestazioni non autorizzate e alla conseguente indebita
percezione dei compensi. In questa fase di indagini, il
dipendente ha la possibilità di far pervenire proprie
osservazioni. Tuttavia, qualora dette osservazioni non
vengano acquisite, ovvero non siano tali da discolpare il
dipendente, la Procura erariale procede a notificare il c.d.
“invito a dedurre”, attraverso il quale viene consentita al
dipendente l'esplicazione delle proprie difese in una fase
che non è ancora di natura processuale.
Anche in questo
caso, laddove non risultino superati gli addebiti mossi
dalla Procura, contenuti nell'invito a dedurre, il
procedimento prosegue attraverso la citazione del dipendente
davanti alla Corte dei conti per la sottoposizione al
giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, che
vede la procura regionale in qualità di parte attrice e il
dipendente in qualità di convenuto.
La Corte dei conti, investita del giudizio di
responsabilità, svolge il processo prendendo a riferimento,
nel caso di specie, gli obblighi incombenti sul dipendente
pubblico ai sensi dell'articolo 53, comma 7, del decreto
legislativo n. 165/2001 al quale, com'è noto, è stato
aggiunto il comma 7-bis. Quest'ultimo è indicativo della
natura "sanzionatoria" e "repressivo-preventivo" della
prescrizione che statuisce la responsabilità erariale del
dipendente che omette di versare i proventi dell'attività
extra lavorativa non autorizzata all'amministrazione, in
quanto norma volta a scoraggiare la condotta antigiuridica,
largamente diffusa nella prassi del c.d. doppio lavoro o
“lavoretto” da eseguire nel “dopolavoro” pubblico, senza che
nulla ne sappia, ufficialmente, l'amministrazione.
La reazione sanzionatoria, che consiste nella “non utilità”,
per il lavoratore, della prestazione non autorizzata, in
ragione della privazione dei compensi indebitamente
percepiti all'amministrazione, viene comminata con sentenza
della Corte dei conti a seguito dell'accertamento, da un
lato, della condotta del dipendente di violazione dei doveri
d'ufficio e, dall'altro lato, della colpa grave del
dipendente medesimo che, in questo caso, è ravvisabile nella
consapevole violazione dei doveri d'ufficio e, in
particolare, nella consapevole omissione della richiesta di
autorizzazione.
La somma che viene recuperata è quella al netto delle
imposte corrisposte dal dipendente, in quanto effettivamente
entrata nella relativa sfera patrimoniale.
La corte dei conti può tuttavia tenere conto, nello
stabilire, con sentenza di condanna, l'ammontare della somma
da recuperare a carico del dipendente, dell'assenza di
censure sulla resa lavorativa, della qualifica del
dipendente, e di ogni altro elemento concreto di
attenuazione della colpa quale, ad esempio, una non adeguata
conoscenza del regime di responsabilità per non avere
l'amministrazione svolto, a favore dei propri dipendenti,
adeguata attività formativa e divulgativa sui doveri
d'ufficio e sul codice di comportamento.
In questo caso una parte del danno resta a carico
dell'amministrazione, in conseguenza della mancata
attivazione della stessa per promuovere la cultura della
legalità, dell'integrità e della prevenzione dei fenomeni di
irregolarità e di abuso nell'esercizio delle funzioni
pubbliche (tratto dalla newsletter 24.11.2015 n. 127
di http://asmecomm.it). |
ENTI LOCALI:
Piano Anticorruzione obbligatorio anche per le Società
partecipate.
IL CASO: Quali misure può adottare il
responsabile per la Prevenzione della Corruzione rispetto
all'omissione degli adempimenti da parte della società
partecipata?
(Risponde l'Avv. Nadia Corà)
Nell'ambito dell'incarico di cui all'art. 1, comma 7, della
Legge n. 190/2012, di Responsabile per la prevenzione della
corruzione, è ricompreso il compito di verificare l'efficace
attuazione del piano e la sua idoneità. A tal fine il RPC è
tenuto a redigere, entro il 15 dicembre di ogni anno e
secondo la Scheda standard predisposta dall'ANAC, la
relazione annuale di rendiconto sull'efficacia delle misure
di prevenzione definite nel piano. In detta relazione
standardizzata va rendicontata anche l'attività di vigilanza
nei confronti di enti e società partecipate e/o controllate
con riferimento all' adozione e attuazione del PTPC o di
adeguamento del modello di cui all'art. 6 del D.Lgs.
231/2001.
Nel 2014, il rendiconto dell'attività di vigilanza e
controllo sugli enti e società partecipate era contenuto
nella parte della Scheda standard dedicata alle "Misure di
prevenzione", Sezione 3 "Misure ulteriori", Domanda.3.B.3.
Ne consegue che il PRC del Comune, che si identifica
normalmente nel segretario comunale, ha l'obbligo di
controllare non solo che gli enti e le società partecipate
e/o controllate abbiano effettivamente adottato il PTPC o
l'adeguamento del modello di cui all'art. 6 del D.Lgs.
231/2001, ma ha, altresì, l'obbligo di controllare che gli
enti e le società partecipate e/o controllate abbiano dato
concreta attuazione alle misure di prevenzione della
corruzione contenute nel PTPC o nell'adeguamento del modello
231/2001.
Anche per gli enti e le società partecipate e/o controllate
dal Comune va ricompresa nell'ambito delle misure di
prevenzione della corruzione e dell'illegalità, la
formazione anticorruzione destinare, all'interno dei
suddetti enti e società, al RPC e al RTTI -laddove
nominati-, agli organi di controllo interno, ai dirigenti e
ai dipendenti. I contenuti della formazione debbono essere
rivolti alla normativa anticorruzione e per la trasparenza e
integrità, al PTCP e al PTTI, alla gestione del rischio, ai
codici di comportamento, agli incandidabilità e
incompatibilità degli incarichi, al conflitto di interesse,
alla normativa sui contratti pubblici, alla tutela del
dipendente pubblico che segnala illeciti, alla normativa
penale sulla corruzione e, infine, ad altri contenuti
ritenuti necessari in relazione al potenziamento delle
capacità individuali e di gruppo.
Che la formazione anticorruzione costituisca una misura
obbligatoria anche per gli enti e le società partecipate e/o
controllate dal Comune si ricava anche dalla recente
Determinazione ANAC n. 8 del 17/06/2015 relativa alle «Linee
guida per l'attuazione della normativa in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle
società e degli enti di diritto privato controllati e
partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti
pubblici economici».
Le Linee guida sono innanzitutto indirizzate alle società e
agli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle
pubbliche amministrazioni, nonché agli enti pubblici
economici. Le stesse sono rivolte, inoltre, alle
amministrazioni pubbliche che vigilano, partecipano e
controllano gli enti di diritto privato e gli enti pubblici
economici. Come si legge testualmente nel testo della
determinazione "Ad avviso dell'Autorità, infatti, spetta
in primo luogo a dette amministrazioni promuovere
l'applicazione della normativa in materia di prevenzione
della corruzione e di trasparenza da parte di tali enti. Ciò
in ragione dei poteri che le amministrazioni esercitano nei
confronti degli stessi ovvero del legame organizzativo,
funzionale o finanziario che li correla... Dal quadro
normativo sinteticamente tratteggiato emerge con evidenza
l'intenzione del legislatore di includere anche le società e
gli enti di diritto privato controllati e gli enti pubblici
economici fra i soggetti tenuti all'applicazione della
normativa in materia di prevenzione della corruzione e di
trasparenza. La ratio sottesa alla legge n. 190 del 2012 e
ai decreti di attuazione appare, infatti, quella di
estendere le misure di prevenzione della corruzione e di
trasparenza, e i relativi strumenti di programmazione, a
soggetti che, indipendentemente dalla natura giuridica, sono
controllati dalle amministrazioni pubbliche, si avvalgono di
risorse pubbliche, svolgono funzioni pubbliche o attività di
pubblico interesse".
La citata estensione delle misure di prevenzione della
corruzione e di trasparenza agli enti e società controllate
e/o partecipate include allora anche la misura di
prevenzione costituita dalla formazione che va, come
anzidetto, adottata e attuata anche in tali organismi.
Il RPC, in quanto soggetto che svolge un ruolo di impulso e
di coordinamento sulla attuazione del PTPC del Comune, nel
quale va ricompresa, come misura ulteriore, la vigilanza
sull'adozione e sulla attuazione delle misure anticorruzione
da parte degli organismi privati, e in quanto soggetto
tenuto alla vigilanza e al controllo sull'attuazione delle
misure, ha l'obbligo, nel caso di omissione:
- di contestare per iscritto, agli enti e società
controllate e/o partecipate, l'inadempimento, diffidando gli
stessi all'adempimento integrale e tempestivo, con
assegnazione di un termine per l'adempimento;
- di segnalare all'ANAC, in caso di perdurante omissione,
pur in presenza di diffida, l'inadempimento dell'ente e
società partecipata e/o controllata.
Infine, il RPC è tenuto a rendicontare detto inadempimento
nell'ambito della relazione da effettuare entro il 15
dicembre di ciascun anno. Per l'anno 2014, la suddetta
rendicontazione andava effettuata nella parte della
relazione dedicata alle considerazioni generali
sull'efficacia dell'attuazione del PTPC e sul ruolo del RPC,
nelle seguenti sezioni:
- "Aspetti critici dell'attuazione del PTCP", con
riferimento alla misura di prevenzione ulteriore
rappresentata dalla vigilanza nei confronti di enti e
società partecipate e/o controllate;
- "Aspetti critici del ruolo del RPC" , rilevando
l'inadempimento degli organismi partecipati e/o controllati
come fattore che ha ostacolato l'azione di impulso e di
coordinamento del RPC rispetto all'attuazione del PTPC, Gli
obblighi di impulso, coordinamento, controllo e vigilanza
del RPC nei confronti degli enti e società partecipati e/o
controllati, in quanto integrati negli obiettivi
dirigenziali, costituiscono oggetto di valutazione ai fini
della corresponsione dell'indennità di risultato, tenuto
conto della responsabilità dirigenziale che ne deriva in
caso di inadempimento, oltre che della responsabilità di
natura disciplinare (tratto dalla newsletter 12.11.2015
n. 126 di http://asmecomm.it). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti, ecotassa con addizionale. Nei comuni che
non raggiungono gli obiettivi di raccolta.
Il collegato ambiente apre la strada a possibili
rincari del tributo sui conferimenti in discarica.
Salasso in arrivo nei comuni inefficienti sul fronte della
raccolta differenziata e del riciclaggio dei rifiuti. Al
tributo per il conferimento in discarica verrà applicata
un'addizionale del 20%. A pagarla saranno i municipi tutte
le volte in cui a livello comunale o di Ato (Ambito
territoriale ottimale) non siano stati conseguiti gli
obiettivi minimi di raccolta. Al contrario, nei comuni
efficienti, in cui il livello di raccolta differenziata
supera gli standard previsti a livello statale, il tributo
potrà essere scontato dal 30 al 70%.
A prevederlo è la legge recante misure per promuovere la
green economy e il contenimento dell'uso eccessivo del suolo
(meglio conosciuta come collegato ambientale -Atto
Camera n. 2093-B)
approvata in via definitiva dalla camera dei deputati la
settimana scorsa (si veda ItaliaOggi del 23/12/2015) dopo
una gestazione parlamentare di oltre un anno.
Il rincaro della cosiddetta «ecotassa», istituita
esattamente vent'anni fa (commi 24 e seguenti dell'art. 3
della legge n. 549/1995) a favore delle regioni per
disincentivare lo smaltimento mediante semplice deposito in
discarica o incenerimento senza il recupero di energia, è
contenuto in una modifica inserita nel passaggio al senato e
che la camera dei deputati ha confermato in terza lettura.
Come detto, al rincaro del 20% a carico dei comuni
inefficienti, fanno da contraltare tutta una serie di sconti
previsti per gli enti virtuosi. Per miglioramenti della
raccolta differenziata (rispetto agli standard nazionali)
fino al 10% la riduzione dell'ecotassa sarà del 30% e salirà
fino al 40, 50, 60 e 70% se il superamento del livello di
raccolta differenziata raggiungerà rispettivamente il 10,
15, 20 e 25%.
L'addizionale confluirà in un apposito fondo regionale
destinato a finanziare interventi di prevenzione della
produzione di rifiuti, incentivi per l'acquisto di prodotti
e materiali riciclati e attività di informazione ai
cittadini. Le regioni, inoltre, potranno prevedere incentivi
economici per incrementare la raccolta differenziata e
ridurre la quantità dei rifiuti non riciclati nei comuni.
Ecotassa al restyling.
Il collegato ambientale estende l'ecotassa anche ai rifiuti
inviati agli impianti di incenerimento senza recupero
energetico. Finora, invece, si pagava solo per il deposito
di rifiuti solidi in discarica. Vengono assoggettati al
pagamento del tributo, nella misura ridotta del 20%, in ogni
caso, tutti gli impianti classificati esclusivamente come
impianti di smaltimento mediante incenerimento a terra. Il
gettito dell'ecotassa, come detto, andrà tutto alle regioni.
È stata infatti soppressa la norma della legge del 1995 che
ne attribuiva una quota del 10% alle province.
Meno rifiuti meno Tari.
L'articolo 36, introdotto nel corso dell'esame al senato,
prevede la possibilità per i comuni di stabilire riduzioni
tariffarie ed esenzioni della Tari in caso di effettuazione
di attività di prevenzione nella produzione di rifiuti. Le
riduzioni tariffarie dovranno essere commisurate alla
quantità di rifiuti non prodotti (nuova lettera e-bis) del
comma 659 della legge 147/2013).
Si tratta, in pratica, di una embrionale applicazione del
principio comunitario «chi inquina paga» fino ad ora
rimasto sulla carta e nuovamente rinviato ad opera della
legge di stabilità 2016. Spetterà al ministero dell'ambiente
intervenire con decreto per assicurare il rispetto della
direttiva 2008/98/Ce.
Il dicastero guidato da Gian Luca Galletti avrebbe dovuto
emanare il provvedimento entro giugno 2014, quindi un anno e
mezzo fa. Ora il collegato ambientale riduce un po' il
ritardo, spostando la dead line al 01.01.2015
(articolo ItaliaOggi del
30.12.2015). |
VARI: Doppia
identificazione per la sede dell'impresa individuale.
Un parere del Ministero dello Sviluppo
Economico.
La sede dell'impresa individuale può coincidere con la
residenza del titolare. Ma può anche non coincidere,
necessariamente, con il luogo in cui avviene lo scambio o la
produzione di beni o servizi ma, piuttosto, con il luogo
dove viene svolta l'attività di organizzazione dei fattori
produttivi (capitale, lavoro) volta all'ottenimento di un
prodotto idoneo a soddisfare i bisogni dei consumatori.
Con due diversi pareri (parere
28.12.2015 n.
283970 di
prot. e
parere 14.01.2013 n. 5095 di prot.) il Ministero
dello sviluppo economico fotografa le diverse possibilità
civilistiche per l'individuazione della sede dell'impresa
individuale.
Se la sede dell'impresa e quella di svolgimento
dell'attività divergono, al fine di ottemperare agli
adempimenti previsti dalla disciplina in materia di
pubblicità legale d'impresa il titolare sarà tenuto sia a
iscrivere la sede «principale» presso l'ufficio del
registro delle imprese della competente camera di commercio,
sia a denunciare l'avvio dell'attività presso una diversa
localizzazione (anche in una diversa provincia).
Se, poi, la sede risulta «inattiva» nel momento in
cui si denuncia l'avvio dell'attività presso l'unità locale,
dovrà procedersi all'apposita comunicazione nei confronti
del registro delle imprese competente per la sede, volta a
dichiarare, tra l'altro, la data di inizio dell'attività
dell'impresa (nel suo complesso) e l'attività prevalente
dell'impresa (sempre nel suo complesso), secondo quanto
previsto dalle istruzioni per la compilazione della
modulistica registro imprese/Rea di cui alla circolare
ministeriale n. 3668/C del 27/02/2014
(articolo ItaliaOggi del
30.12.2015). |
APPALTI:
Gare, il 10% in anticipo. La misura in vigore
fino al 30.06.2016.
MILLEPROROGHE/ Il decreto sarà pubblicato in Gazzetta il 31.
Prorogato fino a tutto giugno 2016 il regime di
qualificazione agevolato per i progettisti, per le imprese
di costruzioni e per i contraenti generali; anticipazione
del 10% sull'importo del contratto fino al 30.06.2016.
Lo prevede il dl «mille proroghe» (che sarà pubblicato il 31
dicembre in Gazzetta Ufficiale) che contiene diversi rinvii
relativi, fra gli altri, anche alle norme sulla
qualificazione di progettisti e imprese di costruzioni che
operano nel settore degli appalti pubblici.
Per quanto
riguarda la qualificazione dei progettisti il decreto dite
rivende sulla della disposizione (art. 253, comma 15-bis del
codice dei contratti pubblici) che consente di qualificarsi
nelle gare per servizi di ingegneria e architettura con i
migliori cinque anni del decennio (per il requisito del
fatturato quinquennale) e con i migliori tre anni del
quinquennio (per il requisito del personale triennale).
La
norma, introdotta nel 2010 quando fu chiara l'entità della
riduzione del domanda pubblica e della crisi, già prorogata
nel 2013, è quindi oggetto e di un nuovo rinvio così da
consentire ai progettisti di continuare a utilizzare il
regime agevolato. Nelle intenzioni del governo si dovrebbe
trattare quasi di una proroga tecnica dal momento che, fra
aprile e luglio 2016, dovrebbe essere completato il lavoro
della commissione ministeriale che sta lavorando al decreto
delegato di attuazione della legge delega di riforma del
codice dei contratti pubblici di recepimento delle direttive
europee sugli appalti e sulle concessioni.
Analogamente
viene anche prorogato fino a fine giugno il regime agevolato
di qualificazione per le imprese di costruzioni che prende
come riferimento il decennio per la soddisfazione del
requisito della cifra d'affari in lavori e per i cosiddetti
lavori di punta.
Analogo discorso -e quindi analoga proroga
al 30.06.2016- viene fatto per la qualificazione dei
contraenti generali che, in relazione alle iscrizioni
richieste o rinnovate entro fine giugno, potranno
documentare i requisiti di idoneità tecnica e organizzativa
con il possesso di attestazioni soa per importi illimitati,
differenziati a seconda delle classifiche di iscrizioni. Il
decreto prevede anche la proroga della disposizione che
obbliga le stazioni appaltanti ad anticipare all'impresa che
si è aggiudicata il lavoro fino al 10 per cento dell'importo
contrattuale.
In particolare l'efficacia dell'articolo 8, comma 3-bis, del
decreto legge 31.12.2014 viene posticipata dal 31.12.2015 al
30.06.2016. Anche in questo caso l'intento è quello di dare
un minimo di tranquillità alle imprese che devono approvate
il cantiere, dopo la consegna dei lavori
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Unioni prorogate, ma con l'incentivo. Unioni di
comuni prorogate, ma con l'incentivo.
È l'effetto combinato e un po' paradossale del decreto «milleproroghe»
e della legge di Stabilità per il 2016.
Il primo provvedimento ha imbarcato l'ormai consueto rinvio
degli obblighi di gestione associata delle funzioni
fondamentali da parte dei piccoli comuni. È del 2010 che i
mini enti dovrebbero aggregarsi per gestire il proprio core
business, stipulando fra di loro delle convenzioni o,
appunto, dando vita ad unioni di comuni.
Finora, però, sono poche le amministrazioni che hanno preso
sul serio la faccenda, come dimostrato dai più recenti
monitoraggi del Viminale e della Corte dei conti.
I giudici contabili, inoltre, hanno evidenziato come le
forme associative spesso determinino un incremento delle
spese, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe.
Colpa, secondo l'Anci, di una disciplina che, da un lato, è
troppo rigida (nel senso che non tiene conto delle
peculiarità dei diversi territori), dall'altro è poco
puntuale nel definire i servizi da gestire in forma
associata.
Da qui la richiesta, al di là dell'inevitabile proroga, di
un restyling normativo che superi il mero riferimento alla
soglie demografiche minime da raggiungere e si ponga
nell'ottica dei bacini funzionali. Per questo, i sindaci
preferiscono parlare di sospensione degli obblighi, in
attesa di riscrivere le regole del gioco (probabilmente con
un nuovo decreto «enti locali» da mettere in calendario
entro la primavera).
Buone notizie, invece, per le amministrazioni che, superando
la logica dei campanile, si sono già unite. A loro favore,
la stabilità mette a disposizione una quota parte del fondo
di solidarietà comunale pari a 30 milioni, mentre altri 30
andranno agli enti che buttando il cuore oltre l'ostacolo si
sono addirittura fusi.
A favore di questi ultimi, inoltre, sarà raddoppiato il
contributo straordinario che viene erogato dallo Stato per
10 anni e che è parametrato ai trasferimenti del 2010. Ciò
nel tentativo di compensare al danno derivante dalla
cancellazione dell'esenzione quadriennale dal Patto e
dall'assoggettamento al nuovo pareggio di bilancio. Nessun
vincolo, invece, per le unioni, che sotto questo profilo,
quindi, risultano oggi più vantaggiose delle fusioni.
Infine, merita ricordare che sia le unioni che i comuni nati
da fusione avranno le mani più libere sulla gestione del
personale, potendo assumere il 100 per cento dei cessati
nell'anno precedente. Ma anche qui c'è un paradosso: la
norma di favore richiama gli enti non soggetti al Patto nel
2015 e quindi esclude tutte le unioni che verranno
costituite dal prossimo 1° gennaio
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Mud in G.U., l'esordio con la denuncia d'aprile.
Mud pronti e via.
Sulla G.U. n. 300 di ieri è stato pubblicato il dpcm
21/12/2015 «Approvazione del modello unico di dichiarazione
ambientale per l'anno 2016».
Il modello sarà utilizzato per
le dichiarazioni da presentare, entro la data prevista dalla
legge 25.01.1994, n. 70 e cioè entro il 30 aprile di
ogni anno, con riferimento all'anno precedente e sino alla
piena entrata in operatività del Sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti (Sistri).
Informazioni aggiuntive
saranno rese disponibili sui siti sviluppoeconomico.gov.it,
minambiente.it, isprambiente.gov.it, unioncamere.it,
infocamere.it ed ecocerved.it (articolo ItaliaOggi del
29.12.2015). |
PATRIMONIO:
Edilizia, via ai controlli sui solai. Prorogata
al 31/1 la scadenza per l'affidamento dei monitoraggi.
Partono le verifiche su 7.304 scuole
italiane. Giannini firma il decreto che sblocca 40 mln.
Partono i controlli sui solai e i controsoffitti di 7.304
scuole primarie, medie e superiori. Il ministro
dell'istruzione Stefania Giannini ha firmato, il 10
dicembre, il decreto di approvazione delle graduatorie
regionali degli istituti in cui saranno effettuati gli
interventi previsti dalla Buona Scuola con uno stanziamento
di 40 milioni di euro per il 2015.
Tuttavia, la spesa complessiva sarà inferiore alle
previsioni: oltre 36 milioni di euro, per insufficienza di
candidature in determinate regioni e/o province, si legge
nel testo del decreto.
Così le risorse non assegnate saranno redistribuite
attraverso scorrimento degli interventi presenti in
graduatoria con un successivo decreto del Miur.
Esclusi, invece, dalle indagini diagnostiche sugli elementi
strutturali e non strutturali degli edifici scolastici gli
asili nido e le scuole materne di competenza degli enti
locali così come le scuole paritarie. La legge 107, infatti,
precisa che i monitoraggi riguarderanno i soli immobili
adibiti a uso scolastico statale (commi 178 e 179). Il
decreto, inoltre, proroga al 31 gennaio prossimo il termine
inizialmente fissato per l'affidamento delle indagini
diagnostiche.
«Si tratta», ricorda Giannini,
«di un'altra delle azioni
strategiche del nostro Piano per l'edilizia scolastica» «per
garantire maggiore sicurezza ai nostri ragazzi» e, in questo
caso, prevenire crolli. In totale sono arrivate al ministero
13.584 candidature da parte degli enti locali, che hanno
risposto alla procedura pubblica indetta lo scorso 7 agosto
e avviata ad ottobre.
Alla data di scadenza, il 18 novembre, però erano arrivate
al Miur 1.559 candidature. Si è allora considerato
necessario, si precisa nel decreto, per garantire una più
equa distribuzione territoriale , «ripartire le risorse sia
a livello regionale che a livello provinciale, tenendo conto
dei dati relativi al numero di edifici, alla popolazione
scolastica e all'affollamento delle strutture contenuti
nell'Anagrafe dell'edilizia scolastica, già utilizzati per
l'erogazione delle risorse relative alla Programmazione
unica nazionale 2015-2017 in materia di edilizia
scolastica».
Il maggior numero di interventi, 1.127, è previsto in
Lombardia, seguita dalla Toscana con 754 e dal Piemonte con
636, poco meno dei 617 in programma in Veneto. Saranno
invece 580 in Campania, 510 in Sicilia, 296 in Calabria. In
Puglia in arrivo 488 monitoraggi, tanti quanti nel Lazio.
Mentre nella piccola Basilicata saranno ben 113, su un
totale di 141 istituzioni scolastiche censite nell'anagrafe
scuole del sito dell'Usr relativa all'anno scolastico
2013-14.
L'approvazione del decreto è un passo importante stimolato
dalla richieste dei cittadini per Adriana Bizzari,
coordinatrice nazionale Scuola di Cittadinanzattiva, che
invita genitori e studenti a prendere visione dell'elenco
degli interventi sul sito del Miur, a vigilare affinché le
indagini siano realizzate nel minor tempo possibile per
scongiurare altri crolli ed altre tragedie ed a segnalare
eventuali ritardi o problemi
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
LA LEGGE DI STABILITA' 2016/ Tetto a 3 mila euro
per il contante. Dal 1° gennaio nuove parametri per
pagamenti e transazioni. Fermo il limite per le p.a..
Dal 01.01.2016 il divieto di pagamenti e transazioni in
contanti sale dai 1.000 ai 3.000 euro, mentre resta fermo il
limite di 1.000 euro per le pubbliche amministrazioni.
Il nuovo limite si applicherà anche in relazione ai
pagamenti delle locazioni di unità abitative e nel trasporto
merci. Sono alcune delle novità previste dalla legge di
stabilità in merito ai pagamenti in contanti.
Gli effetti delle modifiche all'art. 49.
Con le modifiche apportate all'art. 49, comma 1, del dlgs
231/2007, il limite non raggiungibile per le transazioni in
contanti (pagamento fatture, finanziamento fra soci e
società, prelevamenti utili dei soci dalle società) regolate
in unica soluzione, sale da 1.000 a 3.000 euro. Ne consegue
che dal 1° gennaio tutte le operazioni fra privati (persone
fisiche o persone giuridiche) regolate in contanti entro il
limite di 2.999,99 euro saranno assolutamente lecite.
In merito al passato, tuttavia, in relazione alla
circostanza che, sia le irregolarità sulle transazioni che
le omesse comunicazioni, sono assoggettate a sanzioni
amministrative e non penali (art. 58, commi 1 e 7-bis), in
assenza di una disposizione normativa specifica deve
ritenersi non applicabile il principio del favor rei, per
pagamenti in contanti compresi fra i 1.000 e i 2.999,99
euro.
Il limite dei 3.000 euro varrà anche per le
locazioni e trasporto merci.
Le nuove disposizioni, peraltro, per espressa previsione
normativa si applicano anche ai canoni di locazione di unità
abitative e ai pagamenti dei corrispettivi per le
prestazioni rese in adempimento dei contratti di trasporto
di merci su strada.
Riguardo al primo, ossia l'art. 1, comma 50, legge
27/12/2013 n. 147, ricordiamo che obbligava i pagamenti,
fatta eccezione per quelli di alloggi di edilizia
residenziale pubblica, quale ne fosse l'importo, in modalità
che escludevano l'uso del contante assicurandone la
tracciabilità.
Tale norma era peraltro stata resa sostanzialmente
inefficace dalla nota del Mef, prot. 10492 del 05/02/2014
con la quale si ritenevano «critiche» unicamente le
movimentazioni di contante eccedenti la soglia fissata dalla
legge (1.000 euro).
In merito al secondo, poi, l'art. 32-bis del dl 133/2014
(legge 164/2014) aveva stabilito il divieto, per tutti i
soggetti della filiera dei trasporti, di pagare in contanti
i corrispettivi di qualsiasi importo. Entrambi i settori
saranno ora sottoposti alle ordinarie regole antiriciclaggio
di cui all'art. 49 del dlgs 231/2007.
Il nuovo limite dei 3.000 euro non avrà
alcun impatto sugli assegni.
Questi ultimi potranno essere emessi privi di clausola di
intrasferibilità esclusivamente per importi inferiori ai
1.000 euro.
Per gli assegni bancari e postali, quindi, in relazione alla
mancata modificazione del comma 5 dell'art. 49 del dlgs
231/2007, permarrà l'obbligo di indicare il nome e la
ragione sociale del beneficiario e la clausola di non
trasferibilità a partire dai 1.000 euro.
Viene pertanto a essere scisso un limite, quello della
trasferibilità dei contanti e della trasferibilità degli
assegni, fino a oggi sempre univoco nella legislazione
antiriciclaggio (si parte dai 20 milioni di lire della legge
197/1991). In relazione ai forti rischi di attività illecite
e di evasione resta inoltre a mille euro il limite dei
trasferimenti di contanti per i money transfer.
Operatori del terzo settore che utilizzano
la legge 398/1991.
Per una serie di operatori non profit (Associazioni sportive
dilettantistiche iscritte al Coni, tutte le associazioni
senza scopo di lucro e pro loco, le società sportive
dilettantistiche in qualunque forma costituite (art. 90
legge 289/2002), le associazioni bandistiche e i cori
amatoriali, le filodrammatiche, le associazioni di musica e
danza popolare (art. 2, comma 31, legge n. 350 del
24/12/2003)), l'art. 1, comma 713, della legge 23/12/2014 n.
190 (legge di stabilità per il 2015) ha portato a 1.000 il
limite (non raggiungibile) delle operazioni eseguibili in
contanti.
A partire da tale soglia vige l'obbligo di operare le
transazioni finanziarie con modalità «tracciabili»
(bonifico, assegni, pos ecc.).
Detto obbligo di tracciabilità era stato introdotto con il
comma 5 dell'art. 25 della legge n. 133/1999 riguardo i
pagamenti (inizialmente se d'importo superiore a 516,46
euro) a favore di società e associazioni sportive
dilettantistiche e successivamente esteso, a seguito della
risoluzione dell'Agenzia delle entrate n. 102 del 19/11/2014
anche alle associazioni senza fini di lucro e alle
associazioni pro-loco (oltre che alle associazioni
bandistiche e cori amatoriali, filodrammatiche, di musica e
danza popolare, legalmente costituite senza fini di lucro).
In proposito, è interessante ricordare che in questi casi
l'inosservanza della disposizione sulla tracciabilità
comportava la decadenza dalle agevolazioni della legge
16.12.1991, n. 398 ma anche l'applicazione di una sanzione
pecuniaria (da 258,23 a 2.065,83 euro di cui all'art. 11 del
dlgs 472/1997).
Tale decadenza dalle agevolazioni, interessava, a seguito
della citata risoluzione 102/E, non solo i soggetti che in
concreto avevano esercitato l'opzione per il regime
forfettario ma anche coloro che fossero destinatari della
normativa (a prescindere, quindi, dall'effettiva opzione).
Ora, a seguito della riforma della legge di stabilità 2016,
tuttavia, le transazioni da 1.000 euro fino a 3.000 euro
(escluse) non comporteranno più l'applicazione delle
sanzioni antiriciclaggio.
In merito a dette sanzioni, comunque va precisato che:
- l'art. 19 del dlgs 158/2015 (riforma sanzioni tributarie)
ha abrogato la parte dell'art. 25, comma 5, legge 133/1999
eliminando la decadenza dalla legge 398 in caso di omessa
tracciabilità di importi superiori a 1.000 da parte di
associazioni sportive dilettantistiche e ssd, confermando
l'applicazione delle sole sanzioni di cui all'art. 11 dlgs
471/1997;
- l'art. 15 del dlgs 158/2015 al comma 1, lett. m), ha
modificato il citato art. 11, punto 1, portando l'importo
delle sanzioni a 250 (anziché 258) e a 2000 (anziché 2065);
- l'art. 1, c. 68, della legge di stabilità 2016 anticipa la
decorrenza degli effetti del titolo II dlgs 158/2015; quindi
sia dell'art. 15 (modifica importi sanzioni) sia dell'art.
19 (eliminazione decadenza 398) al 01.01.2016 anziché al
01.01.2017.
Pertanto l'art. 11 dlgs 471/1997 è in vigore nella «vecchia»
versione sino al 31/12/2015 e nella «nuova»
dall'01/01/2016 (secondo l'anticipo della decorrenza della
legge di stabilità di un anno) con previsione delle nuove
sanzioni di 250 e 2.000
---------------
Obbligo di accettare le carte.
Non solo le carte di debito ma anche quelle di credito
devono essere ordinariamente accettate in pagamento da parte
dei soggetti che effettuano l'attività di vendita di
prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali.
L'obbligo tuttavia può essere non applicato nei casi di
oggettiva impossibilità tecnica. Sono queste le indicazioni
integrative al quarto comma dell'art. 15 del dl 179/2012,
conv. con legge 221/2012.
Resta tuttavia da chiarire quali possono essere le
situazioni di impossibilità che giustificano tale
disapplicazione della norma. Probabilmente si può pensare a
situazioni di episodico non funzionamento della linea
telefonica a cui siano collegati gli appositi apparecchi
lettori di carte.
Inoltre, al fine di promuovere l'effettuazione di operazioni
di pagamento basate su dette carte di debito o di credito,
in particolare anche per importi contenuti, ossia anche di
importi inferiori a 5 euro, entro il 1° febbraio prossimo,
il ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con
il ministero dello sviluppo economico e sentita la Banca
d'Italia, dovrà emanare un decreto che assicuri la corretta
e integrale applicazione del regolamento Ue n. 751 del
29/04/2015 relativo alle commissioni interbancarie sulle
operazioni di pagamento basate su carta.
Le previsioni del citato comma 4 dell'art. 15 del dl
179/2012, infine, dovranno essere applicate anche ai
dispositivi di cui alla lett. f) del comma 1, dell'art. 7
del codice della strada (dlgs 285/1992). In pratica, anche
nei cosiddetti «parchimetri», ossia gli apparecchi di
controllo e pagamento della sosta delle auto, sarà sempre
possibile pagare con carte di credito
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Siti inquinati, arriva il bonus. Dal 2 gennaio
domande al Mise per il credito d'imposta. Fondi alle imprese
che hanno sottoscritto accordi di programma per bonifiche e
sicurezza.
Riconoscimento di un credito d'imposta per le imprese
sottoscrittrici di accordi di programma nei siti inquinati
di interesse nazionale. Le imprese che, avendo sottoscritto
accordi di programma per la messa in sicurezza, la bonifica
e la riconversione industriale dei siti inquinati di
interesse nazionale, acquisteranno beni strumentali nuovi
nel periodo d'imposta in corso al 31.12.2015 (articolo 4 del
dl 145/2013 «Destinazione Italia»), potranno presentare
domanda per ottenere il relativo credito d'imposta tra il 2
gennaio e il 31.12.2016.
Gli investimenti per i quali si richiederà il credito
d'imposta potranno essere avviati (inizio dei lavori di
costruzione relativi all'investimento, o primo impegno
giuridicamente vincolante a ordinare attrezzature o
qualsiasi altro impegno che renda irreversibile
l'investimento) a partire dalla data di sottoscrizione o di
adesione all'accordo di programma.
I beni dovranno essere pagati esclusivamente attraverso il
sepa credit transfer e i relativi documenti di spesa
dovranno riportare la dicitura: «Spesa di euro dichiarata ai
fini della concessione del credito d'imposta previsto a
valere sul dm 07.08.2014» e andranno conservati per cinque
anni dalla fine del periodo d'imposta cui si riferiscono le
spese.
Queste le istruzioni contenute nel decreto direttoriale MiSe
18.05.2015 (il cui comunicato relativo al decreto è stato
pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 119 del 25.05.2015)
con il quale sono state indicate le modalità e i termini di
presentazione delle istanze di concessione del credito
d'imposta per le imprese sottoscrittrici di accordi di
programma nei siti inquinati di interesse nazionale e
stabilita, altresì, la procedura di prenotazione delle
risorse finanziarie per la concessione del credito
d'imposta.
Requisiti richiesti.
Per beneficiare delle agevolazioni le imprese dovranno
operare nell'ambito di unità produttive ubicate in siti Sin
(siti inquinati di interesse nazionale) e aver sottoscritto
accordi di programma volti a favorire la messa in sicurezza,
la bonifica e la riconversione industriale dei siti
inquinati di interesse nazionale.
Quindi le imprese dovranno aver acquistato, o acquistare,
beni strumentali nuovi a decorrere dal periodo d'imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore
del dl 24.12.2013 e fino alla chiusura del periodo d'imposta
in corso al 31.12.2015, come disposto dall'articolo 4 del dl
n. 145/2013 («Destinazione Italia»).
Le predette unità
produttive, oggetto dei programmi di investimento, dovranno
essere indicate negli accordi di programma o, eventualmente,
negli atti integrativi che attestano la successiva adesione
agli stessi da parte delle imprese, in modo che ciascun
programma di investimento da agevolare sarà riconducibile ad
una sola unità produttiva.
Le imprese dovranno essere già costituite e iscritte al
registro delle imprese precedentemente alla data di
sottoscrizione degli accordi di programma. Qualora siano
imprese estere, le stesse dovranno avere una personalità
giuridica riconosciuta nello stato di residenza come
risultante dall'omologo registro delle imprese, potendo tali
soggetti dimostrare la disponibilità di almeno una unità
produttiva sui territori Sin, alla data di presentazione
dell'istanza di concessione dell'agevolazione.
Modalità e termini di presentazione delle
istanze di concessione del credito d'imposta.
A seguito della realizzazione degli investimenti, le imprese
che avranno ricevuto comunicazione dell'avvenuta
prenotazione del credito d'imposta, potranno presentare alla
Dgiai del ministero dello sviluppo economico specifica
istanza di concessione delle agevolazioni, La suddetta
istanza dovrà essere presentata, all'indirizzo Pec
dgiai.div06@pec.mise.gov.it, in formato «p7m» a seguito di
sottoscrizione del titolare, del legale rappresentante o del
procuratore speciale dell'impresa beneficiaria.
Nel caso di sottoscrizione da parte del procuratore speciale
dovrà essere trasmessa copia della procura e del documento
d'identità in corso di validità del soggetto che la
rilascia. L'istanza dovrà essere corredata da apposita
certificazione resa, utilizzando lo schema di cui
all'allegato 3 a (domanda di concessione delle agevolazioni
finanziarie), dal soggetto incaricato della revisione legale
o dal presidente del collegio sindacale. Le imprese non
soggette a revisione legale dei conti e prive di un collegio
sindacale dovranno comunque avvalersi della certificazione
di un revisore legale dei conti o di una società di
revisione legale dei conti.
Il revisore o professionista responsabile della revisione,
nell'assunzione dell'incarico, osserverà i principi di
indipendenza in attesa della loro emanazione, dal codice
etico dell'Ifac Nell'istanza di concessione delle
agevolazioni l'impresa sarà tenuta a dichiarare le eventuali
variazioni intervenute con riferimento alle informazioni già
fornite ai fini dell'acquisizione della documentazione
antimafia.
Nel caso fossero intervenute variazioni, le imprese
presenteranno nuovamente la documentazione, inviando la
medesima documentazione alla prefettura di competenza.
Il mancato utilizzo dei predetti schemi di cui agli allegati
3 a) (domanda di concessione delle agevolazioni finanziarie)
e 3 b) (conti finanziari), la sottoscrizione di
dichiarazioni incomplete e l'assenza, anche parziale, dei
documenti e delle informazioni richieste costituiranno
motivo di non ricevibilità della domanda e pertanto di
inammissibilità all'agevolazione prevista.
Sarà fatto esplicito divieto di presentare una singola
istanza di agevolazione per investimenti realizzati su più
unità produttive, anche se individuate nel medesimo accordo
di programma.
---------------
Prenotazione in due fasi.
Le domande di accesso al credito d'imposta dovranno essere
inviate al ministero dello sviluppo economico tramite posta
elettronica certificata dell'impresa all'indirizzo
dgpicpmi.div04@pec.mise.gov.it.
Gli atti dovranno essere sottoscritti con firma digitale dal
titolare, dal legale rappresentante o dal procuratore
speciale dell'impresa (allegando, in quest'ultimo caso,
copia della procura e del documento di chi la rilascia).
Le imprese che richiederanno agevolazioni per oltre
150.000,00 euro dovranno trasmettere al MiSe anche le
dichiarazioni in materia di informazioni antimafia, che
dovranno essere sottoscritte dal legale rappresentante
dell'impresa e dagli eventuali ulteriori soggetti
dichiaranti.
Il credito d'imposta potrà essere fruito dopo aver ricevuto
il decreto di concessione dell'agevolazione da parte della
Dgiai (Direzione generale per l'incentivazione delle
attività imprenditoriali), a seguito del quale le imprese
devono inviare all'indirizzo pec dgiai.div06@pec.mise.gov.it,
entro 60 giorni dalla chiusura di ciascun periodo d'imposta,
una dichiarazione contenente le informazioni sul
mantenimento del programma di investimento e/o dei beni per
l'uso previsto nei Sin, sulla vigenza dell'impresa stessa e
sull'assenza nei confronti della medesima di procedura
concorsuale.
Il credito d'imposta potrà poi essere portato in
compensazione nei versamenti da effettuare tramite modello
F24 telematico. La procedura di prenotazione delle risorse
finanziarie per la concessione del credito d'imposta, si
articolerà in due fasi: la prima riferita all'assegnazione
programmatica delle risorse per ciascun accordo di
programma, la seconda relativa alla effettiva prenotazione
di risorse finanziarie per ciascuna impresa e per singola
unità produttiva
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: Scuole, 4 mesi in più per i lavori. Slitta ad aprile il
termine per l’affidamento della messa in sicurezza degli
edifici.
Consiglio dei ministri. Via libera del Governo al
Milleproroghe con gli interventi su Taxi, emergenze e tetto
agli stipendi.
Puntuale come
il cenone di San Silvestro arriva anche per il 2016 il
decreto legge «milleproroghe». All’esame ieri del Consiglio
dei ministri con una settimana di anticipo, il Dl che è
stato approvato dal Governo prevede l’ennesima infornata di
differimenti e slittamenti di date e termini legati
soprattutto alla mancata attuazione di decreti, norme e
riforme. Ad esempio quella sulla “buona-scuola” che
prevedeva l’aggiudicazione dei lavori per la messa in
sicurezza degli edifici scolastici entro 180 giorni
dall’entrata in vigore della legge, ossia entro il 16
gennaio. Con il «milleproroghe», invece, questo termine
slitta ora al 30.04.2016.
Ci sono poi appuntamenti ormai diventati fissi per il
decreto di fine anno come quello con il Sistri, il sistema
di tracciabilità dei rifiuti, o quello sull’affidamento del
sistema di controllo della riscossione dei tributi locali a
Equitalia che slitta ancora a metà anno 2016 (si veda
l’articolo qui sotto).
Sugli appalti, fino al 30.06.2016, in deroga ai divieti di anticipazione del prezzo, può
essere prevista la corresponsione in favore dell’appaltatore
di un’anticipazione pari al 20% dell’importo contrattuale.
Non mancano poi le proroghe sui collocamenti fuori ruolo dei
Vigili del fuoco o quelli sugli avanzamenti di carriera
delle forze di Polizia e Carabinieri.
Evergreen di fine anno anche su taxi e noleggio con
conducente. Bisognerà aspettare ancora 12 mesi per il varo
del decreto attuativo che impedisce le pratiche di esercizio
abusivo. Provvedimento chiamato anche a definire gli
indirizzi generali per l’attività di programmazione e di
pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte
dei Comuni, dei titoli autorizzativi.
Vediamo in sintesi le principali scadenze posticipate in
attesa della pubblicazione del decreto sulla «Gazzetta
Ufficiale» di fine anno.
Università e scuola
Verso lo sblocco 2mila assunzioni di docenti universitari
grazie alla proroga fino al 31.12.2016 dell’utilizzo
degli organici non utilizzati dal 2010 al 2014.
In materia di edilizia scolastica, slitta al 31.12.2016 il termine entro il quale i Comuni, beneficiari dei
finanziamenti del “decreto del Fare”, devono pagare le somme
alle ditte aggiudicatarie dei lavori di riqualificazione e
messa in sicurezza delle scuole.
La proroga trova
giustificazione nel fatto che alcuni Comuni, appartenenti
alle Regioni le cui graduatorie sono state inizialmente
sospese da provvedimenti giurisdizionali, hanno potuto
aggiudicare gli interventi solo entro il 28.02.2015,
con conseguente ritardo sull’esecuzione dei lavori tale non
consentire la chiusura dei lavori entro il prossimo dicembre
2015.
Sanità
Ancora un rinvio per la messa a punto del nuovo sistema di
remunerazione a farmacisti e grossisti da parte del Ssn: i
tempi per la riforma, inutilmente in discussione da due
anni, slittano al 01.01.2017. Viene, inoltre,
confermato il meccanismo di ripartizione dei premi per le
regioni più attive nella gestione centralizzata degli
acquisiti di beni e servizi.
Tetto agli stipendi
Si prolunga di un anno, fino al 31.12.2016, il tetto a
compensi, gettoni e indennità corrisposti dalla Pa e dalle Autorithy ai vertici apicali degli organismi pubblici. Fino
al 31.12.2016 gli emolumenti non potranno superare gli
importi risultanti alla data del 30.04.2010 ridotti del
10 per cento.
Sistri
Fino al 31.12.2016 sarà ancora consentita la tenuta in
modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei
formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati. Il
Sistri in versione semplificata e con sanzioni ante riforma
del 2010 sarà dunque operativo ancora per 12 mesi. Inoltre
all’attuale società concessionaria del Sistri è garantito
l’indennizzo dei costi di produzione attestati al 31.12.2016, previa una valutazione di congruità
dell’Agenzia per l’Italia digitale.
Emergenze
C’è tempo fino al 30.09.2016 per la messa in
esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili
realizzati su fabbricati distrutti dal sisma dell’Emilia del
2012 per non essere tagliati fuori dagli incentivi al
fotovoltaico.
Resta ancora in carica per tutto il 2016 il commissario
straordinario per l’emergenza stradale conseguente
all’alluvione in Sardegna del novembre 2013. Così come avrà
un anno di tempo in più l’Unità tecnica amministrativa
chiamata a gestire le attività di pagamento dei debiti
certi, liquidi ed esigibili dell’emergenza rifiuti in
Campania (articolo Il Sole 24 Ore del
24.12.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Piccoli Comuni, stop alle alleanze «forzate».
Enti locali. Rinvio di sei mesi per la riforma della
riscossione.
Insieme alla
tradizionale proroga natalizia per la riforma della
riscossione, dal decreto approvato ieri in Consiglio dei
ministri arriva per gli enti locali il rinvio di un anno
degli obblighi di gestione associata di tutte le funzioni
fondamentali nei Comuni fino a 5mila abitanti. Nelle
intenzioni del Governo, entrambi gli interventi sono la
premessa per una revisione organica di regole che finora non
hanno funzionato e hanno prodotto più proroghe che risultati
concreti.
Nel caso delle gestioni associate l’idea, condivisa in
queste settimane da sindaci e governo, è quella di ripensare
il meccanismo delle alleanze. L’obbligo per i piccoli Comuni
di gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali
in bacini di almeno 10mila abitanti si è scontrata con le
tante differenze geografiche che caratterizzano il Paese, e
l’ipotesi è di individuare meccanismi più flessibili,
fondati su ambiti territoriali più che su parametri
demografici.
Sulla riscossione, invece, il decreto stabilisce la solita
proroga di sei mesi, durante i quali Equitalia continuerà a
occuparsi dei tributi locali. Si tratta del settimo rinvio,
che però ancora una volta non sembra aprire spazi
sufficienti per un intervento che, oltre a ridefinire il
panorama dei soggetti attivi nella raccolta dei tributi
locali, dovrà rivedere anche gli strumenti della
riscossione, a partire dall’ingiunzione.
Nei testi circolati finora non ha trovato spazio la proroga
dei contratti a termine nelle Province e nelle Città
metropolitane, che però potrebbe rientrare nella versione
definitiva. In ogni caso, come l’anno scorso la tensione sul
tema sta già salendo. A Milano, per esempio, i 42 precari
della Città metropolitana si sono incatenati davanti alla
sede di Corso Monforte, e si dicono pronti a proseguire la
protesta a oltranza senza interruzioni a Natale e Capodanno.
Il problema nasce dal fatto che Province e Città
metropolitane hanno il blocco totale delle assunzioni e dei
rinnovi dei contratti per la riforma Delrio che le svuota di
competenze e personale e che ancora è lontana dal traguardo
dell’attuazione. Senza la conferma della proroga, quindi, i
precari degli enti di area vasta dovrebbero lasciare il
lavoro dal 1° gennaio.
Per il resto, il «milleproroghe» conferma i poteri
sostitutivi dei prefetti in caso di mancata approvazione dei
preventivi (al momento il termine è fissato al 31 marzo
prossimo, stessa data in cui è previsto l’arrivo dei
fabbisogni standard aggiornati) e il mancato adeguamento
Istat degli affitti pagati dalla Pa: una norma, questa, che
riduce la spesa corrente ma ha un effetto negativo anche
sulle valutazioni degli immobili da dismettere (articolo Il Sole 24 Ore del
24.12.2015). |
APPALTI: I bandi di gara vanno ancora pubblicati su carta.
Trasparenza. Dal 2017 informazione sarà sul web.
Il governo
evita la schizofrenia legislativa in materia di appalti
pubblici e inserisce nel «milleproroghe» una norma che
rinvia al nuovo Codice degli appalti la definizione delle
regole sulla pubblicazione dei bandi di gara, lasciando per
un altro anno in vigore l’obbligo di pubblicazione sui
quotidiani nazionali e locali (a seconda dell’importo a base
d’asta).
Slitta, in sostanza, al 01.01.2017 il termine
che era fissato al 01.01.2016 per il passaggio alla
pubblicazione esclusivamente telematica dei bandi di gara.
Il nuovo termine viene indirettamente collegato dal «milleproroghe»
al nuovo Codice degli appalti che dovrebbe entrare in vigore
il prossimo 18 aprile, termine di scadenza per il
recepimento delle direttive europee 23, 24 e 25 del 2014.
La legge delega che darà il via al nuovo Codice avrebbe
dovuto, per altro, essere approvata già a ottobre ma prima è
slittata l’approvazione della Camera, effettivamente
avvenuta solo a novembre, e ora anche il Senato non è
riuscito a rispettare i tempi di fine anno nonostante
l’impegno del relatore, Stefano Esposito, uno dei padri
della legge.
A Palazzo Madama il Ddl dovrebbe essere approvato
definitivamente a gennaio. Successivamente sarà il governo
ad approvare il decreto legislativo attuativo della delega e
a questo punto il rispetto del termine del 18 aprile non è
affatto scontato, considerando che il decreto sarà
sottoposto al doppio parere parlamentare rinforzato che
prenderà almeno un paio di mesi di tempo, se non ci saranno
intoppi nel merito.
?Per quanto riguarda gli obblighi di pubblicazione dei
bandi, nella legge delega si prevede, in uno dei criteri di
delega, che sia l’Autorità nazionale anticorruzione a creare
un sistema telematico unico nazionale. Il rinvio del termine
che fa cessare l’obbligo di pubblicazione sui quotidiani
darà tempo all’Anac di implementare il sistema.
Ma la pubblicazione dei bandi anche sulla carta stampata per
un altro anno non è la sola novità per il settore. Slitta di
un anno il termine per garantire la tracciabilità delle
vendite e delle rese di giornali e periodici. In questo modo
è salvo il credito d’imposta riconosciuto a quanti
favoriscono l’adeguamento tecnologico della rete di
distribuzione e vendita della stampa quotidiana e periodica.
L’obbligatorietà della tracciabilità delle copie e delle
rese era stata introdotta nel 2102 e sarebbe dovuta scattare
dal 01.01.2013. Ma a oggi il nuovo codice a barre e gli
strumenti informatici e telematici da utilizzare in rete
sull’intera filiera della distribuzione di giornali e
periodici non è ancora del tutto completata. Senza
l’attuazione del processo di modernizzazione, necessario
anche all’erogazione di servizi per la pubblica
amministrazione, i soggetti interessati rischiano di non
poter accedere al credito d’imposta riconosciuto a tutti gli
operatori che procedono all’adeguamento delle tecnologie.
L’utilizzo del codice a barre si intreccia anche con l’uso
della moneta elettronica. Il credito d’imposta -esteso per
gli anni 2015, 2016 e 2017- è riconosciuto nella misura del
de minimis con un limite di risorse disponibili indicato in
10 milioni di euro.
Torna, infine, anche quest’anno la proroga di 12 mesi sul
divieto di incroci proprietari che impedisce ai soggetti che
esercitano l’attività televisiva in ambito nazionale su
qualunque piattaforma, con ricavi superiori all’8% del Sic,
e alle imprese del settore delle comunicazioni elettroniche
che detengono una quota superiore al 40% dei ricavi di detto
settore, di acquisire partecipazioni in imprese editrici di
quotidiani (articolo Il Sole 24 Ore del
24.12.2015). |
VARI: Auto, divieto di fumo in presenza di minori.
Decreto tabacchi. Idem per le donne incinte.
Il Consiglio
di ministri di ieri ha anche approvato lo schema di decreto
legislativo di recepimento della direttiva 2014/40/Ue in
materia di vendita dei prodotti di tabacco.
Il testo,
all’articolo 24, dispone che -in modifica dell’articolo 51,
comma 1, della legge 16.01.2003- il divieto di fumo circoscritto ai locali chiusi è esteso ai conducenti di
autoveicoli, in sosta o in movimento, e ai passeggeri a
bordo degli stessi in presenza di minori di 18 anni e di
donne in stato di gravidanza.
Cambia anche l’articolo 25 del testo unico delle leggi sulla
Protezione e assistenza della maternità e infanzia che,
nella nuova formulazione, prescrive che «chiunque vende
prodotti del tabacco o sigarette elettroniche, o contenitori
di liquido di ricarica, con presenza di nicotina o prodotti
del tabacco di nuova generazione, ha l’obbligo di chiedere
all’acquirente l’esibizione di un documento di identità,
tranne nei casi in cui la maggiore età dell’acquirente sia
manifesta».
Inoltre, se la vendita o la somministrazione al minorenne si
verifica, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria
da 500 a euro 3mila euro e la sospensione per 15 giorni
della licenza all’esercizio dell’attività.
Qualora il fatto si verifichi più di una volta, la sanzione
amministrativa pecuniaria sale a mille-8mila euro con la
revoca della licenza all’esercizio dell’attività.
Controlli anti-frode sono stati disposti per i distributori
automatici dotati di un sistema automatico di rilevamento
dell’età anagrafica dell’acquirente, che possono essere
sottoposti all’atto dell’installazione a controlli
effettuati dall’agenzia delle Dogane e dei monopoli e
sottoposti a periodiche verifiche (articolo Il Sole 24 Ore del
24.12.2015). |
APPALTI: Appalti, agevolate le imprese «verdi». Possibile la
riduzione del 30% o del 20% della cauzione necessaria
all’offerta.
Ambiente. Le novità del disegno di legge sulla «green
economy» approvato definitivamente due giorni fa dalla
Camera.
Il testo del Ddl «Green economy»
(Atto
Camera n. 2093-B), approvato definitivamente il 22
dicembre dalla Camera
aspetta solo la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale».
Tra i 79 articoli spiccano, per il loro valore strategico
nei confronti delle imprese, quelli che incentivano,
rendendoli obbligatori in tutto o in parte, gli “acquisti
verdi” da parte della pubblica amministrazione (Gpp-Green
public procurement). Si tratta degli articoli 16, 18 e 19.
Su altro fronte, per un sano sviluppo del mercato della
gestione dei rifiuti urbani, agisce l’articolo 29 che
ascrive, ampliandole, al ministero dell'Ambiente le
competenze del soppresso Osservatorio nazionale sui rifiuti,
rendendolo così anche estremamente simile a organismo di
regolazione.
Sotto il profilo degli “acquisti verdi”, l’articolo 16
interviene innanzitutto sulla qualificazione dell’offerta e
poi sui criteri di aggiudicazione degli appalti. Sotto il
primo profilo, modifica il Dlgs 163/2006 (Codice appalti
pubblici, articoli 75 e 83) e prevede agevolazioni per le
imprese che partecipano a un appalto pubblico per lavori,
servizi e forniture registrate Emas o certificate Uni En Iso
14001. Queste, ad esempio, possono beneficiare di una
riduzione (rispettivamente) del 30% e del 20% della cauzione
necessaria all’offerta. Il criterio di aggiudicazione
all’offerta economicamente più vantaggiosa trova il suo
limite nel concorrente criterio del possesso del marchio
Ecolabel in misura pari o superiore al 30% del valore del
contratto.
Con l’articolo 18 il testo affronta l’obbligatorietà del
ricorso a materiali riciclati per gli approvvigionamenti
pubblici. Questo perché gli acquisti pubblici, secondo le
stime della Commissione Ue, incidono sul sistema economico
europeo per circa 2 trilioni di euro/anno, il 19% del Pil
annuale. In Italia, la spesa pubblica per beni e servizi
ammonta a 50 miliardi di euro.
Quindi occorre trasformare la
Pa facendola diventare un esempio per il consumo più
consapevole: se la Pa riduce l’impatto ambientale di beni e
servizi di cui necessita, trascina il mercato a orientarsi
su prodotti e servizi a basso impatto ambientale. Il che
induce la modifica delle strategie produttive delle imprese.
Infatti, ora gli appalti verdi della Pa (legge 296/2007 e Dm
11.04.2008) diventano obbligatori in ordine a: lampade e
moduli di illuminazione pubblica; attrezzature ufficio;
servizi energetici per gli edifici.
I relativi criteri
ambientali minimi (Cam) sono già stati definiti con appositi
decreti. Per le seguenti categorie (anch’esse dotate di Cam),
invece, gli appalti “verdi” dovranno essere banditi per
almeno il 50% della fornitura: gestione rifiuti urbani e
verde pubblico; toner; carta copia e carta grafica;
ristorazione collettiva e derrate alimentari; pulizie;
prodotti tessili e arredi per ufficio.
Ancora sui criteri di aggiudicazione, l’articolo 19 cambia
gli articoli 7, 64 e 83 del Codice appalti. Pertanto,
l’Osservatorio sui contratti pubblici deve monitorare
l’applicazione dei Cam e il raggiungimento degli obiettivi;
i bandi tipo devono contenere indicazioni per integrare i
Cam e la valutazione dell’offerta guarderà anche
caratteristiche ambientali e contenimento di consumi
energetici e risorse ambientali di quanto offerto.
L’articolo 29 sostituisce il ministero dell’Ambiente
all’Osservatorio nazionale sui rifiuti (articolo 206-bis del
Codice ambientale, inattivo dal 25.07.2010). Quindi, ora
il ministero, oltre ai tradizionali compiti pregressi,
elabora parametri per individuare i “costi standard” del
servizio di gestione dei rifiuti urbani e la definizione di
un sistema tariffario equo e trasparente. Inoltre, elabora
schemi tipo di contratti di servizio tra autorità d’ambito e
affidatari del servizio integrato (articolo Il Sole 24 Ore del
24.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti pericolosi solo sul Sistri. Da gennaio via il
cartaceo. Deroga per le centrali termiche.
Il consiglio dei ministri approva il decreto Milleproroghe.
Ecco tutte le misure.
Dal 1° gennaio il sistema di tracciabilità dei rifiuti
diventa totalmente operativo, incluse le relative sanzioni
per irregolarità nell'utilizzo del sistema, che potranno
anche arrivare fino a maxi multe da 93 mila euro. Il 31.12.2015, infatti, cesserà il «doppio binario» per le
imprese e gli enti obbligati a aderire al sistema di
tracciabilità.
In sostanza, sarà l'ultimo giorno di utilizzo
del sistema tradizionale cartaceo (formulari, registro di
carico e scarico e modello unico di dichiarazione
ambientale), che nell'ultimo anno ha affiancato il sistema
di tracciabilità informatico. Ancora un anno di tempo,
invece, per i grandi impianti di combustibili, che devono
adeguarsi ai nuovi limiti di emissione: chi chiede una
deroga entro fine 2015 avrà tempo fino a fine 2016 per
adeguarsi.
A disporre questa proroga è il decreto milleproroghe approvato ieri in consiglio dei ministri. A
dettare invece la scadenza del doppio binario Sistri,
invece, era stato il decreto Milleproroghe dello scorso
anno; più precisamente, l'articolo 9, comma 3, della legge
11/2015, che ha convertito il decreto legge n. 192/2014.
Così, dal prossimo 1° gennaio, i soggetti obbligati a
utilizzare il Sistri (cioè le imprese e gli enti che
producono rifiuti pericolosi e che hanno più di dieci
dipendenti) non potranno più utilizzare i registri di
carico/scarico cartacei e i vecchi formulari di
identificazione dei rifiuti (per capirne di più si veda
ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). Dalla stessa data
scatteranno poi le sanzioni per irregolarità nell'utilizzo
del sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti
(articolo 260-bis, commi da 3 a 9, del dlgs. n. 152/2006).
Grandi impianti di combustione. Slitta invece al
01.01.2017 il rispetto dei nuovi limiti di emissione per tutti i
grandi impianti di combustione. Sino a definitiva pronuncia
dell'autorità competente in relazione all'istanza di deroga
presentata da questi impianti, e comunque non oltre il 01.01.2017 (in precedenza fissate al
01.01.2016),
tutte le autorizzazioni continueranno a costituire titolo
all'esercizio dell'attività, ma solo a condizione che il
gestore dell'impianto rispetti anche le condizioni
aggiuntive indicate nelle istanze di deroga.
A prevederlo,
come detto, è il decreto Milleproroghe approvato ieri in
consiglio dei ministri. Il termine precedentemente previsto
era il 01.01.2016 ma è prorogato a fine 2017 solo per i
grandi impianti di combustione per cui sono vengono
regolarmente presentate, entro il prossimo 31 dicembre,
istanze di deroga. Attenzione, queste devono essere stilate
ai sensi dei paragrafi 3.3 o 3.4 dell'allegato II, parte I,
alla parte quinta del decreto legislativo 03.04.2006 n.
152 ovvero ai sensi dell'allegato II, parte II, alla parte
quinta del dlgs n. 152/2006.
I valori più severi di emissioni inquinanti sono stabiliti
per gli stabilimenti già esistenti che utilizzano biomasse.
Per quelli nuovi, norme più stringenti vengono applicate
anche alle sedi che utilizzano sostanze diverse dalle
biomasse. In determinati casi si prevede anche che gli
impianti possano comunque sforare i limiti stabiliti, al
massimo fino al 2023, per un numero di ore pari o inferiore
a 17.500
(articolo ItaliaOggi del 24.12.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Prorogato l'associazionismo. Equitalia resta con i comuni.
Per le gestioni associate delle funzioni nei mini enti tempo
fino al 31/12/2016 in attesa del riordino.
In attesa di essere completamente ripensato sulla base di
modelli di aggregazione spontanei e «dal basso»,
l'associazionismo comunale «forzoso» prende tempo. L'obbligo
per i comuni fino a 5.000 abitanti (3.000 se montani) di
gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali,
in scadenza a fine anno e rimasto di fatto sulla carta,
slitta al 31.12.2016. Nel frattempo bisognerà
riscrivere completamente le regole, puntando
sull'aggregazione tra comuni sulla base di «bacini
omogenei».
Dal decreto legge «Milleproroghe» varato ieri dal
consiglio dei ministri i piccoli comuni portano a casa un
mero rinvio e niente più. Si attendeva, come promesso dal
governo (da ultimo all'assemblea Anci di Torino) «un
intervento di ampio respiro per realizzare processi
aggregativi senza forzature».
Ma, persa l'occasione della
legge di stabilità, non era certo il Milleproroghe la sede
opportuna per interventi di natura ordinamentale che
tuttavia il governo non dovrà tardare a far arrivare nel
2016 se vorrà mettere fine alla lunga serie di proroghe in
materia. Una serie di rinvii che invece prosegue sul fronte
della riscossione locale. Correva l'anno 2012 quando si
decise l'uscita di scena di Equitalia dai tributi locali, un
business considerato non più profittevole dal concessionario
della riscossione.
Ma poi, tra problematiche interne alla
società ora guidata dall'ad Ernesto Maria Ruffini e
difficoltà legate alla mancata attuazione della delega
fiscale, si è sempre consentito ai comuni di continuare ad
avvalersi di Equitalia. Di proroga in proroga, di sei mesi
in sei mesi, il rinvio al 30.06.2016 rappresenta il
settimo slittamento.
Prorogato a tutto il 2016 il tetto, parametrato sul 2010, a
compensi, gettoni e indennità corrisposte nella pubblica
amministrazione, compresi cda, organi di indirizzo o
controllo e autorità indipendenti. Prorogato al 31.12.2016
anche il termine per la p.a. per procedere alle assunzioni
di personale a tempo indeterminato relative alle cessazioni
verificatesi negli anni 2009-2012
(articolo ItaliaOggi del 24.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: Appalti «verdi» per gli acquisti della Pa.
Gli uffici devono rifornirsi con materiali riciclati - Bonus
fiscale per le bonifiche da amianto.
Ambiente. Via libera definitivo della Camera al Ddl sulla
green economy - Proroga a fine 2016 per la redazione del
piano acque regionale.
Dopo un’attesa
durata oltre un anno, la Camera ha approvato definitivamente
il Ddl in materia ambientale (Atto
Camera n. 2093-B) per promuovere misure di green
economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse
naturali. Un provvedimento “denso”, poiché i 79 articoli e
gli 11 capi che lo compongono sono ricchi di disposizioni
che, ad ampio raggio, incidono sui vari ambiti oggetto della
tutela ambientale. Su tutte spiccano le norme che rendono
obbligatorio per la Pa il ricorso ad appalti verdi (Gpp –
Green public procurement).
Per la tutela delle matrici
arrivano norme contro lo sversamento di idrocarburi in mare
e i contratti di fiume; si aggiunge l’incremento dei fondi
per le aree marine protette e la proroga al 31.12.2016
per la redazione del Piano tutela acque regionale. Norme
specifiche riguardano il ripristino ambientale nei siti di
interesse nazionale. Il profilo energetico è impegnato con
gli impianti ibridi alimentati da rifiuti e impianti termici
mentre registri di carico e scarico per i piccoli
produttori, imprenditori agricoli e formulario, compostaggio
aerobico arricchiscono le norme sulla gestione dei rifiuti.
Tra le molte disposizioni, alcune appaiono particolarmente
rilevanti:
-
in caso di incidenti in mare con sversamento di idrocarburi,
il proprietario del carico deve munirsi di assicurazione a
copertura integrale dei rischi, anche potenziali;
per alcuni settori (per esempio lampade e moduli per
l’illuminazione pubblica) diventa obbligatorio il Gpp per
gli “acquisti verdi” della Pa; per altri l’obbligo si limita
al 50% delle forniture. La norma interviene anche sul Codice
appalti;
-
viene aggiunto l’articolo 68-bis, al Codice ambientale
(decreto legislativo 152/2006) per l’introduzione del
contratto di fiume, il nuovo strumento volontario per la
gestione del territorio;
le acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari sono
assimilate alle acque reflue domestiche ai fini dello
scarico in pubblica fognatura;
-
il ministero dell’Ambiente ha un anno di tempo per stabilire
i criteri che consentono ai Comuni la misurazione puntuale
della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico;
-
nei casi di eccezionale e urgente necessità di tutela della
salute e dell’ambiente, le Regioni, diffidate dal ministero
hanno 60 giorni di tempo (e non più un «congruo termine»)
per adottare le iniziative necessarie per garantire la
corretta gestione dei rifiuti;
-
con il nuovo articolo 306bis del Codice ambientale entrano
in vigore nuove regole per la determinazione delle misure
per il risarcimento del danno ambientale e il ripristino
ambientale dei Sin. È prevista, infatti, una proposta
transattiva rimessa alla valutazione del ministero
dell’Ambiente;
-
arriva il credito d’imposta per i titolari di reddito
d’impresa che nel 2016 daranno luogo a bonifiche di amianto
su beni e strutture produttive in Italia (50% delle spese
sostenute e investimenti non inferiori a 20.000 euro). Il
ministero dell’Ambiente adotterà le disposizioni attuative;
-
le imprese che partecipano ad appalti pubblici, registrate
Emas o coertificate Uni En Iso 14001, godono di una
riduzione, rispettivamente, del 30 e del 20% della cauzione.
Questa scende del 20% anche per le imprese che hanno almeno
il 50% dei beni o servizi oggetto del contratto con marchio
Ecolabel;
-
le competenze dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti (non
operante dal 2010) passano al ministero dell’Ambiente che,
avvalendosi di Ispra individua costi standard e sistemi
tariffari nonché schemi tipo di contratto di servizio per i
rifiuti urbani;
-
per i rifiuti il cui trattamento non contribuisce al
raggiungimento delle finalità previste dal decreto
legislativo 36/2003 sulle discariche, l’Ispra entro 90
giorni dovrà approvare i criteri per collocare i rifiuti in
discarica senza trattamento;
-
le miscelazioni di rifiuti non vietate dall’articolo 187 del
Codice dell’ambiente non devono essere autorizzate e, anche
se effettuate da soggetti autorizzati «non possono essere
sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori
rispetto a quelle previste per legge» (articolo Il Sole 24 Ore del
23.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Sigaretta per terra? Sanzione ad hoc.
Il caso. Ma la multa potrà essere più bassa che in passato.
Il Ddl
sull’ambiente lancia una norma con sanzione ad hoc per chi
butta mozziconi di sigaretta e fazzoletti di carta. Ma
riduce, di fatto, la sanzione applicabile.
Per la tutela del decoro urbano e limitare gli impatti
negativi dati dalla dispersione incontrollata nell’ambiente
dei rifiuti, infatti, l’articolo 40 punisce l’abbandono di
mozziconi di sigaretta e di rifiuti di piccolissime
dimensioni («quali anche scontrini, fazzoletti di carta e
gomme da masticare») sul suolo, nelle acque e negli
scarichi, con la sanzione amministrativa da 30 a 150 euro.
La sanzione si raddoppia se la condotta riguarda mozziconi
di prodotti da fumo.
Va detto, però, che l’articolo 255 del Codice dell’ambiente,
senza distinguere tra rifiuti piccoli e grandi, già dal 2006
punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria da 300 a
3.000 euro chiunque abbandoni o depositi rifiuti o li
immetta in acque superficiali o sotterranee. Quindi, di
fatto, la nuova legge introduce una sanzione su misura ma
affievolita.
In ogni caso i Comuni dovranno installare nelle strade, nei
parchi e nei luoghi di «alta aggregazione sociale»
raccoglitori per la raccolta dei mozziconi (articolo Il Sole 24 Ore del
23.12.2015). |
VARI: Sì ai contanti sotto 3 mila euro.
Ma per assegni bancari e postali resta il limite a mille.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Disco verde definitivo dal senato
dopo l'ok alla fiducia.
A partire dal 01.01.2016 sarà legittimo eseguire
pagamenti in contanti al di sotto del limite dei 3.000 euro.
Resta fissato a 1.000 euro, invece, il limite per la
Pubblica Amministrazione.
È l'effetto della modifica
apportata all'art. 49 del dlgs 231/2007 dal comma 511 della
legge di Stabilità che è stata approvata ieri, in via
definitiva, dal Senato dopo il disco verde al voto di
fiducia apposto dal governo. Gli assegni bancari e postali,
di contro, resteranno, trasferibili solo al di sotto dei
1.000 euro.
Il nuovo limite dei 3.000
A partire dal 1° gennaio, dunque, torneranno legittimi i
pagamenti in contanti di fatture, i finanziamenti soci e le
distribuzioni degli utili fra società e soci per importi
unitari al di sotto dei 3.000 euro. Ovviamente anche le
singole rateizzazioni potranno essere effettuate entro detta
soglia.
Sarà quindi, ad esempio, possibile pagare una fattura (Iva
compresa) ad esempio di 7.320 euro (6.000 euro + Iva) in tre
rate cadauna di euro 2.440. Da ciò deriva che le sanzioni
previste dall'art. 58 (in particolare quelle del comma 1,
pari ad un importo, per il trasgressore, dall'1 al 40%,
salvo oblazione e per le mancate comunicazioni dal 3 al 30%,
con minimo di 3.000 euro) saranno applicabili solo in
relazione ai nuovi importi. Va segnalato che in relazione
alla natura amministrativa delle sanzioni non sono previsti
sconti per le violazioni anteriori al 01.01.2016.
Il limite dei 3.000 euro varrà anche per le locazioni e
trasporto merci
Per espressa previsione normativa il nuovo limite dei 3.000
euro si applicherà anche in relazione ai canoni di locazione
di unità abitative (ex art. 1, comma 50, legge 27/12/2013 n.
147) ed ai pagamenti dei corrispettivi per le prestazioni
rese in adempimento dei contratti di trasporto di merci su
strada (ex art. art. 32-bis del dl 133/2014 conv. con l. 11.11.2014 n. 164/2014).
Sale inoltre da 2.500 a 3 mila euro il limite per la
negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta svolta
dai «cambiavalute» (soggetti iscritti nella sezione prevista
dall'art. 17-bis del dlgs 13.08.2010 n. 141).
Il limite per la clausola di intrasferibilità
Il limite dei 3 mila euro rileverà per le transazioni in
contanti ma non per la trasferibilità degli assegni. Gli
assegni bancari e postali, infatti, potranno continuare ad
essere emessi privi di clausola di intrasferibilità
esclusivamente per importi inferiori ai 1.000 euro. Ciò
deriva dal fatto che, le nuove disposizioni non hanno
apportato alcuna modificazione al comma 5 dell'art. 49 del
dlgs 231/2007, dedicato alla trasferibilità degli assegni.
In
pratica, per questi ultimi permarrà l'obbligo di indicare il
nome e la ragione sociale del beneficiario e la clausola di
non trasferibilità a partire dai 1.000 euro. Ciò significa
che un limite da sempre univoco nella legislazione
antiriciclaggio (si parte dai 20 milioni di lire della legge
197/1991) è ora scisso in due soglie distinte.
Dove permane il limite dei 1.000 euro
Ai sensi del comma 514-bis della legge di Stabilità, i
pagamenti effettuati dalle pubbliche amministrazioni
(operazioni di pagamento degli emolumenti a qualsiasi
titolo) per importi superiori ai 1.000 euro dovranno
avvenire necessariamente attraverso strumenti telematici.
Resta, inoltre, fermo il limite dei 1.000 euro per gli
operatori del terzo settore che si avvalgono della legge
398/1991. Per detti soggetti, tuttavia, in relazione alla
dissociazione dei limiti specifici della norma agevolativa e
di quelli antiriciclaggio, dal 01.01.2016, all'indebito
mancato rispetto delle norme specifiche si applicheranno
solo le sanzioni all'uopo previste (dal 1° gennaio da 250 a
2000 euro) attenendo le sanzioni antiriciclaggio solo alla
mancata osservanza del divieto di superamento della nuova
soglia dei 3.000 euro
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2015). |
VARI: Pagamenti elettronici a 360°. Sanzionabili i professionisti.
Pagamenti elettronici senza se e senza ma. Per commercianti
e professionisti addio al limite dell'importo minimo dei 30
euro e in arrivo sanzioni pecuniarie ad hoc. Unica via di
fuga ammessa sarà quella dell'oggettiva impossibilità
tecnica che dovrà essere, comunque, dimostrata.
Questa una delle
novità contenute nel ddl stabilità per il 2016 approvato,
ieri, dal senato e che, mette nuovamente sotto i riflettori
la questione relativa all'obbligo di accettazione di
pagamenti elettronici da parte di commercianti e
professionisti andando a coinvolgerli su piani differenti.
Per quanto concerne i primi, infatti, oltre all'aspetto
sanzioni, l'impatto maggiore arriverà dall'eliminazione
degli importi minimi. Gli esercizi commerciali, infatti,
saranno tenuti ad accettare pagamenti sia con carte di
credito sia con carte di debito anche per piccoli importi.
Solo nel caso in cui tali esercizi riescano a dimostrare
l'oggettiva impossibilità tecnica di accettare i pagamenti
potranno essere tenuti esenti da sanzioni. Ed è proprio su
questo ultimo punto che i professionisti potranno essere,
invece, maggiormente coinvolti. Difficilmente, infatti, il
problema dei micropagamenti potrà riguardare i titolari di
partita Iva.
Per questi ultimi, invece, a essere più incisiva sarà la
questione sanzioni pecuniarie, dato che, per la prima volta,
l'obbligo di accettare il pagamento di qualsiasi tipo di
importi tramite mezzo elettronico diventa a tutti gli
effetti cogente. Il potenziale quantum pecuniario sarà
stabilito con uno o più decreti del ministro dello sviluppo
economico, di concerto con il ministero dell'economia e
delle finanze, sentita la Banca d'Italia.
Dopo più di un anno di confronti sia tra il governo e le
professioni, sia in sede parlamentare, lo spettro delle
sanzioni si appresta, quindi, a divenire realtà. Questa
volta, però, anche i prestatori di servizi di pagamento
saranno chiamati a fare la loro parte. La norma, così come
introdotta all'interno della legge di stabilità per il 2016,
prevede, infatti, che tali soggetti non operino pratiche
commerciali contrarie al regolamento Ue 751/2015 che pone un
limite, variabile entro certe soglie a seconda delle
tipologie di operazioni, alle commissioni
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2015). |
VARI: Canone, l'esenzione si dichiara.
Da documentare ogni anno la non detenzione della Tv.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Dieci rate in bolletta. Prima
applicazione da luglio.
La dichiarazione di non detenzione della televisione per non
pagare il canone Rai di 100 euro, inserito nella bolletta
elettrica, a partire da luglio 2016 (a regime da gennaio a
ottobre), dovrà essere presentata ogni anno alla direzione
provinciale I di Torino con le modalità definite da un
provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate.
In sede di sottoscrizione dei nuovi contratti di fornitura
elettrica sarà la società ad acquisire la dichiarazione del
cliente in ordine alla residenza anagrafica. E sarà il
cliente tenuto a comunicare ogni successiva variazione.
Sono queste alcune delle novità sulla riforma del pagamento
del canone Rai in bolletta introdotta dalla legge di
stabilità 2016 approvata ieri definitivamente dal senato.
Il nuovo canone Rai. L'importo sarà di 100 euro e i
contribuenti lo ritroveranno in bolletta elettrica. Nella
prima fattura successiva al 01.07.2016, dove saranno
cumulativamente addebitate tutte le rate scadute. L'Autorità
per l'energia elettrica ha già informato (si veda ItaliaOggi
del 17/12/2016) che provvederà a modificare la bolletta. Gli
utenti troveranno infatti, in bolletta, una distinta
indicazione nella fattura. A regime il pagamento avviene in
10 rate mensili addebitate sulle fatture emesse dall'impresa
elettrica. La scadenza del pagamento è successiva alla
scadenza delle rate e queste ai fini dell'inserimento in
fattura, s'intendono scadute il primo giorno di ciascuno dei
mesi da gennaio a ottobre.
Per chi ha l'addebito sul conto corrente l'opzione si
intende estesa anche al pagamento del canone televisivo
anche per chi ha le autorizzazioni all'addebito già
rilasciate alla data di entrata in vigore della legge di
stabilità.
Niente trucchi per rinunciare al pagamento del canone. La
legge di stabilità manda in soffitta la pratica del
suggellamento. La facoltà cioè di presentare la denunzia di
cessazione dell'abbonamento attraverso la copertura con
fogli del televisore.
La norma ribadisce che restano ferme le disposizioni in tema
di accertamento e riscossione coattiva.
Gli adempimenti delle società elettriche. Un decreto
attuativo da adottare entro 45 giorni dall'entrata in vigore
della legge di stabilità definirà i termini e le modalità
per il riversamento all'erario e per la conseguenza dei
ritardi sotto forma di interessi moratori dei canoni
incassati dalle aziende di vendita dell'energia elettrica
che non sono considerati sostituti di imposta.
Le società avranno venti giorni per riversare i canoni
riscossi.
Per il mancato versamento e per la violazione dei canoni si
applicano le sanzioni relative a Violazioni relative alla
dichiarazione dell'imposta sul valore aggiunto e ai rimborsi
(sanzione da un minimo di 300 euro) e dei Ritardati o omessi
versamenti diretti e altre violazioni in materia di
compensazione (sanzioni parametrate ai giorni di ritardo).
Scambio dati. L'Agenzia delle entrate metterà a disposizione
delle imprese elettriche l'elenco dei soggetti esenti dal
pagamento sia in base alle previsione di legge (pensionati
con una certa soglia di reddito ) e l'elenco dei soggetti
esenti che hanno presentato la dichiarazione.
Inoltre Agenzia, Autorità per l'energia, Acquirente unico e
i comuni nonché anche soggetti privati a ciò autorizzati
potranno scambiare e utilizzare i dati di famiglie
anagrafiche, utenze per l'energia elettrica, soggetti tenuti
al pagamento del canone nonché i soggetti esenti dal
pagamento del canone
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, personale in stallo.
Ancora lunga la strada per la completa ricollocazione.
LEGGE DI STABILITÀ 2016/ Istituito presso il ministero
dell'interno fondo da 100 mln.
Ancora lunga la strada per la completa ricollocazione dei
dipendenti di province e città metropolitane in
sovrannumero.
La legge di stabilità 2016 allo scopo di incentivare
l'assunzione dei lavoratori ha istituito nello stato di
previsione del ministero dell'interno, per l'anno 2016, un
fondo con la dotazione di 100 milioni di euro, il cui scopo
è concorrere alla corresponsione del trattamento economico
del personale soprannumerario, nelle more del completamento
del processo di riordino delle funzioni da parte delle
regioni e del trasferimento definitivo del personale stesso.
Un successivo decreto del ministro dell'interno ripartirà il
fondo tra le amministrazioni interessate in proporzione alle
unità di personale dichiarato in soprannumero, e non ancora
ricollocato, secondo le risultanze del monitoraggio attivato
col dm 14/09/2015.
Sempre allo scopo di accelerare con la ricollocazione del
personale soprannumerario, entro 30 giorni dalla vigenza
della legge di stabilità un decreto del presidente del
consiglio commissarierà le regioni che a tale data non
abbiano riordinato le funzioni provinciali non fondamentali,
in attuazione all'accordo tra stato e regioni dell'11.09.2014. Il commissariamento ha lo scopo di
assicurare il completamento degli adempimenti necessari a
rendere effettivo, entro il 30.06.2016, il trasferimento
delle risorse umane, strumentali e finanziarie relative alle
funzioni non fondamentali delle province e delle città
metropolitane, in attuazione della riforma Delrio.
Il commissario, in assenza di leggi regionali di riordino e
fatta salva la loro successiva adozione, provvederà ad
attribuire alla regione commissariata le funzioni non
fondamentali delle province e città metropolitane. Per il
trasferimento del personale, il commissario opera secondo i
criteri individuati ai sensi della legge n. 56 del 2014, nei
limiti della capacità di assunzione e delle relative risorse
finanziarie della regione ovvero della capacità di
assunzione e delle relative risorse finanziarie dei comuni
che insistono nel territorio della provincia o città
metropolitana interessata, utilizzando la piattaforma di cui
al decreto ministeriale del 14.09.2015.
Invece, per le regioni che hanno adottato in via definitiva
la legge attuativa dell'accordo tra stato e regioni sancito
in sede di Conferenza unificata l'11.09.2014 ma non
hanno completato il trasferimento delle risorse, il
commissario opera d'intesa con il presidente della regione,
secondo le modalità previste dalla legge regionale.
Il disegno di legge di stabilità per il 2016, inoltre,
intende accelerare il trasferimento del personale delle
città metropolitane e delle province collocato in posizione
utile nelle graduatorie redatte dal ministero della
giustizia a seguito del bando di mobilità adottato con
ricorso al fondo di cui all'articolo 30, comma 2.3, del
decreto legislativo 30.03.2001, numero 165. Si prevede
che i dipendenti interessati siano è inquadrati entro il 31.01.2016 nei ruoli del ministero della giustizia con
assegnazione negli uffici giudiziari secondo le risultanze
delle medesime graduatorie, prescindendo dal nulla osta
dell'ente di provenienza.
Non solo: allo scopo di supportare il processo di
digitalizzazione in corso presso gli uffici giudiziari e per
dare compiuta attuazione al trasferimento al ministero della
giustizia delle spese obbligatorie per il funzionamento
degli uffici giudiziari, il disegno di legge di stabilità
prevede che il ministero della giustizia acquisisca un nuovo
contingente massimo di 1.000 unità di personale
amministrativo proveniente dagli enti di area vasta, nel
biennio 2016 e 2017, da inquadrare nel ruolo
dell'amministrazione giudiziaria.
Il personale interessato sarà selezionato dalla graduatoria,
in corso di validità delle mobilità attivate ai sensi
dell'articolo 30, comma 2.3, del decreto legislativo numero
165 del 2001, oppure mediante il portale di cui al decreto
del presidente del consiglio dei ministri 29.09.2014.
Ma come extrema ratio, se entro 90 giorni il personale non
sarà trasferito, la sua acquisizione sarà effettuata
mediante procedure di mobilità volontaria semplificate
prescindendo dall'assenso dell'amministrazione di
appartenenza
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Amianto, rimozione finanziata.
Stanziati più di 276 mln di euro per i progetti delle
imprese.
L'avviso pubblico Inail pubblicato in G.U. n. 296. Via alle
domande da primavera.
Il bando ISI 2015 sovvenziona la rimozione dell'amianto
dagli ambienti e luoghi di lavoro. Uno specifico asse di
finanziamento, infatti, è dedicato ai progetti presentati
dalle imprese per la bonifica da materiali contenenti
amianto.
È quanto prevede, tra l'altro, l'avviso pubblico
Inail pubblicato sulla G.U. n. 296 di ieri, relativo al
bando ISI 2015 che stanzia oltre 276 milioni di euro a fondo
perduto, 10 milioni in più dell'anno scorso.
I progetti di
finanziamento andranno precaricati, online, sul sito Inail
dal 1° marzo al 5 maggio; la presentazione vera e propria
delle domande sarà possibile, invece, in data e orari che
l'Inail comunicherà dal 19 maggio.
Il bando Isi 2015. Gli incentivi rientrano nelle attività
previste dall'art. 11 del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008),
che affidano all'Inail il compito di finanziare con proprie
risorse progetti di investimento e di formazione sulla
sicurezza sul lavoro, in particolare a favore delle piccole,
medie e micro imprese.
Ieri è andato in Gazzetta Ufficiale
il bando ISI 2015 che stanzia 276.269.986 euro (sesta
tranche di complessivi 1,2 miliardi di euro). Novità del
nuovo bando, come accennato, è la previsione di uno
specifico asse di finanziamento dedicato ai progetti
finalizzati alla rimozione di materiali contenenti amianto.
Progetti ammessi. Sono ammessi al contributivo di
finanziamento:
1. progetti di investimento;
2. progetti di responsabilità sociale e per l'adozione di
modelli organizzativi;
3. progetti di bonifica da materiali contenenti amianto. Si
può presentare un solo progetto per una sola unità
produttiva, per una sola tipologia tra quelle sopra
indicate.
Il contributo. Il contributo, in conto capitale, è pari al
65% delle spese sostenute dall'impresa per realizzare il
progetto, al netto di Iva. Il contributo massimo erogabile è
di 130 mila euro, quello minimo di 5 mila euro. Alle imprese
fino a 50 dipendenti che presentano progetti di adozione di
modelli organizzativi e di responsabilità sociale non è
fissato il limite minimo di contributo.
La procedura. I finanziamenti sono assegnati fino a
esaurimento, secondo l'ordine cronologico di arrivo delle
domande. Il contributo è erogato dopo verifica
tecnico-amministrativa di realizzazione del progetto. I
finanziamenti Isi sono cumulabili con benefici derivanti da
interventi pubblici di garanzia sul credito (per esempio
gestiti dal Fondo di garanzia delle pmi e da Ismea). Come
per le passate edizioni, la procedura è organizzata in tre
diversi step.
Primo step, pre-caricamento progetto. Dal
01.03.2015 fino
alle ore 18 del 05.05.2016, nella sezione «servizi
online» del sito Inail, le imprese registrate al sito
troveranno a disposizione un'applicazione informatica per la
compilazione della domanda, che consentirà di:
- effettuare simulazioni relative al progetto da presentare,
verificando il raggiungimento del punteggio «soglia» di
ammissibilità;
- salvare la domanda inserita.
Secondo step, codice identificativo. Dal 12.05.2016 le
imprese che hanno raggiunto la soglia minima di
ammissibilità e hanno salvato la domanda potranno accedere
nuovamente alla procedura informatica ed effettuare il
download del proprio codice identificativo che serve a
individuarle in maniera univoca.
Terzo step, invio domanda (click-day). L'ultimo passaggio
richiede alle imprese di inviare, online, la domanda,
utilizzando il codice identificativo. La data e gli orari di
apertura e chiusura dello sportello informatico per l'invio
delle domande saranno pubblicati sul sito Inail dal 19.05.2015.
Ulteriori informazioni si possono recuperare
sul sito internet dell'Inail oppure contattando il Contact
Center al numero verde 803164 gratuito da rete fissa oppure
al numero 06.164.164, a pagamento da telefono mobile
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rischio blocco per i «premi» al personale.
Gli effetti possibili se entro il 31 dicembre non si
costituisce il fondo e non si firma l’intesa.
Armonizzazione. Il principio contabile 4.2 non offre
soluzioni sulla possibilità di traghettare nell’anno
successivo le risorse per le voci variabili.
La mancata
costituzione entro il 2015 del fondo per le risorse
decentrate e la mancata stipula del contratto decentrato per
la sua ripartizione fanno correre il rischio che le risorse
non utilizzate non possano essere trasferite nel fondo
dell’anno successivo.
È questo uno dei possibili effetti dell’entrata in vigore
della armonizzazione del sistema contabile e del vincolo che
le nuove regole introducono per lo spostamento di risorse da
un esercizio a quello successivo, in particolare alla luce
del requisito della esigibilità. In attesa dei chiarimenti
che devono essere forniti, è quanto mai necessario che si
superi la cattiva abitudine che si manifesta in molte
amministrazioni e che va sotto il nome di “contrattazione
tardiva” se non si vogliono sottrarre queste risorse
all’incentivazione del personale.
Il dato contrattuale (articolo 17, comma 5, del contratto
nazionale del 01.04.1999 e, per i dirigenti, articolo 26
del contratto nazionale del 23.12.1999) dice che le
parti del fondo che non sono state «utilizzate o attribuite»
nel corso di un anno vanno in aumento nel fondo dell’anno
successivo.
L’Aran ha chiarito che, per il personale, le risorse che
possono essere spostate all’anno successivo sono solamente
quelle che provengono dalla parte stabile del fondo. La
Ragioneria Generale dello Stato ha precisato che queste
somme non vanno calcolate ai fini della determinazione del
tetto del fondo e della decurtazione proporzionale alla
diminuzione del personale in servizio.
La sezione regionale di controllo della Corte dei Conti
della Lombardia, già con il parere n. 287/2010, ha espresso
«forti dubbi sulla liceità dei contratti collettivi
integrativi che ... siano conclusi dopo la scadenza del
periodo di riferimento».
In questo quadro, l’entrata in vigore dell’armonizzazione
dei sistemi contabili fa correre il rischio di rendere
difficilmente utilizzabili le risorse del fondo di un anno
che non siano state esattamente determinate con la sua
costituzione tempestiva. Questo rischio vale in particolare
per la parte variabile, che dipende dalle scelte delle
amministrazioni: si tratta in particolare degli incrementi
previsti dall’articolo 15, commi 2 e 5, del contratto
nazionale del 01.04.1999 per il personale e
dall’articolo 26, comma 3, del contratto nazionale del 23.12.1999 per i dirigenti. Il rischio si può estendere
anche alla mancata definizione dell’intesa contrattuale con
cui il fondo stesso viene ripartito.
Occorre evidenziare che il principio contabile 4.2 non dà al
riguardo una soluzione certa. Il principio dice che
sicuramente vengono spostate nell’anno successivo le risorse
destinate all’erogazione delle quote di salario accessorio
che non possono essere corrisposte nell’anno, come le
indennità di risultato e la produttività in quanto legate
agli esiti della valutazione. Ma non si pronuncia, quanto
meno con chiarezza, sulla “contrattazione tardiva”, fenomeno
che interessa un numero assai elevato di amministrazioni
locali. Si chiarisce solo che «risultano definitivamente
vincolate» le risorse del fondo a seguito della
contrattazione decentrata con cui lo stesso è stato
ripartito.
Il principio contabile sembra inoltre espressamente impedire
che le risorse di parte variabile possano essere spese
nell’anno successivo a carico del fondo dell’anno di
riferimento in caso di mancata costituzione del fondo.
Infatti, esso stabilisce che in questo caso solamente la
«quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla
contrattazione collettiva nazionale» confluisca nel
risultato di amministrazione vincolato.
In questo quadro, che al momento attuale è ancora assai
incerto, appare necessario, a scanso di equivoci e di
possibili sorprese negative, che le amministrazioni
provvedano a costituire formalmente il fondo per la
contrattazione decentrata e che le amministrazioni e i
soggetti sindacali provvedano alla loro ripartizione tramite
una specifica intesa contrattuale. Solo in questo modo si ha
la certezza che le somme non spese e provenienti dalla parte
stabile possano continuare ad essere destinate a
incrementare il fondo del 2016 (articolo Il Sole 24 Ore del
21.12.2015). |
URBANISTICA: Tempi lunghi per la legge quadro dello Stato.
Ha superato a
fine ottobre il primo esame delle commissioni Agricoltura e
Ambiente della Camera, riunite in sede referente, il disegno
di legge sul contenimento del consumo di suolo e sul
riutilizzo di quello edificato (Atto Camera
n. 2039) presentato
dal governo Letta nel febbraio del 2014, abbinato ad altre
proposte di legge sul tema presentate da diversi gruppi
politici.
Secondo il sottosegretario ai Beni culturali, Ilaria
Borletti Buitoni, «si tratta di una riforma indispensabile
che dovrebbe in gennaio ricevere l’approvazione dalla Camera
dei Deputati». Ma il testo dovrà ricominciare l’iter al
Senato. Solo quando il Parlamento lo avrà approvato, le
Regioni potranno adottare solo provvedimenti che prevedano
una tutela delle aree inedificate maggiore di quanto non
faccia la legge statale. Nel frattempo le autonomie sono
libere di fissare proprie regole (e lo stanno facendo, si
veda l’articolo a fianco).
Le fasi di attuazione
La legge statale costituirà una tappa fondamentale di
avvicinamento al traguardo dello stop assoluto al consumo di
suolo nel 2050 deciso dall’'Unione europea. Per avviarsi
verso quest’obiettivo, il disegno di legge disegna una
procedura complessa. Entro un anno dall’entrata in vigore
della futura legge, il ministro dell’Agricoltura, di
concerto con altri ministri, deve stabilire con decreto di
quanto deve essere ridotto il consumo di suolo a livello
nazionale, attraverso criteri, a loro volta definiti da
Stato, Regioni e Comuni in Conferenza unificata. Se non si
fissano questi indici, provvede il presidente del Consiglio.
L’operazione è delicata: i parametri da considerare sono
elencati nella legge, ma il numero finale dei chilometri
quadrati di suolo da sottrarre all’impermeabilizzazione cambia
in base al peso attribuito a ognuno di essi; e potrebbe
influire anche sulla ripartizione, affidata anch’essa alla
Conferenza unificata, tra le Regioni del contenimento
complessivo.
Ogni Regione, a sua volta, attribuisce gli obiettivi di
consumo ai singoli Comuni del proprio territorio. Il
risultato finale del meccanismo è incerto e nulla garantisce
che i Comuni nei quali è stato maggiore il consumo di suolo
in passato saranno anche quelli ai quali richiesto il
maggiore contenimento del consumo futuro; e viceversa. Gli
obiettivi di riduzione hanno un orizzonte quinquennale e
bisognerà vedere se potranno essere corretti in corso
d’opera.
In ogni caso, il consumo del suolo sarà permesso solo se le
necessità di nuovi spazi non potranno essere soddisfatte
riutilizzando o rigenerando le aree già urbanizzate. Per
dare priorità al riuso del patrimonio esistente, le Regioni
dovranno incentivare i Comuni a promuovere strategie per la
rigenerazione urbana e definire i criteri per la
realizzazione di un censimento degli edifici sfitti,
inutilizzati o abbandonati. Se non lo faranno entro 180
giorni dall’entrata in vigore della legge, un decreto del
presidente del Consiglio detterà disposizioni uguali per
tutti.
Uso limitato per gli oneri
Per convincere i sindaci a concorrere all’obiettivo del
contenimento, viene ristretta la loro libertà di utilizzo
degli oneri di urbanizzazione degli altri proventi derivanti
dai titoli abilitativi edilizi. Con l’approvazione della
nuova legge quelle risorse dovranno essere impiegate
unicamente nella manutenzione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria e negli interventi di tutela del
territorio (articolo Il Sole 24 Ore del
21.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, tracciamento a rischio.
Nuovo regime registri/formulari dall'1/1 salvo proroghe.
Maggiori adempimenti e tempistica stretta per le imprese non
obbligate al Sistri.
Salvo le già invocate proroghe dell'ultim'ora, dal 01.01.2016, parallelamente alla piena operatività del
controllo telematico «Sistri», esordirà anche il rinnovato
sistema di tracciamento tradizionale dei rifiuti, che dovrà
essere osservato da chi, avendone facoltà, non adotta il
sistema telematico.
In base al Dl 192/2014, con il nuovo
anno acquisterà infatti efficacia, insieme all'applicabilità
delle sanzioni per l'omesso tracciamento Sistri (si veda ItaliaOggi Sette del
07/12/2015) la versione degli articoli
190 e 193 del dlgs 152/2006 su registri di carico/scarico e
formulari di trasporto, scritta dal dlgs 205/2010.
Il nuovo tracciamento tradizionale. La logica alla base del
restyling, riconduce sotto registri e formulari tutto il
flusso dei rifiuti non altrimenti tracciato mediante il
Sistri, prevedendo anche una stretta sui tempi entro cui
dare evidenza nelle storiche scritture ambientali di alcune
attività.
In base alla «dormiente» versione del rinnovato
articolo 190 del «Codice ambientale», dal 01.01.2016
saranno infatti esonerati dalla tenuta dei registri
soltanto: Enti e imprese Sistri o che effettuano
esclusivamente attività di raccolta/trasporto di propri
rifiuti speciali non pericolosi dei quali sono produttori
iniziali; limitatamente ai rifiuti non pericolosi, i centri
di raccolta di rifiuti urbani ex articolo 183, dlgs
152/2006.
Saranno invece obbligati alla tenuta se, avendone
facoltà, non aderiscono al Sistri: Enti/imprese produttori
iniziali di rifiuti speciali pericolosi; produttori di
rifiuti pericolosi non inquadrati in un'organizzazione di
Ente/impresa; Enti/imprese produttori iniziali di speciali
non pericolosi da lavorazioni industriali o artigianali,
potabilizzazione e altri trattamenti delle acque;
Enti/imprese di raccolta/trasporto rifiuti, preparazione al
riutilizzo, recupero/smaltimento, compresi i nuovi
produttori di rifiuti; operatori del trasporto intermodale
di rifiuti speciali; intermediari e commercianti di rifiuti.
L'annotazione delle informazioni dovrà essere effettuata:
per produzione iniziale di rifiuti, entro 10 giorni
lavorativi, rispettivamente, da produzione e successivo
scarico; nella preparazione rifiuti per riutilizzo, entro 10 gg. da presa in carico e scarico; per altri trattamenti,
entro 2 gg. da presa in carico e dal termine delle attività;
nell'intermediazione e commercio, entro 2 gg. da inizio
operazioni e conclusione.
Regimi semplificati sono previsti
per alcune categorie di soggetti, quali: imprenditori
agricoli produttori iniziali di rifiuti pericolosi (che
potranno adempiere tramite conservazione per tre anni di
copia del formulario di trasporto, oppure scheda Sistri o
documento di conferimento a circuito organizzato);
produttori di rifiuti pericolosi diversi da Enti/imprese
(obbligati alla conservazione cronologica delle copie schede
Sistri rilasciate da trasportatore); centri di raccolta
rifiuti urbani pericolosi (ammessi a effettuare
registrazioni di carico/scarico contestualmente all'uscita
dei rifiuti dagli impianti e in maniera cumulativa per
ciascun codice Cer).
In base alla parallela «nuova» versione
dell'articolo 193 del dlgs 152/2006, dal 01.01.2016
saranno invece obbligati alla tenuta del formulario
Enti/imprese di raccolta/trasporto rifiuti non aderenti,
avendone facoltà, al Sistri.
Le correlate novità Ue. La modulistica di riferimento per
registri di carico/scarico e formulario di trasporto dei
rifiuti resterà quella prevista dai decreti Minambiente 145
e 148 del 01.04.1998 (adottati in attuazione dello
storico dlgs 22/1997, c.d. «Decreto Ronchi», e confermati
dal Codice ambientale).
Tuttavia, le indicazioni sulle
caratteristiche di pericolo dei rifiuti recate da tali
decreti ministeriali devono intendersi dallo scorso 01.06.2015 superate dalla nuova classificazione stabilita
dal regolamento Ue n. 1357/2014, dalla suddetta data
direttamente applicabile sul territorio nazionale senza
necessità di recepimento in virtù della sua natura self executing.
La dichiarazione Mud. A interessare nel 2016 sia la
categoria degli operatori soggetti al Sistri, sia quelli
tenuti al tracciamento tradizionale sarà l'appuntamento con
l'annuale scadenza Mud.
Per i soggetti tenuti al
tracciamento telematico e al contempo rientranti tra quelli
tenuti (ex dlgs 152/2006, versione «ante dlgs 205/2010», e
provvedimenti connessi) alla presentazione del «Modello
unico di dichiarazione» ambientale l'obbligo deriva dal dl
192/2014, laddove si impone loro (nell'ambito del cd.
«regime transitorio Sistri») di continuare a effettuare il
tracciamento tradizionale dei rifiuti (quindi, Mud incluso)
fino al 31.12.2015.
Tracciamento e produttore «giuridico» di rifiuti. Si ricorda
che il dl 78/2015 (convertito in legge 125/2015) ha
riformulato la definizione di produttore iniziale di rifiuti
recata dal dlgs 152/2006, specificando che debba intendersi
tale, oltre al soggetto la cui attività produce
materialmente rifiuti, anche quello cui detta produzione sia
«giuridicamente riferibile».
Come emerge anche dagli atti
parlamentari sottesi alla riforma, tale novella appare
essere volta a dare valenza normativa agli oneri di
vigilanza e controllo cui committenti e appaltanti di lavori
dai quali possono essere generati rifiuti sono tenuti nei
confronti di soggetti affidatari e appaltatori al fine della
gestione dei residui.
Tale posizione di garanzia (rilevante
sul piano penale) non appare però potersi tradurre (stante
anche l'impostazione «monosoggettiva» dei documenti di
tracciamento, come sottolineato da autorevole dottrina) in
una duplicazione di obblighi procedimentali, per cui la
tenuta delle citate scritture ambientali, tradizionali
quanto telematiche, non potrà di fatto che essere
plausibilmente pretesa (anche per evitare distorsioni
statistiche) da uno solo dei due produttori, e concretamente
da quello «materiale», depositario di analitiche
informazioni su qualità e quantità dei rifiuti da lui
generati.
L'ipotesi «proroga». L'efficacia del nuovo regime di
tracciamento tradizionale è, come accennato, legata alla
piena operatività del Sistri prevista dal 01.01.2016,
operatività che soffre tuttavia di criticità anche per il
cambio in corso del gestore del Servizio (si veda ItaliaOggi
Sette del 07/12/2015).
Già in sede di esame del ddl
«Stabilità» era stato presentato alla Camera lo scorso 13.12.2015, senza però trovare poi accoglimento, un
emendamento volto a rinviare di un anno l'applicabilità
delle sanzioni per l'omesso tracciamento telematico (ma non
di quelle per omessa iscrizione e pagamento del contributo)
con parallela analoga proroga per l'incarico dell'attuale
gestore del Sistema. Ciò non esclude, tuttavia, che un
differimento possa arrivare con il decreto legge «mille
proroghe» di fine anno.
Il tutto mentre appare essere in
corso di predisposizione da parte del Minambiente un nuovo
decreto su funzionamento del Sistri che sembra promettere
(sostituendosi all'attuale dm 52/2011), oltre alla conferma
del contributo, anche l'interconnessione con l'Albo gestori
ambientali e uno snello aggiornamento delle procedure
operative di utilizzo del sistema tramite successivi
provvedimenti governativi non regolamentari
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
TRIBUTI: Edificabilità condiziona le imposte locali. Solo i terreni edificabili sono soggetti alle imposte
locali; quando, invece, l'edificabilità è teorica, sui
terreni non dovrà essere versata alcuna imposta.
Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza n.
428/4/2015 emessa dalla Sez. IV della Commissione
tributaria provinciale di Varese.
La pretesa fiscale nasce da quattro avvisi di accertamento
con cui il comune di Lonate Pozzolo (Va) richiedeva l'Ici
per due appezzamenti di terreno edificabili. Ritenendo la
pretesa illegittima, i proprietari del fondo ricorrevano
avverso tali atti e, rivolgendosi alla Commissione
tributaria provinciale di Varese eccepivano l'inconsistenza
della richiesta notificata; in particolare, palesavano che
l'immobile era ricompreso in un area destinata dal piano
regolatore generale a verde pubblico attrezzato, che lo
stesso era stato frazionato in seguito al passaggio della
nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano e quindi
l'edificabilità era solo teorica.
Costituendosi in giudizio,
il comune riferiva che le aree interessate hanno natura
edificabile con inserimento nel piano regolatore generale e
potenzialità edificatoria (sia pure ridotta);
conseguentemente devono essere assoggettate a imposta. Il
contrasto nato sull'imposizione Ici delle aree edificabili
nella cassazione, è stato risolto con l'intervento delle
sezioni unite con la sentenza n. 25506 del 30.11.2006.
Con questa sentenza, le sezioni unite hanno stabilito che
l'area deve essere ritenuta edificabile se è inserita in uno
strumento urbanistico generale indipendentemente
dall'approvazione e dall'adozione di strumenti urbanistici.
Detta impostazione ha trovato conferma nella Legge n. 248
del 04.08.2006 (decreto Bersani). Nel caso trattato dai
giudici provinciali di Varese, tuttavia, l'inedificabilità
non è subordinata a conferme procedurali, bensì a una
motivazione fattuale.
«Nel caso specifico» osservano i
giudici provinciali «le aree interessate dall'accertamento
derivano da un frazionamento a seguito della costruzione
della nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano che lo ha
spezzato in due parti tale da togliere ogni edificabilità.
Un utilizzo edificatorio potrebbe scaturire solo
dall'accorpamento con fondi limitrofi, e questa eventualità
futura, potrà essere valutata al momento della sua
realizzazione».
Il collegio prosegue affermando che
l'edificabilità delle aree in questione risulta puramente
teorica e conclude annullando gli avvisi di accertamento e
condannando il comune resistente alle spese di giudizio,
liquidate in via equitativa in 500,00.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Gli avvisi di accertamento impugnati scaturiscono
dall'applicazione dell'Ici per gli anni 2009-2010-2011-2012
relativamente a due appezzamenti di terreno siti in
derivanti dal frazionamento dell'11/10/2000 n. 113097,
dell'originario mappale 483 a seguito costruzione della
nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano da parte delle
Ferrovie Nord Milano esercizio S.p.A..
I ricorrenti non hanno applicato l'Ici sui due terreni non
ritenendoli edificabili. [omissis] Si costituisce nel
giudizio il comune di ... sostenendo che le aree interessate
hanno la natura di aree fabbricabili con destinazione
urbanistica «F1 aree per attrezzature ricreative sportive, a
verde pubblica, per istruzione di parcheggi pubblici» dalla
data di adozione del Prg nel 1993.
In ordine alla pretesa di
non ritenere edificabili i terreni a seguito del divieto di
costruire ex artt. 49 e 50 dpr 753/1980, la richiesta non
può essere accolta, in quanto il comparto deve essere inteso
nel suo insieme e la parte rimanente oltre alla fascia di
rispetto, per una larghezza di circa m. 40, può essere
modificata, sfruttando il volume generato dall'intero
comparto. Le aree in questione devono, pertanto essere
assoggettate a Ici con relative sanzioni. [omissis]
Il ricorso è fondato e, pertanto, merita accoglimento. Per
l'assoggettabilità a Ici non basta che i terreni siano
qualificati come edificabili da uno strumento urbanistico
generale, bensì occorre che siano concretamente edificabili.
Nel caso in esame le aree interessate dagli avvisi di
accertamento, derivanti dal frazionamento dell'11/10/2000 n.
113097, dell'originario mappale 483 a seguito costruzione
della nuova tratta ferroviaria Malpensa-Milano che lo ha di
fatto spezzato in due parti con i conseguenti vincoli che ne
derivano, pur avendo natura di aree fabbricabili con
destinazione urbanistica F1, non hanno consistenza tale da
potersi considerare autonomamente edificabili.
L'edificabilità può scaturire solo dall'accorpamento con
fondi vicini della medesima zona, che è solo una eventualità
futura che potrà essere valutata solo al momento della sua
realizzazione.
In buona sostanza, quindi l'edificabilità delle aree in
questione risulta puramente teorica, anche in considerazione
del fatto che solo la nuova destinazione urbanistica del
2013 il Comune ha provveduto al riconoscimento di una
volumetria di costruzione dello 0.40.
PQM
La Commissione accoglie il ricorso e annulla l'avviso di
accertamento impugnato.
Condanna il Comune resistente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in via equitativa in euro 500,00
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assistenza disabili, diritti condizionati.
La risposta del governo a un'interrogazione.
La legge 104/1992 tutela i diritti delle persone disabili,
prevedendo alcune agevolazioni per i dipendenti che
assistono una persona con handicap. Ma tale prerogativa non
costituisce un diritto pieno e incondizionato, dovendo lo
stesso essere bilanciato con le specifiche esigenze
funzionali dell'Amministrazione di appartenenza. Insomma,
diritti sì ma condizionati.
È questa, in sintesi la risposta 19.12.2015 che il sottosegretario di
Stato, Daniele Bocci ha fornito all'onorevole Massimiliano Fedriga a seguito della
INTERROGAZIONE 02.07.2015 A RISPOSTA SCRITTA 4/09653 dallo stesso rivolta
al Ministero dell'interno e riguardante, appunto, le
numerose istanze di mobilità presentate da dipendenti del
Ministero dell'interno e rimaste inevase.
In merito alla questione posta, la risposta dell'11 novembre
scorso ricorda che l'art. 33, comma 5, della legge 104/1992
prevede che il lavoratore che assiste i soggetti con
handicap in situazione di gravità possa scegliere la sede di
lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere.
Ma nel valutare le istanze presentate il Viminale, ha
sottolineato il sottosegretario, deve tenere conto della
necessità di garantire la funzionalità degli uffici,
rispetto alla quale hanno inciso sfavorevolmente le recenti
riduzioni degli organici disposte dal dl 95/2012.
Sulla questione specifica della richiesta di trasferimento
da una sede all'altra dei dipendenti del Ministero
dell'interno, peraltro, è intervenuto il Consiglio di stato
che, con la sentenza 5113 depositata proprio il giorno prima
della risposta all'interrogazione, ovvero il 10 novembre, ha
affermato tutt'altro, respingendo un ricorso del Viminale.
In sostanza, pur non configurandosi il trasferimento ai
sensi dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104, come un
diritto assoluto del dipendente interessato, la terza
Sezione del Consiglio di Stato, contrariamente al
convincimento del dicastero, ha chiarito che l'inciso «ove
possibile», contenuto nella disposizione sta a
significare che, avuto riguardo alla qualifica rivestita dal
pubblico dipendente, deve sussistere la disponibilità nella
dotazione di organico della sede di destinazione del posto
in ruolo per il proficuo utilizzo del dipendente che chiede
il trasferimento
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazioni,
arriva il tetto dei 60 giorni. Conferenza servizi on-line e
con silenzio-assenso - In caso di dissensi decide Palazzo
Chigi in cinque mesi.
La nuova
conferenza dei servizi regolata dalla riforma Madia si
svolgerà perlopiù senza riunioni fisiche ma solo con l’invio
per posta elettronica dei documenti necessari per esaminare
un procedimento amministrativo che vede coinvolti più
soggetti pubblici. E le decisioni finali scatteranno
comunque entro 60 giorni, posto che si considererà come
acquisito l’assenso delle amministrazioni che non si sono
espresse.
Le riunioni “simultanee”, ovvero quelle in forma
tradizionale, si potranno effettuare anche in via telematica
ma saranno limitate solo ai casi di decisioni
particolarmente complesse o in cui sono richieste rilevanti
modifiche progettuali che impongono alle amministrazioni
coinvolte una valutazione aggiuntiva. Anche in questi casi
vale la regola dei 60 giorni: chi non si esprime in
conferenza del servizi è come se desse l’assenso. E ancora:
alla nuova conferenze dei servizi potrà partecipare un unico
rappresentante, rispettivamente per le amministrazioni
statali, uno per ogni regione e uno per ogni comune.
Eccola la semplificazione che apre, insieme con una serie di
altri decreti delegati, l’attesissimo cantiere di attuazione
della riforma della Pa, un disegno di legge delega, il n.
124 del 2015, che è arrivato in Gazzetta Ufficiale il 7
agosto scorso dopo un lungo iter parlamentare.
Il testo, che
il Sole 24Ore è in grado d’anticipare, è pronto e dovrebbe
essere esaminato nel Consiglio dei ministri pre-natalizio
(al più tardi nel primo di gennaio) insieme con una serie di
altri decreti attuativi che i tecnici di palazzo Vidoni
stanno chiudendo in tandem con palazzo Chigi.
Oltre alla
nuova conferenza dei servizi dovrebbero arrivare in
Consiglio una decina di altri decreti: il riordino delle
società partecipate e dei servizi pubblici locali,
l’aggiornamento del Codice per l’amministrazione digitale (a
gennaio partirà la sperimentazione del Pin unico per
accedere a tutti i servizi della Pa) e la semplificazione
delle regole sulla trasparenza. Dopo il primo via libera
tutti i testi passeranno alle Camere per i pareri e il loro
approdo finale in Gazzetta potrebbe arrivare entro il primo
trimestre dell’anno prossimo.
La nuova conferenza dei servizi è prevista all’articolo 2
della legge di riforma e realizza una sorta di rivoluzione
copernicana del vecchio modello introdotto con riforme degli
anni Novanta (legge 241/1990) sul procedimento
amministrativo. Si tratta di uno degli atti più attesi dal
mondo dell’impresa vista l’indeterminatezza dei tempi che
finora ha imperato sul funzionamento delle conferenze dei
servizi in un Paese in cui vengono presentate oltre 75mila
richieste per l’avvio di attività produttive non con
procedura Scia (il dato è riferito al 2014 e riguarda il
sistema Unioncamere e cinque delle venti Regioni) o dove
(dato 2012, quindi in un periodo di profonda recessione)
vengono richieste annualmente oltre 350mila autorizzazioni
edili.
Contro le decisioni assunte da una conferenza dei servizi
nel limite massimo di 10 giorni possono esprimere un
dissenso le amministrazioni preposte a interessi sensibili
(tutela ambiente, tutela paesaggistico-territoriale o
storico-artistico, o della salute o della pubblica
incolumità) e lo faranno presentando un’opposizione alla
presidenza del Consiglio dove, se non riesce a comporre la
questione proposta da un ministro competente entro 15
giorni, si delibera direttamente in un Consiglio dei
ministri cui possono partecipare i presidenti delle Regioni
o delle province autonome interessate. In quest’ultimo caso
la durata massima di una conferenza dei servizi versione
Madia potrebbe arrivare a cinque mesi prima della chiusura.
Il testo prevede un forte coordinamento con le discipline
settoriali: testo unico edilizia, autorizzazioni ambientali
e paesaggistiche nonché la regulation sugli sportelli unici
per le attività produttive. Per aziende che dovessero fare
una richiesta di autorizzazione complessa che prevede una
valutazione di impatto ambientale, ad esempio, con il nuovo
testo in vigore si potrà effettuare un’unica domanda
complessiva, come già avviene in alcune best practices
regionali da cui si è preso spunto per predisporre questa
semplificazione: l’Emilia Romagna, la Lombardia e il
Piemonte (articolo Il Sole 24 Ore del
18.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per i licenziamenti illegittimi nella Pa c’è anche
l’indennizzo. Articolo 18. Le sentenze dei tribunali del lavoro.
Ve la
ricordate la storia delle centinaia di vigili urbani
“assenteisti” del comune di Roma il 31 dicembre scorso? A
quasi un anno di distanza non è arrivato ancora alcun
licenziamento, ma solo una manciata di sanzioni
conservative. Anche per i “furbetti del cartellino” del
comune di Sanremo (che timbravano in mutande, o si facevano
sostituire da un collega) i procedimenti disciplinari
stentano a decollare e a produrre sanzioni.
Un paradosso, se si pensa al mondo privato, dove per simili
illeciti disciplinari, sarebbero subito scattati
provvedimenti.
Il punto è che nella Pa l’iter burocratico che porta al
licenziamento è piuttosto complesso; e anche il dibattito su
vecchio/nuovo articolo 18 è tutt’altro che sopito.
Il ministro Marianna Madia, si è detta contraria a
estensioni «semplicistiche» del Jobs act alla Pa, e i
tecnici di palazzo Vidoni, in sede di attuazione del nuovo
Testo unico sul lavoro pubblico, stanno pensando a una norma
interpretativa che escluda il pubblico impiego dalle tutele
crescenti, di fatto confermando l’applicazione dell’articolo
18 ante Fornero, nella versione originaria dello Statuto (e
cioè sempre reintegra in ogni ipotesi di invalidità del
licenziamento anche per motivi puramente formali).
Si congelerebbe tutto, lasciando inoltre ai magistrati
spazio per sole sentenze che cumulano reintegrazione e
risarcimento. Anche in casi “eclatanti”. Come per esempio
quella del “pompiere rapinatore”, raccontata dal
giuslavorista Pietro Ichino nel suo ultimo libro Il lavoro
ritrovato (maggio 2015), dove il tribunale del lavoro di
Siena ha reintegrato un vigile del fuoco colto in flagranza
mentre compiva una rapina a mano armata nei confronti di una
banca con la motivazione che una “rapinetta” si può
tollerare, per una volta sola, se a commetterla è un
dipendente pubblico incensurato.
Ma la magistratura, in
questi ultimi mesi, ha pronunciato sentenze di reintegra
anche in casi di meri vizi nella procedura di licenziamento
(tribunale di Teramo, ottobre 2015, n. 858) e, pure, in caso
di “spoporzione” dell’atto di recesso (qui per il tribunale
di Parma, maggio 2014, n. 177 la mancata copertura di un
turno pomeridiano da parte di un dirigente medico,
impossibilitato nel rispondere al cellulare perché bloccato
dal nipote, non è stato considerato un fatto idoneo a far
scattare validamente un licenziamento…).
La questione è sensibile per i licenziamenti disciplinari
(il recesso “per motivi oggettivi” trova regolamentazione
nella disciplina della mobilità da eccedenza, anche se la
norma è praticamente inattuata da 14 anni).
In realtà, ricordano gli esperti, già oggi una
giurisprudenza di merito apre alla sanzione monetaria in
caso di recessi illegittimi. Ad esempio, una pronuncia del
tribunale di Genova di marzo 2015 e un’altra del tribunale
di Santa Maria Capua Vetere del 02.04.2013 affermano che
in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento
per motivi procedurali non scatta la tutela reale, ma
l’indennizzo.
«E questa -spiega Sandro Mainardi (università
di Bologna)- potrebbe essere la strada da seguire
nell’ambito della riforma Madia, che deve naturalmente
cercare un punto di equilibrio tra la necessità di evitare
lo spreco di risorse pubbliche e l’esigenza di tutelare il
buon andamento della stessa amministrazione, impedendo che
lavoratori gravemente inadempienti, o addirittura rei di
illeciti penali, facciano rientro in amministrazione a
seguito di licenziamenti annullati solo per vizi di
procedura. La via, allora, potrebbe essere mantenere la
tutela reintegratoria in caso di licenziamenti
discriminatori e quando i fatti contestati siano
insussistenti o meritevoli di sanzione solo conservativa;
accedendo invece alla tutela solo indennitaria del
dipendente laddove, sussistendo l’illecito e la sua gravità,
il licenziamento presenti solo vizi formali o di procedura».
Del resto, «come dimostrano i casi di Roma e Sanremo -aggiunge Arturo Maresca (Sapienza, Roma)- il problema del
potere disciplinare nel lavoro pubblico dipende da due
fattori: la capacità-determinazione dei dirigenti
nell’avvalersi di questo potere, e la difficoltà di
districarsi e portare a termine correttamente la procedura.
Come è possibile che in un’impresa privata si possa
procedere in 5 giorni all’applicazione della sanzione
disciplinare e nella Pa no?».
Il ministro Madia, quindi, renda davvero effettivi i
procedimenti disciplinari. In assenza, mantenendo pure il
vecchio articolo 18, il rischio è una generalizzata impunità
per tutti i “travet” (articolo Il Sole 24 Ore del
18.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oneri concessori «liberi» e stop ai tagli alle Province.
Enti locali. Gli effetti degli ultimi correttivi approvati
in commissione Bilancio.
La possibilità
di usare tutti gli oneri di urbanizzazione per le spese
correnti è l’ultima novità per i Comuni spuntata dalla
versione definitiva degli emendamenti alla manovra approvati
in commissione Bilancio alla Camera.
Il voto in Aula (senza fiducia) a Montecitorio è previsto
per sabato, e ieri la legge di stabilità 2016 ha incassato
in conferenza unificata il parere positivo delle Autonomie.
Un via libera, in realtà, con toni e colori diversi, più
freddi da parte dei Governatori.
«Quello delle Regioni -spiega infatti Massimo Garavaglia, che tiene i conti della
Lombardia ma è anche il coordinatore degli assessori al
bilancio delle Regioni- è un parere positivo condizionato
all’inserimento di alcuni emendamenti, ma poiché
difficilmente verranno approvati, è anche un parere
negativo; dipende da come lo si guarda».
Più acceso il verde
utilizzato dagli amministratori locali, che con il
presidente dell’Anci Piero Fassino giudicano la manovra «un
buon passo avanti nel rapporto tra Stato e Comuni», aiutato
anche dagli «ulteriori miglioramenti e integrazioni»
arrivate sia al Senato sia alla Camera. «Anche sulle
Province -aggiunge Fassino- ci sembra che sia stata data
una soluzione positiva che nel testo originale erano
fortemente penalizzate e che sulla base delle proposte
avanzate dall’Anci e dall’Upi sono state modificate
riducendo quindi l'impatto dei tagli». Naturalmente non
tutte le questioni sono risolte, e rimangono temi importanti
da affrontare dopo la legge di stabilità.
In sintesi:
l’addio alla Tasi con il «rimborso integrale» da parte dello
Stato è una soluzione positiva ma «transitoria», perché nel
2016 c’è da ricostruire l’autonomia fiscale dei sindaci, i
correttivi ipotizzati alla stretta sul turn over non sono
arrivati, gli arretrati sulle spese di giustizia («700
milioni di crediti che riguardano molte città», come
rivendica Paolo Perrone, sindaco di Lecce e vicepresidente
dell’Anci) sono ancora tutti lì e la «mini-sanatoria»
riservata alle delibere approvate il 31 luglio non risolve i
problemi di chi è arrivato dopo.
Accanto all’addio del Patto di stabilità, sostituito dal
pareggio di bilancio che permette lo sblocco degli avanzi, e
alla manovra Imu/Tasi neutra per i conti comunali, ad
allungare l’elenco delle buone notizie è intervenuta da
ultimo anche la commissione Bilancio del Senato. Per i
Comuni, l’ultima novità arriva appunto sull’utilizzo degli
oneri di urbanizzazione, che secondo le regole ordinarie
(derogate da anni) dovrebbero coprire solo spese di
investimento e per il 2016 e 2017 cambiano regime:
accantonata la proroga rituale, che permetteva di dedicarne
metà alle spese correnti in generale e un altro 25% alla
manutenzione ordinaria, arriva una norma nuova: tutti gli
oneri di urbanizzazione possono finanziare le manutenzioni
di strade, verde, patrimonio comunale e spese di
progettazione delle opere pubbliche.
Il dato chiave è nella
“liberazione” totale di oneri e sanzioni collegate, anche
perché l’esperienza insegna che i vincoli di destinazione
successivi sono spesso lasciati alla buona volontà delle
singole amministrazioni.
Sui conti provinciali, il lavorio è stato intenso e dopo le
incertezze iniziali ha prodotto risultati importanti: oltre
ai 150 milioni di alleggerimento dei tagli scritti nelle
prime versioni della manovra, sono arrivati altri 95 milioni
per scuole e strade, 100 milioni per le strade ex Anas, un
nuovo stop ai mutui che vale 240 milioni, altri 40
dall’utilizzo degli avanzi ancora presenti e circa 40 per i
disabili sensoriali della scuola. Risultato, i tagli 2016
previsti inizialmente sono stati nel complesso praticamente
azzerati (articolo Il Sole 24 Ore del
18.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: «Statali» verso quattro comparti.
Pubblico impiego. Passi in avanti nella trattativa fra Aran
e sindacati.
Quattro
comparti sono meglio di tre, e su questo presupposto la
trattativa fra Aran e sindacati sull’applicazione della
riforma Brunetta, presupposto indispensabile per far
ripartire i contratti nel pubblico impiego, fa un passo in
avanti e punta a chiudere entro gennaio. Su tutta la
partita, poi, continua ovviamente a pesare il nodo risorse,
con i sindacati che nel nome dei rinnovi si dicono pronti
«ad aprire il tavolo anche a Natale».
I due nodi sono intrecciati, perché «in occasione del primo
rinnovo contrattuale», come recita la riforma Brunetta,
bisogna ridurre a un massimo di quattro le dodici famiglie
in cui è diviso oggi il pubblico impiego. L’architettura
proposta ieri alle organizzazioni sindacali (come anticipato
sul Sole 24 Ore del 15 dicembre) disegna una pubblico
impiego articolato in scuola, sanità, enti territoriali e Pa
statale.
È quest’ultimo il comparto più problematico, dal
momento che riunirebbe una serie di realtà, dai ministeri
alle agenzie fiscali fino agli enti pubblici, che oggi sono
separate e viaggiano su livelli retributivi diversi. La
prospettiva, in assenza di risorse che permettano di
prevedere allineamenti in tempi brevi, sarebbe quella di
cominciare a unificare le regole di base del rapporto di
lavoro, rimandando il resto a tempi migliori.
In ogni caso,
per risolvere il rebus potrebbe tornare utile
l’articolazione in «sezioni», per raggruppare le realtà fra
loro più omogenee all’interno dei comparti unici.
Anche così, però, rimangono due questioni da affrontare: la
presidenza del Consiglio, poco più di 2mila persone che oggi
danno vita a un comparto separato, e l’università, che fa
parte dell’area della conoscenza e potrebbe confluire con la
scuola dove però ci sono dinamiche specifiche.
In ogni caso, quello del pubblico impiego rimane un terreno
minato. Oltre al problema delle risorse per i rinnovi, resta
la questione ancora irrisolta degli integrativi illegittimi
negli enti locali, stoppati dalla Ragioneria. Oggi a Roma i
sindacati torneranno a protestare sotto il Campidoglio (articolo Il Sole 24 Ore del
18.12.2015). |
APPALTI: Responsabilità solidale per due anni dopo l'appalto.
La responsabilità solidale in materia contributiva dura due
anni dalla cessazione dell'appalto.
Lo precisa il ministero
del lavoro nell'interpello
15.12.2015 n. 29/2015, rispondendo a quesiti
avanzati da Confindustria, Alleanza delle cooperative
italiane e Associazione nazionale cooperative di produzione
e lavoro.
Responsabilità solidale. La questione riguarda il regime di
responsabilità solidale in materia contributiva. Poiché per
un periodo di tempo il regime è stato disciplinato dall'art.
29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 e contemporaneamente
dall'art. 35, comma 28, del dl n. 223/2006 (convertito dalla
legge n. 248/2006), è stato chiesto al ministero di chiarire
come applicare il termine di decadenza di due anni previsto
dalla prima norma, al fine d'individuare il periodo entro
cui è possibile agire per il recupero dei contributi per
responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore.
La seconda norma (art. 35), spiega il ministero, è stata
vigente fino al 28.04.2012. Poi, è stata riformulata dal
dl n. 16/2012 (convertito dalla legge n. 44/2012), che ha
circoscritto il regime di responsabilità solidale alle sole
ipotesi del «versamento all'erario delle ritenute sui
redditi di lavoro dipendente e dell'imposta sul valore
aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni
effettuate nell'ambito dell'appalto», escludendo dalla
formulazione originaria la previsione inerente la
responsabilità a titolo contributivo.
Decadenza dopo due anni. Dall'analisi delle norme, spiega il
ministero, si evince che nel periodo in cui sono state
vigenti contemporaneamente le citate disposizioni (art. 29,
comma 2, del dlgs n. 276/2003 e art. 35, comma 28, del dl n.
223/2006), cioè fino al 27.04.2012, la prima, in quanto di
carattere speciale, deve considerarsi prevalente in materia
contributiva rispetto alla seconda.
Pertanto, ne consegue che, ai fini della applicabilità della
responsabilità solidale in materia contributiva, occorre
tener conto della specifica limitazione temporale prevista
di due anni a partire dalla cessazione dell'appalto
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Ddl appalti.
Clausole sociali a rischio.
Le norme del ddl delega sugli appalti relative all'obbligo
di assorbimento del personale impiegato in un appalto da
parte dell'impresa subentrante non sono in linea con la
disciplina sulla concorrenza; ogni previsione in questa
materia non può risolversi in obblighi e deve essere
compatibile con la libera concorrenza e la libertà di
impresa.
È quanto afferma l'Autorità garante della
concorrenza e del mercato (nota
11.12.2015 n. 72361 di prot.), seguendo a ruota il parere
10.12.2015 dell'Anac, anch'esso negativo, rispetto ad alcune
norme dell'articolo 1, comma 1, (lettere ddd, fff, ggg) del
disegno di legge delega (Atto
Senato 1678-B), da oggi all'attenzione dell'Aula
del senato per il varo definitivo.
Le disposizioni prevedono
l'introduzione di criteri e modalità premiali di valutazione
delle offerte nei confronti delle imprese che, in caso di
aggiudicazione, si impegnino, per l'esecuzione dell'appalto,
a utilizzare anche in parte manodopera o personale a livello
locale ovvero in via prioritaria gli addetti già impiegati
nello stesso appalto.
L'obiettivo della norma è la
stabilizzazione occupazionale, ma su questo obiettivo il
presidente della Commissione lavoro nel parere reso due
settimane fa alla commissione lavori pubblici (di cui è
stato relatore Pietro Ichino), aveva eccepito alcuni profili
di incompatibilità con le regole europee e con i principi
costituzionali, chiedendo anche sia all'Anac, sia all'Agcm
un pronunciamento. Il parere dell'Authority presieduta da
Giovanni Pitruzzella è critico verso le disposizioni del
disegno di legge che ormai, però, non potrà essere più
modificato, salvo sorprese.
Per l'Agcm esistono almeno tre
«criticità»: diminuzione dei benefici del confronto
competitivo tra imprese in sede di gara; scoraggiamento
della partecipazione alla gara stessa; possibile danno per
l'amministrazione perché ostacola l'introduzione di
eventuali innovazioni nel processo produttivo non
consentendo risparmi sul costo del lavoro fornito.
Per l'Antitrust, «affinché la clausola sociale sia
compatibile con i principi concorrenziali non deve tradursi
in un obbligo ovvero in un vincolo assoluto per il progetto
dell'impresa subentrante»
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2015). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Giunte con parità di genere.
I due sessi devono essere rappresentati per almeno il 40%.
La regola vale per tutti i comuni sopra i 3 mila abitanti.
Deroghe solo in casi eccezionali.
I principi comunitari e costituzionali, volti a garantire
l'eguaglianza tra i sessi nell'accesso agli uffici pubblici
e alle cariche elettive, hanno trovato una disciplina
normativa specifica nel nostro ordinamento mediante la
previsione di disposizioni tese a garantire le pari
opportunità nella composizione della giunta comunale.
La giunta comunale è nominata dal sindaco e composta da un
numero di assessori fissato dallo statuto del comune, entro
il tetto massimo previsto dalla legge.
Nei comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti
l'incarico di assessore non può sommarsi all'incarico di
consigliere, per cui l'interessato deve esprimere
un'opzione. Nei comuni aventi popolazione inferiore a 15
mila abitanti gli statuti possono prevedere che vi siano
assessori che non facciano parte del consiglio comunale. La
scelta dei componenti della giunta rientra in un ambito di
notevole discrezionalità politica da parte del sindaco, il
quale è chiamato tuttavia ad osservare le norme ispirate al
principio della parità di genere.
Il testo unico degli enti locali prevede che gli statuti
comunali stabiliscano norme per assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna al fine di garantire la
presenza di entrambi i sessi nelle giunte (art. 6, c. 3,
dlgs n. 267/2000) e che il sindaco nomini i componenti della
giunta, nel rispetto del principio di pari opportunità tra
donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi
(art. 46, c. 2, dlgs n. 267/2000).
Come si vede tale normativa richiede la garanzia della
presenza di entrambi i sessi nella giunta comunale, ma non
stabilisce alcuna percentuale minima. Queste disposizioni, a
seguito della L. n. 56/2014 (cd legge Delrio), sono
applicabili ora soltanto ai comuni con popolazione inferiore
a 3 mila abitanti. L'art. 1, c. 137, della legge n. 56/2014
ha previsto infatti che «nelle giunte dei comuni con
popolazione superiore a 3 mila abitanti, nessuno dei due
sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%,
con arrotondamento aritmetico».
La norma va intesa nel senso che, nel computo della
percentuale, si deve tenere conto anche del sindaco, in
quanto componente della giunta. All'indomani dell'entrata in
vigore del citato art. 1, comma 137, della legge n. 56/2014,
pertanto, tutti gli atti adottati nella vigenza di
quest'ultimo trovano nella citata norma un ineludibile
parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua
interpretazione che leghi la concreta vigenza della norma
alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le
nomine assessorili all'indomani delle elezioni.
Può quindi affermarsi che tutti gli atti di nomina delle
giunte comunali dei comuni con popolazione superiore a 3
mila abitanti adottati successivamente alla data del 08.04.2014, giorno di entrata in vigore della legge n.
56/2014 (legge Delrio), debbono essere rispettosi della
previsione di cui all'art. 1, comma 137. In situazioni
eccezionali può verificarsi che, nonostante il sindaco abbia
posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire
l'applicazione delle norme sulle pari opportunità tra uomo e
donna nella composizione della giunta comunale, non sia
riuscito a raggiungere tale obiettivo e abbia dovuto
nominare soltanto assessori di un unico sesso.
In tal caso,
la giurisprudenza amministrativa ritiene legittimo il
decreto di nomina della giunta che contenga la dimostrazione
di una preventiva e necessaria attività istruttoria, volta
ad acquisire la disponibilità allo svolgimento dell'attività
assessorile da parte di persone di entrambi i sessi e
un'adeguata motivazione della mancata applicazione del
principio di pari opportunità.
Rimane da chiedersi se siano valide le deliberazioni di
giunta adottate da un organo composto in violazione delle
disposizioni in tema di pari opportunità. Sul punto vanno
considerate due ipotesi. La prima si riferisce al caso in
cui l'atto deliberativo sia stato adottato mentre è pendente
un ricorso giurisdizionale avverso l'irregolare composizione
dell'organo.
La questione è stata risolta dalla giurisprudenza
amministrativa che si è espressa nel senso che l'organo in
carica si presume validamente costituito sino al deposito
della sentenza che ne accerta l'illegittima composizione. La
seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l'atto
deliberativo sia stato adottato da un organo la cui
irregolare composizione non sia stata impugnata. Anche in
questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla
validità degli atti adottati dalla giunta comunale in carica
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2015). |
VARI: L’usucapione conciliata non «libera».
Corte di Appello di Reggio Calabria. L’accordo non è
assimilabile alla sentenza di accertamento.
In materia di
usucapione, l’accordo stipulato in mediazione –anche
qualora fosse stato trascritto– non può essere assimilato
alla sentenza di accertamento. L’accordo conciliativo
infatti -anche dopo la riforma del 2013– non è opponibile
ai terzi che vantano titoli precedentemente trascritti o
iscritti.
Sono le conclusioni cui perviene la Corte di Appello di
Reggio Calabria con la sentenza 12.11.2015
risolvendo un dubbio interpretativo che aveva agitato
dottrina e giurisprudenza sin dall’entrata in vigore della
mediazione quale condizione di procedibilità ex lege per le
controversie relative alla usucapione.
Tali dubbi nella prima fase operativa della mediazione
avevano riguardato per lo più la trascrivibilità di tali
accordi conciliativi posto che non esisteva una norma
specifica che lo consentisse. Dubbio poi risolto con la
riforma della mediazione attuata con il decreto “del fare”
che integrando l’articolo 2643 del Codice civile aveva
inserito tra gli atti soggetti a trascrizione anche «gli
accordi di mediazione che accertano l’usucapione con la
sottoscrizione del processo verbale autenticata da un
pubblico ufficiale a ciò autorizzato».
I giudici calabresi con la sentenza in esame chiariscono che
l’introduzione di tale norma, pur avendo risolto il problema
della trascrivibilità non può consentire di giungere ad una
diversa soluzione interpretativa riguardo agli effetti che
produce la sentenza di accertamento dell’usucapione rispetto
ad un accordo conciliativo avente il medesimo oggetto.
Ed invero occorre rilevare che all’acquisto a titolo di
usucapione accertato con sentenza (che è acquisto a titolo
originario) non si applica il principio della continuità
delle trascrizioni e la trascrizione della relativa sentenza
ha valore di mera pubblicità notizia. Diversamente, invece,
per gli accordi stipulati sia pur all’esito di una
mediazione in materia di usucapione che sono da includersi
tra gli atti ed i contratti elencati assoggettati alla
trascrizione, per i quali gli effetti della pubblicità sono
improntati al principio della continuità delle trascrizioni
che sorregge il sistema della pubblicità con riferimento
agli acquisti di natura derivativa-traslativa.
Pertanto, un
accordo conciliativo non potrà avere effetti liberatori (usucapio
libertatis) sul bene usucapito, non potendosi opporre ai
terzi l’acquisto a titolo originario del bene e la
retroattività degli effetti dell’usucapione; questo accordo
attribuisce a colui che usucapisce un diritto che potrà far
valere nei confronti dei terzi nei limiti dei diritti
spettanti all’usucapito e nel rispetto delle regole sulla
continuità delle trascrizioni.
Emerge, dunque, una profonda
differenza tra gli effetti della pubblicità della sentenza
che accerta l’usucapione e quelli della pubblicità di un
“analogo” accordo conciliativo. La sentenza dei giudici
d’appello induce ad avanzare seri dubbi circa la
ragionevolezza e, quindi, in ordine alla costituzionalità,
della norma che impone la mediazione quale condizione di
procedibilità in materia di usucapione (articolo Il Sole 24 Ore del
17.12.2015). |
VARI: Da gennaio canone in bolletta. Pagamento in 10 rate mensili,
a luglio il check sull'evasione. Istruzioni in una delibera dell'Autorità dell'energia.
Sconto ai clienti con addebito automatico
Dal 01.01.2016 «voce del canone di abbonamento Rai» in
bolletta elettrica. I venditori da tale data dovranno
esporre nelle bollette dei clienti domestici del settore
elettrico dopo il totale risultante dalla bolletta, la voce
canone di abbonamento Rai. Le rate del canone di abbonamento
Rai, ai fini dell'inserimento in fattura, s'intenderanno
scadute il primo giorno di ciascuno dei mesi da gennaio ad
ottobre.
Per i titolari di utenza di fornitura di energia elettrica,
il pagamento del canone avverrà in dieci rate mensili,
esposte contestualmente alle fatture per la fornitura di
energia elettrica aventi scadenza di pagamento successiva
alla scadenza delle rate.
È con la
deliberazione 11.12.2015
n. 610/2015/R/COM di prot. che l'autorità per l'energia quantifica
l'entità di sconto della bolletta 2.0 e anche il canone di
abbonamento Rai.
Canone Rai. Ulteriori esigenze di modifica della bolletta
2.0 potrebbero tempestivamente emergere dall'approvazione
dei commi da 71 a 79 dell'articolo 1 del ddl stabilità 2016,
come approvato in prima lettura dal senato e all'esame -al
momento della pubblicazione l'11.12.2015 del
provvedimento in commento- in seconda lettura della Camera.
In particolare il ddl stabilità 2016, relativamente al
canone di abbonamento alla televisione per uso privato di
cui al regio decreto-legge 21.02.1938, n. 246,
convertito dalla legge 04.06.1938, n. 880 prevede, tra
l'altro che la detenzione o l'utilizzo di un apparecchio si
presumono nel caso in cui esista una utenza per la fornitura
di energia elettrica nel luogo in cui un soggetto ha la sua
residenza anagrafica. Gli stessi dovranno indicare nelle
bollette contenenti la voce del canone abbonamento Rai i
mesi cui si riferiscono le rate esposte in ciascuna
bolletta.
L'importo delle rate del canone sarà oggetto di
distinta indicazione nel contesto della fattura e non sarà
imponibile ai fini fiscali. In sede di prima applicazione,
avuto riguardo ai tempi tecnici necessari all'adeguamento
dei sistemi di fatturazione, nella prima fattura successiva
al 01.07.2016 saranno cumulativamente esposte tutte le
rate del canone scadute.
Bolletta elettronica. Lo sconto per la bolletta elettronica
verrà applicato a tutti i clienti serviti in regime di
tutela che, al 01.01.2016, avranno già attivato una
modalità di addebito automatico dell'importo fatturato e
avranno già attiva la modalità di emissione della bolletta
in formato elettronico nonché ai clienti che,
successivamente a tale data, soddisferanno entrambi i
suddetti requisiti.
Peraltro lo sconto dovrà essere
riconosciuto in modo continuativo al cliente finale che ha i
suddetti requisiti, anche qualora uno o entrambi i requisiti
risultino non soddisfatti per motivi non dipendenti dalla
volontà del medesimo cliente. In tutte le bollette
sintetiche emesse in formato elettronico, nelle quali verrà
applicato lo sconto l'esercente informerà il cliente che la
voce spesa per la materia energia/gas naturale comprenderà
l'applicazione dello sconto.
Come indicare lo sconto.
In fase di prima applicazione delle nuove regole relative
alla bolletta 2.0, l'esercente i regimi di tutela potrà
indicare lo sconto anche successivamente alla prima bolletta
emessa in formato elettronico, purché tale sconto verrà
indicato entro e non oltre la sesta bolletta emessa
successivamente all'01.01.2016 in caso di fatturazione con
periodicità mensile ed entro e non oltre la quarta bolletta
emessa successivamente all'01.01.2016, nel caso di
fatturazione con periodicità diversa da quella mensile e sia
comunque applicato con decorrenza dall'01.01.2016
(articolo ItaliaOggi del 17.12.2015). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Interessi legali al minimo storico.
Scende al minimo storico il saggio degli interessi legali,
fissato allo 0,2% dal 01.01.2016.
Ad annunciarlo è un decreto del ministro dell'economia,
pubblicato sulla G.U. del 15 dicembre.
La vigente normativa
(art. 2, comma 185, legge n. 662/1996) stabilisce infatti
che il ministro può modificare la misura del saggio, sulla
base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di
durata non superiore a 12 mesi e tenuto conto del tasso di
inflazione registrato nell'anno. Ma Vediamo quali effetti
concreti avrà la decisione sul fronte della previdenza.
L'art. 116, comma 15, della legge n. 388/2000 ha
disciplinato l'ipotesi di riduzione delle sanzioni civili
relativamente al mancato o ritardato versamento di
contributi, alla misura prevista per gli interessi legali.
Tale previsione è subordinata all'integrale pagamento dei
contributi dovuti. In presenza di domanda di pagamento
dilazionato, tale condizione si realizza a seguito
dell'accoglimento della domanda stessa che richiede il
rispetto dei requisiti di correntezza e regolarità dei
versamenti dovuti.
La misura dello 0,2%, di cui al decreto
in esame, si applica ai contributi con scadenza di pagamento
a partire dal 01.01.2016. Per le esposizioni debitorie
pendenti alla predetta data, tenuto conto delle variazioni
della misura degli interessi legali intervenute nel tempo,
il calcolo degli interessi dovuti dovrà essere effettuato
secondo i tassi vigenti alle rispettive decorrenze.
Il provvedimento in esame produce effetti anche con
riferimento alle somme poste in pagamento dall'Inps. In
relazione a ciò la misura dell'interesse dello 0,2% si
applica alle prestazioni pensionistiche in pagamento dal
01.01.2016
(articolo ItaliaOggi del 17.12.2015). |
VARI: Bancomat e carte di credito per caffè e parcheggi.
Cancellato il tetto a 30 euro. Nessun obbligo in caso di
oggettiva impossibilità.
Via libera all'utilizzo di bancomat e carte di credito anche
per pagare un caffè al bar o il giornale in edicola. La
commissione Bilancio della Camera ha approvato un
emendamento al ddl stabilità (prima firma Boccadutri del Pd)
che introduce l'obbligo per commercianti e professionisti di
accettare la moneta elettronica anche per piccoli importi.
Viene cancellato il tetto dei 30 euro in vigore fino a oggi.
La riformulazione della proposta di modifica approvata
prevede tuttavia che questo obbligo non trova applicazione «nei
casi di oggettiva impossibilità tecnica». L'emendamento
prevede che il ministero dell'Economia debba emanare entro
il 01.02.2016 un decreto che assicuri la corretta e
integrale applicazione del Regolamento Ue sulle commissioni,
al fine di promuove i pagamenti digitali anche per importi
minimi, vale a dire al di sotto dei cinque euro.
Tale regolamento introduce una commissione fissa dello 0,2%
per i bancomat e dello 0,3% per le carte di credito. Dal
01.07.2016 si potrà pagare con bancomat e carte di credito
anche il parcheggio nelle strisce blu attraverso i
parchimetri
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Gli impianti fotovoltaici vanno smaltiti come Raee.
Fine vita fotovoltaico da smaltire come Raee. Per gli
impianti entrati in esercizio a partire dal 01.07.2012
(impianti che beneficiano del IV e di tutti quelli che
beneficiano del V conto energia) non sarà trattenuta alcuna
quota ai soggetti responsabili degli in quanto il consorzio
cui aderisce il produttore si fa già carico dei costi di
smaltimento.
Queste le
istruzioni contenute nella guida
(14.12.2015) del Gse per la gestione e lo smaltimento dei pannelli
fotovoltaici incentivati con la quale si forniscono ai
soggetti interessati le informazioni necessarie alla
certificazione del corretto adempimento degli obblighi
imposti dalla normativa per lo smaltimento dei Raee
fotovoltaici e il metodo di calcolo della quota che il Gse
tratterà sulle tariffe incentivanti, a garanzia della totale
gestione dei rifiuti derivanti da pannelli.
La somma
trattenuta negli ultimi dieci anni di diritto all'incentivo
è determinata sulla base dei costi medi di adesione ai
consorzi previsti dal dm 05.05.2011 e dal dm 05.07.2012. L'obbligo di smaltimento permane anche alla scadenza
del periodo di incentivazione. Ne deriva che il Gse,
verificato l'avvenuto smaltimento, restituirà la quota
trattenuta al soggetto che in quel momento è titolare
dell'impianto.
Il Gse, dopo aver effettuato gli opportuni
controlli sulla documentazione presentata dal soggetto
responsabile, restituisce la quota trattenuta in forma
cautelativa, comprensiva degli interessi maturati. Per gli
impianti caratterizzati da pannelli fotovoltaici domestici
la normativa vigente stabilisce che il soggetto responsabile
del Raee fotovoltaico adempia ai propri obblighi avvalendosi
del servizio gratuito fornito dai centri di raccolta.
Per gli impianti caratterizzati da pannelli fotovoltaici
professionali il soggetto responsabile, per procedere alla
corretta gestione dei rifiuti derivanti da pannelli
fotovoltaici, deve rivolgersi agli operatori identificati
dalla normativa vigente
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Via all'anagrafe nazionale della popolazione residente.
Al via l'anagrafe nazionale della popolazione residente. Dal
14 dicembre è partita la fase di attuazione dell'anagrafe
nazionale della popolazione residente per i primi due comuni
pilota del progetto.
Le città di Cesena (97.131 abitanti) e
Bagnacavallo (16.724 abitanti), dopo aver completato il
processo di bonifica dei dati presenti fino ad oggi nelle
singole anagrafiche comunali, hanno concluso e portato a
termine il percorso di migrazione nella nuova anagrafe
centrale.
La transizione proseguirà nei primi mesi del 2016 con il
subentro degli altri 25 comuni che hanno partecipato alla
fase di sperimentazione, per un totale di circa 6,5 milioni
di cittadini coinvolti. Questo è quanto si legge nella nota
del 14.12.2015 dell'Agenzia digitale per l'Italia
sulla fase attuativa dell'anagrafe nazionale della
popolazione residente.
Le città di Milano e Roma per via
della notevole quantità di dati pur avendo partecipato alla
fase di sperimentazione completeranno il subentro nella
seconda metà del 2016. Sulla base di questa prima fase di
attuazione proseguirà la diffusione per tutti gli altri
comuni italiani grazie a un cronoprogramma che prevede il
totale completamento del processo entro la fine del 2016.
L'anagrafe unica, una volta a regime, consentirà piena
interoperabilità e standardizzazione dei dati anagrafici
nazionali e permetterà il passaggio dalle oltre 8.000 banche
dati anagrafiche dei comuni a un'unica banca dati
centralizzata elevando l'accuratezza dei risultati ed
evitando l'oneroso mantenimento delle banche dati
proprietarie
(articolo ItaliaOggi del 16.12.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Tagliando nel cruscotto.
Rc auto / Nuove indicazioni dal Viminale.
Per non incorrere in discussioni e multe in caso di
controllo stradale circa la regolare copertura assicurativa
del veicolo meglio avere al seguito più carta possibile.
Diversamente con le banche dati che non sono ancora
completamente allineate e le compagnie che prorogano le
coperture oltre al giorno di scadenza aumenta il rischio di
incorrere in sanzioni e in impicci burocratici.
Lo ha evidenziato implicitamente il Ministero dell'Interno
con la
nota 10.12.2015 n. 300/A/8593/15/101/20/21/7 di prot..
La cessazione dell'obbligo di esposizione del contrassegno
assicurativo, entrata in vigore il 19 ottobre scorso, ha
avviato una serie di riflessioni operative tra le forze
dell'ordine che hanno inevitabili ricadute anche sui
comportamenti degli automobilisti.
Se da una parte l'utente
stradale ha il beneficio di non dover più esporre sul
parabrezza il contrassegno, dall'altro sono aumentati i
rischi di essere trovati in difetto e spesso per motivazioni
assolutamente indipendenti dalla volontà dell'automobilista.
Questo perché innanzitutto le banche dati che attestano la
regolarità della copertura assicurativa non sono ancora
completamente aggiornate. Poi perché alcune compagnie
consentono una estensione della copertura assicurativa per
periodi di tempo superiori alle due settimane di rito.
Per
cercare di rimettere un po' di ordine nel settore, l'organo
di coordinamento dei servizi di polizia stradale ha diramato
una nuova istruzione operativa che innanzitutto specifica
che per circolare in regola occorre sempre avere con sé il
certificato di assicurazione da esibire alla polizia. Ma è
anche consigliabile portarsi dietro l'attestazione di
avvenuto pagamento del premio e copia del contratto,
specifica il Viminale. Perché rispetto alle indicazioni del Ced i documenti risulteranno sempre prevalenti.
Se il
certificato risulterà scaduto mentre il Ced indicherà attiva
la copertura scatterà un invito formale a esibire il
documento aggiornato. Viceversa se il Ced evidenzierà un
dato negativo mentre la documentazione esibita sarà
positiva, farà fede l'attestazione cartacea. Senza
applicazione di alcuna sanzione o invito a esibire documenti
ulteriori
(articolo ItaliaOggi del 15.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Case, timing al bonus energetico. La data di richiesta del
titolo edilizio decide l'entità d'aiuto.
Risposta a quesito Enea: l'incentivo al 35% tra il 2014 e il
2016, del 50% dal 2017.
Riconoscimento della detrazione fiscale del 35% in caso di
ristrutturazione radicale di un immobile (installando tra
l'altro un nuovo impianto termico a pompa di calore e dei
pannelli solari termici) quando la richiesta del pertinente
titolo edilizio è presentata dal 01.01.2014 al 31.12.2016.
La richiesta di detrazione per un condominio può essere
inoltrata dall'amministratore o da un tecnico abilitato
indicando il numero di unità abitative oggetto
dell'intervento ed il costo complessivamente sostenuto.
Questa alcune delle
risposte fornite da Enea in merito agli
incentivi fiscali per efficienza energetica degli immobili.
Ristrutturazioni rilevanti.
Nel caso di edifici nuovi o edifici sottoposti a
ristrutturazioni rilevanti, gli impianti di produzione di
energia termica potranno ottenere una detrazione del 35%
quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è
presentata dal primo gennaio 2014 al 31.12.2016 e del
50% quando la richiesta del pertinente titolo edilizio è
effettuata dal 01.01.2017.
Per «ristrutturazioni
rilevanti» si intendono gli edifici demoliti e ricostruiti e
quelli con superficie utile di almeno 1.000 mq ristrutturati
integralmente. Gli impianti alimentati da fonti rinnovabili
accedono agli incentivi statali previsti per la promozione
delle fonti rinnovabili, limitatamente alla quota eccedente
quella necessaria per il rispetto dei medesimi obblighi. Per
i medesimi impianti resta ferma la possibilità di accesso a
fondi di garanzia e di rotazione.
In parole povere, dal 01.06.2012 si ritiene che nel caso di edifici sottoposti a
ristrutturazioni rilevanti, il bonus del 55% sugli impianti
di produzione di energia termica debba essere riconosciuto
solamente per la parte eccedente quella obbligatoria per cui
le fonti rinnovabili termiche devono coprire almeno il 20%
dei consumi energetici stimati per acs, riscaldamento e
raffrescamento.
Condominio.
Nel caso di interventi che non comportano la sostituzione di
impianto termico la richiesta di detrazione può essere
inoltrata dall'amministratore o da un tecnico abilitato
indicando il numero di unità abitative oggetto
dell'intervento ed il costo complessivamente sostenuto. Se
gli impianti sono autonomi occorre predisporre un allegato
«A» e un allegato E per unità immobiliare.
In particolare, nell'allegato E da predisporre per ciascuna
unità immobiliare si considererà la quota parte di
intervento sia in termini dimensionali, sia in termini di
spesa, sia in termini di risparmio energetico applicando i
millesimi relativi all'intervento sostenuto.
Sul singolo appartamento se l'impianto termico esistente è
centralizzato, consigliamo di predisporre un allegato «A»
facendo riferimento, per l'involucro edilizio, al singolo
appartamento e, per l'impianto di riscaldamento, a quello
centralizzato, inoltre va predisposto l'allegato «E» per il
singolo appartamento e se l'impianto è autonomo, occorre
predisporre gli allegati «A» e «E» per il singolo
appartamento
(articolo ItaliaOggi del 15.12.2015). |
APPALTI: Appalti, sulla clausola sociale prevale l'efficienza.
Allunga il passo il disegno di legge che recepisce la
normativa comunitaria in materia di appalti (disegno di
legge Atto
Senato 1678-B, deleghe al Governo per l'attuazione delle
direttive 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 26.02.2014,
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture).
La scorsa settimana
il provvedimento è stato esaminato dalle commissioni
competenti del Senato e già nei prossimi giorni dovrebbe
approdare in Aula. Significativo è stato il passaggio presso
la Commissione lavoro di Palazzo Madama per quanto di sua
competenza. In particolare, il ddl prevede l'introduzione di
«clausole sociali volte a promuovere la stabilità
occupazionale del personale impiegato».
Il senatore Pietro Ichino, in qualità di relatore, ha sollevato qualche
perplessità circa l'inserimento in legge della cosiddetta
«clausola sociale» con riferimento agli appalti pubblici di
servizi e ai call center. Su questo punto il presidente
della commissione Maurizio Sacconi ha chiesto il parere di
Anac (Anticorruzione) e Antitrust. Anac ha risposto e
sostanzialmente ha dato ragione ai richiedenti affermando
che il riassorbimento dei lavoratori deve essere compatibile
con l'efficienza aziendale.
La Commissione lavoro del Senato, recependo il parere
espresso dall'Autorità nazionale anticorruzione, ha invitato
Parlamento, Governo e parti sociali a tener conto dei limiti
nei quali la così detta clausola sociale è praticabile negli
appalti di servizi. Secondo l'Autorità e la Commissione «il
riassorbimento dei lavoratori deve essere armonizzabile con
l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze
tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo
contratto.» Essa «non può alterare o forzare la valutazione
dell'aggiudicatario in ordine al dimensionamento
dell'impresa».
Prevale, insomma, la esigenza di garantire ai
servizi in appalto una sempre maggiore efficienza che, nel
caso dell'appaltante pubblico, significa un determinante
contributo alla spending review
(articolo ItaliaOggi del 15.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonus per la bonifica dei siti.
Dal 2 gennaio via alle domande per il credito d'imposta.
Per l'impresa che chiede incentivi per oltre 150 mila euro
obbligo di informazioni antimafia.
Dal 02.01.2016 domande al ministero dello Sviluppo
economico per ottenere il riconoscimento di un credito
d'imposta per la bonifica dei siti inquinati. La domanda va
inviata, in formato «p7m», tramite posta elettronica
certificata dell'impresa, all'indirizzo dgpicpmi.div04@pec.mise.gov.it.
Gli atti devono essere sottoscritti con firma digitale dal
titolare, dal legale rappresentante o dal procuratore
speciale dell'impresa (allegando, in quest'ultimo caso,
copia della procura e del documento di chi la rilascia). Le
imprese che richiedono agevolazioni per oltre 150 mila euro
devono trasmettere al ministero dello Sviluppo economico
anche le dichiarazioni in materia di informazioni antimafia.
Questo è quanto stabilisce il decreto direttoriale 18.05.2015 (il cui comunicato relativo al decreto è stato
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 119 del 25.05.2015) con il quale vengono fissate le modalità e i termini
di presentazione delle istanze di concessione del credito
d'imposta per le imprese sottoscrittrici di accordi di
programma nei siti inquinati di interesse nazionale e
stabilite, altresì, la procedura di prenotazione delle
risorse finanziarie per la concessione del credito
d'imposta.
Le imprese che, avendo sottoscritto accordi di
programma per la messa in sicurezza, la bonifica e la
riconversione industriale dei siti inquinati di interesse
nazionale (dm 07.08.2014), acquisiscono beni strumentali
nuovi nel periodo d'imposta in corso al 31.12.2015
(articolo 4 del decreto legge 145/2013 – c.d. «Destinazione
Italia»), possono presentare domanda per ottenere il
relativo credito d'imposta tra il 2 gennaio e il 31.12.2016.
Requisiti richiesti. Per beneficiare delle agevolazioni le
imprese devono operare nell'ambito di unità produttive
ubicate in siti Sin (siti inquinati di interesse nazionale)
e aver sottoscritto accordi di programma volti a favorire la
messa in sicurezza, la bonifica e la riconversione
industriale dei siti inquinati di interesse nazionale (dm 07.08.2014).
Quindi devono aver acquistato, o acquistare,
beni strumentali nuovi a decorrere dal periodo d'imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore
del dl 24.12.2013 e fino alla chiusura del periodo
d'imposta in corso al 31.12.2015, come disposto
dall'articolo 4 del dl n. 145/2013 («Destinazione Italia»).
Gli investimenti per i quali si richiede il credito
d'imposta possono essere avviati (inizio dei lavori di
costruzione relativi all'investimento, o primo impegno
giuridicamente vincolante a ordinare attrezzature o
qualsiasi altro impegno che renda irreversibile
l'investimento) a partire dalla data di sottoscrizione o di
adesione all'accordo di programma.
I beni devono essere
pagati esclusivamente attraverso il sepa credit transfer
e i relativi documenti di spesa devono riportare la
dicitura: «spesa di euro dichiarata ai fini della
concessione del credito d'imposta previsto a valere sul dm
07.08.2014» ed essere conservati per cinque anni dalla
fine del periodo d'imposta cui si riferiscono le spese
(articolo ItaliaOggi del 12.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
RIFORMA PA/ Madia: il Jobs act non sarà applicato
al pubblico impiego.
Le nuove regole sul contratto a tutele crescenti, con le
modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
introdotte nel settore privato con il Jobs Act, «non saranno
applicate nella Pa».
Lo ribadisce la ministra della Funzione pubblica, Marianna
Madia, che apre alla sola possibilità di intervenire sulle
norme che regolano i procedimenti disciplinari per renderli
“effettivi”.
Per la titolare di palazzo Vidoni c’è una differenza
sostanziale tra datore di lavoro pubblico e privato:
quest’ultimo, ha spiegato, «lavora con risorse proprie,
mentre lo Stato con risorse della collettività». E
quindi, secondo Madia, «se un licenziamento nella Pa ha
un vizio, la collettività vedrebbe allontanato in modo
sbagliato un lavoratore pagandogli un’indennità con soldi
pubblici. Quindi il danno sarebbe doppio». Di qui la
scelta di lasciare il “vecchio” articolo 18 per i
travet.
Tuttavia, ha aggiunto Madia, questa scelta «non significa
non sanzionare chi fa male, tutt’altro. Per i dipendenti
pubblici che fanno male ci saranno i procedimenti
disciplinari. E nella delega è presente un criterio
fondamentale per riuscire a garantire, una volta per tutte,
esiti concreti e la conclusione dei procedimenti» (e
quindi arrivare a una sanzione concreta).
Per ora, la delega Madia non è ancora stata attuata. Ma la
ministra ha assicurato «entro Natale» l’arrivo di un
primo pacchetto di provvedimenti attuativi, a partire dalla
semplificazione delle conferenze dei servizi e
dall’informatizzazione dell’Amministrazione
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.12.2015 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
VARI: Mail a strascico ko.
Stop a newsletter personalizzate. PRIVACY/ Lo afferma un provvedimento del garante.
Stop alle newsletter personalizzate, mandate senza il
preventivo consenso degli interessati e usando una mailing
compilata carpendo gusti e abitudini di chi naviga in rete.
Magari si è comprato online il biglietto di un concerto di
un certo genere musicale oppure lo si stava facendo, ma
all'ultimo c'è stato un ripensamento; e poi si cominciano a
ricevere newsletter con notizie di concerti di artisti dello
stesso genere o simili. Questo è possibile grazie a software
che analizzano la navigazione in rete e tracciano un profilo
dei gusti e delle abitudini. Ma se è tecnicamente fattibile,
non è detto che sia anche legale: anzi è illegittimo senza
il consenso dell'interessato.
È quanto deciso dal garante
privacy, con il
provvedimento
18.11.2015 n. 605,
con il quale ha vietato a una società di e-commerce
l'illecito trattamento dei dati di oltre 300 mila persone.
La società, specializzata nella vendita online di biglietti
per spettacoli teatrali, manifestazioni sportive, concerti e
di prodotti anche di marchi celebri, non potrà più
utilizzare i dati. Tra l'altro non aveva segnalato la sua
attività con la notificazione al garante (articolo 37 del
codice della privacy), non aveva fissato il termine massimo
di conservazione dei dati, che cedeva anche ad altri
operatori commerciali.
La società ora deve mettersi in regola e deve anche
informare i soggetti, ai quali i dati sono stati già ceduti,
che non possono utilizzarli senza aver prima acquisito il
consenso degli interessati
(articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015). |
APPALTI: Esclusioni dalle gare, 180 giorni per sanzionare.
Provvedimenti tardivi sono illegittimi.
Il mancato rispetto del termine dei 180 giorni per la
conclusione del procedimento sanzionatorio da parte dell'Anac
a carico di una impresa comporta l'illegittimità
dell'annotazione nel casellario e il conseguente
annullamento dell'atto.
Era avvenuto che una stazione appaltante aveva proceduto
all'esclusione dalla gara di una impresa con relativa
comunicazione all'Anac in quanto fattispecie prevista dal
codice dei contratti: la comunicazione è stata effettuata
dopo circa otto mesi, ben oltre la previsione nella delibera
dell'allora Avcp n. 1/2008 ma su questo punto i giudici non
sono intervenuti ritenendo che il ritardo «non incideva
direttamente sulla legittimità del procedimento avviato
dall'Autorità resistente in quanto la stessa delibera
prevede conseguenze specifiche in caso di ritardi nelle
relative segnalazioni da parte delle stazioni appaltanti».
Il punto rilevante riguarda il mancato rispetto del termine
di 180 giorni previsto dall'art. 29 del regolamento unico
del 26.02.2014 per la conclusione del procedimento
sanzionatorio (conclusosi con la sospensione di un mese
dalle gare): al netto dei periodi di sospensione risultava
largamente superato il termine dei sei mesi.
Su questo punto la sentenza afferma che è illegittima
l'annotazione nel casellario Anac in caso di mancato
rispetto del termine di 180 giorni e ciò sebbene questo
termine non sia espressamente previsto come perentorio. Il
Tar ha precisato che «è comunque contraddittorio fissare nel
regolamento unico del 26.02.2014 un termine di
conclusione del procedimento sanzionatorio e, poi, non
rispettare un autovincolo posto dalla stessa Autorità
procedente (che peraltro va anche inteso come posto a
garanzia dell'incolpato, in ragione della natura afflittiva
della procedura)».
Peraltro, il termine di 180 giorni, notano i giudici, è di
gran lunga superiore a quello ordinario di 30 giorni fissato
dall'art. 2 della legge n. 241 del 1990, il che rende ancor
meno giustificabile il suo mancato rispetto. Da qui
l'annullamento del provvedimento, anche se la richiesta dei
danni formulata dall'impresa, per la sua genericità, è stata
respinta
(articolo ItaliaOggi dell'11.12.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Termovalvole senza progetto.
Lombardia. Una Dgr cambia le regole.
Sul riscaldamento in
Lombardia si rischia la confusione continua.
All’origine c’è
la delibera di Giunta X/4427 del 30/11/2015, intervenendo
sull’installazione di sistemi di termoregolazione (i contabilizzatori di calore, obbligatori entro il
31.12.2016).
La norma, infatti, sembra intendere che, poiché questo tipo
di intervento non può essere equiparato all’installazione o
alla trasformazione o all’ampliamento di un impianto
termico, non è necessario il progetto ai sensi dell’articolo
5 del Dm 37/2008. Questo orientamento, però, crea parecchi
problemi.
Si pensi che l’articolo 26, comma 5, della legge
10/1991, considera l’installazione dei contabilizzatori
quale «innovazione» ai sensi dell’articolo 1120 codice
civile. Con questo termine si intendono quelle modifiche che
comportino alterazione dell’entità sostanziale o il
mutamento della originaria destinazione, in modo che le
parti comuni presentino una diversa consistenza materiale
(Cassazione civile, sentenze 12654/2006 e 15460/2002). Tale
descrizione assorbe in se il concetto di trasformazione odi
ampliamento.
Si consideri inoltre che l’impianto termico è composto dai
sistemi di produzione (caldaia), distribuzione (pompe e
tubazioni), regolazione (valvole termostatiche) ed emissione
(radiatori) del calore. L’operazione di installazione, di
fatto, prevede l’introduzione di un ulteriore sistema (la
regolazione) prima inesistente e che va anche ad incidere
sulla distribuzione.
A quanto riportato, si aggiunga che il progetto è
espressamente previsto dalla legge 10/1991 (articoli 26,
comma 3, e 28, comma 1), per cui l’impianto secondo i quali
lo stesso deve essere realizzato per contenere al massimo,
in relazione al progresso della tecnica, i consumi di
energia termica ed elettrica e deve essere depositato in
Comune, pena la sanzione amministrativa da euro 516 a 2.582.
Il progetto richiesto dalla legge 10/1991 deve essere
realizzato ai sensi del Dm 37/2008.
Insomma, sembra quindi assai incerto che una delibera di
Giunta regionale possa derogare a una legge dello Stato
italiano. Nel caso in cui ciò non fosse possibile e che sia
errata l’interpretazione della Giunta Regionale, stante
l’assenza del progetto e della conseguente dichiarazione di
conformità che l’impresa installatrice deve rilasciare al
termine dell’opera, si avrebbe un impianto non conforme alle
disposizioni di Legge.
Lo stesso Dm 37/2008 prevede che in caso di rifacimento parziale
di impianti, il progetto, la dichiarazione di conformità e
l’attestazione di collaudo ove previsto, si riferiscono alla
sola parte degli impianti oggetto dell’opera di rifacimento,
ma tengono conto della sicurezza e funzionalità dell’intero
impianto.
Una delle probabili conseguenze della delibera di Giunta
(emessa a neanche un anno dalla scadenza del termine del
31.12.2016 previsto dal Dlgs 102/2014) potrà essere la
revoca dell’incarico già affidato ai professionisti
abilitati (articolo Il Sole 24 Ore del
10.12.2015). |
ENTI LOCALI - VARI: Semafori, niente telecamere fuori città.
Anche gli impianti installati da vecchia data vanno
presidiati da agenti.
Rilevatori automatici. Dal 2010 manca la direttiva
dell’Interno per individuare i tratti extraurbani da
monitorare.
Controlli
automatici impossibili ai semafori sulle strade extraurbane:
manca una direttiva ministeriale che li disciplini. Una
mancanza che si protrae da molto tempo (oltre cinque anni),
tanto da finire in un dimenticatoio che fa prevedere che il
problema resterà a lungo irrisolto.
Una spia si è accesa casualmente il 18 novembre, quando il
ministero delle Infrastrutture ha esteso l’omologazione di
un rilevatore di velocità e di passaggio con il rosso
prodotto dalla Velocar. Il decreto dirigenziale di
estensione precisa che fuori città la funzione di controllo
automatico ai semafori è attivabile solo sui tratti dove ciò
è consentito. Una precisazione formalmente corretta, ma che
ha stupito più di un addetto ai lavori: il vincolo imposto
dal Codice della strada sulle strade extraurbane è rimasto
sempre inapplicato.
Per capire perché, bisogna ricostruire le vicende di quando
il vincolo fu imposto. Uno dei punti più pubblicizzati della
riforma del Codice (legge 120/2010) fu l’ampliamento dei
controlli automatici, aggiungendo all’articolo 201 (comma
1-bis) una serie di ulteriori infrazioni a quelle che già
dal 2003 erano rilevabili «a distanza» (cioè da apparecchi
fissi non presidiati da agenti). Per evitare una
proliferazione incontrollata di rilevatori automatici, nel
comma 1-quater fu aggiunto che tali strumenti «fuori dai
centri abitati possono essere installati ed utilizzati solo
sui tratti di strada individuati dai prefetti, secondo le
direttive fornite dal ministero dell’Interno, sentito il
ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti». Venivano
anche fissati i criteri di massima in base ai quali quei
tratti andavano individuati: tasso d’incidentalità e
condizioni «strutturali, plano-altimetriche e di traffico».
Tutto ciò è rimasto pura teoria: nessuna direttiva
ministeriale è mai stata emanata. Né lo sarà mai, se la
normativa non verrà cambiata. Il motivo che blocca tutto sta
nell’elenco delle infrazioni che la legge 120/2010 ha
aggiunto: il legislatore ha inserito anche violazioni che
sarebbe velleitario controllare con apparecchi automatici.
Basti pensare al numero dei passeggeri trasportati su moto e
motorini, alla loro postura, al fatto che usino il casco.
Oppure alla velocità non commisurata alle condizioni della
strada, a prescindere dai limiti di velocità (chi e come
potrebbe calcolare la soglia, valida per tutti, entro cui
una velocità può ritenersi commisurata?).
L’oggettiva impossibilità di rilevare in automatico certe
violazioni ha fatto sì che il ministero delle Infrastrutture
non abbia omologato o approvato alcun apparecchio e che
quello dell’Interno non abbia emanato la direttiva per i
prefetti. Ma il comma 1-quater resta formalmente in vigore,
per cui non c’è alcuna possibilità né di installare né di
mettere in funzione un rilevatore automatico su una strada
extraurbana. Nemmeno per quelle infrazioni che tecnicamente
sarebbero rilevabili e per quelle sulle quali esistono già
strumenti omologati o approvati.
Tra queste ultime c’è il passaggio col rosso, che infatti
all’interno dei centri abitati è una delle violazioni più
controllate (proprio perché molti incroci hanno sistemi
automatici). Non sembra avere alcun rilievo il fatto che la
limitazione ai tratti decisi dai prefetti sia stata
introdotta solo nel 2010: anche gli impianti preesistenti
dovrebbero essere disattivati o, al più, usati solo in
presenza di agenti (fattispecie teorica, perché i controlli
automatici servono anche a rimediare alle carenze di
personale).
In teoria, questi impianti sono pochi: la maggior parte è
sempre stata installata negli abitati. Ma spesso la
situazione di fatto delle strade è talmente caotica che non
si riesce a stabilire se un tratto sia classificato come
urbano o no. Dunque si aprono nuovi fronti di contenzioso.
Si andrà avanti così fino a quando la materia verrà
riordinata. Per ora l’unico spiraglio è nella riforma
integrale del Codice della strada. Ma la legge delega segna
il passo da due anni (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il congedo a ore esclude altri «riposi» nello stesso giorno.
No al cumulo con ulteriori permessi genitoriali fatta
eccezione per l’assistenza ai disabili.
Jobs act. Gli ultimi chiarimenti Inps sui sostegni alla
famiglia.
Il congedo
parentale a ore non può essere cumulato con altri permessi o
riposi previsti dal Testo unico sulla maternità/paternità (Dlgs
151/2001), come i riposi orari per allattamento, anche se
richiesti per bambini diversi. Può essere invece fruito
insieme con i permessi disciplinati dalla legge 104/1992 per
l’assistenza a persone disabili.
È uno dei chiarimenti
forniti recentemente dall’Inps con il
messaggio 03.11.2015 n. 6704 sul congedo
parentale a ore, reso pienamente operativo dal decreto
legislativo 80/2015, di attuazione del Jobs act.
Il messaggio Inps ha chiarito alcuni aspetti della gestione
di questa particolare declinazione del congedo parentale
previsto dall’articolo 32 del Dlgs 151/2001, in concomitanza
con la fruizione degli altri permessi o riposi di legge.
La disciplina generale
Il congedo parentale è il “permesso” che spetta a ciascun
genitore lavoratore, nei primi 12 anni di vita del bambino,
fino a un periodo massimo di sei mesi di astensione dal
lavoro (continuativo o frazionato). L’astensione complessiva
di entrambi i genitori non può comunque eccedere i dieci
mesi, salvo il caso in cui il padre lavoratore eserciti il
diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo
o frazionato non inferiore a tre mesi: in questa ipotesi il
limite complessivo dei congedi parentali dei genitori è
elevato a 11 mesi.
La possibilità di fruire del congedo anche a ore -prima
dell’intervento operato dal Dlgs 80/2015– era stata
raccolta solo da qualche contratto collettivo nazionale, e
da alcuni contratti collettivi di secondo livello.
Era stata, infatti, la legge 228/2012 a introdurre questo
istituto, in seguito al recepimento della direttiva
2010/18/Ue, fissando come presupposto applicativo la
regolamentazione della materia da parte dagli accordi
collettivi. Su questo punto, il ministero del Lavoro
(interpello 25/2013) aveva chiarito come non ci fossero
riserve di competenza tra i diversi livelli della
contrattazione, per la gestione delle modalità di fruizione
del congedo parentale su base oraria.
Questa linea è stata recepita appieno dalla nuova
formulazione dell’articolo 32, del Dlgs 151/2001: ora, però,
il legislatore ha fatto ancora un passo avanti, poiché, in
assenza di intese ad hoc, questa tipologia di congedo sarà
fruibile secondo le regole di legge. Nella pratica, in caso
di mancata disciplina da parte della contrattazione
collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di
fruizione del congedo parentale su base oraria, ciascun
genitore può scegliere in modo indifferente tra il godimento
giornaliero e quello su base oraria.
La norma precisa anche che la frizione su base oraria è
consentita in misura pari alla metà dell’orario medio
giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile
immediatamente precedente a quello nel quale ha inizio il
congedo parentale.
Preavviso di due giorni
L’unico onere del lavoratore, a parte quello di presentare
la domanda all’Inps, è quello di dare un preavviso al datore
di lavoro di almeno due giorni.
In questo ambito, è comunque auspicabile che le parti
raggiungano intese collettive, per definire nel dettaglio i
meccanismi di godimento del congedo in modalità oraria:
queste ultime potranno stabilire regole differenti rispetto
alla disciplina legale così come i criteri di calcolo della
base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore
alla singola giornata lavorativa.
Sulla cumulabilità con altri riposi o permessi, la
contrattazione collettiva può disporre regole diverse da
quelle generali. Il nuovo Ccnl degli studi professionali, ad
esempio, prevede la possibilità di cumulo del congedo
parentale in modalità oraria con i permessi disciplinati
dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del
07.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Fuori dal calcolo dell’indennità premi e tredicesima.
La gestione. I versamenti al lavoratore.
La domanda di
congedo parentale, sia fruito in modalità giornaliera, sia
in modalità oraria, deve essere presentata dal lavoratore
all’Inps prima dell’inizio del congedo, o lo stesso giorno
di inizio della fruizione: su questa regola non incidono i
termini di preavviso per la richiesta da formulare al datore
di lavoro (articolo 32, comma 3, del Dlgs 151/2001).
Infatti, a eccezione dei casi di oggettiva impossibilità, il
genitore è tenuto a dare un preavviso al datore di lavoro di
almeno cinque giorni, in caso di richiesta di congedo
parentale mensile o giornaliero e non inferiore a due giorni
in caso di congedo orario. Altrimenti, valgono le modalità
dettate dai contratti collettivi.
Ma veniamo alle regole che deve seguire il datore di lavoro,
quando riceve la domanda di congedo a ore: in particolare,
deve tenere conto dei nuovi criteri di fruizione, di computo
e di indennizzo dettati dalla
circolare 18.08.2015 n. 152 dell'Inps.
Rispetto alle prassi già in uso (congedo a giorni o a mesi),
l’introduzione della modalità oraria non modifica la durata
del congedo parentale e, pertanto, rimangono invariati i
limiti complessivi e individuali entro i quali i genitori
lavoratori dipendenti possono assentarsi dal lavoro a questo
titolo.
L’Inps ha precisato che, siccome i richiedenti possono
beneficiare del congedo parentale nelle diverse modalità
giornaliera, mensile o oraria, le giornate o mesi di congedo
parentale possono alternarsi con giornate lavorative in cui
il congedo è fruito a ore, sempre nel rispetto dei limiti
eventualmente stabiliti dalla contrattazione collettiva.
Il datore di lavoro, pertanto, deve considerare che, se la
richiesta del periodo di congedo parentale avviene su base
oraria –in presenza, quindi, nella stessa giornata, sia di
assenza oraria a titolo di congedo che di svolgimento di
attività lavorativa– le domeniche ed eventualmente i sabati,
in caso di settimana corta, non sono da considerare né ai
fini del computo né ai fini dell’indennizzo.
Per il computo del congedo su base oraria, la contrattazione
dovrebbe prevedere l’equiparazione di un monte ore alla
singola giornata lavorativa: in assenza di tale previsione,
il giorno di congedo si determina prendendo a riferimento
l’orario medio giornaliero del periodo di paga
quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a
quello nel quale ha inizio il permesso. In questo caso, il
congedo orario è fruibile in misura pari alla metà
dell’orario medio giornaliero.
L’introduzione della nuova modalità di fruizione non ha
modificato le regole di indennizzo: il calcolo va effettuato
su base giornaliera anche nel caso in cui la fruizione
avvenga in modalità oraria. Il datore di lavoro, quindi, per
conteggiare l’indennità a carico Inps deve prendere come
riferimento la retribuzione media giornaliera del periodo di
paga quadrisettimanale o mensile scaduto e immediatamente
precedente a quello nel quale ha avuto inizio il congedo
parentale.
Nella base retributiva non va computato il rateo giornaliero
relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima
mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti
accessori eventualmente erogati al genitore richiedente.
Nel flusso delle denunce Uniemens il datore deve dare
evidenza all’utilizzo da parte del lavoratore del congedo
parentale in modalità oraria, con le codifiche indicate
nella circolare Inps 152/2015 (articolo Il Sole 24 Ore del
07.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Dai vincoli nascosti un’insidia sugli edifici pubblici e
privati.
Nel perimetro tutti gli stabili con più di 70 anni.
Immobili tutelati. Limitazioni non inserite nella
pianificazione.
Non solo
edifici storici e di pregio: i vincoli culturali possono
gravare in modo automatico (e poco evidente) anche su
immobili “ordinari”, semplicemente perché costruiti più di
70 anni fa e di proprietà, ad esempio, di una fondazione o
di una Onlus. Dunque, anche sugli edifici privati (a
determinate condizioni) possono scattare tutele rafforzate
previste dal Codice dei beni culturali.
Il nostro ordinamento prevede una serie di vincoli che, a
vario titolo, possono incidere sul diritto di proprietà,
limitando o inibendo l’edificazione e lo svolgimento di
lavorazioni edilizie.
Tra i più noti, si ricordano i vincoli di carattere
paesaggistico, i vincoli culturali derivanti da
dichiarazione espressa di interesse e i vincoli di carattere
sovranazionale derivanti dall’inclusione di determinate aree
o immobili nella lista del patrimonio dell’umanità (Unesco
world heritage List). Altre limitazioni possono poi derivare
dall’inclusione degli immobili all’interno delle cosiddette
fasce di rispetto, ossia dalla contiguità del bene con
determinate infrastrutture: aeroporti, strade, cimiteri o
pozzi.
Ma mentre questi vincoli sono piuttosto semplici da
individuare perché emergono dagli atti di pianificazione
comunale e sovracomunale (piano regolatore generale, piani
paesaggistici eccetera), negli altri casi, l’identificazione
dello speciale regime di tutela di un immobile può non
essere così semplice perché non è “mediata” da strumenti di
pianificazione urbanistica, ma di fatto dettata in modo
automatico. E dunque spesso «nascosto». Questo avviene
appunto per i vincoli di tutela culturale.
Il Codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004) all’articolo 10
qualifica come beni culturali le cose immobili e mobili
appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti
pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto
pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro,
ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti,
che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico, salvo che siano opera di autore vivente o
la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, se
mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili.
Dunque il Codice tutela tutti i beni mobili e immobili che
abbiano una certa anzianità e, al tempo stesso, siano di
proprietà di determinati soggetti. E attenzione: non si
tratta solo di soggetti pubblici (Stato, Regioni, Comuni
eccetera) ma anche di altri enti o istituti pubblici (quali
le agenzie fiscali, l’Inps o le autorità portuali). E
persino di soggetti privati, a condizione che siano realtà
senza fine di lucro (fondazioni, onlus, associazioni). Tutti
gli immobili oltre i 70 anni appartenenti a questa ampia
gamma di soggetti sono vincolati.
Il vincolo però è temporaneo. I beni sono infatti tutelati,
in via preventiva e cautelare, fino a quando non sia stata
effettuata la verifica circa l’effettiva sussistenza
dell’interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico da parte degli organi ministeriali, a
seguito della quale l’interesse culturale del bene potrà
essere o meno confermato.
Ma questa tacita classificazione incide largamente sulla
circolazione di questi immobili e ha notevole rilevanza,
anche per le dismissioni e valorizzazioni del patrimonio
pubblico.
Il Codice prevede infatti che, sino all’esperimento della
verifica di interesse culturale, questi beni siano
inalienabili. Una volta terminata la verifica, si porranno
invece due possibili scenari: se il bene è effettivamente
riconosciuto come culturale, lo stesso potrà essere venduto,
ma solamente previo rilascio di una autorizzazione
ministeriale (e salvo che, in esito alla verifica, sia stato
ritenuto inalienabile). Se, per contro, il bene non è
riconosciuto come di interesse culturale, potrà essere
liberamente alienato, secondo le procedure previste per i
beni pubblici (gara e sdemanializzazione, se occorrente).
Il percorso per la dismissione e valorizzazione del
patrimonio pubblico è quindi ricco di insidie, peraltro non
lievi, dato che il Codice sanziona le alienazioni e gli atti
giuridici compiuti contro i divieti o senza l’osservanza
delle condizioni e modalità da esso prescritte, con la
nullità.
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VINCOLO CULTURALE DI LEGGE
Immobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri
enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed
istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine
di lucro, che presentano interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico e che siano opera di autore
non vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta
anni fa
Articolo 10, commi 1 e 5, Dlgs n. 42/2004
VINCOLO CULTURALE ESPRESSO
Riguarda i beni dichiarati di interesse culturale con
vincolo espresso. Per gli immobili si tratta di:
-
cose immobili e mobili che presentano interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente
importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli
indicati al comma 1 dell’articolo 10;
-
cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che
rivestono un interesse particolarmente importante
Articolo 10, comma 3, Dlgs n. 42/2004
VINCOLO PAESAGGISTICO
Se dichiarate di notevole interesse:
-
cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza
naturale, singolarità geologica o memoria storica;
-
ville, giardini e parchi che si distinguono per la loro non
comune bellezza;
-
complessi di cose immobili che compongono un caratteristico
aspetto estetico e tradizionale;
-
bellezze panoramiche.
Sono comunque di interesse paesaggistico per legge i
territori espressamente elencati all’articolo 142 del Dlgs
42/2004
Articoli 136 e 142 Dlgs 42/2004
VINCOLO UNESCO
Interessa il patrimonio culturale e quello naturale, come
definiti nella Convenzione
Convenzione di Parigi del 16.11.1972
FASCIA DI RISPETTO STRADALE
Distanza dal confine stradale da rispettare nell’aprire
canali, fossi o nell’eseguire qualsiasi escavazione, nonché
nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni o negli
ampliamenti
Codice della strada (Dlgs n. 285/1992) -
Regolamento (Dpr n. 495/1992).
FASCIA DI RISPETTO AEROPORTUALE
Distanza dal perimetro dell’aeroporto da rispettare per la
realizzazione di ostacoli
Rd n. 327/1942
FASCIA DI RISPETTO CIMITERIALE
Distanza da rispettare per costruire nuovi edifici intorno
ai cimiteri
Rd n. 1265/1934 -
Dpr n. 285/1990
FASCIA DI RISPETTO POZZI
Porzione di territorio da sottoporre a vincoli e
destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e
quantitativamente la risorsa idrica captata
Dlgs n. 152/2006
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L’autorizzazione è necessaria per ogni intervento.
Beni culturali. Il nulla osta della Soprintendenza.
Il Codice dei
beni culturali subordina l’esecuzione di opere e lavori di
qualunque genere su beni culturali all’autorizzazione del
soprintendente.
Anche il mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali
deve essere comunicato al soprintendente affinché lo stesso
verifichi la compatibilità dell’uso con le finalità di
conservazione e con il carattere storico-artistico del bene.
La realizzazione di un qualunque intervento edilizio su un
bene vincolato presuppone, quindi, il positivo esperimento
di un procedimento di valutazione da parte del
soprintendente. La disciplina dettata dal Codice è piuttosto
semplice: a seguito della presentazione del progetto, al
soprintendente è assegnato un termine di 120 giorni per
esprimere l’autorizzazione.
Questo termine può essere sospeso nel caso la soprintendenza
chieda chiarimenti o altri elementi integrativi necessari
per formare il proprio giudizio. La Soprintendenza ha
altresì la facoltà di svolgere gli accertamenti di natura
tecnica che ritenga necessari. Anche in questo caso il
termine di 120 giorni viene sospeso.
Tenuto conto della rilevanza dei valori giuridici in
discussione, il Codice non dispone che dall’eventuale
silenzio dell’amministrazione possa conseguire un automatico
effetto autorizzatorio.
Decorso infruttuosamente il termine, il richiedente può però
diffidare la soprintendenza a provvedere e, se la stessa non
dovesse azionarsi nemmeno nei 30 giorni successivi al
ricevimento della diffida, può agire avanti al competente
tribunale amministrativo, richiedendo l’accertamento
dell’obbligo di provvedere.
L’autorizzazione resta ferma per cinque anni dal rilascio.
Ma, se i lavori non iniziano entro questo termine, il
soprintendente è legittimato a integrare il titolo con nuove
prescrizioni o a variare quelle già impartite al fine di
conformare il provvedimento alle nuove conoscenze
eventualmente sopravvenute nel campo della conservazione.
La procedura di autorizzazione si inserisce nel contesto di
cui all’articolo 5 del Dpr 380/2001 e, pertanto, è lo
sportello unico per l’edilizia comunale che dovrebbe
acquisire l’autorizzazione dalla soprintendenza, una volta
ricevuta un’istanza di rilascio di titolo edilizio su un
bene culturale.
Nel caso in cui sia lo sportello unico a richiedere
l’autorizzazione alla Soprintendenza (e non, invece, nel
caso in cui il privato si dovesse rivolgere direttamente
all’amministrazione), peraltro, potrebbe risultare
applicabile l’articolo 17-bis della legge n. 241/1990,
introdotto dalla legge di riforma della Pa (la n. 124/2015),
in forza del quale l’eventuale silenzio della soprintendenza
verrebbe qualificato come assenso al progetto, sebbene in
merito possano sorgere perplessità.
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Prelazione pubblica anche dopo la vendita.
Le cessioni. Subentro garantito.
In tempi di
dismissione del patrimonio immobiliare pubblico potrebbe
sembrare incoerente, ma la vigente normativa garantisce allo
Stato la facoltà di subentrare agli acquirenti dei beni
culturali, comprandoli, in via di prelazione, allo stesso
prezzo indicato nell’atto di vendita.
Gli articoli 59 e seguenti del Codice dei beni culturali (D.lgs. n. 42/2004), disciplinano in dettaglio la procedura
speciale. La prelazione presuppone l’esistenza di un negozio
traslativo del bene culturale, già perfezionato, efficace e,
tuttavia, subordinato alla condizione sospensiva del mancato
esercizio del diritto di prelazione.
Il procedimento ha inizio con la denuncia di avvenuta
alienazione alla quale deve provvedere, entro trenta giorni
dall’atto, l’alienante (o l’acquirente, in caso di
trasferimento nell’ambito di procedure di vendita forzata o
fallimentare o in forza di sentenza ovvero l’erede o il
legatario, in caso di successione a causa di morte).
La denuncia è presentata al soprintendente del luogo dove si
trovano i beni e deve contenere l’identificazione e
sottoscrizione delle parti, con il relativo domicilio,
l’identificazione dei beni, oltre a natura e condizioni
dell’atto di trasferimento.
Il ministero può esercitare la prelazione entro 60 giorni
dal ricevimento della denuncia, mediante provvedimento
espresso da notificare all’alienante e all’acquirente.
La proprietà del bene passa allo Stato, che sarà tenuto a
corrispondere all’alienante il medesimo prezzo stabilito
nell’atto di compravendita, dalla data dell’ultima notifica.
L’esercizio della prelazione, ovviamente, caduca la vendita
presupposta. Il Codice, peraltro, prevede che, in via
subordinata e sussidiaria rispetto allo Stato, la prelazione
possa essere esercitata anche da parte della regione e degli
altri enti pubblici territoriali nel cui ambito si trova il
bene. Una volta ricevuta la denuncia, il soprintendente ne
deve difatti dare immediata comunicazione a questi soggetti.
Se interessati, regione e gli altri enti pubblici
territoriali possono formulare al ministero una proposta
motivata di prelazione, sostenuta da idonea copertura
finanziaria, che indichi le finalità proposte per la
valorizzazione culturale del bene.
Il ministero può dunque rinunciare all’esercizio della
prelazione e trasferirne la facoltà all’ente interessato.
L’ente assume quindi il relativo impegno di spesa, adotta il
provvedimento di prelazione e lo notifica ad alienante ed
acquirente entro sessanta giorni dalla denuncia.
Anche in questo caso, la proprietà del bene passa all’ente
che ha esercitato la prelazione dalla data dell’ultima
notifica.
Tale complesso di norme, seppur in questo periodo sia
raramente attuato, completa la tutela dei beni culturali
sotto il profilo della ingerenza pubblica nella libera
circolazione degli stessi. Si tratta di uno strumento utile
a garantire il conseguimento di rilevanti interessi
pubblici, quali la conservazione e la fruizione collettiva
dei beni che costituiscono l’imponente patrimonio culturale
del nostro Paese (articolo Il Sole 24 Ore del
07.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: E-mail, il garante ha la meglio. Il protocollo del 2007
resiste alla riforma del Jobs Act.
Una soluzione alla diatriba tra giudici penali civili sul
controllo della posta elettronica.
Tira e molla sul controllo della mail box del dipendente: se
i giudici penali sono di manica larga e lasciano aperta la
porta al datore di lavoro, escludendo il reato di
intercettazione abusiva della corrispondenza elettronica, i
giudici civili sono più severi sulla utilizzazione delle
informazioni raccolte dall'account di posta elettronica per
motivare il licenziamento.
La terza via è quella del garante
della privacy, che fin dal 2007 ha fissato il protocollo
dell'uso della posta elettronica in azienda e dei controlli
del datore di lavoro. Il protocollo resiste anche al Jobs Act, che ha semplificato le procedure di uso di strumenti di
controllo indiretto, ma non ha abrogato i limiti posti dalla
legislazione sulla protezione dei dati. Certo semplificare
la possibilità di ricorrere ad apparecchi di controllo
potrebbe aprire le porte a chi ne vuole abusare: ma per
controlli illeciti si corre sempre il rischio di controlli e
sanzioni, anche se a posteriori.
In effetti l'articolo 23
del decreto legislativo 151/2015 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale n. 221 del 23.09.2015) ha riscritto
l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e ha fissato
seguenti principi: sono vietati strumenti di controllo
mirato a distanza dei lavoratori. Secondo: sono ammessi
impianto audiovisivi e dispositivi di controllo indiretto
solo per esigenze organizzative e produttive, per la
sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio
aziendale. Gli apparecchi di controllo indiretto per regola
generale hanno bisogno di un consenso dei sindacati o di una
autorizzazione del ministero del lavoro o in sede locale
della Direzione territoriale del Lavoro. Terzo punto: fanno
eccezione alla necessità della intesa
sindacale/autorizzazione amministrativa gli strumenti
utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione
lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e
delle presenze.
Il datore di lavoro, quindi, usa e può far
usare, senza dovere concordare niente con nessuno,
dispositivi di controllo indiretto se sono strumenti di
lavoro. Quarto punto: le informazioni raccolte con strumenti
e dispositivi di controllo indiretto sono utilizzabili a
tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (anche quelli
disciplinari) a condizione che sia data al lavoratore
adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e
di effettuazione dei controlli e nel rispetto del codice
della privacy (dlgs 196/2003).
Il risultato è che, essendo
strumento di lavoro, l'introduzione della posta elettronica
da parte del datore di lavoro non necessita di alcuna intesa
sindacale/autorizzazione; il datore di lavoro può
raccogliere informazioni dall'account di posta elettronica,
ma può farlo solo previa informativa al lavoratore e
rispettando le prescrizioni imposte dal provvedimento del 01.03.2007 del Garante della privacy.
Il provvedimento del
garante è stato adottato ai sensi dell'articolo 154 del
Codice della privacy e che sarà applicato dal garante stesso
in eventuali decisioni su reclami presentati dai lavoratori;
si noti ancora che l'inosservanza delle decisioni su reclami
che impongono divieti o blocco dei trattamenti costituisce
reato, punibile con la reclusione fino a due anni (articolo
170 Codice della privacy).
Pertanto per rispettare il nuovo
articolo 4 dello Statuto dei lavoratori bisogna rispettare
il provvedimento del 01.03.2007 del Garante della
privacy. A meno che non si sostenga che l'uso delle
informazioni ricavabili dalla posta elettronica sia stato
completamente liberalizzato a ogni fine connesso con il
rapporto di lavoro, dal momento che il Jobs Act richiama
solo le norme del codice della privacy (d'altra parte cita
solo il dlgs 196/2003): le linee guida del garante della
privacy non hanno, infatti, rango formale di norma primaria.
Un'interpretazione di questo tipo appare troppo radicale e
poco in linea con lo stesso codice della privacy, per lo
meno rispetto ai principi dell'articolo 11 del dlgs
196/2003. Se, invece, il richiamo dell'ultimo comma del
nuovo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori significa
richiamo anche del provvedimento 01.03.2007 del garante
della privacy, allora il datore di lavoro deve applicare le
seguenti prescrizioni e osservare i seguenti divieti: il
datore di lavoro deve specificare con un disciplinare
interno le modalità di utilizzo della posta elettronica,
indicando chiaramente le modalità di uso degli strumenti
messi a disposizione e se, in che misura e con quali
modalità vengano effettuati controlli. Senza la policy
aziendale, il lavoratore matura l'aspettativa di
confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione.
Il datore deve individuare preventivamente (anche per
tipologie) a quali lavoratori è accordato l'utilizzo della
posta elettronica.
Altre precauzioni concernono: la messa a
disposizione di indirizzi di posta elettronica condivisi tra
più lavoratori, eventualmente affiancandoli a quelli
individuali; l'eventuale attribuzione al lavoratore di un
diverso indirizzo destinato a uso privato; la messa a
disposizione di funzionalità che consentano di inviare
automaticamente, in caso di assenze programmate, messaggi di
risposta che contengano le «coordinate» di altro soggetto o
altre utili modalità di contatto dell'istituzione presso la
quale opera il lavoratore assente; a possibilità di
conoscere il contenuto dei messaggi di posta elettronica in
caso di assenza improvvisa o prolungata e per improrogabili
necessità legate all'attività lavorativa, a mezzo di un
altro lavoratore delegato a verificare il contenuto di
messaggi e a inoltrare al titolare del trattamento quelli
ritenuti rilevanti per lo svolgimento dell'attività
lavorativa. Di tale attività dovrebbe essere redatto
apposito verbale e informato il lavoratore interessato alla
prima occasione utile. I terzi che scambiano corrispondenza
elettronica devono poter sapere che le risposte potranno
essere conosciute nell'organizzazione di appartenenza del
mittente.
Infine il datore di lavoro è soggetto a stringenti
divieti: sono banditi sistemi hardware e software che mirano
al controllo a distanza di lavoratori, svolti mediante. Per
la posta elettronica sono vietate la lettura e la
registrazione sistematica dei messaggi o dei relativi dati
esteriori, al di là di quanto tecnicamente necessario per
svolgere il servizio email
(articolo ItaliaOggi Sette del
07.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il Sistri cambia ancora pelle. In arrivo semplificazioni e
una applicazione estesa.
Lavori in corso, a un mese dall'entrata in vigore delle
sanzioni per il tracciamento rifiuti.
Meno burocrazia informatica ma più rifiuti sottoposti al
sistema di controllo telematico.
Queste le novità che, in
base ai lavori istituzionali in corso, interesseranno il
Sistri dal 2016.
A meno di un mese dalla data del 01.01.2016, termine iniziale della sanzionabilità (salvo proroghe
dell'ultimo minuto) dell'omesso tracciamento telematico dei
residui e dell'insediamento del nuovo gestore del sotteso
servizio informatico, le ultime indicazioni sul futuro del
sistema arrivano da due atti: lo schema di decreto
legislativo di snellimento generale dell'ordinamento
giuridico, trasmesso al Senato lo scorso 26.11.2015,
che incide sul sistema regolamentare Sistri in ragione della
«prossima entrata in vigore del nuovo sistema semplificato»;
la risposta governativa fornita il precedente 19.11.2015 alla Commissione ambiente della Camera, nell'ambito di
una interrogazione parlamentare e dalla quale emerge anche
il prossimo allargamento del Sistri a ulteriori tipologie di
rifiuti, dunque a nuovi soggetti della filiera.
Future semplificazioni burocratiche. Le indicazioni
istituzionali in materia appaiono annunciare l'adozione del
decreto ministeriale previsto dall'articolo 188-bis del dlgs
152/2006 e volto allo snellimento e ottimizzazione del
Sistri. Semplificazioni che dovrebbero seguire,
plausibilmente, le linee guida emerse dall'incontro del 15.04.2015 tra Minambiente, Consip spa (centrale di
committenza nazionale per gli acquisti della p.a.) e i
rappresentanti del Tavolo di concertazione e monitoraggio
Sistri (ex articolo 11, dl 101/2013), le quali disegnano una
razionalizzazione informatica fondata su soluzioni
alternative alle attuali «chiavette usb» e «black box» (da
sostituire, rispettivamente, con certificati virtuali ove
necessario e tachigrafi digitali) e una rivisitazione «user
friendly» dell'interfaccia telematica Sistri (con la
possibilità di compilazione delle schede rifiuti in modalità
off-line e la piena interattività con i software gestionali
aziendali).
Previsto allargamento campo di applicazione. Alla base
dell'annunciato ampliamento del Sistri appare essere
l'articolo 188-ter del dlgs 152/2006, ove si prevede (comma
3) l'individuazione tramite Dm Ambiente di ulteriori
categorie di soggetti cui è necessario estendere il Sistri.
Categorie da rintracciare, nel tenore dell'articolo 11 del
dl 101/2013 (che ha introdotto la citata previsione nel
Codice ambientale), «nell'ambito degli enti e delle imprese
che effettuano il trattamento dei rifiuti, di cui agli
articoli 23 e 35 della direttiva 2008/98/Ce», dunque tra i
gestori di rifiuti anche non pericolosi. Ulteriori «indizi»
sia della semplificazione che dell'allargamento del Sistri
appaiono emergere dal citato dlgs in itinere sullo
snellimento dell'ordinamento giuridico, laddove si prevede
l'abrogazione del secondo periodo, comma 2, articolo 11 del
dl 101/2013 che dispone l'adozione di un dm Ambiente
disciplinante le modalità di applicazione «sperimentale» del
sistema alla catena di raccolta, trasporto e trattamento
professionali dei rifiuti urbani pericolosi.
Nuovo gestore del servizio. Come accennato, è previsto per
nuovo anno, sulla base di quanto stabilito dal comma 9-bis
dell'articolo 11 del citato dl 101/2013, il passaggio di
consegne dal vecchio al nuovo gestore del sistema
informatico statale che governa il Sistri.
E proprio
l'individuazione del nuovo concessionario da parte della Consip alla luce della relativa gara europea in itinere
dovrebbe inaugurare, come suggerito anche dal citato
documento del 15.04.2015, la stagione delle
semplificazioni; anche se sull'effettiva contestualità delle
due novità, passaggio di consegne e semplificazioni, dubbi
sono stati sollevati da diverse associazioni di settore (si
veda ItaliaOggi del 26/11/2015).
Il contributo Sistri. Dagli ultimi passaggi istituzionali
appare emergere anche la conferma dell'obbligatorietà del
contributo posto dal dm 52/2011 a carico degli operatori per
il funzionamento del Sistri.
Nella citata risposta
governativa del 19.11.2015 alla sottesa interrogazione
parlamentare viene infatti sottolineato come, salvo futuri
ed eventuali interventi legislativi di compensazione ad hoc
per alcune annualità pregresse, esso contributo in base
all'attuale assetto normativo non ha comunque natura di
corrispettivo per un servizio, per cui non ne può essere
richiesto il rimborso in mancanza della prestazione cui si
riferisce (affermazione, quest'ultima, in linea con quanto
già espresso dal Minambiente nell'ambito dell'audizione 16.05.2012 presso la Commissione parlamentare d'inchiesta
sui rifiuti).
Lo stato dell'arte: soggetti obbligati. In base al vigente dlgs 152/2006 e provvedimenti satellite il Sistri è
attualmente obbligatorio per i seguenti soggetti:
enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali
pericolosi (a eccezione, purché non stocchino i propri
rifiuti, dei soggetti esonerati dal dm Ambiente 24.04.2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo
professionale, di trattamento, recupero, smaltimento,
commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi;
nuovi produttori che trattano o generano rifiuti pericolosi;
operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti
speciali pericolosi; comuni e imprese di trasporto di
rifiuti urbani della Regione Campania.
Gli obblighi. Tali soggetti devono iscriversi al sistema:
(ex dm 52/2011) prima di avviare le attività o al
verificarsi dei presupposti che li sottopone alla
disciplina; (ex dlgs 152/2006) in caso di produzione
accidentale di rifiuti pericolosi, entro tre giorni
lavorativi dall'accertamento di tale caratteristica.
Il
tracciamento dei rifiuti impone invece, secondo tempistiche,
modalità e strumentazione ex citato dm 52/2011 (tra cui
chiavette usb e black box): comunicazione al server Sistri
di quantità e qualità dei rifiuti prodotti, gestiti, oggetto
di commercio; conservazione dei file generati dal sistema;
trasporto dei rifiuti unitamente alla copia cartacea della
scheda «Area Movimentazione Rifiuto» generata dal sistema;
monitoraggio satellitare dei mezzi di trasporto rifiuti;
videosorveglianza di discariche e impianti incenerimento.
Sanzioni per omesso contributo. Dallo scorso
01.04.2015
sono applicabili le sanzioni previste dai commi 1 e 2
dell'articolo 260-bis del dlgs 152/2006, che puniscono (a
titolo amministrativo e con importi fino a 93 mila euro)
l'omessa iscrizione al Sistri così come il mancato pagamento
del contributo.
Sanzioni per omesso tracciamento. Dal
01.01.2016
scatterà invece, salvo proroghe, l'applicabilità delle
sanzioni previste dai commi dal 3 al 9 dello stesso articolo
260-bis per la violazione delle citate regole operative di
tracciamento rifiuti. Il 31.12.2015 scade infatti la
vigenza del c.d. «regime transitorio del doppio binario»
(previsto dal dl 192/2014) in virtù del quale i soggetti
obbligati al Sistri devono continuare a effettuare anche il
tradizionale tracciamento dei rifiuti con la parallela sanzionabilità, però, delle sole violazioni di quest'ultimo.
A una eventuale proroga dell'ultimo minuto potrebbe far
tuttavia pensare quanto emerge dal resoconto stenografico
della seduta del Senato 15.10.2015 n. 524, laddove si
accenna alla possibile necessità di un «periodo di rodaggio»
per la nuova configurazione Sistri che esordirà con l'atteso
rinnovo della gestione del sistema
(articolo ItaliaOggi Sette del
07.12.2015). |
LAVORI PUBBLICI: La Soa può non essere tricolore. Sarà eliminato l'obbligo di
avere sede legale in Italia. LEGGE EUROPEA 2015/ Il cdm ha approvato il ddl. Sanata la
procedura di infrazione.
Sarà eliminato l'obbligo per le società organismo di
attestazione (Soa) di avere la sede legale in Italia.
È
quanto prevede l' articolo 4 della bozza di disegno di legge
europea per il 2015 (approvata dal consiglio dei ministri di
ieri) relativo alla disciplina delle Società organismi di
attestazione (Soa), norma che intende sanare la procedura di
infrazione 2013/4212, giunta allo stadio di messa in mora,
avviata dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia
per aver imposto a tali società l'obbligo di avere la
propria sede legale nel territorio della Repubblica.
La vicenda prende le mosse dal ricorso al Tar presentato da
Ri.se. spa che aveva contestato la norma del dpr n.
207/2010 che impone che la sede legale delle Soa debba
essere nel territorio italiano.
Il Tar del Lazio aveva
accolto il ricorso affermando che il dpr n. 207/2010 (il
regolamento del codice dei contratti pubblici), nella parte
in cui impone che la sede legale delle Soa deve essere nel
territorio italiano, introduce una prescrizione
ingiustificata, gravosa e in contrasto con i preminenti
interessi della tutela della concorrenza.
I giudici romani
avevano precisato anche che la disposizione regolamentare
integra un'ipotesi di requisito discriminatorio ai fini
dell'applicazione dei principi di stabilimento e libera
prestazione dei servizi, in violazione della direttiva
2006/123/Ce.
La presidenza del consiglio impugnò al Consiglio di stato la
pronuncia di primo grado e i giudici di palazzo Spada,
pregiudizialmente chiesero alla Corte di giustizia di
conoscere la compatibilità comunitaria della norma italiana.
Il giudice europeo (causa pregiudiziale C-593/13) con
pronuncia del 16.06.2015 ha successivamente stabilito
che l'obbligo di sede legale sul territorio di uno stato
membro contrasta con i principi del trattato sul
funzionamento dell'Ue relativi alla libertà di stabilimento
(articolo 49 trattato Ue) e alla libera prestazione di
servizi (articolo 56 trattato Ue).
In particolare, la Corte ha stabilito che non è possibile
applicare alle Soa l'articolo 51, primo comma, trattato Ue,
il quale esclude dalle norme sulla libertà di stabilimento
le attività in cui si faccia esercizio di pubblici poteri, e
che l'articolo 14 della direttiva 2006/123/Ce, relativa ai
servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel
senso che «esso osta a una normativa di uno stato membro in
forza della quale è imposto alle società aventi la qualità
di organismi di attestazione di avere la loro sede legale
nel territorio nazionale».
La disposizione contenuta nel
disegno di legge risolve la questione modificando, quindi,
l'articolo 64. comma 1, del dpr 05.10.2010, n. 207, al
fine di prevedere per le Soa l'obbligo di avere in Italia
una sede qualsiasi, anche solo operativa
(articolo ItaliaOggi del 05.12.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Appalti, il ricorso ampliato moltiplica anche la
tassa. Circolare. Il contributo
unificato va pagato sui motivi aggiunti.
Resta a caro prezzo il peso del contributo
unificato per i ricorsi amministrativi a Tar, Consiglio di
Stato, Consiglio di giustizia amministrativa:
lo sottolinea la
circolare 23.10.2015 n. 20766 di prot. del
Segretariato giustizia amministrativa.
Gli orientamenti suggeriti ai dirigenti delle segreterie
giurisdizionali sono infatti di lasciare inalterati i
criteri di valutazione posti da una precedente circolare
(18.10.2011), che consentiva la moltiplicazione del carico
fiscale per ogni motivo aggiunto al ricorso iniziale.
Poco spazio è quindi dato alla pronuncia della Corte di
giustizia del 06.10.2015 (C-61/14), generata da un
contenzioso su un appalto di servizi che risultava
assoggettato a oltre 10.000 € di “tassa d’ingresso”.
La Corte aveva escluso che possa ostacolare la concorrenza e
l’accesso alla giustizia, in tema di appalti, l’obbligo di
versare contributi iniziali fino a 9.000 euro, poiché la
soglia invalicabile per il pagamento dei contributi di
accesso alla giustizia va individuata nel 2% del valore
dell’appalto. Ma se rimane elevato il contributo iniziale,
la Corte stessa ha sottolineato che un contributo non può
moltiplicarsi con il progredire del ricorso, man mano che si
impugnino ulteriori fasi o atti, applicando il Tu 30.05.2002
n. 115 (sulle spese di giustizia).
La circolare dello scorso ottobre, richiamando i punti 71 e
seguenti della sentenza C-61, conferma la possibilità di
imporre un contributo supplementare per ogni atto autonomo
rispetto al ricorso introduttivo del giudizio, quando si
verifica una «considerevole» estensione dell’oggetto
della controversia perché l’ampliamento del processo
comporta un aggravio per il sistema giudiziario. Non ha
quindi rilievo la circostanza che, impugnando l’esito di una
gara, la finalità del ricorrente sia quella di ottenere un
determinato appalto (il cosiddetto “bene della vita”),
perché il contributo è ancorato al maggior peso nella
gestione del processo.
Pagano il contributo i motivi aggiunti che hanno un oggetto
effettivamente distinto da quello del ricorso introduttivo,
che cioè comportano un ampliamento considerevole
dell’oggetto della controversia già pendente. Si tratta,
secondo la circolare della giustizia amministrativa, di
condizioni alternative, perché scatta un nuovo pagamento sia
nel caso di motivi aggiunti con un oggetto diverso e nuovo
(rispetto al ricorso introduttivo) sia nel caso di mero
ampliamento -sia pur considerevole- del medesimo oggetto
della controversia.
Pertanto, ogni volta che, con i motivi aggiunti, si impugni
un provvedimento ulteriore rispetto al primo si è in
presenza di un distinto ed ulteriore “oggetto” del
giudizio. Il considerevole ampliamento dell’oggetto non si
verifica, invece, quando il ricorrente si limita a
denunciare ulteriori illegittimità nei confronti di atti già
al vaglio del giudice.
Di fatto, quindi, la circolare del 06.10.2015 conferma
quella del 18.10.2011 e collega a ogni fase del giudizio il
rischio di un aggravio fiscale. La responsabilità
dell’esazione spetta alle segreterie degli organi
giurisdizionali, mentre la giurisdizione sul punto è delle
commissioni tributarie.
Queste ultime, tuttavia, avranno difficoltà a interpretare
le liti dei giudici amministrativi, distillandone il
contenuto per comprendere se i motivi aggiunti amplino o
meno in modo considerevole l’oggetto del giudizio:
oltretutto, sono spesso le stesse sentenze amministrative a
chiarire se il contributo vada o meno pagato (Consiglio di
Stato, 5128/2015), lasciando quindi poco spazio ai giudici
tributari (articolo Il Sole 24 Ore del
04.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Ddl
appalti, clausole sociali contro il diritto comunitario.
Possibile violazione della concorrenza e
del diritto comunitario per la nonna sulle clausole sociali
del disegno di legge delega sugli appalti pubblici.
E' quanto paventato dalla commissione lavoro del senato che,
nell'esame del disegno di legge delega sugli appalti
pubblici (cui sono stati presentati diversi emendamenti in
commissione lavori pubblici, ma non da parte dei relatori),
ha chiesto all'Autorità nazionale anticorruzione e
all'Autorità garante della concorrenza e del mercato un
parere sulla norma prevista all'articolo 1, comma 1, lettera
ddd) del disegno di legge.
La disposizione prevede, come criterio direttivo, di
procedere alla valorizzazione delle esigenze sociali e di
sostenibilità ambientale, mediante introduzione di criteri e
modalità premiali di valutazione delle offerte nei confronti
delle imprese che, in caso di aggiudicazione, si impegnino,
per l'esecuzione dell'appalto, a utilizzare anche in parte
manodopera o personale a livello locale ovvero in via
prioritaria gli addetti già impiegati nello stesso appalto.
L'obiettivo della norma è la stabilizzazione occupazionale,
ma su questo obiettivo il presidente della Commissione
lavoro (l'ex ministro Maurizio Sacconi) ha eccepito alcuni
profili di incompatibilità con le regole europee.
L'eccezione che è stata fatta dalla Commissione è che il
vincolo per l'assunzione di tutti i dipendenti del contratto
di appalto in essere derivi dalla legge e non dal contratto
collettivo nazionale. Ma anche i servizi tecnici del Senato
hanno eccepito dubbi di compatibilità Ue. le direttive da un
lato fanno riferimento a «criteri quali gli aspetti
qualitativi, ambientali e/o sociali, connessi all'oggetto
dell'appalto pubblico» (articolo 67, paragrafo 2, della
direttiva n. 2412014); dall'altro («considerando» n.
97 della direttiva 24) si specifica che la condizione di un
collegamento con l'oggetto dell'appalto esclude criteri e
condizioni riguardanti la politica aziendale generale, che
non può essere considerata un fattore che caratterizza il
processo specifico di produzione o fornitura dei lavori,
delle forniture o dei servizi oggetto dell'acquisto.
Le amministrazioni aggiudicatrici non dovrebbero pertanto
avere la facoltà di imporre agli offerenti di attuare una
determinata politica aziendale di responsabilità sociale o
ambientale. E il criterio di delega potrebbe proprio su
questo punto non reggere a censure di incompatibilità con il
diritto europeo
(articolo ItaliaOggi del
03.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti,
nuovi formulari. Per bandi e avvisi sopra la soglia
comunitaria. Modelli opzionali da
domani. Saranno obbligatori dal 18.04.2016.
Dal 2 dicembre le stazioni appaltanti
potranno scegliere se usare i nuovi formulari Ue per la
pubblicazione di bandi sopra la soglia comunitaria.
L'utilizzo dei nuovi formulari sarà invece obbligatorio per
gli Stati membri a decorrere dal 18.04.2016, termine ultimo
per il recepimento delle nuove direttive Ue in materia di
appalti e concessioni.
E con il regolamento Ue dell'11.11.2015 n. 1986 (pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea L 296/1 del
12.11.2015) che vengono stabiliti i nuovi modelli e
formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore
degli appalti pubblici sopra soglia comunitaria.
Il regolamento n. 1986 del 2015 entrerà in vigore il
02.12.2015 (20 giorni dalla pubblicazione della gazzetta
ufficiale dell'Unione europea). Il precedente regolamento Ue
n. 842/2011 è abrogato con effetto dal 18.04.2016.
In conformità alla disciplina generale in materia di
efficacia degli atti normativi della comunità europea, tali
formulari, in quanto contenuti in un regolamento
comunitario, dovranno intendersi immediatamente applicabili
nell'ordinamento italiano, senza che sia necessario alcun
atto di recepimento da parte delle istituzioni nazionali.
Nuove soglie comunitarie.
Dal 01.01.2014 sono in vigore le nuove soglie comunitarie
per gli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi
stabilite con il regolamento (Ue) n. 1336/2013 della
commissione del 13.12.2013 (pubblicato sulla gazzetta
ufficiale dell'unione europea del 14.12.2013 - L 335/17) che
modifica le direttive 2004/17/Ce, 2004/18/Ce e 2009/81/Ce
del parlamento europeo e del consiglio riguardo alle soglie
di applicazione in materia di procedure di aggiudicazione
degli appalti.
Le soglie comunitarie per gli appalti pubblici di lavori,
servizi e forniture sono fissate dal 01.01.2014 a 5.186.000
euro per i lavori nei settori ordinari, speciali e nella
difesa, a 207 mila euro per i servizi e le forniture nei
settori ordinari, a 134 mila euro per i servizi e le
forniture nei settori ordinari quando le gare sono bandite
dalle amministrazioni statali e a 414 mila euro per i
servizi e le forniture nei settori speciali (ad esempio
servizi energetici, idrici o di trasporto) e nella difesa.
Quando l'importo degli appalti è uguale o supera le soglie
sopra indicate , la gara deve essere aperta a tutti gli
operatori europei. Perché ciò sia fattibile, bisogna
pubblicare il bando sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione
europea seguendo degli standard comuni.
Nuovi e vecchi formulari.
A partire dal 02.12.2015, le stazioni appaltanti potranno
scegliere se utilizzare i vecchi formulari contenuti nel
regolamento 842/2011 o iniziare a utilizzare quelli nuovi
contenuti nel regolamenti n. 1986 /2015.
A partire da tale data le stazioni appaltanti potranno
utilizzare i nuovi modelli per la pubblicazione in Gazzetta
ufficiale dell'unione europea dei bandi e degli avvisi per
le procedure d'appalto di lavori, forniture e servizi,
concorsi di progettazione, per gli enti erogatori nei
settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti, dei servizi
postali, della difesa e sicurezza e delle concessioni.
Dal 18.04.2016, invece, l'utilizzo dei nuovi modelli diverrà
obbligatorio perché in linea con le nuove direttive europee
sugli appalti pubblici (2014/23/Ue e 2014/25/15e)
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Non ha natura "precaria"
il manufatto realizzato consiste in un corpo di fabbrica
edificato con blocchetti di tufo con copertura di travi di
legno e lamiera zincata, destinato a pollaio, perimetrato da
una rete metallica di recinzione infissa in un cordolo
anch’esso realizzato con blocchetti di tufo.
In materia edilizia, la natura precaria di un manufatto non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve
risultare dalla intrinseca destinazione materiale della
stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando
peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il mancato
ancoraggio al suolo.
Nel caso di specie, il fatto che l’opera fosse adibita
abitualmente al ricovero degli animali (pollaio) esclude,
con tutta evidenza, la natura precaria della stessa ed il
fatto che l’imputato fosse l’unico tra i comproprietari
dell’immobile, ove insisteva il manufatto abusivo, ad
utilizzarlo induce fondatamente a ritenere che egli fosse il
committente dell’opera, stante la diretta utilizzazione
della stessa da parte sua e l’assenza in zona degli altri
comproprietari.
---------------
1. Il ricorso è fondato, per quanto di ragione, sulla base
del secondo motivo. Il primo motivo è invece infondato.
2. Secondo la Corte d’appello, dalla documentazione
fotografica in atti e dalle deposizioni dei testi autori del
sopralluogo effettuato in data 10.05.2011, il manufatto
realizzato, in assenza del permesso di costruire, consiste
in un corpo di fabbrica edificato con blocchetti di tufo con
copertura di travi di legno e lamiera zincata, destinato a
pollaio, perimetrato da una rete metallica di recinzione
infissa in un cordolo anch’esso realizzato con blocchetti di
tufo.
È stato pertanto escluso trattarsi di un’opera definibile
come precaria in quanto non affatto destinata ad esigenze
temporanee (non essendo tali quelle sottese a procurare agli
animali di cortile un idoneo riparo) ma altresì realizzata
con modalità e materiali non idonei ad essere sollecitamente
eliminati e denotanti, per converso, la finalizzazione del
manufatto ad esigenze non contingenti e limitate nel tempo.
Quanto alla attribuibilita all’imputato dell’opera in
questione, è stato posto in evidenza che il teste D. abbia
riferito che il ricorrente è l’unico dei comproprietari
dell’azienda, cui il pollaio è annesso, ad occuparlo
stabilmente in quanto tutti gli altri contitolari “non
sono presenti sul territorio” a causa di una
problematica attinente proprio al possesso della menzionata
azienda che il prevenuto rivendica in via esclusiva.
3. Pertanto, con logica ed adeguata
motivazione, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto
la non precarietà dell’opera e dunque la necessità che, per
la sua realizzazione, fosse necessario il permesso di
costruire in considerazione della natura dell’intervento
realizzato e ha altrettanto correttamente attribuito il
fatto di reato all’imputato essendo costui l’unica persona
ad avere un rapporto permanente con i luoghi in cui l’abuso
è stato realizzato e l’unica ad avervi interesse ad
eseguirlo.
Nel pervenir a tali conclusioni la Corte lucana si è
attenuta ai principi di diritto affermati da questa Corte
secondo i quali, in materia edilizia, la
natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla
temporaneità della destinazione dell’opera come attribuitale
dal costruttore, ma deve risultare dalla intrinseca
destinazione materiale della stessa ad un uso realmente
precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e
limitati nel tempo, non risultando peraltro sufficiente la
sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo
(Sez. 3, n. 37992 del 03/06/2004, Mandò, Rv. 229601).
Nel caso di specie, il fatto che l’opera
fosse adibita abitualmente al ricovero degli animali
(pollaio) esclude, con tutta evidenza, la natura precaria
della stessa ed il fatto che l’imputato fosse l’unico tra i
comproprietari dell’immobile, ove insisteva il manufatto
abusivo, ad utilizzarlo induce fondatamente a ritenere che
egli fosse il committente dell’opera, stante la diretta
utilizzazione della stessa da parte sua e l’assenza in zona
degli altri comproprietari.
4. Il secondo motivo è fondato nei limiti e sulla base delle
considerazioni che seguono.
La giurisprudenza di questa Corte si è assestata nel senso
di ritenere che l’esclusione della
punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui
all’art. 131-bis cod. pen., ha natura sostanziale ed è
applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in
vigore del D.Lgs. 16.03.2015, n. 28, ivi compresi quelli
pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di
cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell’art.
609, comma secondo, cod. proc. pen. la sussistenza delle
condizioni di applicabilità del predetto istituto,
fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e
dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di
valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio
al giudice di merito
(Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308).
Nel caso di specie, l’applicabilità dell’istituto per
effetto dello ius superveniens è stata peraltro
eccepita con il secondo motivo di ricorso e sussistono i
presupposti affinché il giudice di merito verifichi, in
concreto, se sussistono le condizioni per l’applicazione
dell’invocata causa di non punibilità per la particolare
tenuità del fatto, posto che tale accertamento richiede
apprezzamenti fattuali (nel caso in esame, anche se l’opera
abusiva sia stata o meno rimossa) e che ogni valutazione al
riguardo è preclusa in sede di legittimità.
Va tuttavia precisato che nei reati
permanenti, nei cui novero rientrano le contravvenzioni
relative agli abusi edilizi, è preclusa, quando la
permanenza non sia cessata, l’applicazione della causa di
non punibilità per la particolare tenuità del fatto a
cagione della perdurante compressione del bene giuridico
protetto dalla norma incriminatrice, per effetto della
condotta delittuosa compiuta dall’autore del fatto di reato,
non potendosi considerare tenue, secondo i criteri di cui
all’art. 133, comma 1, cod. pen. e dei quali occorre tenere
conto ai fini della (particolare) tenuità del fatto,
un’offesa all’interesse penalmente tutelato che continua a
protrarsi nel tempo.
Questa Corte ha tuttavia opportunamente precisato che
il reato permanente, non essendo riconducibile
nell’alveo del comportamento abituale ostativo al
riconoscimento del beneficio ex art. 131-bis cod. pen., può
essere oggetto di valutazione con riferimento all’”indice-criterio”
della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza
sarà tanto più difficilmente rilevabile quando più tardi
sarà cessata la permanenza
(Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, non
ancora mass.).
Quindi, l’eliminazione dell’opera abusiva,
attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della
permanenza, può consentire, a condizioni esatte,
l’applicazione della causa di non punibilità introdotta
dall’art. 131-bis cod. pen..
5. Questa Corte ha già affermato che la
particolare tenuità del fatto costituisce una causa di non
punibilità atipica
(Sez. 3, n. 21014 del 07/05/2015, v. Fregolent, non mass.)
per gli effetti negativi che produce per l’imputato
(anzitutto la possibile rilevanza nei giudizi civili ed
amministrativi ed, ancora, l’iscrizione del provvedimento
nel casellario giudiziale) e la sua applicazione presuppone,
tra l’altro, l’accertamento della responsabilità penale
ossia l’accertamento dell’esistenza delitto e della sua
attribuibilità all’imputato.
Ciò spiega la ragione per la quale la
declaratoria di estinzione del reato per prescrizione
prevale sull’esclusione della punibilità per particolare
tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., sia
perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due
istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato,
mentre il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella
sua materialità storica e giuridica
(Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, P.C. in proc. Sorbara, Rv.
263885).
Perciò, la questione del concorso tra le
due cause di estinzione del reato e non punibilità può porsi
solo quando le stesse siano entrambe contemporaneamente
applicabili “in partenza”, con la conseguenza che
–quando, come nella specie, la Corte di cassazione, non
essendosi verificata la causa estintiva della prescrizione
del reato, annulli la sentenza con rinvio al giudice di
merito per l’applicabilità o meno dell’art. 131-bis cod. pen.
(e quindi al cospetto di un annullamento parziale avente ad
oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al
riconoscimento dell’esistenza del fatto-reato e della
responsabilità dell’imputato)– nel giudizio
di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato
quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di
annullamento parziale.
6. Siffatta conclusione è autorizzata dal fatto che
la “punibilità” –e dunque le cause che per
immancabile previsione di legge ne certificano la mancanza
(cosiddette “cause di non punibilità”)– non
costituisce un elemento costitutivo del reato e l’assenza
della punibilità non esclude la configurabilità
dell’illecito penale, per la cui ontologica e giuridica
esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un
fatto tipico, antigiuridico e colpevole, non anche
l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di
colui che lo ha commesso.
A questo proposito, sotto un primo profilo, è sufficiente
considerare che, ex positivo iure, l’art. 129 cod.
proc. pen., allo stesso modo del previgente art. 152 cod.
proc. pen. 1930, non ha inserito –al di là dell’accenno (non
vincolante per l’interprete) nella rubrica della
disposizione alle “cause di non punibilità” (e,
all’evidenza, in senso lato)– le altre ragioni di non
punibilità, compreso il difetto dell’imputabilità, tra le
cause di cui sia obbligatoria la immediata declaratoria
(Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, cit., non mass. sul
punto).
Tale silenzio non è stato ritenuto il frutto di una mera
dimenticanza del legislatore, trovando al contrario radici
profonde nei presupposti che giustificano il ricorso alle
cause di proscioglimento nel merito, alle cause di
estinzione del reato o alle cause d’improcedibilità
codificate ed esulando invece dall’ambito operativo della
fattispecie processuale le ipotesi in cui la causa di non
punibilità possa essere dichiarata esclusivamente dopo
l’accertamento del fatto di reato e della sua attribuibilità
all’imputato, epilogo, questo, confermato, sia pure con
riferimento all’imputabilità, dalla Corte costituzionale
(sentenza del 10.02.1993, n. 41) secondo cui la suddetta
declaratoria (di non punibilità per difetto d’imputabilità)
postula il necessario accertamento della responsabilità in
ordine al fatto-reato e della sua attribuibilità
all’imputato.
Sotto altro profilo, è stato lucidamente chiarito, in
dottrina, come alla punibilità possano essere attribuiti due
significati: uno generico, con il quale si
rappresenta che un determinato fatto in tanto è preveduto
dalla legge come reato in quanto per esso è prevista, come
ordinaria conseguenza per coloro che lo hanno commesso,
l’applicazione d’una sanzione penale; l’altro,
strettamente tecnico, secondo cui nella punibilità deve
riconoscersi il complesso di tutti gli elementi richiesti
dalle norme del diritto penale sostanziale per
l’assoggettamento di una persona alla potestà punitiva dello
Stato, pervenendosi alla conclusione che né dal primo punto
di vista e né dall’altro la punibilità appare elemento
costitutivo o carattere del reato: nel primo caso essa non è
infatti che l’indicazione del carattere (o disvalore)
criminoso di un determinato fatto i cui estremi costitutivi
sono e restano la conformità al tipo, l’antigiuridicità e la
colpevolezza; mentre nel secondo la punibilità si identifica
con la ordinaria conseguenza del reato, con la potenzialità
dell’applicazione della pena, vuoi nel suo momento
giudiziale (cosiddetta punibilità in astratto), vuoi nel suo
momento esecutivo (cosiddetta punibilità in concreto).
Ne consegue che il precetto penale, pur essendo
riconoscibile solo per la previsione della sanzione
criminale, tipicizza i fatti che sono configurati dalla
legge come reato, rispetto al quale, quando se ne compia
l’esame o l’analisi in concreto, la punibilità non appare
come indefettibile elemento, posto che i due momenti della
norma penale (precetto e sanzione) mostrano in pieno la loro
rispettiva autonomia, al punto che l’inapplicabilità della
sanzione non appare affatto come elemento decisivo per
negare che un determinato interesse rientri nella sfera dei
fatti penalmente rilevanti, allorquando l’ordinamento penale
una tale rilevanza attribuisca tanto quando ammette
l’esistenza di eventi o di condizioni che determinano
l’applicabilità della sanzione, pur non facendo parte del
fatto tipico (quali le cosiddette condizioni oggettive di
punibilità), tanto quando contempla eventi o condizioni che,
pur non escludendo il reato perché non attengono né al fatto
tipico né alla sua antigiuridicità né alla colpevolezza,
escludono tuttavia l’applicabilità della sola sanzione.
Una conferma di tale soluzione si coglie quando si consideri
che, pur al cospetto di tali eventi e condizioni che
escludono la punibilità, l’esistenza del reato non può
negarsi, vuoi perché la causa di non punibilità è riferibile
soltanto a un momento successivo a quello del
perfezionamento di tutti gli estremi di esso (come nel caso
della ritrattazione della falsa testimonianza), vuoi perché
la esclusione della pena è rimessa al potere discrezionale
del giudice (come nel caso della non punibilità
dell’ingiuria per reciprocità delle offese).
Si tratta di un principio che questa Corte ha già affermato
con riferimento alla causa di non punibilità prevista
dall’art. 2, comma 1-bis D.L. 12.09.1983, n. 463, conv. in
L. 11.11.1983, n. 638 a proposito del reato di omesso
versamento delle ritenute d’imposta operate dal datore di
lavoro allorquando è stato precisato (Sez. 3, n. 45451 del
18/07/2014, Cardaci, non mass. sul punto) come le cause, nel
caso di specie sopravvenute, di non punibilità siano
caratterizzate da situazioni o da fatti che derivano sempre
da accadimenti posteriori alla commissione di un reato e
tali accadimenti possono essere collegati ad un
comportamento dell’agente di valore inverso rispetto alla
condotta illecita tenuta (come, a titolo esemplificativo,
nel caso di recesso dai delitti di cospirazione politica o
di banda armata alle condizioni rispettivamente previste
dagli artt. 308 e 309 cod. pen., nel caso di ritrattazione
della falsa testimonianza) ovvero ad una manifestazione di
volontà del soggetto passivo (come ad esempio nel caso
previsto dall’art. 596 cod. pen., comma 3, n. 3, in
relazione all’ultimo comma della medesima disposizione)
oppure all’esercizio di un potere discrezionale del giudice
(come avviene, ad esempio, nell’art. 599 cod. pen. che
attribuisce al giudice il potere di non punire uno o
entrambi gli offensori se le offese sono reciproche).
Perciò nei casi in cui l’esenzione da pena
dipende da comportamenti del reo successivi al fatto o è
rimessa soltanto al potere discrezionale del giudice non si
può negare che la valutazione compiuta dal legislatore
nell’attribuire rilevanza alle cause di esenzione
discrezionale da pena riguardino esclusivamente l’an
o il quantum della punibilità e non anche gli
elementi (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza) che
reggono la struttura del reato, presupponendone pertanto
l’accertamento e la sua attribuibilità all’autore, posto che
la ragione dell’esenzione della pena riposa, di regola, su
motivi di convenienza o di politica utilità della punizione
che, come è stato precisato, tradizionalmente si vogliono
vedere alla base delle cause di esclusione della sola
punibilità sussumibili piuttosto in una fattispecie di “perdono”
giudiziale che non di un accertamento dei presupposti del
dovere di punire.
Va aggiunto come questa Corte, nella sua più autorevole
composizione, abbia già affermato il principio secondo il
quale la punibilità non può essere
considerata un elemento costitutivo del reato, osservando
che il diritto positivo, prevedendo cause che escludono
l’illiceità del fatto –c.d. cause di giustificazione– nonché
cause scusanti che escludono la colpevolezza ma non
l’illiceità del fatto (artt. 45, 46, cod. pen.) e cause di
esclusione della punibilità in senso stretto –le quali hanno
l’effetto di escludere la sola pena lasciando sussistere
l’illiceità del fatto e la colpevolezza dello autore– non
consente di ritenere che del reato sia sempre componente
essenziale l’applicazione della pena comminata, evidenziando
come emerga, dunque, un ruolo autonomo della punibilità
rispetto al reato, sganciato dall’applicazione della
sanzione tipica, punibilità che va, pertanto, esclusa dai
suoi elementi costitutivi, anche se, di norma, alla
commissione di un illecito penale e accertamento della
colpevolezza segue l’applicazione della relativa sanzione
(Sez. U, Sentenza n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, in
motiv.).
Decisivo a questo proposito è lo scrutinio concernente la
fattispecie riguardante la pacifica ammissibilità di un
concorso punibile nel fatto commesso dal soggetto esentato
dalla pena per la particolare tenuità del fatto. Se
quest’ultimo non avesse realizzato il presupposto minimo
della partecipazione criminosa, che è la realizzazione del
fatto tipico, un concorso penale del terzo, per il quale
sussista l’abitualità del comportamento delittuoso, assente
invece nel concorrente, non si potrebbe in alcun modo
concepire.
Invece la possibilità di un tale concorso deve essere,
secondo i principi generali, pacificamente ammessa cosicché,
come è stato rilevato, proprio nella prospettiva del reato
plurisoggettivo è dato cogliere la peculiare fisionomia
delle cause personali di non punibilità e la loro differenza
dalle cause di esclusione del reato.
Ne consegue che il fatto non punibile non assume alcuna
diversa rilevanza nel senso che non diviene lecito, ma resta
reato, pur se non punibile.
Ciò spiega anche la ragione per la quale la
causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto
non configura un’ipotesi di abolitio criminis sul
rilievo, desumibile dal comb. disp. ex art. 2, comma 2, cod.
pen. e art. 673 cod. proc. pen., che, qualora ricorrono i
presupposti dell’istituto previsto dall’art. 131-bis cod.
pen., il fatto è pur sempre qualificabile –e qualificato
dalla legge– come “reato”, dovendosi ricordare, tra
l’altro, che il nuovo art. 651-bis cod. proc. pen.
attribuisce efficacia di giudicato nei giudizi civili e
amministrativi alla sentenza dibattimentale di
proscioglimento per particolare tenuità del fatto anche “quanto
all’accertamento (…) della sua illiceità penale”
(Sez. 3, n. 34932 del 24/06/2015, Elia, non mass. sul
punto).
7. La causa di non punibilità per la
particolare tenuità del fatto si presta quindi a testare
ulteriormente le conclusioni alle quali si è giunti in
precedenza, convalidandole e confermando che essa presuppone
l’integrazione del reato al completo di tutti i suoi
elementi e, per l’effetto, l’accertamento della
responsabilità e l’attribuibilità del fatto–reato
all’autore, il quale rimane esentato, se la causa è
applicata, solo dall’assoggettamento alla sanzione penale.
L’applicazione della causa di non
punibilità per la particolare tenuità del fatto non esige,
allora, un fatto conforme al tipo ma inoffensivo, anzi
richiede la presenza di un fatto conforme al tipo ed
offensivo, seppure in maniera esigua e tenue secondo i due “indici-criteri”
della tenuità del fatto (la “tenuità dell’offesa” e
la “non abitualità del comportamento”) in coincidenza
necessaria con due ulteriori sotto-indici (o “indici-requisiti”)
della tenuità dell’offesa, rappresentati dalle “modalità
della condotta” e dalla “esiguità del danno o del
pericolo”.
La valutazione in ordine alla sua applicabilità è affidata
al potere discrezionale del giudice al quale, secondo il
principio della discrezionalità guidata o vincolata per
essere i parametri di riferimento normativamente previsti, è
affidato il compito di riconoscerne la sussistenza
nonostante l’accertata commissione del reato e l’attribuibilità
di esso all’imputato.
Logico corollario di tale fisionomia della causa di non
punibilità è costituito dagli effetti negativi che il reato
commesso produce nonostante che, per ragioni di politica
criminale, l’autore è esentato dalla pena: l’iscrizione nel
casellario giudiziale dei provvedimenti “che hanno
dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis
del codice penale” e la rilevanza nei giudizi civili ed
amministrativi secondo quanto disposto dall’art. 651-bis,
cod. proc. pen. recante la disciplina dell’efficacia della
sentenza di proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. nel
giudizio civile o amministrativo di danno, con i conseguenti
risvolti processuali, tra cui vanno segnalati i più
importanti: l’opposizione, ex art. 411, comma 1-bis, cod.
proc. pen. che possono presentare la persona sottoposta alle
indagini e la persona offesa sulla richiesta di
archiviazione del pubblico ministero per particolare tenuità
del fatto, l’esclusione della causa di non punibilità dal
novero di quelle codificate nell’art. 129 cod. proc. pen. e
la previsione del meccanismo descritto nell’art. 469 cod.
proc. pen. posto che la sentenza di non doversi procedere
prevista dall’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen.
presuppone che l’imputato e il pubblico ministero non si
oppongano alla declaratoria di improcedibilità, essendo
anche necessario consentire alla persona offesa di
interloquire sulla questione della tenuità del fatto
mediante notifica dell’avviso della fissazione dell’udienza
in camera di consiglio, con espresso riferimento alla
procedura ex art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen. (Sez. 3,
n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, cit.).
Da tutto ciò consegue che l’annullamento con rinvio della
sentenza di condanna per la verifica della sussistenza
dell’art. 131-bis cod. pen., impedisce l’applicabilità nel
giudizio di rinvio della causa di estinzione del reato per
prescrizione e, fermo restando l’accertamento della
responsabilità penale, la statuizione di condanna rimane
sospesa al verificarsi di una condizione costituita
dall’applicabilità o meno della causa di non punibilità per
la particolare tenuità del fatto.
Sul punto, va ricordato che questa Corte ha stabilito che,
da un lato, non si può ritenere la punibilità elemento
costitutivo del reato, come tale in grado di condizionarne
il perfezionamento; dall’altro lato, vige il principio della
formazione progressiva del giudicato, che si forma, in
conseguenza del giudizio della Corte di cassazione di
parziale annullamento dei capi della sentenza e dei punti
della decisione impugnati, su quelle statuizioni
suscettibili di autonoma considerazione, quale quella
relativa all’accertamento della responsabilità in merito al
reato ascritto, che diventano non più suscettibili di
ulteriore riesame. (Cass. Sez. 3, n. 15472 del 20/02/2004,
cit., Rv. 228499; Sez. 2, n. 44949 del 17/10/2013, Abenavoli,
Rv. 257314).
La configurabilità del giudicato progressivo comporta,
infatti, che l’accertamento della responsabilità e
l’irrogazione della pena possono intervenire in momenti
distinti posto che la punibilità non è elemento costitutivo
del reato e dunque non è “extra ordinerà” la
concezione di una definitività decisoria che, attenendo
all’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto
criminoso e ponendo fine all’iter processuale su tale parte,
crei una barriera invalicabile all’applicazione di cause
estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di
annullamento ad opera della Cassazione, con la conseguenza
che, se l’annullamento è parziale e non intacca le
disposizioni della sentenza che attengono all’affermazione
di responsabilità, la sentenza acquista “autorità di cosa
giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale
con la parte annullata” (art. 624 cod. proc. pen.) e
tale connessione non sussiste quando venga rimessa dalla
Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la
questione relativa alla punibilità, sul rilievo che il
giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del
reato e della responsabilità dell’imputato, con la
definitività della decisione su tali parti, impedisce
l’applicazione di cause estintive sopravvenute
all’annullamento parziale (Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997,
Attinà, Rv. 207640).
8. La sentenza impugnata va pertanto annullata per la
verifica dell’applicazione al caso di specie della causa di
non punibilità per la particolare tenuità del fatto con
rinvio, per nuovo giudizio sul punto, alla Corte di appello
di Salerno, la quale si atterrà ai principi di diritto in
precedenza affermati.
Nel resto, il ricorso va invece rigettato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.12.2015 n. 50215). |
ENTI LOCALI: Pa, niente blocco assunzioni negli enti che pagano tardi.
Corte costituzionale. Illegittima la sanzione che vieta il
reclutamento.
Il blocco di
assunzioni e rinnovi dei contratti nelle Pubbliche
amministrazioni che si rivelano troppo lente nei pagamenti
ai fornitori è incostituzionale.
Lo ha decretato la
sentenza 22.12.2015 n. 272 della Consulta (presidente Criscuolo, relatore de Pretis), che in questo modo accoglie
il ricorso proposto da Regione Veneto e nei fatti invita il
legislatore a trovare una strada diversa per spingere gli
enti pubblici a pagare in tempo.
A cadere sotto le forbici dei giudici costituzionali è
l’articolo 41, comma 2, del decreto 66 del 2014 (quello sul
bonus Irpef da 80 euro) che ha individuato nel blocco del
personale l’argomento più convincente per spingere le
amministrazioni a onorare i propri debiti commerciali. I
tempi massimi, 90 giorni nel 2014 e 60 a partire da
quest’anno, sono quelli rafforzati dalla legge europea
dell’anno scorso che ha attuato le direttive Ue in materia:
per dimostrarne il rispetto, una serie di regole impone poi
alle amministrazioni di calcolare l’indicatore sulla
«tempestività dei pagamenti», che misura il tempo medio
della liquidazione delle fatture, di allegarlo ai bilanci e
di pubblicarlo sul proprio sito istituzionale.
Si tratta
dello stesso parametro utilizzato per la sanzione, per cui
chi ha sforato i 90 giorni nel 2014 non ha potuto quest’anno
assumere nessuno e nemmeno rinnovare i contratti in corso.
La stessa sorte sarebbe toccata l’anno prossimo alle
amministrazioni che quest’anno facessero passare mediamente
più di 60 giorni dal ricevimento della fattura al pagamento.
Qui interviene però la sentenza depositata ieri dalla
Consulta, che non cancella l’obbligo di calcolare e
pubblicare l’indicatore ma le penalità sul reclutamento del
personale.
A motivarne l’illegittimità è un complesso di fattori,
riassumibile nella mancata «proporzionalità» delle sanzioni
che le mette in conflitto anche con il principio del «buon
andamento della Pubblica amministrazione» tutelato
dall’articolo 97 della Costituzione. Il ragionamento seguito
dalla sentenza è sistematico, e può tornare utile a Governo
e Parlamento per evitare di riprodurre la tecnica della
norma-manifesto destinata a cadere di fronte alle
contestazioni di illegittimità.
Prima di tutto, in molte amministrazioni, a partire da
quelle locali, a rallentare i pagamenti potrebbero essere
cause esterne, per esempio il ritardo nell’erogazione di
trasferimenti statali e i vincoli del Patto di stabilità. La
prova arriva dallo stesso decreto 66, che all’articolo 44 ha
provato a stabilire (con risultati alterni) che i
trasferimenti vanno erogati entro 60 giorni dalla
definizione delle loro regole.
Ma anche ammettendo che i tempi lunghi dei pagamenti nascano
solo da inefficienze interne all’amministrazione
ritardataria, aggiunge la Corte, la sanzione non colpisce
nel segno, perché non va a colpirne le cause. Non solo: chi
sfora di un giorno e impiega tempi biblici incappa nel
blocco totale delle assunzioni, senza alcuna distinzione fra
violazioni leggere e plateali.
Tutti questi argomenti potranno all’incostituzionalità della
regola anche se, spiega la Corte, la previsione di
sanzionare le attese medie troppo lunghe inflitte ai
creditori non viola in sé l’autonomia delle Regioni e
rientra nel «coordinamento della finanza pubblica»,
competenza statale che si manifesta non solo nei tagli alla
spesa pubblica ma anche nella sua riorganizzazione. Per
farlo, però, servono misure proporzionali.
Vale comunque la pena di ricordare che restano in campo
tutte le altre sanzioni, che non si basano sul tempo medio
impiegato per i pagamenti ma colpiscono i singoli ritardi.
Quando si sforano le scadenze, infatti, scatta il tasso
maggiorato dell’8%, partono in automatico gli interessi di
mora, l’obbligo di risarcire il danno del creditore per le
spese impiegate nel recupero. Sempre in vigore, infine, la
nullità delle clausole «inique» (articolo Il Sole 24 Ore del
23.12.2015). |
ENTI LOCALI: La p.a. lumaca può assumere.
Illegittimo il blocco per chi paga in ritardo le imprese.
La Corte costituzionale dà ragione al Veneto: sanzione
sproporzionata e aleatoria.
Il blocco delle assunzioni per le regioni in ritardo con i
tempi medi di pagamento è una misura incostituzionale. Una
sanzione sproporzionata e inidonea a raggiungere i fini che
persegue perché non costituisce un deterrente per le
regioni. Al contrario, colpendo indiscriminatamente gli enti
senza considerare i motivi per cui le imprese creditrici
sono state pagate in ritardo, la norma finisce per essere
del tutto aleatoria.
Lo ha affermato la Corte costituzionale
nella
sentenza 22.12.2015 n. 272
con cui ha dichiarato illegittimo l'art. 41, comma 2, del
decreto legge n. 66/2014 (il cosiddetto decreto Irpef) che
sanzionava con il blocco totale delle assunzioni a qualsiasi
titolo le pubbliche amministrazioni, esclusi gli enti del
Servizio sanitario nazionale, ma comprese le regioni, che
registrano tempi medi di pagamento superiori a 90 giorni nel
2014 e a 60 giorni a decorrere dal 2015, rispetto a quanto
previsto dal dlgs 231/2002, come modificato dal dlgs
192/2012.
Si tratta del decreto che ha dato attuazione alla
direttiva europea sui ritardi di pagamento (2011/7/Ue) e che
prevede, per tutte le transazioni commerciali, il termine di
pagamento di 30 giorni dal ricevimento della fattura.
Termine che, nelle transazioni in cui è debitore una
pubblica amministrazione, e quando la natura del contratto
lo giustifichi, può essere derogato, prevedendo una
tempistica più lunga, previo accordo tra le parti da
pattuire in modo espresso.
Rispetto alla tempistica prevista dal dlgs 192, il decreto
Irpef riconosceva, dunque, alle p.a. termini aggiuntivi (90
giorni nel 2014 e 60 dal 2015), riferiti, come spiega la
Consulta, «non al singolo rapporto, ma al complesso dei
debiti commerciali dell'ente pubblico», prevedendo, a
garanzia del loro rispetto, la sanzione del blocco delle
assunzioni nell'anno successivo a quello della violazione.
Nella sentenza redatta dal giudice Daria de Pretis, la Corte
ha accolto la questione di costituzionalità sollevata dalla
regione Veneto, difesa dal prof. Luca Antonini. Ma questa
volta, la ragione dell'incostituzionalità non è stata, come
spesso accade in tema di autonomie, la compressione delle
prerogative regionali, quanto piuttosto le modalità con cui
la sanzione è stata disegnata dal governo Renzi con il
decreto Irpef.
La norma, infatti, hanno osservato i giudici
delle leggi, «ha di mira una finalità che legittimamente può
essere perseguita dal legislatore statale anche nei rapporti
con le regioni. La fissazione di un termine per il pagamento
dei debiti commerciali delle p.a. e la previsione di una
sanzione non rappresentano strumenti, in sé considerati,
incompatibili con l'autonomia costituzionale delle regioni».
E anche il divieto di assumere personale, dice la Corte,
«può rientrare nell'ambito dei poteri del legislatore
statale, ancorché investa un aspetto essenziale
dell'autonomia organizzativa delle regioni e degli altri
enti pubblici».
Cosa, allora, vizia l'art. 41, comma 2, al punto da
determinarne l'illegittimità costituzionale? Per la
Consulta, la norma del dl 66/2014, «là dove prevede che
qualsiasi violazione dei tempi medi di pagamento da parte di
un'amministrazione debitrice, a prescindere dall'entità
dell'inadempimento e dalle sue cause, sia sanzionata con una
misura a sua volta rigida e senza eccezioni come il blocco
totale delle assunzioni, non supera il test di
proporzionalità il quale richiede di valutare se la norma
oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di
applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al
conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in
quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno
restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non
sproporzionati rispetto al perseguimento di detti
obiettivi».
Il blocco delle assunzioni, disposto dal dl 66, colpisce
indistintamente ogni violazione dei tempi medi di pagamento,
anche se il ritardo è stato originato da cause legate a
fattori non imputabili alle amministrazioni, come il mancato
trasferimento di risorse da parte di altri soggetti (si
pensi, per esempio, ai contributi erariali) o i vincoli del
patto di stabilità.
«La mancata considerazione della causa del ritardo»,
lamenta la Consulta, rende questa misura del tutto aleatoria
perché a nulla vale bloccare le assunzioni se poi la ragione
del ritardo non è superabile «con un'attività rimessa alle
scelte di azione e di organizzazione dell'ente».
Non resta, dunque, che ammettere, conclude la Corte, che «l'obiettivo
perseguito potesse essere raggiunto con un sacrificio minore
o, più precisamente, con un sacrificio opportunamente
graduato degli interessi costituzionalmente protetti»
(articolo ItaliaOggi del 23.12.2015). |
APPALTI:
Sull'accertamento del diritto alla revisione del
prezzo di appalto.
La decisione di effettuare la revisione prezzi e la
determinazione dei parametri da osservarsi a tal fine sono
espressione di una sfera di valutazione discrezionale, che
sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve
essere impugnato innanzi al giudice amministrativo nel
termine decadenziale di legge, atteso che la posizione
dell'appaltatore assume carattere di diritto soggettivo solo
dopo che l'Amministrazione abbia riconosciuto la sua pretesa
e si verta in materia del quantum del compenso revisionale.
Nel caso di specie, concernente l'accertamento del diritto
alla revisione dei prezzi per la realizzazione di interventi
finalizzati al risparmio energetico di un'Azienda
ospedaliera, il rapporto negoziale fra le parti -quanto al
riconoscimento di compensi revisionali- recava una clausola
di chiaro contenuto negativo, così che la pretesa azionata
in alcun modo poteva ricondursi a un diritto soggettivo
perfetto tutelabile con azione di accertamento, ove il
contratto rechi un'apposita clausola che preveda il puntuale
obbligo dell'Amministrazione di dar luogo alla revisione dei
prezzi (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 18.12.2015 n. 5779 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
VARI: Ritardi p.a., stop al sequestro.
Il mancato pagamento giustifica l'omissione dell'Iva.
Cassazione: no alla misura preventiva verso imprenditore
creditore dell'amministrazione.
Il sequestro preventivo dei beni dell'imprenditore, basato
su omessi versamenti Iva, è illegittimo se la causa di detti
inadempimenti risiede nel ritardo nei pagamenti da parte
della pubblica amministrazione.
Spetta in ogni caso al giudice adito valutare, nel merito,
la fondatezza della censura mossa dal ricorrente, che non
può essere liquidata con una motivazione del tutto
apparente.
Sono le motivazioni che si leggono nella sentenza
17.12.2015 n.
1725 della Corte di Cassazione, Sez. III penale.
Il caso
riguarda l'originaria impugnazione di un provvedimento di
sequestro preventivo di beni, in relazione all'omesso
versamento dell'Iva per l'anno 2011.
Il tribunale di Pescara rigettava la richiesta di riesame
del provvedimento, con un ordinanza impugnata dal
contribuente in Cassazione. In particolare, il ricorrente
palesava che la società aveva operato nel settore delle
pubbliche amministrazioni, avendo perciò sofferto dei
cronici ritardi nei tempi di pagamento delle relative
fatture; contestualmente, si andava accumulando una pesante
situazione debitoria nei confronti dell'erario per omessi
versamenti delle varie imposte.
In altre parole, la crisi di
liquidità che aveva dato luogo all'inadempimento contestato
non poteva considerarsi imputabile alla società, atteso che
la stessa trovava la propria fonte nel ritardato pagamento
di ingenti crediti vantati nei confronti della p.a..
Le argomentazioni hanno convinto la Corte di cassazione a
rinviare la causa al tribunale di Pescara per una nuova
decisione di merito, poiché la precedente ordinanza resa dal
tribunale non aveva fornito una risposta concreta a tali,
determinanti profili.
D'altronde, ricordano gli ermellini, in tema di omesso
versamento di Iva è noto l'orientamento della giurisprudenza
di legittimità secondo cui il contribuente è esente da
responsabilità, per insussistenza del profilo soggettivo del
reato, «laddove risulti che il soggetto obbligato al
pagamento abbia adottato tutte le iniziative per
corrispondere al pagamento e che la crisi di liquidità non
sia allo stesso imputabile»; esimente di non imputabilità
che, dunque, può ben risiedere nel ritardato adempimento
delle proprie obbligazioni da parte di enti pubblici.
La
stessa giurisprudenza di legittimità, si legge ancora nella
sentenza in commento, «ha sottolineato la necessità che
venga esaminata la sussistenza dell'elemento psicologico del
reato, costituito dal dolo della condotta omissiva
tipizzata, che non può che esigere quale presupposto
l'esistenza concreta della possibilità di adempiere al
pagamento».
Se il pagamento dell'Iva, per concludere, è reso impossibile
dal mancato pagamento dei crediti vantati nei confronti
della p.a. (circostanza da dimostrare adeguatamente), viene
a mancare il succitato elemento psicologico del reato e
risulta inibito, per converso, anche il relativo sequestro
preventivo sui beni dell'imprenditore
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia e rifiuti, sanzioni multiple.
Corte costituzionale. Non vale il cumulo giuridico: è nella
discrezionalità del legislatore prevedere diversi regimi.
Nuovi introiti
per i Comuni e sanzioni dissuasive per gli abusi edilizi:
queste sono le prevedibili conseguenze della
ordinanza
17.12.2015 n. 270 della
Corte Costituzionale, in tema di cumulo
di sanzioni amministrative.
La questione esaminata riguardava otto sanzioni per
altrettanti formulari per trasporto rifiuti speciali, privi
di dati sulle quantità trasportate. Se, invece di sanzioni
ambientali, si fosse trattato di illeciti previdenziali o
assistenziali la sanzione sarebbe stata unica, ed appunto
ciò ha fatto sorgere il dubbio di legittimità costituzionale
circa la legge (689 del 1981, art. 8) che allevia le
sanzioni in materia previdenziale.
Le norme, secondo il giudice delle leggi, sono comunque
legittime, perché rientra nella discrezionalità del
legislatore prevedere diversi regimi sanzionatori. Vi è
quindi un regime per il cumulo di sanzioni penali (cumulo
giuridico: più illeciti sono sanzionati con la pena prevista
per la violazione più grave, articolo 81 Codice penale),
diverso dal regime degli illeciti previdenziali (si applica
la sanzione amministrativa più grave, aumentata fino al
triplo: articolo 8 comma due legge 681/1989) e diverso
altresì per tutte le altre sanzioni amministrative (una
sanzione per ogni violazione). Con questa stessa logica, del
resto, un prolungato divieto di sosta (illecito
amministrativo) è sanzionato più volte.
La sentenza del 17 dicembre dissuade quindi da comportamenti
reiterati, e avrà l’effetto di agevolare l’applicazione
delle nuove sanzioni amministrative in materia edilizia,
previste dall’articolo 31, comma 4-bis, del Dpr 380 del 2001
(Testo unico edilizia), come modificato dall’articolo 17 del
Dl 133 /2014. Dal novembre del 2014, i Comuni devono
irrogare una sanzione pecuniaria (compresa tra 2000 e 20.000
euro) a chi abbia realizzato interventi senza permesso di
costruire e non abbia demolito l’abuso. La sanzione è dovuta
indipendentemente dall’epoca dell’intervento e, se le
Regioni lo decideranno con specifica legge, sarà
periodicamente reiterabile.
Ciò significa che ogni anno (o anche ogni semestre) il
Comune verificherà se l’ordine di demolizione dell’abuso
edilizio sia stato eseguito, riscuotendo, in mancanza, la
predetta sanzione amministrativa pecuniaria. In tal modo la
sentenza della Corte costituzionale sul cumulo delle
sanzioni per comportamenti plurimi, genererà delle rendite
continuative per i Comuni, che ogni anno potranno esigere
una nuova sanzione. Non conta l’epoca dell’abuso (Cassazione
49331/2015, Sole del 16 dicembre), né un passaggio di
proprietà: finché l’opera abusiva non è ridotta in pristino,
la sanzione pecuniaria andrà pagata (articolo Il Sole 24 Ore del
18.12.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Se l’imprenditore rischia la chiusura scatta la concussione.
Gare truccate da ufficiali. Non è induzione indebita.
Concussione e
non induzione indebita per il pubblico ufficiale che chiede
soldi in cambio di un appalto a un imprenditore che cede per
evitare la chiusura dell’azienda.
La Corte di Cassazione - Sez. III penale, con la
sentenza 14.12.2015 n. 49275,
sceglie la via del rigore nel punire gli ufficiali che
avevano messo in piedi un sistema di gare truccate
all’interno di una cittadella militare, che poteva essere
“espugnata” solo con le tangenti. Uno schema collaudato
basato sulla doppia busta: una contente l’offerta
dell’impresa e un’altra lasciata in bianco per mettere, se
necessario, una cifra più vantaggiosa rispetto a quella
scritta nella prima busta.
La Suprema corte punisce per il reato più grave di
concussione, la cui pena massima è di 12 anni, rispetto
all’induzione indebita che ha un tetto di tre anni di
reclusione.
Entrambe le figure di reato sono state ridisegnate dalla
legge 190 del 2012. L’induzione indebita si contraddistingue
per persuasione, suggestione inganno e pressione morale,
dotati però di un minor potere nel condizionare la libertà
di autodeterminazione del destinatario. In questo caso il
“prescelto” per l’induzione ha dalla sua un maggior margine
di manovra nel decidere se prestare il consenso alla
richiesta illegittima e concludere l’”affare” con la
prospettiva di ottenere un tornaconto personale, ipotesi che
giustifica una sanzione a suo carico.
Diverso lo scenario
della concussione in cui il gioco si fa più duro da parte
del pubblico agente che, per costringere, usa la violenza e
minaccia un danno illecito. In questo caso il concusso si
trova a un bivio, con una libertà limitata: senza alcun
vantaggio per sé deve scegliere tra subire un danno ingiusto
o evitarlo con un pagamento in denaro o un’altra utilità non
dovuta.
Gli imputati “rivendicavano” il diritto a essere puniti per
il reato più lieve di induzione indebita. Gli imprenditori,
secondo la difesa, erano di casa nella cittadella militare e
si trovavano a loro agio nel muoversi fra le mura
“fortificate” di un sistema in virtù del quale la gara si
vinceva con la tangente grazie al trucco della doppia busta.
Secondo la ricostruzione dei ricorrenti erano gli stessi
imprenditori a rivolgersi a loro per aggiudicarsi gli
appalti in esclusiva, aderendo immediatamente alle
richieste. Una confidenza con i pubblici ufficiali in
contrasto con l’ipotesi della sopraffazione tipica del reato
contestato.
La Suprema corte, consapevole di muoversi in un terreno
scivoloso nel quale le azioni dei protagonisti possono
essere ambigue, ricorda che i giudici devono sempre basarsi
sul fatto «cogliendo da quest’ultimo i dati più qualificanti
idonei a contraddistinguere la vicenda concreta».
Nel caso esaminato ha pesato il timore degli imprenditori di
perdere l’azienda. La Cassazione sceglie la concussione e
non l’induzione perché le persone offese erano state messe
con le spalle al muro: la conseguenza inevitabile di un
rifiuto era l’esclusione da qualsiasi lavoro. L’imprenditore
che si ribellava sapeva di rischiare la chiusura della sua
l’attività. Certo una minaccia non blanda (articolo Il Sole 24 Ore del
15.12.2015).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso è inammissibile per manifesta
infondatezza.
Questa Corte ha recentemente chiarito che
nel delitto di induzione indebita,
previsto dall'art. 319-quater cod. pen., introdotto dalla L.
n. 190 del 2012, la condotta si configura
come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con
più tenue valore condizionante -rispetto all'abuso
costrittivo tipico del delitto di concussione di cui
all'art. 317 cod. pen.,
come modificato dalla predetta l. n. 190-
della libertà di autodeterminazione del destinatario il
quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce
col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione
non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire
un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una
sanzione a suo carico
(Sez. 6, Sentenza n. 32594 del 14/05/2015, Rv. 264424, Nigro).
A queste conclusioni si é del resto pervenuti in
applicazione di principi espressi in materia dalle Sezioni
Unite di questa Corte, che hanno definitivamente
puntualizzato che sussiste continuità
normativa fra la concussione per induzione di cui al
previgente art. 317 cod. pen. ed il nuovo reato di induzione
indebita a dare o promettere utilità di cui all'art.
319-quater cod. pen.,
introdotto dalla L. n. 190 del 2012,
considerato che la pur prevista punibilità, in quest'ultimo,
del soggetto indotto non ha mutato la struttura dell'abuso
induttivo, fermo
restando, per i fatti pregressi, l'applicazione del più
favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla nuova norma
(Sez. U, Sentenza n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258473,
Maldera).
In questa fondamentale sentenza si é anche spiegato che
il delitto di concussione, di cui all'art. 317 cod.
pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è
caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso
costrittivo del pubblico agente che si attua mediante
violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno "contra
ius" da cui deriva una grave limitazione della libertà
di determinazione del destinatario che, senza alcun
vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte
all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la
dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue
dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art.
319-quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la
cui condotta si configura come persuasione, suggestione,
inganno (sempre che quest'ultimo non si risolva in
un'induzione in errore), di pressione morale con più tenue
valore condizionante della libertà di autodeterminazione del
destinatario il quale, disponendo di più ampi margini
decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla
richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata
dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che
giustifica la previsione di una sanzione a suo carico
(Sez. U, Sentenza n. 12228 del 24/10/2013 Ud. (dep.
14/03/2014) Rv. 258470, Maldera).
In motivazione, la Corte ha altresì precisato che, nei casi
ambigui, l'indicato criterio distintivo del danno
antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato,
all'esito di un'approfondita ed equilibrata valutazione del
fatto, cogliendo di quest'ultimo i dati più qualificanti
idonei a contraddistinguere la vicenda concreta.
Questi principi risultano correttamente applicati nella
sentenza impugnata. |
VARI:
Patente, reato dichiarare fischi per fiaschi ai
vigili.
Chi vuole evitare di perdere punti patente fornendo
generalità di persone compiacenti che non erano
effettivamente alla guida deve verificare bene quello che
scrive nel modulo da inviare alla polizia stradale. E
soprattutto non contraddirsi o entrare in conflitto con i
presta punti. Diversamente si corre il rischio concreto di
incorrere nel reato di sostituzione di persona.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con
la
sentenza 11.12.2015 n. 49121.
Un conducente invitato formalmente dalla polizia locale a
comunicare i dati dell'effettivo conducente in relazione ad
alcune multe per eccesso di velocità ha fornito generalità
di soggetti stranieri che sono poi risultati assolutamente
estranei alle infrazioni stradali contestate.
Per questo motivo il temerario trasgressore è stato
denunciato dai vigili e condannato per il reato di
sostituzione di persona previsto e punito dall'art. 494 c.p.
La Cassazione ha confermato questa severa interpretazione.
Attestare falsamente alla polizia stradale che alla guida di
un veicolo immortalato dall'autovelox vi era un cittadino
straniero rappresenta certamente un reato. Nell'attribuire a
terzi la responsabilità dell'infrazione l'imputato ha
infatti tentato di sottrarsi alla decurtazione di punti
patente o alla sanzione pecuniaria alternativa.
In pratica meglio tacere e collezionare un multa ulteriore
che dichiarare falsi autisti alla guida facilmente
individuabili dalle forze dell'ordine
(articolo ItaliaOggi Sette del
28.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti non pericolosi, ok al trasporto degli ambulanti.
L'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non
pericolosi prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante,
non integra il reato di gestione non autorizzata dei
rifiuti, ma solo a condizione, da un lato, che il soggetto
sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di
attività commerciale in forma ambulante e, dall'altro, che
si tratti di rifiuti che formavano oggetto del suo commercio. Presupposto necessario, pertanto, è che i rifiuti in
oggetto non siano pericolosi.
Questo è il principio espresso
dalla Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la
sentenza 11.12.2015 n. 48952.
L'attività di
trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi,
effettuata da soggetti abilitati allo svolgimento
dell'attività in forma ambulante, non prevede l'iscrizione
all'albo dei gestori dei rifiuti, con conseguente esclusione
della configurabilità del reato d'illecito trasporto, purché
sussistano alcune condizioni: in primo luogo, tale attività
deve essere effettuata previo conseguimento del titolo
abilitativo attraverso l'iscrizione alla camera di commercio
e i successivi adempimenti amministrativi.
In secondo luogo,
si richiede che il soggetto che la esercita tratti solo
rifiuti che formano oggetto del suo commercio, con la
conseguenza che deve essere oggetto di adeguata verifica il
settore merceologico entro il quale il commerciante è
abilitato a operare, così come la riconducibilità del
rifiuto trasportato all'attività autorizzata.
In pratica, la
deroga prevista dall'articolo 266, 2° comma, dlgs 152/2006
opera se ricorrono due condizioni: che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l'esercizio
dell'attività commerciale in forma ambulante e che si tratti
di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Senza le
condizioni indicate, l'attività condotta in mancanza delle
autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni ambientali
previste dallo stesso dlgs 152/2006, integra il reato di
«gestione di rifiuti non autorizzata» (articolo 256, comma
1, dlgs 152/2006) purché posta in essere da soggetto
titolare d'impresa
(articolo ItaliaOggi del 24.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non
pericolosi prodotti da terzi.
L'attività di raccolta e trasporto dei
rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, effettuata in
forma ambulante, non integra il reato di gestione non
autorizzata dei rifiuti, ma solo a condizione, da un lato,
che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per
l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante e,
dall'altro, che si tratti di rifiuti che formavano oggetto
del suo commercio; presupposto necessario, pertanto, è che i
rifiuti in oggetto non siano pericolosi.
---------------
5. Da quanto precede, infine, deriva la palese infondatezza
del ricorso anche nella parte relativa alla necessità
dell'iscrizione nell'albo nazionale dei gestori ambientali;
questione che -come correttamente afferma la Corte, in uno
con il primo Giudice- non ha ragion d'essere a fronte di
rifiuti pericolosi, di certo non commercializzabili in forza
dell'autorizzazione di cui il Co. è in possesso.
Ed invero, ed anche a prescindere dalla richiamata
applicabilità al caso di specie della sola L. n. 210 del
2008, questa Corte ha più volte affermato -come ricorda lo
stesso ricorrente- che l'attività di
raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi prodotti da
terzi, effettuata in forma ambulante, non integra il reato
di gestione non autorizzata dei rifiuti, ma solo a
condizione, da un lato, che il soggetto sia in possesso del
titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale
in forma ambulante e, dall'altro, che si tratti di rifiuti
che formavano oggetto del suo commercio
(Sez. 3, n. 20249 del 07/04/2009, Pizzimenti, Rv. 243627;
conf. Sez. 3, n. 39774 del 02/05/2013, Calvaruso e altro, Rv.
257590); presupposto necessario, pertanto, è che i rifiuti
in oggetto non siano pericolosi, a differenza di quanto
accertato nel caso di specie con motivazione immune da
censure anche sotto questo profilo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.12.2015 n. 48952 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Tar Lombardia.
Farmacia, sì alle insegne agli incroci.
L'insegna di una farmacia assume una valenza informativa in
favore dell'utenza e ciò giustifica la collocazione
dell'insegna, nel punto di congiunzione di due strade, con
la finalità di consentire a coloro che ignorino l'esatta
collocazione della farmacia, di individuarne la sede.
È
quanto sostiene il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la
sentenza 09.12.2015 n. 2600.
Il fatto in sintesi: una società presentava ricorso al Tar
per la concessione di un'autorizzazione rilasciata dal
comune ad una farmacia per l'esposizione di un'insegna verde
bifacciale luminosa su palo di m 0,80 x 0,80, avente forma
di croce, da posizionarsi nell'intersezione tra due vie, in
adiacenza all'edificio di proprietà della ricorrente.
Secondo la difesa comunale e della società, l'insegna non
avrebbe le caratteristiche di cui all'art. 47, dpr n.
495/1992, non essendo finalizzata a contraddistinguere la
sede della farmacia, né collocata in prossimità della
stessa, quanto invece ad una distanza di circa 100 m, avendo
pertanto una finalità pubblicitaria, come peraltro
dimostrato dalla presenza di un'ulteriore insegna, invece
posta sulla facciata della farmacia
(articolo ItaliaOggi del 17.12.2015).
----------------
MASSIMA
II) Quanto al merito, secondo la difesa comunale e della
Società Cl., l’insegna di che trattasi non avrebbe le
caratteristiche di cui all’art 47 D.P.R. n. 495/1992, non
essendo finalizzata a contraddistinguere la sede della
farmacia, né collocata in prossimità della stessa, quanto
invece ad una distanza di circa 100 m, avendo pertanto una
finalità pubblicitaria, come peraltro dimostrato dalla
presenza di un’ulteriore insegna, invece posta sulla
facciata della Farmacia, la quale, effettivamente, sarebbe
un’insegna di esercizio di cui al citato art. 47,
diversamente da quella di cui al presente giudizio, come
detto, invece riconducibile ad un impianto pubblicitario.
III) In via preliminare, il Collegio da atto che l’art. 51,
c. 4, del Regolamento attuativo del Codice della Strada
(D.P.R. 16.12.1992 n. 495) prevede che, nei centri abitati,
il posizionamento di cartelli pubblicitari ed insegne debba
avvenire ad almeno 30 metri dalle intersezioni, salvo che le
stesse non rientrino nella nozione di “insegna di
esercizio” di cui all’art. 47, c. 1, del medesimo
D.P.R., la quale, a sua volta, consiste in una “scritta
in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da
simboli e da marchi, realizzata e supportata con materiali
di qualsiasi natura, installata nella sede dell’attività a
cui si riferisce, o nelle pertinenza accessorie della stessa”.
La questione posta a fondamento di entrambi i giudizi,
sostanzialmente, verte quindi sulla qualificazione
dell’impianto di che trattasi in termini di “insegna di
esercizio”, atteso che, in caso positivo, la stessa non
violerebbe la vista distanza minima dall’intersezione
prevista dalla norma precitata e dalla disciplina del Piano
Comunale richiamato nella revoca impugnata, che sarebbe al
contrario superata, ove non si ritenesse possibile seguire
tale interpretazione.
IV) Ritiene il Collegio che la lettura
congiunta del citato art. 47 con la normativa dettata in
materia di servizio farmaceutico imponga un’interpretazione
estensiva della citata nozione di “pertinenza accessoria”
del luogo in cui l’insegna viene collocata rispetto alla
sede dell’attività, dovendosi pertanto ritenere che
l’insegna della Farmacia sia effettivamente ricompresa in
tale ambito spaziale.
Infatti, in base all’art. 9, c. 2, L.R.
03.04.2000 n. 21, “le farmacie di turno hanno l'obbligo,
nelle ore serali e notturne, di tenere accesa un’insegna
luminosa, della misura fino ad un metro quadrato per
facciata, preferibilmente a forma di croce di colore verde
che ne faciliti l'individuazione”, da cui si desume
l’esistenza di un obbligo di legge di rendere visibili detti
esercizi, ciò che giustifica la collocazione dell’insegna di
che trattasi, come detto, nel punto di congiunzione di due
strade, con la finalità di consentire a coloro che ignorino
l’esatta collocazione della farmacia, di individuarne la
sede.
Quanto precede evidenzia altresì
l’insussistenza della natura pubblicitaria di tale insegna,
che assume invece una valenza informativa in favore
dell’utenza, così come dimostra l’irrilevanza, ai fini del
presente giudizio, della collocazione di un’ulteriore
insegna in prossimità dell’entrata della farmacia, atteso
che la stessa è evidentemente visibile solo da coloro che vi
transitano di fronte, e non invece dagli utenti che
percorrono le vie adiacenti.
Né, in contrario, depone il precedente giurisprudenziale
invocato dalla Società Cl., peraltro condiviso dal Collegio,
in base al quale “non costituisce
insegna di esercizio, necessaria soltanto ai fini della
normale attività aziendale, ma vero e proprio impianto
pubblicitario, in grado di svolgere funzione promozionale
dell'attività imprenditoriale e conseguentemente soggetto
all'autorizzazione all'esposizione dei mezzi pubblicitari,
il cartello che non sia collocato in prossimità dell'accesso
all'impresa ma in altro luogo”
(TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 12.2.2008 n. 316),
atteso che in tale fattispecie l'insegna, oltre a
non essere soggetta alle peculiarità che connotano
l’individuazione di un esercizio farmaceutico, era inoltre
collocata “ad alcuni chilometri dalla sede della società
pubblicizzata”,
trattandosi pertanto di fattispecie non comparabile a quella
per cui è causa. |
APPALTI:
La determinazione di mancato invito ad un
operatore economico a partecipare ad una gara può essere
individuata anche in precedenti comportamenti negativi del
medesimo operatore.
Ai sensi dell'articolo 2 del D.Lgs. 12.04.2006, n.163,
l'affidamento e l'esecuzione dei servizi e forniture deve
garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel
rispetto dei principi di efficacia, tempestività e
correttezza.
In applicazione del citato principio generale, "sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento
degli appalti di lavori, servizi e forniture e non possono
stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che gestisce
la gara, o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante".
Ciò premesso, se è vero che la citata norma prevede che
l'esclusione venga disposta "secondo motivata valutazione
della stazione appaltante", è altresì indubitabile che
l'esistenza in tal senso di una valutazione discrezionale
dell'amministrazione debba essere verificata avuto riguardo
alla peculiarità della vicenda oggetto di causa, la quale si
caratterizza per la circostanza che l'operatore non invitato
era parte del pregresso rapporto contrattuale inerente lo
svolgimento del medesimo servizio oggetto di nuovo
affidamento.
In tale situazione, dunque, non può farsi esclusivo
riferimento, ai fini dell'accertamento della concreta
esistenza di una determinazione di non invito e della sua
motivazione, agli atti specificamente inerenti la singola
procedura concorsuale, ma occorre estendere l'indagine anche
a quelli che hanno caratterizzato il rapporto contrattuale
in scadenza. Sicché la determinazione di mancato invito e le
sue ragioni possono essere individuate anche in atti
precedenti nei quali la pubblica amministrazione abbia in
anticipo chiaramente palesato la propria volontà di non
affidare il servizio per il futuro a tale operatore
economico.
Tale valutazione, invero, ove esistente, esprime già le
ragioni della "motivata valutazione" e va a
costituire, nella nuova procedura, l'atto di mancato invito
ovvero ad integrare, quanto a supporto motivazionale, l'atto
implicito di mancato invito che, in assenza di espressa
determinazione provvedimentale, voglia individuarsi nel
nuovo procedimento di affidamento del servizio (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2015 n. 5564 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilevanza penale della ristrutturazione di un rudere.
Integra il reato di cui all'art. 44,
lett. c), d.P.R. n. 380 2001 la ricostruzione di un "rudere"
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o,
come nella specie, con permesso di costruire illecito o
rilasciato in violazione del parametro di legalità
urbanistica ed edilizia, costituito anche dalle prescrizioni
degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in
quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia
perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo
intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia
perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv.
in legge n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come
nella specie vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali
di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa,
l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile
in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale
del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché,
in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente
struttura.
---------------
3. Si tratta di una motivazione che non si presta, sia con
riferimento al primo che al secondo motivo di gravame (i
quali pertanto possono essere congiuntamente esaminati), ad
essere censurata per violazione di legge, avendo il
tribunale cautelare fatto buon uso dei principi più volte
affermati da questa Corte secondo i quali
integra il reato di cui all'art. 44, lett. c), d.p.r. n. 380
2001 la ricostruzione di un "rudere" senza il
preventivo rilascio del permesso di costruire (o, come nella
specie, con permesso di costruire illecito o rilasciato in
violazione del parametro di legalità urbanistica ed
edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in
quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia
perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo
intendersi per quest'ultimo un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia
perché non è applicabile l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv.
in legge n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come
nella specie vincolate, l'esistenza dei connotati essenziali
di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa,
l'accertamento della preesistente consistenza dell'immobile
in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale
del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché,
in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente
struttura (Sez. 3,
n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260552).
Anche il riferimento al mancato completamento del manufatto
abusivo, per indicare la presenza del periculum in mora,
è in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte
secondo cui l'esigenza di impedire la
prosecuzione dei lavori di edificazione di un immobile
abusivo ancora in corso è, di per sé, condizione sufficiente
per disporne e mantenerne il sequestro preventivo,
indipendentemente dalla natura ed entità degli interventi da
eseguire per ultimarlo
(ex multis, Sez. 3, n. 38216 del 28/09/2011, P.M. in
proc. Mastrantonio, Rv. 251302) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.12.2015 n. 48232 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Trasformazione di un balcone o di una terrazza in veranda.
La trasformazione di un balcone o di una
terrazza, anche di modesta superficie, in veranda, mediante
chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su
intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una
pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di
restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero
a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di
titolo abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44
d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
3. Ciò precisato, le prime due doglianze -che, essendo tra
loro connesse, possono essere esaminate congiuntamente- sono
infondate.
La Corte palermitana si è infatti attenuta, nello scrutinio
del caso di specie, al principio più volte affermato da
questa Corte secondo il quale la
trasformazione di un balcone o di una terrazza, anche di
modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di
installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza,
né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro,
ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso
di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo
abilitativo, integra il reato previsto dall'art. 44 d.P.R.
n. 380 del 2001
(Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 15/01/2014, Summa, Rv.
258295; Sez. 3, n. 3160 del 28/11/2002, dep. 23/01/2003,
Macaluso, Rv. 223295; Sez. 3, n. 45588 del 28/10/2004, P.M.
in proc. D'Aurelio, Rv. 230419; Sez. 3, n. 35011 del
26/04/2007, Camarda, Rv. 237532; Sez. 3, n. 3879 del
13/01/2000, Spaventi, Rv. 216221).
Pertanto la trasformazione, come nella
specie, di un terrazzino in veranda, mediante collocazione
di una struttura in alluminio, vetri e copertura in
materiale coibentato, con conseguente creazione di un
ambiente diviso in due da una tramezzatura in cartongesso e
contiguo ad un appartamento già esistente con rimozione
degli infissi dalla loro originaria collocazione, non ha
natura precaria né costituisce, come hanno correttamente
ritenuto i giudici del merito, intervento di manutenzione
straordinaria o di restauro, ma è opera soggetta a permesso
di costruire (o,
nella regione Sicilia, a concessione edilizia).
Va ricordato che, nel caso in esame, non si era in presenza
della mera chiusura di un balcone bensì dello sfruttamento,
a fini abitativi, di una parte consistente del terrazzo
dell'ultimo piano dell'immobile e, dunque, della
costituzione di una vera e propria nuova opera dotata anche
di una copertura autonoma che aveva modificato la originaria
copertura dell'intero edificio, come attestato dalle
fotografie allegate al verbale di sopralluogo che
documentavano come la realizzazione della "veranda"
non fosse stata eseguita mediante la chiusura del balcone in
quanto, per realizzare il manufatto, era stato necessario
modificare anche il tetto del fabbricato ed inoltre le opere
avevano prodotto un aumento della superficie abitabile
dell'appartamento dell'imputato, il cui aumento volumetrico,
seppure inferiore al 20% del volume dell'edificio
principale, non rileva, in presenza di un'opera comunque
qualificabile come nuova costruzione, ai fini dell'esonero
dall'obbligo di richiedere il titolo abilitativo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.12.2015 n. 48221 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In relazione ai lavori eseguiti su manufatti
originariamente abusivi che non siano stati sanati, né
condonati (ed anche se illegittimamente sanati o condonati),
sono configurabili le fattispecie di illecito previste
dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in quanto gli
interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nello loro
oggettività, alle categorie della manutenzione
straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo,
della ristrutturazione, della realizzazione di opere
costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dall'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente.
---------------
Nondimeno i primi due motivi di gravame non hanno alcun
fondamento e tanto anche sotto altro e concorrente profilo.
Se anche, come sostiene il ricorrente attraverso uno dei
profili della doglianza, egli ha eseguito lavori in
relazione ad una preesistente veranda, anch'essa abusiva,
l'illecito edilizio deve comunque ritenersi ampiamente
sussistente, avendo questa Corte reiteratamente affermato il
principio secondo il quale, in relazione ai
lavori eseguiti su manufatti originariamente abusivi che non
siano stati sanati, né condonati (ed anche se
illegittimamente sanati o condonati), sono configurabili le
fattispecie di illecito previste dall'art. 44 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, in quanto gli interventi ulteriori (sia
pure riconducibili, nello loro oggettività, alle categorie
della manutenzione straordinaria, del restauro e/o
risanamento conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche)
ripetono le caratteristiche di illegittimità dall'opera
principale alla quale ineriscono strutturalmente
(Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano, Rv. 234472; Sez.
3, n. 1810 del 02/12/2008, dep. 19/01/2009, P.M. in proc.
Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014,
Stewart ed altro Rv. 259665; Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014
Rossignoli ed altri, Rv. 261330) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.12.2015 n. 48221 - tratto da
www.lexambiente.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Contributo unificato una volta. Se i nuovi ricorsi non
ampliano l'oggetto del giudizio. Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha
accolto la domanda di esenzione.
Nel caso di ricorso per motivi aggiunti che non amplia
l'oggetto del giudizio vi è esenzione dal pagamento del
contributo unificato.
Questo è quanto ha sancito il TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, con la
sentenza 03.12.2015 n. 2840.
Nel caso in esame, in una controversia avente a oggetto una
procedura aperta per l'aggiudicazione del «Servizio di
gestione asili nido e micro nido» nel comune di Siracusa, il
ricorrente aveva richiesto di non pagare il contributo
unificato per il ricorso per motivi aggiunti, alla luce
della decisione della Corte di giustizia dell'Unione
europea, V, 06.10.2015 in C-61/14.
Tale sentenza, infatti, dopo aver affermato come la legge
italiana, nel prevedere contributi multipli in caso di
ricorsi contro la medesima aggiudicazione, non contrasti col
diritto comunitario, evidenzia come spetti al giudice
nazionale accertare se gli oggetti dei ricorsi «non sono
effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento
considerevole dell'oggetto della controversia già pendente»,
e, nel caso, di «dispensare l'amministrato dall'obbligo di
pagamento di tributi giudiziari cumulativi».
Il giudice
europeo, quindi, con questa pronuncia non si è limitato a
salvare la normativa di diritto interno sottoposta al
proprio esame, ma ha anche demandato, con un considerevole
ampliamento dei poteri decisori, al giudice amministrativo
la gestione del «rimedio» di giustizia, nell'esercizio della
propria giurisdizione esclusiva a norma del numero 1) della
lettera e) dell'art. 133 c.p.a., «se accerta che tali
oggetti (ovvero: quello del ricorso principale e del ricorso
per motivi aggiunti e/o del ricorso incidentale
successivamente presentato e/o presentati) non sono
effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento
considerevole dell'oggetto della controversia già pendente,
è tenuto a dispensare l'amministrato dall'obbligo di
pagamento di tributi giudiziari cumulativi».
Alla luce di queste considerazioni, i giudici amministrativi
catanesi accolgono la domanda di esenzione: dopo aver
rilevato che nel caso in esame i motivi aggiunti non hanno
ampliato l'oggetto della controversia, ma si sono limitati a
ribadire le medesime censure riferite, per altro per
illegittimità derivata, all'intervenuta aggiudicazione
definitiva, ritengono applicabile il principio recentemente
affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).
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MASSIMA
Va, infine, esaminata l’ultima questione posta da parte
ricorrente in ordine alla richiesta di esenzione del
contributo unificato per il ricorso per motivi aggiunti,
alla luce della sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, V, 06.10.2015 in C-61/14, che ha
affermato che la legge italiana che prevede contributi
multipli in caso di ricorsi avverso la medesima
aggiudicazione non contrasta col diritto comunitario, ma
anche che spetta al giudice nazionale accertare se gli
oggetti dei ricorsi “non sono effettivamente distinti o
non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto
della controversia già pendente”, e, nel caso, di “dispensare
l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi
giudiziari cumulativi”.
Come premesso, nel caso in esame, il ricorso per motivi
aggiunti non amplia l’oggetto della controversia,
limitandosi a ribadire le medesime censure riferite, per
altro per illegittimità derivata, all’intervenuta
aggiudicazione definitiva.
Consegue l’accoglimento della domanda. |
ESPROPRIAZIONE: Esproprio con permuta limitato. Strumento applicabile solo
per interventi di riabilitazione urbana.
Tar Puglia. Bocciato lo scambio forzoso di un terreno nel
caso di un Consorzio che voleva inglobare un’area.
Più difficile
imporre permute di terreni per attuare progetti di interesse
generale: lo sottolinea il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con
sentenza 03.12.2015 n. 1590,
relativa al caso di un Consorzio che aveva necessità di
inglobare una piccola area.
Il proprietario di un lotto (208 metri quadrati), era stato
espropriato ricevendo come indennizzo un’area, in permuta,
di 733 metri quadrati. Ciò perché il Comune, superando il
meccanismo normale di indennizzo in moneta (articolo 36
Testo unico 327/2001, pagamento del valore venale), aveva
applicato una norma speciale che consente permute di
immobili.
L’ente locale, infatti, su richiesta di altri proprietari
consorziati che intendevano realizzare un ampio piano
urbanistico, aveva applicato l’articolo 27 della legge 166
del 2001, che consente alla maggioranza assoluta
(catastalmente determinata) dei proprietari, di espropriare
le aree dei consorziati in disaccordo, ricorrendo a permute
per gli indennizzi.
La decisione del Tribunale
Su ricorso dell’espropriato, il Tar ha adottato
un’interpretazione restrittiva della norma sulle permute,
ritenendola applicabile solo nel caso dei piani di
«riabilitazione urbana». Secondo i giudici, solo quando si
tende alla riqualificazione di immobili ed attrezzature, al
miglioramento dell’accessibilità e mobilità urbana,
riordinando reti di trasporto e infrastrutture (Legge
166/2001) è possibile imporre le permute, mentre negli altri
casi chi perde l’area ha diritto a un corrispettivo in
denaro.
Nel caso esaminato in Puglia, si discuteva di un piano di
lottizzazione e quindi si era al di fuori del regime della
legge 166 sulla riabilitazione urbana. Esclusa la permuta,
rimangono, tuttavia, strade diverse dal pagamento in danaro:
ad esempio è possibile stipulare un accordo a norma della
legge 241/1990, modificando destinazioni e volumetrie
(articolo 5 Dpr 447/1998, per le iniziative produttive),
oppure fruire di meccanismi di densificazione urbana
(articolo 17, comma 4-bis, Testo unico Edilizia, introdotto
dal decreto legge 133/2014) o contributi al Comune in cambio
del maggior valore dovuto a varianti.
La perequazione
In sede di pianificazione generale, può operare poi il
principio della perequazione, modificando gli indici di
edificabilità per trovare spazio e risorse economiche utili
all’esecuzione di interventi pubblici (Consiglio di Stato
4545/2010, sul Piano regolatore generale di Roma).
Prende
piede quindi una “moneta parallela” per gli scambi in
materia urbanistica, con accordi agevolati da una sorta di
“proibizionismo” iniziato nel 2011, quando il legislatore ha
fortemente scoraggiato gli acquisti immobiliari delle
pubbliche amministrazioni (articolo 12, comma 1-quater,
decreto legge 98/2011).
Permute consensuali
Se gli acquisti sono possibili solo in caso di “assoluta
convenienza” (codificati nel decreto ministeriale 14.02.2014), è la stessa Corte dei conti (Sezione
Toscana, delibera 125/2013; Liguria, delibera 9/2013) a
suggerire il ricorso a figure parallele di scambio, comprese
le permute. Figure, queste ultime, che il Tar Bari vuole
sempre, tuttavia, consensuali, senza quindi la possibilità
di imporre d’autorità uno scambio di beni.
(articolo Il Sole 24 Ore del
17.12.2015). |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti, tariffe da motivare. Vanno indicati costi di
esercizio precedente, stime, gettito.
Il Tar Emilia-Romagna in deroga al
principio di esclusione per delibere e regolamenti.
La delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti deve
essere motivata e deve indicare i costi di esercizio
dell'anno precedente, le stime dell'anno di competenza, il
gettito della tassa e le ragioni dell'eventuale aumento dei
costi e delle tariffe. Vanno quindi esplicitate con
chiarezza tutte le risultanze istruttorie e le ragioni delle
decisioni dell'ente.
Si tratta di una deroga al principio
generale che esclude la motivazione per tutti gli atti a
contenuto generale, vale a dire delibere e regolamenti.
Inoltre, non è possibile applicare agli alberghi tariffe
notevolmente più elevate rispetto alle civili abitazioni,
senza distinguere se al loro interno hanno o meno anche
l'attività di ristorazione.
Lo ha affermato il TAR Emilia Romagna-Bologna - Sez. II, con la
sentenza
02.12.2015 n. 1056.
Per il Tar, nella delibera con la quale si determinano le
tariffe relative alla tassa rifiuti, il comune «deve
esplicitare con chiarezza tutte le risultanze istruttorie,
fornendo motivazione dettagliata delle ragioni delle proprie
decisioni».
Devono essere indicati, dunque, il costo di
esercizio dell'anno precedente e il relativo gettito, nonché
il costo preventivato per l'anno di competenza e il quantum
dell'aumento degli oneri per la raccolta e lo smaltimento
rifiuti svolto dal gestore del servizio.
Secondo il giudice
amministrativo, le regole sulle delibere Tarsu rappresentano
un'eccezione rispetto al principio che esclude dall'obbligo
di motivazione tutti gli atti a contenuto generale. Sulla
questione, però, la Cassazione ha preso una posizione
diversa. In effetti, i giudici di legittimità (sentenza
22804/2006) hanno escluso questo adempimento per gli atti
generali, come previsto dall'articolo 3 della legge
241/1990.
Mentre sulla necessità di motivare le delibere
tariffarie non c'è un'uniformità di vedute neppure nella
giurisprudenza amministrativa. Il Tribunale amministrativo
regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce (II), con
la sentenza 1238/2013, ha stabilito che il comune non è
tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu.
L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire
i costi del servizio. Il Consiglio di stato (sentenza
5616/2010), invece, ha sostenuto che il comune deve motivare
la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu. E
non può invocare genericamente la necessità di assicurare la
tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati
certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio.
Anche con la sentenza 504/2015 ha ribadito che
l'amministrazione comunale deve indicare nella delibera le
ragioni che hanno comportato l'aumento delle tariffe della
tassa rifiuti, con l'obbiettivo di coprire integralmente i
costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di
privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività
produttive. Quindi, può prevedere tariffe più elevate per le
utenze non domestiche.
Tariffe alberghi. A proposito di utenze non domestiche non
trova pace la questione relativa alla tassazione delle
attività alberghiere. Con la pronuncia in esame, il giudice
amministrativo ha sostenuto che il comune di Riccione
avrebbe dovuto indicare nella delibera, «sulla base di dati
statistici rilevati a seguito di studi specifici e
oggettivamente riscontrabili», i motivi per cui ha ritenuto
di applicare agli esercizi alberghieri una tariffa maggiore
rispetto a quella applicata alle abitazioni civili.
Sebbene,
in linea di principio, appare giustificato un regime di
tassazione più elevato per gli alberghi con servizio di
ristorazione, poiché un'attività di questo tipo può
determinare una «produzione quantitativamente e
qualitativamente significativa di rifiuti, non appare
corretto laddove non prevede alcuna distinzione, nell'ambito
degli alberghi, fra le aree destinate esclusivamente a
camere e quelle destinate alla ristorazione».
In realtà,
però, la Corte di cassazione (sentenza 12769/2015) anche di
recente ha ribadito che le amministrazioni locali hanno il
potere di fissare tariffe più elevate per gli alberghi
rispetto a quelle delle abitazioni. E non ha mai operato una
distinzione tra alberghi con o senza ristorazione. A
giudizio della Cassazione (sentenza 302/2010) la maggiore
capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto a
una civile abitazione costituisce un dato di comune
esperienza.
In effetti, l'articolo 68 del decreto
legislativo 507/1993 non imponeva ai comuni di inserire gli
immobili adibiti ad attività alberghiere nella stessa
categoria di quelli utilizzati come abitazioni, poiché non
manifestano la stessa potenzialità di produzione di rifiuti.
Del resto, non sono inseriti nella stessa categoria neppure
per la Tari. Così come gli enti non sono tenuti a concedere
riduzioni tariffarie per le attività alberghiere e di
ristorazione se sono stagionali.
Del resto, eventuali benefici fiscali devono essere
espressamente previsti da una norma di legge che disciplini
la tassa rifiuti o da una norma regolamentare. I comuni
erano tenuti a emanare per la Tarsu un regolamento che
doveva contenere non solo la classificazione delle categorie
ed eventuali sottocategorie, ma anche la graduazione delle
tariffe ridotte per particolari condizioni d'uso. Nel
regolamento vanno individuate le fattispecie agevolative,
con le relative condizioni, le modalità di richiesta e le
eventuali cause di decadenza.
Sono invece totalmente esclusi dal prelievo i locali e le
aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o
per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o
perché risultino in obiettive condizioni di non
utilizzabilità nel corso dell'anno. Tra i locali e le aree
che non possono produrre rifiuti per la natura delle loro
superfici rientrano quelli situati in luoghi impraticabili,
interclusi o in stato di abbandono
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
VARI:
Mediatore pagato da ciascuna delle parti.
Il mediatore avrà diritto alla provvigione da ciascuna delle
parti, nel caso in cui l'affare si concluda per effetto del
suo intervento e per «conclusione dell'affare» dovrà
intendersi il compimento di un'operazione di natura
economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le
parti, di un atto cioè in virtù del quale sia costituito un
vincolo che dia diritto di agire per l'adempimento dei patti
stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno.
È quanto affermato dai giudici della VI Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
30.11.2015 n. 24399.
I giudici di piazza Cavour nella sentenza in commento hanno
altresì evidenziato come anche la stipulazione di un
contratto preliminare sarà sufficiente a far sorgere tale
diritto, «sempre che si tratti di contratto definitivo o
preliminare validamente concluso e rivestito dei prescritti
requisiti e quindi di forma scritta ove richiesta ad substantiam (art. 1350 e 1351 cc.)».
Nel caso, poi, in cui
il contratto concluso per effetto dell'intervento del
mediatore sia sottoposto a condizione dovrà trovare
applicazione la disciplina di cui all'art. 1757, comma 1 e 2
cc, rispettivamente a seconda che tale condizione sia
sospensiva (nella quale ipotesi il diritto alla provvigione
sorge nel momento in cui si verifica la condizione) o
risolutiva (nel qual caso il diritto alla provvigione non
viene meno col verificarsi della condizione). Sarà,
pertanto, opportuno da un lato accertare l'esistenza di un
contratto preliminare tra le parti stipulato con l'ausilio
del mediatore, dall'altro, qualificare come condizione
risolutiva una determinata clausola del contratto
preliminare.
Il thema decidendum sul quale gli Ermellini sono
stati chiamati ad esprimersi aveva ad oggetto una società
immobiliare, che con citazione interponeva appello avverso
la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannata essa
appellante al pagamento in favore di Tizio di una
determinata somma di denaro a titolo di restituzione del
compenso corrisposto per l'intermediazione immobiliare in
relazione all'acquisto di un appartamento che non si era
perfezionato per la mancanza concessione del mutuo cui la
stipula del contratto definitivo era stata condizionata
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il magazzino non può usare la canna fumaria.
Impianti. Per la Cassazione occorre il legame di
accessorietà dell’unità immobiliare.
Il ripristino
dell’impianto di riscaldamento centralizzato non può essere
rivendicato dalle unità immobiliari che per loro
conformazione non sono servite da tale impianto.
La Corte di Cassazione, con
sentenza
27.11.2015 n. 24296, ha affermato che il proprietario di un magazzino non
servito dall’impianto di riscaldamento centralizzato, per
ragioni di conformazione dell’edificio, non può
legittimamente vantare un diritto di condominio
sull’impianto medesimo, perché questo non è legato all’unità
immobiliare da una relazione di accessorietà (che si
configura come il fondamento tecnico del diritto di
condominio), ossia da un collegamento strumentale, materiale
e funzionale consistente nella destinazione all’uso o al
servizio della medesima.
In sostanza, un condòmino agiva in giudizio chiedendo che
fosse dichiarata la nullità della delibera con la quale
l’assemblea condominiale aveva disposto la demolizione della
parte finale della canna fumaria e la sua chiusura, con ciò
pregiudicando il suo diritto all’utilizzo di tale impianto.
In realtà, il condòmino la usava dal 1993 come canna fumaria
del camino posto in un locale al piano terra di sua
proprietà. Ma quella canna era stata abbandonata sin dal
1985, per effetto della trasformazione dell’impianto di
riscaldamento centralizzato in autonomo. Il condominio aveva
poi deciso la demolizione a causa del pericolo di crollo.
La Corte di cassazione, confermando la decisione del giudice
distrettuale, ha evidenziato che il collegamento è stato
operato tra la canna fumaria e il camino posto nel locale
magazzino al piano terra di proprietà del ricorrente, sicché
è irrilevante che all’interno dello stabile la parte istante
fosse proprietaria di un’altra unità immobiliare.
Infatti,
la relazione di accessorietà, che si configura come il
fondamento tecnico del diritto di condominio, va considerata
su base reale, in relazione a ciascun piano o porzione di
piano in proprietà esclusiva, senza che a tal fine abbia
rilievo il vincolo pertinenziale creato dal singolo
condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva
proprietà all’interno dello stesso edificio condominiale. Il
presupposto per l’attribuzione della proprietà comune in
favore di tutti i compartecipi viene meno se le cose, gli
impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri
strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o
per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di
alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell’edificio.
Rispetto all’impianto di riscaldamento centralizzato, il
proprietario del magazzino non può dunque rivendicare la
natura condominiale del bene (articolo Il Sole 24 Ore
dell'08.12.2015).
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MASSIMA
Va in primo luogo osservato che, contrariamente a quanto
ritenuto dal ricorrente, non ha rilievo la titolarità, in
capo al Do., anche di un appartamento (al quinto piano)
nell'ambito dello stesso fabbricato condominiale, perché
nella specie la controversia attiene all'utilizzo della
canna fumaria per il tramite del collegamento operato con il
camino posto nel locale magazzino al piano terra di
proprietà del medesimo Do..
E la relazione di accessorietà, che si configura come il
fondamento tecnico del diritto di condominio, va
considerata, su base reale, in relazione a ciascun piano o
porzione di piano in proprietà esclusiva, senza che a tal
fine abbia rilievo il vincolo pertinenziale creato dal
singolo condomino tra più unità immobiliari di sua esclusiva
proprietà all'interno dello stesso edificio condominiale.
Occorre prendere le mosse dagli accertamenti compiuti dalla
Corte d'appello:
(a) il locale magazzino di cui il ricorrente è proprietario
e a tutela del quale ha agito per vedersi riconosciuto il
diritto all'utilizzo della canna fumaria non era servito
dall'impianto termico centralizzato quando questo era in
esercizio;
(b) il Do. ha realizzato all'interno del locale un caminetto
che ha provveduto a collegare alla canna fumaria.
Ritiene il Collegio, in conformità della propria
giurisprudenza (Cass., Sez. II, 07.06.2000, n. 7730), che
il proprietario dell'unità immobiliare (nella specie,
magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio,
non sia servita dall'impianto di riscaldamento
centralizzato, non può legittimamente vantare un diritto di
condominio sull'impianto medesimo, perché questo non è
legato alla detta unità immobiliari da una relazione di
accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico
del diritto di condominio), e cioè da un collegamento
strumentale, materiale e funzionale consistente nella
destinazione all'uso o al servizio della medesima.
Il presupposto per l'attribuzione della
proprietà comune in favore di tutti i compartecipi
viene meno, difatti, se le cose, gli impianti, i servizi di
uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e
funzionali, siano necessari per l'esistenza o per l'uso
(ovvero siano destinati all'uso o al servizio) di alcuni
soltanto dei piani o porzioni di piano dell'edificio.
Correttamente, pertanto, la Corte d'appello ha escluso che
l'utilizzazione della canna fumaria, per lo scarico dei fumi
dal camino realizzato nel magazzino a piano terra,
rientrasse in un'ipotesi di uso frazionato della cosa
comune, non essendo l'impianto termico e la canna fumaria,
per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, a servizio
di quel locale. Cade anche la premessa della censura di
violazione degli artt. 1120 e 1136 cod. civ., prospettata
sul presupposto di una condominialità rispetto a quel bene
che invece non sussiste. |
PUBBLICO IMPIEGO:
No alla sottoposizione a dirigenti amministrativi.
È illegittimo il regolamento di un comune che subordina
l'Avvocatura civica a un dirigente amministrativo peraltro
non iscritto alla sezione speciale dell'albo degli avvocati.
Lo ha sancito il TAR Veneto, Sez. II con la
sentenza
27.11.2015 n. 1274.
Il comune di Vicenza aveva modificato il regolamento
dell'ordinamento degli uffici e dei servizi collocando
l'Avvocatura civica all'interno degli uffici di staff del
sindaco, sottoponendolo alla direzione del dirigente
amministrativo del «settore risorse umane, segreteria
generale e organizzazione».
Tale deliberazione era stata impugnata dall'avvocato
dell'ente che, in qualità di funzionario inquadrato con la
qualifica D3/D6 «Avvocato», prestava la propria
attività professionale come responsabile dell'Avvocatura
civica, lamentando il mancato riconoscimento di autonomia.
Il Tar Veneto accoglie il ricorso. Le avvocature degli enti
pubblici, infatti, devono essere costituite in un apposito
ufficio dotato di adeguata stabilità ed autonomia
organizzativa, nonché distinzione dagli altri uffici di
gestione amministrativa al quale devono essere preposti
avvocati addetti in via esclusiva alle cause e agli affari
legali con esclusione dello svolgimento di «attività di
gestione».
Secondo i giudici amministrativi tali regole «costituiscono
l'applicazione ai professionisti legali degli enti pubblici,
che sono soggetti agli obblighi deontologici e alla
vigilanza degli ordini forensi di appartenenza, dei principi
che caratterizzano la professione legale, la quale deve
essere svolta senza condizionamenti che potrebbero
comprometterne l'indipendenza».
Non può che essere ritenuta illegittima, quindi, una
delibera comunale nel caso in cui risulti che l'Avvocatura
civica è struttura subordinata ad un dirigente
amministrativo, peraltro non iscritto alla sezione speciale
dell'albo degli avvocati
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015).
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MASSIMA
Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto
per le assorbenti censure di violazione dell’art. 23 della
legge 31.12.2012, n. 247, contenute nel primo dei motivi
aggiunti.
Il Comune sostiene che l’assetto organizzativo nel quale ha
inserito l’Avvocatura civica rientra nell’ambito della sua
discrezionalità, perché gli avvocati degli uffici legali
degli enti pubblici devono godere di specifiche garanzie di
autonomia ed indipendenza per la parte tecnica di loro
competenza, ma possono essere funzionalmente dipendenti da
settori amministrativi, e sostiene altresì che i molteplici
atti, quali gli ordini di missione, le comunicazioni di
servizio, la corrispondenza intercorsa tra altre strutture
dell’Ente e il direttore delle ricorse umane per questioni
legali pertinenti all’attività propria dell’Avvocatura
civica depositati in giudizio dalla ricorrente, non denotano
la mancanza di autonomia dell’Avvocatura, e possono tutt’al
più rappresentare degli atti di microganizzazione
eventualmente censurabili unicamente avanti al giudice del
lavoro.
Le tesi del Comune non sono condivisibili e non tengono
conto delle più recenti modifiche apportate in materia
dall’art. 23 della legge 31.12.2012, n. 247.
In realtà già in base all’art. 3 R.D.L.
27.11.1933 n. 1578, erano stati enucleati dalla
giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense,
competente ad esprimersi avverso le decisioni dei Consigli
dell’Ordine e, in grado definitivo, delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, una serie di
principi secondo i quali le avvocature degli enti pubblici
devono essere costituite in un apposito ufficio dotato di
adeguata stabilità ed autonomia organizzativa nonché
distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa al
quale devono essere preposti avvocati addetti in via
esclusiva alle cause e agli affari legali con esclusione
dello svolgimento di “attività di gestione”
(cfr. Cassazione civile, Sez. Un. 18.04.2002 n. 5559; id.
25.11.2008, n. 28049; id. 19.10.1998 n. 10367; id.
19.10.1998, n. 10367; Cass. Sez. Un. 10.05.1993 n. 5331).
Tali regole costituiscono l’applicazione ai
professionisti legali degli enti pubblici, che sono soggetti
agli obblighi deontologici e alla vigilanza degli ordini
forensi di appartenenza, dei principi che caratterizzano la
professione legale che deve essere svolta senza
condizionamenti che potrebbero comprometterne
l’indipendenza.
L’art. 23 della legge 31.12.2012, n. 247,
nel dettare la nuova disciplina dell’ordinamento forense, ha
chiarito e meglio delineato i requisiti di tale autonomia
precisando che deve essere garantita anche sul piano
organizzativo.
Ha infatti previsto che agli avvocati degli
uffici legali specificamente istituiti presso gli enti
pubblici deve essere assicurata la piena indipendenza ed
autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari
legali dell'ente ed un trattamento economico adeguato alla
funzione professionale svolta, e che la responsabilità
dell'ufficio deve essere affidata “ad un avvocato
iscritto nell'elenco speciale che esercita i suoi poteri in
conformità con i principi della legge professionale”.
Nel caso di specie poiché l’Avvocatura
civica non è stata organizzata come una struttura autonoma
ma come una struttura subordinata ad un dirigente
amministrativo peraltro non iscritto alla sezione speciale
dell’albo degli avvocati, tali requisiti non sono
rispettati, e viene meno quella netta separazione
dall’apparato amministrativo richiesta dalla normativa sopra
richiamata (ex
pluribus cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. III,
16.02.2015 n. 486; Tar Basilicata, Sez. I, 08.07.2013, n.
405; Tar Sardegna, Sez. II, 14.01.2008 n. 7).
Peraltro la quantità e la tipologia di atti depositati in
giudizio dalla ricorrente (ordini di missione, comunicazioni
di servizio, corrispondenza intercorsa tra altre strutture
dell’Ente e il dirigente amministrativo per questioni legali
pertinenti all’attività propria dell’Avvocatura civica: cfr.
docc. da 3 a 11 allegati al ricorso), e il parere
predisposto dal Segretario generale e dal direttore del
settore risorse umane per la redazione della deliberazione
impugnata con il ricorso introduttivo (cfr. doc. 2 allegato
alle difese del Comune di Vicenza nel quale si afferma che
l’Avvocato deve riferire ad un dirigente per quanto riguarda
l’assegnazione degli affari, che spetta al dirigente
amministrativo la scelta di un avvocato esterno e la
liquidazione di diritti, e che l’Avvocato deve sottostare
alle indicazioni strategiche del dirigente sulla gestione
della lite), sono chiaramente sintomatici dell’esistenza di
sistematiche interferenze nell’attività svolta
dall’Avvocatura civica e dell’inidoneità dell’assetto
organizzativo previsto dalla deliberazione impugnata ad
assicurare la necessaria autonomia e distinzione dagli altri
uffici di gestione amministrativa.
In definitiva deve essere dichiarata l’improcedibilità per
sopravvenuta carenza di interesse del ricorso introduttivo,
mentre devono essere accolte le censure, che hanno carattere
assorbente, di cui al primo dei motivi aggiunti, con
conseguente annullamento, nei limiti di interesse della
ricorrente, della deliberazione di Giunta comunale n. 132
del 04.07.2014.
Tenuto conto della non univocità degli orientamenti
giurisprudenziali riferiti alla normativa antecedente alla
legge 31.12.2012, n. 247, le spese di giudizio possono
essere integralmente compensate. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Anche nel pubblico la reintegra è un’eccezione.
Licenziamenti. Dopo la Cassazione.
La
sentenza 25.11.2015 n. 24157
della Corte di Cassazione -Sez. lavoro- ha riportato al
centro del dibattito politico la questione relativa
all’applicabilità nei confronti dei dipendenti pubblici
delle due riforme (legge Fornero del 2012 e Jobs act del
2015) che hanno ristretto in maniera significativa
l’applicazione della reintegra sul posto di lavoro in caso
di licenziamento illegittimo. Il dibattito sull’opportunità
politica si intreccia con una questione tecnica importante,
anzi decisiva, ma ancora irrisolta: le norme della legge
Fornero e delle tutele crescenti oggi si applicano oppure no
ai dipendenti pubblici?
La sentenza della Cassazione (si veda «Il Sole 24 Ore» del
1° dicembre) dà una risposta diretta alla domanda solo per
quanto riguarda la legge Fornero, ma mette in campo un
ragionamento che, se fosse applicato alle tutele crescenti,
porterebbe, molto probabilmente, a confermarne
l’applicabilità anche ai lavoratori pubblici.
La Suprema corte, infatti, chiamata a valutare l’estensione
ai dipendenti pubblici della riforma dell’articolo 18
approvata nel 2012, ha evidenziato che non esiste, nella
legge Fornero, una norma che consente di escludere
l’applicabilità del principio, contenuto nell’articolo 51
del testo unico sul pubblico impiego, che assoggetta
lavoratori pubblici e privati allo stesso regime
sanzionatorio in materia di licenziamenti.
La sentenza, invece, non si occupa delle tutele crescenti.
Si potrebbe, quindi, sostenere che il Dlgs 23/2015, non
abrogando formalmente il vecchio articolo 18 (che tuttavia
viene abbandonato di fatto, per i nuovi assunti), non
avrebbe cambiato il regime sanzionatorio applicabile ai
dipendenti pubblici, che sarebbero quindi soggetti alla
legge Fornero (come ha deciso la Cassazione) ma non
all’ultima riforma.
Sarebbe una lettura difficilmente compatibile con il
ragionamento contenuto nella sentenza 24157/2015, in quanto
mancherebbe sempre un pezzo importante: non c’è traccia, nel
Jobs act, di una norma che limita (per i nuovi assunti) al
solo settore privato l’applicazione delle tutele crescenti.
Ma anche volendo escludere l’applicabilità del Jobs act per
i nuovi assunti, non si può fare a meno di prendere atto che
il principio affermato dalla Cassazione introduce una
rivoluzione copernicana anche nel lavoro pubblico, dove
entra a pieno titolo il sistema della legge Fornero,
incentrato sulla tutela indennitaria (e non sulla
reintegrazione).
La politica può e deve continuare a discutere se sia
opportuno oppure no applicare regimi diversi in tema di
licenziamento tra il settore pubblico e quello privato: ma
la scelta deve essere fatta tramite norme chiare e
trasparenti.
In questo senso, le dichiarazioni dei giorni scorsi del
ministro Madia sono un segnale importante: dopo aver negato
per mesi l’esistenza del problema, il ministro ha annunciato
che ci sarà un chiarimento interpretativo nella riforma del
lavoro pubblico in corso di completamento.
Sarebbe un passaggio importante: una scelta politica così
rilevante non può essere consegnata alle aule giudiziarie ma
deve essere formalizzata in regole chiare, a prova di
contenzioso (articolo Il Sole 24 Ore del
04.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Articolo 18 e Pa, Madia annuncia un intervento.
Dopo la sentenza della Cassazione. La ministra: la riforma
non si applica automaticamente agli statali. Ma il
sottosegretario all’Economia Zanetti: errore tecnico e
politico sostenere ancora l’inapplicabilità.
«Per il pubblico impiego la riforma
dell’articolo 18 non vale, perché c’è una differenza
sostanziale rispetto al privato, rappresentata dal tipo di
datore di lavoro: il datore privato ragiona con risorse sue,
quello pubblico ragiona con risorse della collettività. Nel
Testo unico sul pubblico impiego chiariremo anche questo
aspetto in modo esplicito».
Il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia
interviene direttamente nel dibattito riaperto dalla Corte
di Cassazione - Sez. lavoro, che nella
sentenza 25.11.2015 n. 24157
(su cui si veda Il Sole-24 Ore di ieri) si è pronunciata per
l’estensione automatica dell’articolo 18 agli uffici
pubblici perché prevista dal testo unico attuale (articolo
51 del Dlgs 165/2011).
E la discussione ritorna negli stessi termini che l’aveva
animata anche all’interno del Governo ai tempi dei decreti
attuativi del Jobs Act quando, come ricorda il
sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, «qualcuno
tentò di inserire un comma per escludere esplicitamente
dalle nuove regole i dipendenti pubblici, ma il comma fu
tolto. In questo quadro, chi sostiene ancora
l’inapplicabilità della riforma commette un grave errore
tecnico, e secondo noi anche un errore politico perché il
Jobs Act serve proprio a cancellare la vecchia separazione
fra chi era tutelato troppo e chi lo era troppo poco».
Simile è l’impostazione seguita da Pietro Ichino, il
giuslavorista e senatore del Pd che sul tema propone da
tempo l’abbattimento dei confini fra pubblico e privato: «Le
riforme dell’articolo 18 -spiega- si applicano anche al
pubblico impiego perché una norma speciale di esclusione non
c’è. Certo, il governo può sempre ripensarci, anche se non
se ne vede la ragione dal momento che le tutele crescenti
sarebbero la soluzione ideale per la stabilizzazione dei
molti precari che hanno maturato anni di servizio nelle Pa.
In ogni caso non può farlo nei decreti attuativi della
riforma della Pa, perché la delega non ha una riga sulla
disciplina del recesso. Quello che va fatto, e che la delega
consente, è definire le opportune procedure interne del
licenziamento disciplinare e di quello per motivo oggettivo,
che ne assicurino la dovuta ponderazione imparziale, ma al
tempo stesso lo rendano effettivamente praticabile».
Anche di questo aspetto parla la Cassazione che, in linea
con la Corte d’appello di Palermo, ha ritenuto nullo il
licenziamento perché tutta la procedura è stata portata
avanti da un solo componente dell’ufficio per i procedimenti
disciplinari, che è invece un organo collegiale.
Per i giudici di legittimità, in pratica, l’applicazione
delle riforme dell’articolo 18 (la sentenza discute della
prima riforma, quella introdotta con la legge Fornero del
2012, perché riguarda un licenziamento di tre anni fa) «è
innegabile» per «l’inequivocabile tenore
dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001», cioè del Testo
unico del pubblico impiego in base al quale lo Statuto dei
lavoratori con le «successive modifiche e integrazioni si
applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal
numero dei dipendenti». Ma questa estensione, che per la
Cassazione avviene «a prescindere dalle iniziative
normative di armonizzazione», cioè senza che lo debba
prevedere una regola esplicita, deve ovviamente fare i conti
con le regole del procedimento disciplinare, la cui
violazione può cancellare il licenziamento a prescindere
dall’articolo 18.
Proprio su questo punto chiedono di intervenire gli stessi
fautori della “riforma per tutti”. «Bisogna
prendere atto della sentenza -sostiene Zanetti- smettendo di
cercare di difendere l’indifendibile, e introdurre le norme
procedurali necessarie per dare operatività concreta al
principio con regole che garantiscano un ufficio
disciplinare davvero terzo rispetto al dirigente che chiede
il licenziamento e al dipendente che lo subisce»
(articolo Il Sole 24 Ore del
02.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo
articolo 18 anche nella Pa. La Cassazione: applicabile il
rito Fornero - Spazio per estendere le tutele crescenti.
Lavoro. I giudici di legittimità riaprono il confronto
sull’estensione alla pubblica amministrazione delle regole
sui licenziamenti.
Le riforme dell’articolo 18 si
applicano in automatico anche al pubblico impiego “contrattualizzato”,
cioè a tutti i dipendenti statali e locali tranne
professori, magistrati e militari, perché il parallelismo
con il lavoro privato è previsto in modo esplicito dal Testo
unico del pubblico impiego.
A fissare il principio in via ufficiale è la Corte di
Cassazione - Sez. lavoro, nella
sentenza 25.11.2015 n. 24157, intervenendo così
su un tema da tempo al centro di un dibattito che ha
scaldato politici e giuristi, e orientato (soprattutto fra i
primi) nella sua maggioranza per il mantenimento del vecchio
articolo 18 negli uffici pubblici.
I giudici si occupano del licenziamento in cui è incappato
il dirigente di un consorzio siciliano nell’agosto del 2012
(licenziamento che peraltro la Cassazione giudica
illegittimo, d’accordo con la Corte d’appello di Palermo, ma
per ragioni procedurali), e quindi si riferiscono alle
novità intervenute quell’anno con la riforma Fornero, che
nel licenziamento economico («per giustificato motivo
oggettivo») aveva in pratica limitato il reintegro ai
casi in cui i giudici avessero individuato la «manifesta
insussistenza» delle ragioni alla base dello stop al
rapporto di lavoro.
Nel frattempo, però, sono arrivati anche il Jobs Act e i
suoi decreti attuativi, che hanno introdotto il sistema
delle «tutele crescenti» per gli assunti a tempo
indeterminato dal 07.03.2014, e la questione è analoga.
Per capire portata e conseguenze della sentenza della
Cassazione occorre dare uno sguardo al contesto in cui è
maturata. Tutto nasce da un consorzio pubblico siciliano,
che nell’agosto del 2012 ha licenziato un proprio dirigente;
il licenziamento è caduto in giudizio, perché tutta la
partita è stata condotta da un solo componente dell’ufficio
procedimenti disciplinari che è invece un organo collegiale.
La Cassazione conferma questa ragione di nullità, ma
affronta anche l’altra questione sollevata dal Consorzio,
che ha chiesto ai giudici di pronunciarsi sull’applicazione
del nuovo articolo 18 agli statali e, in caso di risposta
negativa, di interessare la Corte costituzionale sulla
disparità di trattamento fra lavoro pubblico e privato.
La Cassazione non ritiene di dover interessare la Consulta,
perché si pronuncia direttamente per l’entrata delle riforme
dell’articolo 18 anche negli uffici pubblici. Alla base di
questa decisione, spiega la sentenza, c’è «l’inequivocabile
tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001», cioè del
testo unico del pubblico impiego, in base al quale lo
Statuto dei lavoratori, con le sue «successive
modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche
amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti».
Su questo presupposto, per la Cassazione «è innegabile
che il nuovo testo dell’articolo 18» riguardi anche gli
statali, anche «a prescindere dalle iniziative normative
di armonizzazione» previste dalla riforma.
L’estensione, insomma, è automatica, e si porterebbe con sé
anche il meccanismo delle «tutele crescenti»
introdotto nel 2015, di cui la Cassazione non parla perché
chiamata a pronunciarsi su una vicenda di tre anni prima.
Anche il decreto attuativo del Jobs Act (decreto legislativo
23/2015) ha modificato la portata dell’articolo 18,
prevedendo le tutele crescenti «per i lavoratori che
rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri»
assunti a tempo indeterminato dopo la sua entrata in vigore,
anche in caso di conversione di contratto a termine.
Quando parla del «campo di applicazione», il decreto
non fa il minimo cenno a una distinzione fra lavoro pubblico
e privato, ma questo si spiega con la convinzione, espressa
a suo tempo da molti esponenti del Governo dopo un dibattito
acceso anche all’interno della maggioranza, che il Jobs Act
riguardasse solo il mondo privato.
La Cassazione, però, riapre di fatto la questione, e impone
di rivedere il coordinamento delle regole anche per dare più
certezze a dipendenti e operatori. In cantiere ci sono i
decreti attuativi della riforma Madia, che potrebbero
rappresentare la prima occasione per dare una risposta
definitiva a un interrogativo su cui le opinioni sono ancora
diversificate anche all’interno della maggioranza (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Gestori tlc tassati. Imu/Ici sui ripetitori di telefonia.
La Cassazione sulla classificazione degli immobili.
I ripetitori di telefonia mobile di cui sono titolari i vari
gestori telefonici (Vodafone, Telecom) sono soggetti al
pagamento dell'Ici, e anche dell'Imu, in quanto infissi al
suolo in maniera stabile e, quindi, sono da considerare a
tutti gli effetti dei fabbricati. Vanno, infatti, inquadrati
catastalmente nella categoria «D» e non nella categoria «E»,
come immobili esenti.
Lo ha affermato la
Corte di Cassazione
-Sez. V civile- con la
sentenza 25.11.2015 n. 24026.
Secondo la Cassazione, i ripetitori di telefonia mobile
devono essere classificati nella categoria «D», «in quanto
trattasi di struttura stabilmente infissa al suolo,
recintata, all'interno della quale è stato installato, su
platea di calcestruzzo, un traliccio cui sono state fissate
le antenne».
Questi immobili devono essere accatastati come
previsto dall'articolo 4 del rdl 652/1939. Tra l'altro,
precisano i giudici, la classificazione catastale nella
categoria «D» è prevista dalla circolare dell'Agenzia del
territorio n. 4/2006, che non fa riferimento solo alle
centrali eoliche, ma vale anche per i «ripetitori e impianti
similari».
Nello specifico, la circolare pone in rilievo
che: «Rilevante importanza hanno assunto nel tempo anche le
costruzioni tese a ospitare impianti industriali mirati alla
trasmissione o all'amplificazione dei segnali destinati alla
trasmissione (via cavo o etere)... la categoria da
attribuire agli immobili che le ospitano è da individuare
nel gruppo D... Tra le diverse tipologie dei manufatti in
esame ha registrato negli ultimi anni una significativa
diffusione sul territorio quella destinata a ospitare gli
impianti per la diffusione della telefonia mobile...».
La classificazione catastale. L'articolo 4 del rdl 652/39,
richiamato nella pronuncia in esame, definisce immobili
urbani i fabbricati e le costruzioni stabili di qualunque
materiale costruiti, stabilmente assicurati al suolo. I
ripetitori di telefonia mobile, come gli impianti eolici,
sono degli opifici e devono essere iscritti in catasto nella
categoria D/1.
L'Agenzia del territorio ha precisato la
categoria catastale che deve essere attribuita a questi
impianti e ha fornito i chiarimenti necessari sulla
disciplina che deve essere osservata dagli uffici
provinciali per determinare la rendita. La qualificazione
della tipologia di immobili e la relativa rendita assumono
rilevanza ai fini fiscali.
Il provvedimento catastale
costituisce il parametro di riferimento per la
determinazione dell'Ici e dell'Imu. Per quanto concerne gli
impianti eolici, l'Agenzia ha affermato che rilevano le
finalità cui sono destinati questi immobili e il fatto che
Stato, Regioni e Unione europea ne incentivino la
costruzione. Il classamento è indipendente «da ogni vincolo
amministrativo o legislativo non dettante disposizioni in
materia di catasto».
Al riguardo, vanno invece richiamate le
norme (rdl 652/1939, dpr 1142/1949, dm 28/1998) che
forniscono la nozione di unità immobiliare urbana e di
rendita catastale. Sono considerate unità immobiliari le
costruzioni ancorate o fisse al suolo, di qualunque
materiale costituite, nonché gli edifici sospesi o
galleggianti, stabilmente assicurati al suolo, purché
risultino verificate le condizioni funzionali e reddituali.
La stessa natura hanno i manufatti prefabbricati, anche se
solo appoggiati al suolo, qualora gli stessi siano stabili
nel tempo e presentino autonomia funzionale e reddituale.
L'obbligo di accatastamento è stato ribadito dall'art.
1-quinquies del decreto legge 44/2005, convertito nella
legge 88/2005, di interpretazione autentica del citato
articolo 4, il quale ha stabilito che i fabbricati e le
costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti
ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria,
cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione,
parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene
complesso. Strutture e impianti, che sono tra di loro
connessi e unificati da un nesso funzionale in vista della
destinazione a una determinata utilizzazione produttiva,
rientrano nel novero degli «opifici» e devono essere
classificati catastalmente nella categoria D.
Nella stessa categoria catastale rientrano anche le centrali
elettriche. Non a caso l'Agenzia del territorio, con la
risoluzione 3/2008, ha chiarito che «le centrali elettriche
a pannelli fotovoltaici devono essere accertate nella
categoria «D/1 - opifici» e che nella determinazione della
relativa rendita catastale devono essere inclusi i pannelli
fotovoltaici, in analogia con la prassi, ormai consolidata,
adottata in merito alle turbine delle centrali elettriche».
Anche la giurisprudenza ha sostenuto che questi impianti
siano soggetti a imposizione (Corte di cassazione, sentenze
13319/2006 e 4030/2012; commissione tributaria regionale del
Lazio, sezione XX, sentenza 48/2004; Commissione tributaria
regionale della Puglia, sezione XXVII, sentenza 214/2008).
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Gruppo D, conti fino ad accatastamento.
Nella disciplina Ici e Imu è previsto che per i fabbricati
iscritti in catasto il valore dell'immobile si ottiene
facendo riferimento all'ammontare delle rendite, vigenti al
1° gennaio dell'anno di imposizione.
Per i fabbricati
interamente posseduti da imprese, classificabili nel gruppo
catastale D, distintamente contabilizzati, qualora gli
stessi siano sforniti di rendita catastale, la base
imponibile Ici è costituita dai costi di acquisizione e
incrementativi contabilizzati, ai quali vanno applicati dei
coefficienti stabiliti annualmente con decreto del Ministro
delle finanze.
Il valore dell'immobile, così determinato,
può essere utilizzato fino alla fine dell'anno d'imposta nel
corso del quale viene attribuita la rendita catastale oppure
viene annotata al catasto la rendita proposta, con
l'osservanza della procedura prevista nel decreto del
ministro delle Finanze 701/1994.
Il valore, ai fini
dell'applicazione dell'Ici e dell'Imu, è determinato sulla
base delle scritture contabili fino a quando viene
presentata istanza di accatastamento. Solo dall'anno
successivo alla presentazione della suddetta istanza, il
valore del fabbricato deve essere determinato non più con
riguardo ai costi contabilizzati bensì in base al valore
catastale. Pertanto l'imprenditore, proprietario del
fabbricato di categoria D, è tenuto ad applicare il regime
del valore contabile fino alla richiesta di accatastamento.
Naturalmente, il Comune ha il potere-dovere di accertare
l'impresa titolare dei fabbricati iscritti nella categoria
«D», per i quali non è stato pagato il tributo, determinando
il quantum dovuto in base alle regole sopra citate, previste
dall'articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 504/1992
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015). |
URBANISTICA:
Le disposizioni di cui all'art. 31, commi 49-bis
e ter l. n. 448/1998 incontrano il limite della locale
pianificazione urbanistica la quale può riservare talune
quote obbligatorie di superficie o di volume per la
realizzazione di edilizia residenziale pubblica.
La ratio legis delle disposizioni di cui all'art. 31,
commi 49-bis e ter, della l. 23.12.1998, n. 448 corrisponde
"ad una politica del diritto volta a garantire il diritto
alla casa, facilitando l'acquisizione di alloggi a prezzi
contenuti (grazie al concorso del contributo pubblico), ai
ceti meno abbienti: e non certo quella di consentire
successive operazioni speculative di rivendita a prezzo di
mercato".
Pertanto, nel caso di specie, risulta legittimo il diniego
motivato con riferimento alla finalità di mantenere la
percentuale minima di superficie e volume di alloggi che lo
strumento urbanistico riserva all'edilizia residenziale
pubblica relativamente al piano attuativo per il quale è
stata stipulata la convenzione (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.11.2015 n. 1243 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La procura alla lite non obbliga al compenso.
Non per forza chi ha rilasciato la procura alla lite ha
l'obbligo di corrispondere il compenso professionale
all'avvocato, ma anche colui il quale ha affidato al legale
il mandato di patrocinio può corrispondere il compenso.
È quanto affermato dai giudici della I Sez. civile
della Corte di Cassazione con le
sentenza
18.11.2015 n. 23626.
Qualora il mandato di patrocinio sia stato richiesto e si
sia svolto nell'interesse di un terzo, si instaurerebbe in
tale ipotesi, collateralmente al rapporto con la parte che
abbia rilasciato la procura ad «ad litem», un altro distinto
rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di
un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del
cliente verrebbe assunta non dal patrocinato, ma da colui il
quale ha richiesto per lui l'opera professionale.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a esprimersi
su un caso in cui un avvocato ricorreva per Cassazione,
formulando due motivi contro il decreto del Tribunale con il
quale era stato rigettato il suo reclamo avverso il decreto
di diniego di liquidazione di compenso emesso dal giudice
delegato al concordato preventivo con cessione dei beni di
una Spa in liquidazione.
Secondo il tribunale non era «in discussione l'utilità per
la procedura dell'opera professionale prestata dall'avvocato
in quel processo (come espressamente evidenziato dal
liquidatore giudiziale nelle note dirette al giudice
delegato), ma solo se, in assenza di incarico formalmente
conferito a tale professionista dal liquidatore giudiziale
in riferimento a processo cui la procedura è rimasta
estranea, il procedimento di liquidazione giudiziale del
compenso a tale professionista (la cui misura non venne
espressamente pattuita)» fosse quello di cui all'art. 25, n.
7), l. fall..
A tale quesito andava data risposta negativa in quanto, il
liquidatore giudiziale rimase estraneo al processo medesimo;
pertanto il giudice delegato non aveva il potere di
liquidare il compenso a professionista non nominato da tale
organo della procedura per l'opera prestata in processo in
cui questa era rimasta estranea
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Avvocati dipendenti a forfait. Conta il contratto di lavoro,
non il singolo mandato.
Cassazione: necessaria la forma scritta, non surrogabile da
singoli atti di esecuzione.
Per l'avvocato dipendente di un ente pubblico non sarà
rilevante il singolo contratto di mandato professionale, ma
il contratto di lavoro parasubordinato da cui traggono
origine le singole delibere di incarico ed il conseguente
rilascio delle procure alle liti.
E sarà necessaria la forma scritta del contratto di lavoro
parasubordinato con l'ente, e tale forma non potrà essere
surrogata da quella dei singoli atti di esecuzione.
È quanto affermato dai giudici della II Sez. civile
della Corte di Cassazione con la
sentenza
17.11.2015 n. 23511.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì evidenziato come il
patrocinio legale non possa ritenersi compreso nel rapporto
di pubblico impiego tra l'ente territoriale e il
professionista nel caso in cui questi non sia inquadrato nel
ruolo legale, ma nel ruolo amministrativo.
Inoltre, in tema di forma scritta ad substantiam dei
contratti della p.a., il requisito risulta essere
soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con il rilascio al
difensore della procura ai sensi dell'art. 83 cod. proc.
civ., atteso che l'esercizio della rappresentanza giudiziale
tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo
perfeziona, mediante l'incontro di volontà fra le parti,
l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo cosi
possibile l'identificazione del contenuto negoziale e i
controlli dell'Autorità tutoria (anche in ossequio a un
ormai consolidato orientamento giurisprudenziale:
Cassazione, sezione II, 05.05.2004, n. 8500; Cassazione,
sezione VI-3, 16.02.2012, n. 2266).
Pertanto si renderà necessaria la forma scritta del
contratto di lavoro para-subordinato con l'ente pubblico,
avente ad oggetto la prestazione di servizi, da parte del
dipendente dell'ente stesso con funzioni amministrative, di
assistenza e rappresenta in giudizio; forma che non potrà
essere surrogata da quella dei singoli atti di esecuzione,
consistenti nel conferimento, di volta in volta, delle
procure alle liti.
La questione sottoposta all'attenzione degli Ermellini
prendeva le mosse da un avvocato che aveva convenuto in
giudizio un ente pubblico, ed asseriva di aver ricevuto
dall'ente stesso diversi mandati con i quali gli erano stati
conferiti altrettanti incarichi per l'espletamento di
attività professionale di assistenza e rappresentanza
giudiziale.
L'ente osservava che l'avvocato era inserito nell'ambito
dell'organizzazione pubblicistica dello stesso, poiché aveva
prestato l'attività lavorativa di cui in causa all'interno
del servizio legale, alle dirette dipendenze del
responsabile dell'Ufficio, pertanto il rapporto doveva
essere qualificato come di pubblico impiego
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ok, la spesa è giusta. Mediazione: corretti i costi su chi
ne fruisce. Il Consiglio di stato scrive un'altra pagina sugli strumenti
alternativi.
Le spese di avvio del procedimento di mediazione,
quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario,
vanno qualificate come onere economico imposto per l'accesso
a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i
quali intendano accedere alla giustizia in determinate
materie. Ne discende, quindi, la coerenza e ragionevolezza
della scelta di scaricare i relativi costi non sulla
collettività generalmente intesa, ma sull'utenza che
effettivamente si avvarrà di detto servizio.
Il Consiglio di Stato -Sez. IV- con la
sentenza
17.11.2015 n. 5230 ha scritto un'altra pagina della mediazione
civile e commerciale.
Ricordiamo che il Tar, con la pronuncia oggetto del
provvedimento in esame, ebbe modo di esprimersi, tra
l'altro, su quattro fondamentali punti della normativa in
tema di mediazione: Obbligatorietà della mediazione post dl
69/2013; Formazione degli Avvocati; Spese di avvio del
procedimento di mediazione; Imparzialità e indipendenza dei
mediatori.
Il tema delle spese di avvio della mediazione aveva lasciato
perplessi sin dal momento in cui il legislatore del 2013
inserì il c.d. primo incontro gratuito.
Il Tar Lazio, sul punto, fu tranciante laddove affermò che
l'art. 16, commi 2 e 9, del dm 180/2010 si poneva in contrasto
con la gratuità del primo incontro del procedimento di
conciliazione, previsto dalla legge laddove le parti non
dichiarino la loro disponibilità ad aderire al tentativo.
Il Consiglio di stato, intervenuto anche sul lessico confuso
della normativa, precisa, quindi, che l'uso del termine
«compenso» nel comma 5-ter dell'art. 17 del dlgs 04.03.2010, n. 28 (introdotto dalla «novella» del 2013), è
«infelice», non trovando detta terminologia riscontro in
alcuna altra parte della normativa primaria e secondaria in
tema di mediazione.
Altro punto importante toccato dalla pronuncia in esame
riguarda la formazione degli avvocati.
Il Tar Lazio nella propria pronuncia aveva annullato il
comma 3, lettera b), dell'art. 4 del dm n. 180/2010, nella
parte in cui obbligava anche gli avvocati a seguire i
percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli
organismi di mediazione.
Al riguardo il Consiglio di stato, in parziale riforma della
sentenza di primo grado, ha precisato che sussiste in ogni
caso un onere di formazione per gli Avvocati, quand'anche
siano mediatori di diritto a seguito della riforma del 2013
in quanto permane l'esigenza di assicurare che il rischio di
«incisione» sul diritto di iniziativa giudiziale
costituzionalmente garantito sia bilanciato da un'adeguata
garanzia di preparazione e professionalità in capo agli
organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento.
La sentenza del Consiglio di stato se da un lato consente di
chiudere il dibattito su alcuni punti difficili della
mediazione, dall'altro lascia scoperti molti nodi che il
Ministero dovrà ben presto affrontare a cominciare da quello
della formazione degli avvocati nel rapporto tra la
normativa primaria di derivazione statale e quella di
dettaglio emanata dal Cnf ai sensi della legge
professionale.
Ricordiamo, poi, che già da tempo sono aperti fronti
importanti su altri temi della mediazione.
Ci riferiamo al tema dell'incompatibilità tra l'attività di
mediatore e l'esercizio della professione forense.
Da tempo il coordinamento della Conciliazione forense e l'Unam
(Unione nazionale avvocati mediatori) richiedono opportuni
interventi chiarificatori e/o di modifica da parte del
ministero e, la sentenza in esame, potrebbe agevolare un
intervento del dicastero.
Da precisare, infine, che con il provvedimento in esame sono
state definitivamente rigettate tutte le questioni di
legittimità costituzionali sollevate sulla mediazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, tutelato l’interesse dei vicini.
Consiglio di Stato. I confinanti sono sempre legittimati a
ricorrere per impugnare il permesso violato senza necessità
di provare un danno specifico.
La
demolizione, con ripristino della legittimità edilizia,
costituisce la sanzione normale e prioritaria, di carattere
vincolato, nei confronti degli abusi edilizi, pertanto il
proprietario di un immobile confinante è sempre legittimato
a ricorrere per impugnare il permesso edilizio violato,
senza necessità di provare un danno specifico, essendo
titolare di un interesse legittimo al rispetto del corretto
assetto urbanistico e ambientale.
La IV Sez. del Consiglio di Stato, con la
sentenza 17.11.2015 n. 5226, ha
ribadito la legittimazione processuale dei proprietari
confinanti nei procedimenti riguardanti i permessi di
costruire assentiti nella medesima zona, non solo a
impugnarne la legittimità o regolarità, ma altresì nel caso
in cui la concreta realizzazione dell’opera possa sfociare
in un abuso edilizio, sollecitando l’amministrazione
competente ad adottare la sanzione della demolizione e
dell’acquisizione dell’area.
Il caso deciso dai giudici amministrativi trae origine dalla
contestazione di un abuso edilizio, da parte dell’ufficio
tecnico e dalla polizia municipale di un Comune lombardo,
per la realizzazione di lavori in parziale difformità dal
titolo edilizio concesso per la ristrutturazione di un
fabbricato e il recupero del sottotetto a fini abitativi, a
fronte del quale l’ente locale ha adottato due ordinanze di
demolizione successive, la prima totale, la seconda
parziale, con applicazione della sanzione pecuniaria.
Verso le due le ordinanze sono stati depositati opposti
ricorsi, poi riuniti, davanti al Tar della Lombardia, da
parte dei proprietari dell’immobile, verso quella di
demolizione totale, nonché da parte del proprietario di un
fabbricato contiguo in qualità di controinteressato,
all’esito dei quali il tribunale amministrativo regionale ha
statuito respingendo il primo e accogliendo il secondo.
I giudici di Palazzo Spada, nel confermare la legittimità
della sentenza di primo grado, hanno ribadito come, pur
essendo l’amministrazione comunale titolare del potere
amministrativo di reprimere gli illeciti urbanistici, i
proprietari di immobili confinanti o limitrofi con quelli
interessati da un permesso di costruzione sono titolari di
un interesse legittimo oppositivo, tutelato
dall’ordinamento, a fronte di titoli edilizi incidenti sul
proprio diritto di proprietà, modificando le condizioni
dell’area, nonché l’assetto edilizio, urbanistico e
ambientale della zona, senza necessità, ai fini della
legittimazione processuale, di provare di aver subito un
danno specifico, in quanto il danno verso la collettività è
insito nella violazione stessa.
Come nel caso deciso, non solo spetta la legittimazione a
impugnare il permesso di costruire riconosciuta a coloro che
presentano uno stabile collegamento, bensì il terzo
confinante ha un interesse attivo processuale, a che
l’amministrazione disponga correttamente del potere di
repressione degli illeciti urbanistici, giungendo fino alla
completa eliminazione del fabbricato abusivo che lede il
proprio interesse al corretto assetto urbanistico ed
ambientale dei luoghi, oltre all’acquisizione dell’area al
patrimonio dell’ente.
Inoltre, prosegue il ragionamento della decisione in esame,
statuito che il confinante ricorre per la tutela del proprio
specifico interesse di proprietario nella medesima area in
cui sono stati compiuti gli abusi, non per l’interesse
generale al rispetto della legalità, la sanzione della
demolizione costituisce la conseguenza principale e normale,
quindi di carattere vincolato, all’accertamento dell’abuso
edilizio, senza necessità che l’ente locale fornisca
giustificazione in base una particolare motivazione.
Al
contrario, sottolinea il Collegio sancendo l’illegittimità
della seconda ordinanza comunale che ha sostituito
l’ingiunzione di demolizione totale delle opere con quella
di demolizione parziale, con aggiunta della sanzione
pecuniaria, è quando l’amministrazione adotta una misura
sanzionatoria diversa, rispetto al pieno ripristino
dell’ordine edilizio violato, a fronte dell’accertamento
dell’abuso, che si richiede l’espletamento di un’istruttoria
idonea e approfondita, sostenuta da una motivazione congrua (articolo Il Sole 24 Ore del
09.12.2015).
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MASSIMA
2. Come detto in narrativa, sono state impugnate in
primo grado -da diverse parti, espressione di posizioni
sostanziali e processuali divergenti- due ordinanze di
demolizione (l’una totale, l’altra parziale, con
applicazione della sanzione pecuniaria) adottate dal Comune
di Borno per opere realizzate in difformità dal permesso di
costruire.
3. La società interveniente ha formulato due eccezioni
preliminari, che il Collegio ritiene entrambe infondate.
3.1 Quanto all’eccezione di inammissibilità del ricorso
introduttivo n. 135/2007, in linea di principio,
i proprietari di immobili in zone confinanti o
limitrofe con quelle interessate da un permesso di
costruzione sono sempre legittimati a impugnare i titoli
edilizi che, incidendo sulle condizioni dell'area, possono
pregiudicare la loro proprietà e, più in generale, possono
modificare l'assetto edilizio, urbanistico e ambientale
della zona. Né è necessaria la prova di un danno specifico,
perché il danno a tutti i membri di quella collettività è
insito nella violazione edilizia
(da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493,
ove riferimenti ulteriori). |
ENTI LOCALI - VARI: Sale
gioco, comuni con le mani legate.
Non può essere il comune a chiudere le sale per le scommesse
sportive troppo vicine a obiettivi sensibili come chiese,
scuole e impianti sportivi, se la regione nella lotta contro
la ludopatia ha bloccato soltanto le slot machine con
vincita immediata. E ciò perché l'ente locale può
intervenire di sua iniziativa con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici soltanto di fronte a particolari
problemi locali o se non ha provveduto il legislatore
nazionale o regionale. Pesano dunque i divieti in materia
del dl Balduzzi.
È quanto emerge dalla
sentenza 17.11.2015 n. 2411, del TAR
Lombardia-Milano, Sez. I, che ha accolto il ricorso di un
esercente e annullato l'articolo 13, comma 7, del nuovo
regolamento edilizio del comune di Milano, approvato con la
delibera numero 26 del 02.10.2014.
La propensione al gioco d'azzardo patologico è un disturbo
del comportamento assimilabile alla dipendenza da droga,
puntualizzano i giudici. Ma il punto è che in Lombardia la
regione ha già effettuato la sua scelta politica vietando
solamente le macchinette mangiasoldi. Il comune dando l'off
limits anche alle sale scommesse finisce per usurpare
poteri normativi già esercitati.
E apre la strada a decisioni diverse sul territorio
regionale a seconda delle varie amministrazioni locali,
laddove invece il legislatore nazionale e regionale hanno
già esercitato la loro potestà di regolare le questioni del
gioco, per quanto in modo non organico e definitivo. No a
invasioni di campo, quindi
(articolo ItaliaOggi del
30.12.2015). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il disabile ha diritto al «prolungamento» dell’ascensore. Condominio. Tribunale di Milano.
Un milanese
ultraottantenne, residente al quinto piano, vince in
tribunale la causa contro il condominio che gli bocciava la
richiesta di far arrivare fino al suo piano, a proprie
spese, l’ascensore che aveva capolinea solo al quarto. Il
prolungamento è invece un suo pieno diritto secondo il
Tribunale di Milano (XIII sezione civile, giudice
monocratico Giacomo Rota), che gli ha dato ragione con la
sentenza 12.11.2015 n. 12791.
Il contenzioso prende le mosse dalla proposta dell’anziano
condòmino di innalzare il vano dell’impianto di un ulteriore
piano, fino al suo alloggio, il tutto a sue spese. E correda
la richiesta con pareri tecnici e progetto.
Infine (maggio 2014) si arriva all’assemblea, che boccia il
prolungamento perché i lavori potrebbero ledere il decoro
del palazzo (di notevole pregio architettonico) e la
stabilità e sicurezza dell’immobile. La delibera è quindi
impugnata in Tribunale.
Entrano in scena l’articolo 1120 del Codice civile, che
riguarda le innovazioni vietate (legittimabili solo
all’unanimità), e il 1102, che autorizza gli interventi che
il singolo può realizzare a sue spese, purché non alterino
la destinazione della cosa comune e non impediscano agli
altri un pari uso.
Il giudice monocratico ha chiarito che il singolo non ha
bisogno di chiedere autorizzazioni all’assemblea per
realizzare innovazioni che rimangano nei binari di entrambi
gli articoli: nei limiti di legge, è un inalienabile diritto
soggettivo, salvo eventuali circostanziati limiti precisati
nel regolamento contrattuale.
In ogni caso, spetta ai dissenzienti dimostrare, in
concreto, i motivi che ostano all’innovazione. Ma
l’assemblea, osserva il giudice, ha respinto la proposta
senza fornire l’onere della prova dell’asserito rischio per
la stabilità. E ha sostenuto che i lavori avrebbero impedito
l’uso dell’ascensore per un po’ di tempo: un problema, dato
il grave stato di salute di alcuni condomini. Ma la
circostanza è stata ritenuta dal giudice ininfluente per
valutare la legittimità del diniego, e ha accertato il
diritto del condòmino a fare i lavori, condannando il
condominio alle spese di giudizio (articolo Il Sole 24 Ore
dell'11.12.2015). |
VARI:
Autisti trasgressori seriali.
Conducente a piedi.
L'autista che viene ripetutamente sanzionato dalla polizia
con decurtazione di punteggio rischia la revisione
obbligatoria della patente di guida. Ma per tornare sui
banchi di scuola occorre subire almeno tre decurtazioni
significative in un anno.
Lo ha chiarito il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza 11.11.2015 n.
1194.
Un conducente è stato sanzionato varie volte dalla polizia,
nel corso dello stesso anno, per aver omesso di indossare la
cintura di sicurezza, aver guidato a una velocità pericolosa
e aver effettuato manovre pericolose in autostrada.
Complessivamente il temerario trasgressore ha collezionato
in pochi mesi penalizzazioni per oltre 20 punti. Contro il
conseguente provvedimento di revisione della patente per
negligenza recidiva l'interessato ha proposto ricorso al Tar
ma senza successo. L'articolo 126-bis, al comma 6, prevede
che alla perdita totale del punteggio, il titolare della
patente deve sottoporsi all'esame di idoneità tecnica di cui
all'articolo 128.
Al medesimo esame deve sottoporsi il titolare della patente
che, dopo la notifica della prima violazione che comporti
una perdita di almeno cinque punti, commetta altre due
violazioni non contestuali, nell'arco di 12 mesi dalla data
della prima violazione, che comportino ciascuna la
decurtazione di almeno cinque punti.
Correttamente, dunque, la motorizzazione ha disposto la
revisione della patente all'autista particolarmente
trasgressivo
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
No ai negozi fatti in case.
Non possono essere trasformati in abitazioni i locali
commerciali che si affacciano sulla strada. In quanto è
vietato il cambio di destinazione d'uso dei locali
prospicienti su aree pubbliche atto a scongiurare la
desertificazione dei locali commerciali.
Questo è il
principio espresso dal Consiglio di Stato -Sez. IV- con la
sentenza 09.11.2015 n. 5084 in merito alla trasformazione
di negozi in abitazioni civili.
Il fatto in sintesi: il proprietario di un negozio e del
cortile antistante, situati al pianoterra di un edificio,
aveva richiesto il permesso di costruire per il cambio di
destinazione d'uso da commerciale a residenziale. Il comune
negava l'autorizzazione perché il piano urbanistico comunale
vietava i cambi di destinazione d'uso dei locali
prospicienti su aree pubbliche. Il proprietario aveva quindi
fatto ricorso sostenendo che il cortile, anche se confinante
con la strada pubblica, era privato e costituiva una
pertinenza del suo locale.
Il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di
stato bocciavano entrambi il ricorso sostenendo che il
cortile non rappresenta una corte interna dell'edificio, ma
la porzione di stacco tra il fabbricato e la strada
pubblica. Consisteva, secondo i giudici, in uno strumento
per agevolare l'ingresso del pubblico nel negozio, quindi
era a loro avviso gravato da una servitù per l'uso pubblico.
Infatti veniva utilizzato per uso collettivo dell'intera
area e non certo un uso limitato in via di fatto, quale mera
pertinenza o quale parte comune dell'edificio o, più in
generale, ai soli proprietari e a coloro che avessero avuto
occasione d'accedere al fabbricato stesso per esigenze
connesse alla loro vita privata.
Anche se il negozio si affacciava sul cortile, questo non
creava una divisione rispetto alla strada. Si poteva
ritenere, hanno concluso i giudici, che il locale si
affacciasse direttamente sulla strada pubblica. Per questi
motivi la domanda per il cambio di destinazione d'uso è
stata respinta
(articolo ItaliaOggi del 24.12.2015).
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MASSIMA
L’odierno appellante chiese al Comune di Finale Ligure (SV)
il cambio di destinazione d’uso (da commerciale a
residenziale) con opere per un negozio posto al p.t. d’un
fabbricato colà ubicato e ricadente in zona ACR 4 del
vigente PUC, ma la richiesta fu respinta in base al divieto
stabilito per detta zona per le ristrutturazioni, altrimenti
ammesse, che comportassero la «… destinazione a residenza
dei locali a piano terreno prospicienti su aree o spazi
pubblici…», donde il presente contenzioso.
L’appello non è meritevole d’accoglimento, per le
considerazioni di cui appresso, pur se alcune precisazioni
preliminari appaiono, ad avviso del Collegio, assai
opportune.
Anzitutto, non è controversa tra le parti la natura privata
del negozio e dell’antistante (a quanto consta, senza
evidenti soluzioni di continuità) cortile, né che solo
quest’ultimo prospetti in modo diretto su una via pubblica.
In secondo luogo, neppure sembra che tal cortile non fosse
servito, fintanto che l’ormai dismesso esercizio commerciale
rimase ubicato nel vano negozio, al comodo accesso di
chiunque a questo.
In tal caso, pare al Collegio che vi fosse un uso collettivo
dell’intera area e non certo un uso limitato in via di
fatto, quale mera pertinenza o quale parte comune
dell’edificio o, più in generale, ai soli proprietari ed a
coloro che avessero avuto occasione d’accedere al fabbricato
stesso per esigenze connesse alla loro vita privata. È
materialmente vero che il predetto cortile, il quale NON è
corte interna dell’edificio ov’è sito il negozio, fosse la
porzione di stacco tra il fabbricato e la pubblica via e che
così fu considerato dall’impugnato diniego, ma anche che
fosse «… comunque… di uso pubblico essendo evidentemente
stata realizzata per favorire l’accesso al pubblico al
negozio o ai negozi occupanti il piano terreno…».
Sicché tal dato, che in sé sarebbe forse stato irrilevante,
non lo è in realtà in quanto, per la sua funzione, poté
esser adoperato da chiunque, senza restrizioni, per accedere
al negozio, sì da determinarne un uso collettivo libero.
Quest’ultimo, ovviamente, è un asservimento di area privata
che non può esser confuso con quello delle strade private
soggette alla servitù di passaggio propriamente detta,
perché essa ha il solo scopo di garantire la circolazione,
ma che serve a garantire il libero accesso dalla strada
pubblica al negozio.
Infine, ed al di là di quanto l’impugnato diniego affermò
(ad avviso del Collegio correttamente), la questione della
prospicienza, che l’appellante contesta al TAR quale
argomento estraneo all’oggetto del contendere, non è
soltanto uno degli elementi considerati dalle norme
urbanistiche di zona ACR 4 per la regolazione dei predetti
cambi di destinazione d’uso. Essa fu introdotta pure da lui,
quando precisò di non incorrere nel divieto del PUC,
giacché, a suo dire, il suo negozio non era prospiciente
sulla pubblica via.
Invece, una volta verificato l’uso pubblico (come fece il
Comune nel negare all’appellante il permesso di costruire),
la prospicienza non solo non è estranea alla lite in esame,
ma è argomento tanto centrale che l’appellante ne affronta
il significato e la funzione per contestare sia il diniego,
sia la sentenza appellata.
Ciò posto, mentre vanno confermati tutti gli argomenti usati
dal TAR adoperati per respingere la pretesa attorea, se ne
deve correggere quella frase (pag. 4 della sentenza) nella
quale detto cortile non è gravato da servitù di passo d’uso
pubblico. Tal dato è ben lungi dall’esser pacifico tra le
parti, tant’è che costituisce, come s’è visto, la ragione
dell’impugnato diniego. Appunto per questo il Comune,
contrariamente a quanto dice l’appellante (pag. 7), non ebbe
bisogno di smentire alcunché, all’uopo bastando il contenuto
del relativo provvedimento.
Fermo, quindi, questo dato, rettamente poi il TAR precisa
sia l’elemento fisico della prospicienza del negozio su
un’area o spazio pubblico pur nella presenza del predetto
cortile, sia il significato di tal concetto alla luce delle
norme di zona recate dal PUC.
Invero, da un lato, è innegabile che detto negozio sia “prospiciente”,
perché s’affaccia, guarda e prospetta sulla pubblica via
senza alcuna barriera materiale interposta che escluda o
limiti tutte o alcune di tali attività, sì da consentire al
proprietario di guardare ed affacciarsi comodamente sulla
strada e di vederla senza usare strumenti artificiali ed in
tutte le direzioni che la linea d’orizzonte consente (arg.
ex Cass., II, 17.01.2002 n. 480).
Dall’altro lato e checché ne dica il ricorrente,
affaccio e prospetto non sono sinonimi di adiacenza, tant’è
che, a seconda della conformazione fisica della veduta, la
prospectio e l’inspectio si possono protendere
al di là del fondo attiguo (o adiacente, che dir si voglia)
e spaziare oltre, negli ovvi limiti della comodità della
persona normale e senza l’ausilio di strumenti anomali. È
appena da soggiungere che tali attività vanno accertate con
riferimento al fondo dal quale la veduta si esercita e non
già al fondo oggetto della veduta stessa, tant’è che per
quest’ultimo si deve intendere una qualunque parte, anche
minima o marginale, ma che possa esser guardata comodamente
e con agevole (o non disagevole) affaccio
(arg. ex Cass., II, 23.11.1987 n. 8626).
Alla luce di tali strumenti ermeneutici sul concetto di
prospicienza, è facile al Collegio confutare il paradossale
(e, dunque, inutile) argomento attoreo secondo il quale, per
far scattare il divieto de quo, basterebbe una
visione purchessia, anche da assai lontano, della strada
pubblica.
Per la stessa ragione, non può esser condivisa
l’interpretazione attorea che si discosta dalla
lettura finalistica della norma di divieto.
Infatti, non solo essa non si limita a leggere la
prospicienza dei locali terranei alle aree e spazi pubblici
come possibilità di mera visione, da qualunque distanza, di
questi da quelli, ma la intende piuttosto, e di ciò dà atto
il TAR, come uno strumento di governo del territorio atto a
scongiurare la desertificazione dei locali commerciali,
fenomeno assai diffuso nella località Varigotti, invece
utili in un’area a forte vocazione turistica.
Inoltre, la norma urbanistica è ben chiara tanto nel porre
il divieto, quanto nell’orientare le scelte edificatorie
ammesse fuori dal campo residenziale, per raggiungere la
finalità predetta. Sicché l’“auspicio” del recupero
dei piani terranei, trasformati a suo tempo in abitazione,
non è che la facoltà accordata, in pratica senza soverchie
condizioni, per le ristrutturazioni con cambio
(sarebbe meglio dire: con ripristino) d’uso non
residenziale. |
CONDOMINIO: Ingiurie dal verbale, è diffamazione.
Condanna se la divulgazione non è riservata solo agli
interessati.
Codice penale. Dopo l’assemblea le frasi erano state citate
in una lettera inviata a tutti i condòmini.
Attenzione a
non riportare frasi ingiuriose nelle lettere inviate ai
condomini, anche se riproducono fedelmente ciò che è stato
trascritto nel verbale di assemblea. Tale divulgazione,
infatti, non inerisce al diritto – dovere di informare i
condomini sull’andamento dell’assemblea ma implica il reato
di diffamazione (articolo 595 Codice penale).
Così si è espressa la Corte di Cassazione (Sez. V penale,
sentenza 03.11.2015 n. 44387)
che ha confermato la condanna dell’amministratore, per il
citato reato, per aver inviato una lettera a tutti i
condomini in cui riportava le frasi ingiuriose espresse, nel
corso di un’assemblea, da un geometra contro due condomini
dicendogli che «non capivano niente ed erano malfattori,
gentaglia e delinquenti» (uno dei due condòmini offeso era
il presidente dell’assemblea che aveva contestato il
bilancio predisposto dall’amministratore che si era,
successivamente, dimesso).
L’amministratore, a sua difesa, richiamava a giustificazione
l’articolo 51 Codice penale («esercizio di un diritto o
adempimento di un dovere»), per cui egli aveva il diritto–dovere di informare i condomini sulle vicende relative
all’assemblea e su tutte le vicende in generale.
Sosteneva che la lettera non era finalizzata a offendere la
reputazione dei due condomini –in quanto era indirizzata ai
soli diretti interessati– e che le espressioni non erano a
lui imputabili (essendosi limitato a riportarle).
Non sono stati dello stesso avviso i giudici di legittimità
i quali hanno ritenuto che in ordine all’articolo 51 Codice
penale «la libertà di riferire i fatti, ed anzi, il dovere
quale amministratore di informare i condomini (...) doveva
accordarsi con l’interesse della persona offesa a che non
venisse amplificata l’espressione ingiuriosa asseritamente
pronunciata da un terzo ai suoi danni» non sussistendo alcun
interesse generale dei condòmini a conoscere le espressioni
ingiuriose pronunciate durante l’assemblea.
In pratica l’unico interesse effettivo che andava divulgato
a tutti poteva essere quello di far conoscere le
dichiarazioni del geometra non avendo utilità alcuna, per i
condomini, apprendere l’esistenza di offese nei confronti di
alcuni di essi.
Nei fatti, la Cassazione ha ribadito che tale divulgazione
(accertata dalle lettere inviate a tutti i condomini e non
spedite solo ai due soggetti interessati e contenenti anche
una serie di ulteriori comunicazioni di interesse
condominiale) faceva comodo all’amministratore perché
costituiva un canale di trasmissione con il quale le
ingiurie potevano diffondersi il più possibile allo scopo di
offendere la reputazione dei due condomini.
Non è la prima volta che un giudice nel valutare il
comportamento dell’amministratore ha configurato il reato di
diffamazione quando, per esempio, affigge nell’atrio del
condominio i nomi dei condomini morosi. Il comportamento
divulgativo ha trovato rilievo anche sotto il profilo della
violazione del diritto alla privacy.
La disciplina del codice in materia di protezione dei dati
personali, di cui al decreto legislativo 30.06.2003, n.
196, prescrive che il trattamento dei dati personali deve
avvenire nell’osservanza dei principi di proporzionalità, di
pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i
quali i dati stessi sono raccolti.
La Cassazione, nella fattispecie in esame, ha applicato tali
principi della proporzionalità delle condotte in funzione
dello scopo da perseguire (divulgare i fatti a scopo
informativo e non divulgare le offese non pertinenti allo
scopo informativo) (articolo Il Sole 24 Ore del
22.12.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Procura sottoscritta Diffida ratificata.
Una recente decisione del Tar della Sardegna.
La sottoscrizione della procura, rilasciata con facoltà di
rappresentare e difendere in ogni stato e grado del
procedimento anche di mediazione, implica la ratifica della
diffida ad adempiere e dell'istanza di accesso, atti
negoziali propedeutici alla difesa, compiuti in nome e per
conto della parte dal difensore.
A ribadirlo sono stati i giudici della II Sez. del
TAR Sardegna con la
sentenza
30.10.2015 n. 1090.
I giudici amministrativi isolani hanno osservato, poi, che
la nozione normativa di documento amministrativo passibile
di accesso -testualmente delineata dall'art. 22, lett. d),
della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dalla
legge 11.02.2005, n. 15- comprende «ogni
rappresentazione grafica, fotocinematografica,
elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto
di atti, anche interni o non relativi a uno specifico
procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale»: la norma è, pertanto,
chiarissima nell'estendere la disciplina sull'accesso anche
ad atti di natura privatistica, purché detenuti da una
pubblica amministrazione per l'esercizio delle sue funzioni
istituzionali.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale il
diritto di accesso deve prevalere sull'esigenza di
riservatezza di terzi, ove sia esercitato per consentire la
cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente
protetti e concerna un documento amministrativo
indispensabile a tali fini, la cui esigenza non possa essere
altrimenti soddisfatta: di conseguenza, in capo al coniuge
separato sussiste, nei confronti dell'Agenzia delle entrate,
il diritto di accesso alle dichiarazioni dei redditi del
convivente «more uxorio» dell'altro coniuge.
Tale istanza di
accesso documentale, infatti, essendo rivolta a dimostrare
la capacità di reddito del convivente del coniuge separato,
è funzionale ad esonerare il richiedente dall'obbligo di
corresponsione dell'assegno di mantenimento. Né il diritto
di accesso viene meno per aver il medesimo richiedente
sollecitato il giudice civile ad acquisire le dichiarazioni
dei redditi in questione, atteso che l'art. 210 c.p.c.
prevede la facoltà dell'ordine istruttorio e non anche la
sua obbligatorietà
(articolo ItaliaOggi Sette del 21.12.2015).
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MASSIMA
Si osserva, in primo luogo, che la
nozione normativa di documento amministrativo passibile di
accesso
-testualmente delineata dall’art. 22, lett. d), della legge
07.08.1990, n. 241, come modificato dalla legge 11.02.2005,
n. 15- comprende “ogni rappresentazione
grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di
qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni
o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da
una pubblica amministrazione e concernenti attività di
pubblico interesse, indipendentemente dalla natura
pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale”: la norma è, pertanto, chiarissima
nell’estendere la disciplina sull’accesso anche ad atti di
natura privatistica, purché detenuti da una pubblica
amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni
istituzionali, il che è esattamente quanto si verifica per i
documenti oggetto del presente giudizio.
Né la richiesta del ricorrente trova ostacolo nel diritto
alla riservatezza dei titolari dei dati richiesti, non
trattandosi di dati “sensibili” o “supersensibili”
e risultando senz’altro soddisfatto il “presupposto di
prevalenza” dell’accesso sulla riservatezza di cui
all’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990, secondo cui “Deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”;
difatti è evidente la necessità del ricorrente di conoscere
preventivamente la situazione reddituale dei
controinteressati, così da poter valutare causa cognita
l’opportunità di contestare la decisione assunta dal
Tribunale di Sassari di attribuire loro un assegno di
mantenimento a suo carico; a conferma di tali assunti si
richiama Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.09.2012, n. 5047,
secondo cui “Il diritto di accesso deve
prevalere sull'esigenza di riservatezza di terzi, ove sia
esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di
interessi giuridicamente protetti e concerna un documento
amministrativo indispensabile a tali fini, la cui esigenza
non possa essere altrimenti soddisfatta: di conseguenza, in
capo al coniuge separato sussiste, nei confronti
dell'Agenzia delle entrate, il diritto di accesso alle
dichiarazioni dei redditi del convivente "more uxorio"
dell'altro coniuge.
Tale istanza di accesso documentale, infatti, essendo
rivolta a dimostrare la capacità di reddito del convivente
del coniuge separato, è funzionale ad esonerare il
richiedente dall'obbligo di corresponsione dell'assegno di
mantenimento. Né il diritto di accesso viene meno per aver
il medesimo richiedente sollecitato il giudice civile ad
acquisire le dichiarazioni dei redditi in questione, atteso
che l'art. 210 c.p.c. prevede la facoltà dell'ordine
istruttorio e non anche la sua obbligatorietà”. |
TRIBUTI: Il
gestore telefonico paga la Tosap solo se è titolare della
rete. Tributi locali. I criteri per tassa e canone
d’occupazione.
I gestori dei
servizi di telecomunicazione non devono pagare la Tosap per
le occupazioni realizzate con cavi e condutture qualora si
limitino a utilizzare gli impianti di rete messi a
disposizione da terzi.
L’affermazione è
della Ctp di Lecco (presidente e relatore Nese), nella
sentenza 30.10.2015 n. 360/1/2015, che si pone in
contrasto con la prassi amministrativa.
La questione è di una certa rilevanza per Comuni e gestori e
riguarda le modalità di applicazione della tassa di
occupazione di suolo pubblico o del canone sostitutivo di
essa (Cosap). Per entrambi i prelievi, la norma di
riferimento è l’articolo 63, comma 2, lettera f), Dlgs
446/1997. In forza di questa disposizione, le aziende che
erogano servizi pubblici a rete (telecomunicazioni ma anche
energia elettrica, gas eccetera) devono versare la Tosap
sulla base del numero degli utenti serviti. Ciò al fine di
evitare il complesso calcolo della superficie di sottosuolo
o di soprassuolo pubblico occupata.
La norma era stata in realtà pensata in un contesto
economico e tecnologico in cui ciascun gestore realizzava i
cavi e le condutture da esso stesso utilizzati al fine della
erogazione del servizio. Nel corso del tempo, la situazione
però è notevolmente cambiata. Accade oggi infatti che gli
impianti siano utilizzati sia dai gestori che li hanno
costruiti sia da altri, ma potrebbe anche accadere che gli
impianti siano posti in opera da un soggetto che li concede
in uso a terzi, senza utilizzarli affatto. In queste
situazioni sorge il problema della individuazione del o dei
soggetti debitori del tributo.
Nella circolare 1/DF del 2009, il ministero delle Finanze ha
affrontato la questione della tassazione delle aziende di
erogazione dei servizi a rete. Con riferimento al caso
appena descritto, le Finanze hanno osservato che, al fine di
non vanificare la portata della norma, l’unica soluzione
corretta appariva l’assoggettamento a imposizione di tutte
le aziende che utilizzano nel contempo a qualunque titolo le
medesime infrastrutture, ciascuna di esse con riguardo al
numero degli utenti serviti.
Di diverso avviso è stata invece la Ctp di Lecco. Secondo i
giudici lombardi la Tosap è dovuta solo dal titolare
dell’atto di concessione o di autorizzazione, con l’effetto
che il tributo trova applicazione solo nei confronti del
soggetto che, avendo realizzato gli impianti di
distribuzione dei servizi, risultava essere il titolare
degli stessi. Nel caso di specie, poiché la società
ricorrente utilizzava le reti di terzi, l’accertamento del
Comune è stato annullato.
Peraltro, sarà interessante attendere il responso della
giurisprudenza di vertice. Da un lato, è evidente che chi
fruisce dell’impianto può non averne la titolarità
giuridica. Dall’altro, sotto il profilo squisitamente
fattuale, recependo la tesi della Ctp sarebbe facile eludere
l’obbligo di pagamento: sarebbe sufficiente, infatti, far
realizzare da un soggetto terzo i cavi e le condutture di
trasmissione, il quale li affitta, ad esempio, a due
operatori con migliaia di utenti, per applicare una
tassazione conteggiata su due utenti
(articolo Il Sole 24 Ore del
28.12.2015). |
TRIBUTI: Ici, delibera allegata d'obbligo.
L'avviso di accertamento Ici fondato sulle determinazioni di
valore contenute in una delibera comunale, è illegittimo e
immotivato se la delibera in questione non viene allegata
all'atto notificato al contribuente. Ciò in ragione
dell'obbligo, sancito dall'articolo 7 della legge n.
212/200, di allegazione degli atti richiamati in
motivazione. D'altronde, non spetta al contribuente
l'artificiosa ricostruzione delle ragioni fondanti la
pretesa e dei relativi calcoli, attraverso la ricerca di
atti che, pur nella sfera di conoscibilità, non gli siano
mai stati notificati direttamente.
Sono gli interessanti principi che si leggono nella sentenza
12.10.2015 n. 773/02/15 della Ctp di Frosinone (presidente e
relatore Costantino Ferrara).
Con ricorso proposto
all'attenzione del collegio frusinate, una contribuente
impugnava l'avviso di accertamento emesso dall'ente comunale
per il recupero dell'Ici su un'area fabbricabile. I valori
per determinare la pretesa derivavano da una deliberazione
del consiglio comunale richiamata nell'atto.
Nel ricorso
veniva contestata la carenza di motivazione
dell'accertamento, anche sotto il profilo della mancata
allegazione degli atti richiamati, in ossequio a quanto
stabilito dall'articolo 7 dello Statuto dei diritti del
contribuente, secondo cui: «Se nella motivazione si fa
riferimento a un altro atto, questo deve essere allegato
all'atto che lo richiama».
Proprio la mancata allegazione della delibera comunale ha
indotto la Ctp ad annullare l'atto, rilevando la carenza di
motivazione. In siffatto modo, infatti, il contribuente non
è messo nella condizione di conoscere (e contestare)
immediatamente «gli elementi specifici a sostegno
dell'attribuzione del valore venale degli immobili, i
parametri di riferimento e l'esposizione dei calcoli
effettuati per dimostrare i risultati ottenuti».
Interessante anche l'ulteriore ragionamento che si legge
nella sentenza, secondo cui «non compete al contribuente la
ricostruzione dei conteggi attraverso operazioni
interpretative», né tantomeno è onere dello stesso andare
alla ricerca di atti in cui si rinvengano le fondamenta
della pretesa impositiva (come nel caso di specie la
delibera comunale).
La sentenza della Ctp è conforme al
pensiero della Cassazione espresso, in un caso analogo,
nella pronuncia n. 20535/2010, ove si legge che incombe
sull'amministrazione «l'onere di allegazione degli atti
richiamati ove gli stessi non siano conosciuti né ricevuti
dal contribuente e salvo che l'avviso non ne riproduca il
contenuto essenziale».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] ... Con atto depositato presso la segreteria di
questa Commissione in data 21/05/2015, la sig.ra ... suddetta
ha avanzato ricorso con istanza di pubblica udienza, contro
il Comune di Frosinone, avverso l'avviso bonario di
accertamento n. 33 per parziale versamento dell'Ici
sull'area fabbricabile, di proprietà della ricorrente,
distinta in Catasto al foglio 38, particella 83 e a numero 2
immobili di proprietà della ricorrente distinti in catasto
al foglio 46, particella 620 sub 3 e 4. L'ente impositore
richiede il pagamento dell'imposta Ici, sanzioni e Interessi
per l'anno 2010 per un totale di euro 2.579,00.
Il ricorrente eccepisce l'illegittimità nonché nullità
dell'avviso di accertamento impugnato perché privo di
motivazione.
Si costituisce in giudizio il comune di Frosinone in persona
del dott. ... funzionario responsabile del settore Gestione
Risorse – Servizio Tributi e Contenzioso Tributario,
contestualmente con la dott.ssa ... impugnando e contestando
in toto ogni avversa affermazione, deduzione e richiesta
poiché infondata in fatto e in diritto e chiedendo il
rigetto della spiegata opposizione.
Motivi del ricorso
La Commissione esaminati gli atti del ricorso rileva che,
effettivamente dall'avviso di accertamento non si comprende
l'iter logico giuridico seguito dal comune di Frosinone,
poiché non risultano indicati gli elementi specifici a
sostegno dell'attribuzione del valore venale degli immobili
come tutti gli elementi e i parametri di riferimento e
l'esposizione dei calcoli effettuati per dimostrare i
risultati ottenuti.
L'amministrazione comunale aveva l'obbligo di allegare gli
atti posti a fondamento degli accertamenti, la deliberazione
del consiglio comunale n. 40 dell'01/07/2010, quale atto
richiamato nell'accertamento come impone l'art. 7 della
legge 212/2000.
La Commissione rileva, altresì, che non compete al
contribuente la ricostruzione dei conteggi attraverso
difficili operazioni interpretative così, come statuito
anche dalla Corte di cassazione con la sentenza 18415/2005.
Pertanto il ricorso va accolto e le spese vano compensate in
quanto ricorrono giusti motivi
(articolo ItaliaOggi Sette del
07.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il frazionamento è ristrutturazione. Consiglio di
Stato. La cessione sconta il valore aggiunto al 10% anziché
al 22%.
Il decreto legge 133/2014 “Sblocca
cantieri”, che ha ampliato la categoria edilizia della
“manutenzione straordinaria” non deve essere applicato agli
interventi di frazionamento/accorpamento realizzati prima
del 12.11.2014.
Ad affermarlo è il Consiglio di Stato, che con la
sentenza 21.09.2015 n. 4381 indirettamente
risolve anche un’annosa questione ai fini Iva, legata alla
cessione di immobili oggetto di frazionamento o
accorpamento.
Dal 12.11.2014, infatti, ci si interrogava se nelle cessioni
di immobili oggetto di frazionamento o accorpamento
realizzate prima di questa data, il soggetto passivo dovesse
fatturare comunque con aliquota ordinaria del 22 per cento
prevista per unità immobiliari oggetto di interventi di
manutenzione straordinaria, oppure la cessione dovesse
avvenire con aliquota ridotta del 10 per cento, in quanto i
frazionamenti e accorpamenti fino al 12.11.2014 erano
considerati interventi di ristrutturazione edilizia. Mentre
dal 12.11.2014, non era più chiaro se fossero «ristrutturazione
edilizia» o «manutenzione straordinaria».
La decisione del Consiglio di Stato ha chiarito che «integrano
gli estremi della ristrutturazione edilizia gli accorpamenti
e i frazionamenti delle unità immobiliari e gli interventi
che alterino l'originaria consistenza fisica dell'immobile
con l’inserimento di nuovi impianti e la modifica di
distribuzione di volumi».
Questo significa che l’impresa che cede le unità immobiliari
accorpate o frazionate ha lo status di impresa
ristrutturatrice e quindi, se l’operazione di cessione è
soggetta ad Iva, si applicherà sempre l’aliquota del 10 per
cento, o del 4 per cento nel caso in cui l’acquirente
dichiari nell’atto di acquisto di possedere i requisiti
prima casa (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.12.2015).
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MASSIMA
Il terzo e quarto motivo di appello contengono censure
che riguardano le questioni di merito della controversia.
Con il primo dei suddetti mezzi parte appellante rileva la
erroneità delle sentenza nella parte in cui ha statuito che
nella specie con la variante de qua sarebbero state
autorizzate opere di ristrutturazione.
Al contrario, secondo il Comune di Putignano, siamo in
presenza di consentiti lavori di manutenzione straordinaria
con l’inserimento di volumi tecnici (impianto di ascensore)
e frazionamento e accorpamento di unità immobiliari.
In ogni caso si renderebbe senz’altro applicabile la
normativa di recente introdotta con il D.L. n. 133/2014
convertito dalla legge n. 164/2014 che ha ampliato la
fattispecie della manutenzione straordinaria con inclusione
del tipo di opere qui autorizzate
La fondatezza o meno delle critiche al riguardo svolte da
parte appellante impone che si vada ad indagare in ordine
alla concreta ed effettiva portata dei lavori assentiti ed
in base a dati rilevabili dalla documentazione
tecnico-amministrativa esistente si deve a dare atto che
l’intervento edilizio autorizzato con la variante de qua
prevede:
- l’inserimento di un vano ascensore in posizione diversa da
quella inizialmente prevista con foratura delle volte a
botte dell’edificio sia pure in misura ridotta;
- l’aumento dell’altezza dei vani depositi siti in terrazzo;
- modifica delle unità abitative al secondo piano con
trasformazione di una singola unità in due appartamenti.
Ora avuto riguardo alla natura e
consistenza delle opere sopra descritte appare veramente
difficile ipotizzare che nella specie si configurano lavori
edilizi riconducibili alla nozione di manutenzione
straordinaria e di risanamento conservativo, tipologia
edilizia che per il vero si addice ad altri interventi,
certamente meno invasivi di quelli autorizzati con il
provvedimento di che trattasi.
Invero integrano gli estremi della
ristrutturazione edilizia gli accorpamenti e i frazionamenti
delle unità immobiliari e gli interventi che alterino
l’originaria consistenza fisica dell’immobile con
l’inserimento di nuovi impianti e la modifica di
distribuzione di volumi (esattamente come avvenuto nel caso
de quo) mentre la manutenzione straordinaria e il
risanamento conservativo presuppongono la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la
distribuzione interna della sua superficie
(Cons. Stato Sez. V n. 5775/2002).
Le opere de quibus comportano quelle
modifiche strutturali che impediscono di farle annoverare
nella tipologia della manutenzione straordinaria e con la
concessione in variante è stato autorizzato un intervento “nuovo“
e diverso, non consentito dalla normativa urbanistica
vigente.
Parte ricorrente invoca l’applicabilità della categoria di
manutenzione straordinaria (modificativa dell’art. 3 del dpr
n. 38072001) come configurata dalla normativa recentemente
introdotta dal legislatore con la legge n. 164/2014, ma è
evidente che la verifica di legittimità va
effettuata con riferimento alla disciplina vigente al
momento del rilascio del titolo edilizio secondo il noto
principio del tempus regit actum
(fatti salvi ovviamente gli eventuali ulteriori
provvedimenti da assumersi, se ed in quanto possibile, da
parte del Comune, compatibilmente s’intende con le altre
normative di tutela pure nella specie da osservarsi e
sempreché il tutto sia possibile con riferimento alla
vigente disciplina urbanistica locale). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti ma non mediatori. La p.a. può negare la
possibilità di avere l'incarico. Secondo il Consiglio di stato si tratta di decisione che
rientra nella discrezionalità.
Negare al dipendente pubblico la possibilità di assumere
l'incarico di mediatore civile non può ritenersi una
decisione illegittima trattandosi di scelta rimessa alla
discrezionalità dell'amministrazione.
Lo ha stabilito la III Sez. del Consiglio di Stato con
la
sentenza
04.08.2015 n. 3843.
Nel caso concreto, un graduato (assistente capo) della
polizia ha chiesto di essere autorizzato allo svolgimento
dell'attività di «mediatore civile».
L'amministrazione di appartenenza ha rigettato l'istanza,
ritenendo l'attività di conciliatore incompatibile con il
servizio pubblico ricoperto.
Il dipendente ha, dunque, adito il tribunale amministrativo
regionale al fine di ottenere l'annullamento del diniego.
Tra vari argomenti, il ricorrente ha sottolineato l'assenza
di profili di incompatibilità tra l'attività di mediatore e
quella assunta alle dipendenze della p.a. nonché, in ogni
caso, il carattere saltuario e non continuativo dell'impiego
«in aggiunta».
Il Tar, nel dar seguito alle ragioni del lavoratore, ha
accolto la domanda annullando il provvedimento impugnato.
Secondo il tribunale, infatti, l'assunzione -formale e
astratta- della qualifica di «mediatore civile» non incorre
in alcuna incompatibilità; non comporta, di per sé, alcuna
interferenza con il servizio; e non pone problemi di
opportunità.
Nondimeno -hanno spiegato i giudici di primo
grado- eventuali criticità possono derivare in virtù delle
peculiarità della singola controversia da mediare, motivo
per cui è necessario che il giudizio autorizzatorio
dell'amministrazione operi «case by case». In altri termini,
l'eventuale stato di incompatibilità non scatterebbe in
automatico con la mera assunzione della qualifica di
mediatore, bensì con l'accettazione di un incarico riferito
a una determinata lite.
Di tutt'altra opinione si è mostrato il consiglio di stato,
adito con ricorso in appello. Secondo il supremo consesso,
infatti, la decisione sul se autorizzare o meno l'incarico
di mediatore è rimessa alla piena discrezionalità
dell'amministrazione di appartenenza. La rappresentazione
offerta dal Tar, invero, non è coerente con il corredo
normativo che regola l'attività del mediatore, i.e. la legge
delega (cfr. art. 60, legge n. 69/2009), il decreto delegato
(dlgs n. 28/2010) e il relativo regolamento attuativo (dm n.
180/2010).
La mediazione -hanno spiegato i giudici capitolini- «deve
essere svolta da appositi organismi “professionali e
indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione del
servizio di conciliazione” avvalendosi di personale dotato
di una specifica formazione e retribuito».
È vero che l'art.
6, comma 4, del regolamento apre alla possibilità che le
funzioni di mediatore siano svolte da pubblici dipendenti.
Tuttavia l'assunzione, in concreto, di siffatto ruolo non
può discendere da una generalizzata autorizzazione
legislativa, l'amministrazione di appartenenza dovendo
intercedere tramite valutazioni che tengano conto della mission istituzionale e delle caratteristiche organizzative
sue proprie.
In conclusione, secondo Palazzo Spada, non si può giudicare
illegittima la posizione assunta dall'amministrazione che
ritenga opportuno non autorizzare i propri agenti e
funzionari ad assumere la qualità di mediatore. Trattasi,
beninteso, di valutazioni discrezionali rispetto alle quali
-così conclude la sentenza- «la stessa amministrazione
potrebbe in futuro decidere diversamente»
(articolo ItaliaOggi Sette del 14.12.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - CONDOMINIO:
Cassonetti solo in cortile se c’è il «porta a
porta». Raccolta rifiuti. Tar Piemonte.
I cassonetti vanno messi nei cortili
condominiali nel caso di raccolta di rifiuti “porta a
porta”.
Il TAR Piemonte,
Sez. I, con la
sentenza 10.07.2015 n.
1169 ha ritenuto che i condòmini sono tenuti a
posizionare i cassonetti della raccolta differenziata
all’interno dei cortili quando in ambito cittadino siano
attuati i sistemi di raccolta differenziata “porta a porta”.
Il condominio ricorrente aveva impugnato l’atto con cui il
gestore del servizio pubblico di raccolta, trasporto e
smaltimento dei rifiuti urbani del Comune di Torino, aveva
imposto al condominio di procedere alla collocazione dei
cassonetti della raccolta differenziata all’interno del
cortile condominiale, con l’obbligo di esporli sulla
pubblica via nelle aree e nei giorni stabiliti dal gestore.
A parere del condominio l’internalizzazione dei rifiuti non
costituirebbe un principio di carattere generale, e in ogni
caso ne consentirebbe la derogabilità in presenza di
specifici presupposti .
Il Tar non ha condiviso l’argomentazione, ritenendo che il
regolamento comunale di gestione dei rifiuti urbani
prevedesse la collocazione dei cassonetti sul suolo pubblico
salvo che non fossero attuati in ambito cittadino sistemi di
raccolta differenziata “porta a porta”, nel qual caso
scatterebbe il diverso principio secondo cui i proprietari
privati hanno l’obbligo di posizionare i cassonetti della
raccolta differenziata all’interno degli spazi pertinenziali
di proprietà e di esporli su suolo pubblico nei giorni e
nelle ore di raccolta stabiliti dal gestore del servizio
pubblico.
Pertanto, avendo il Comune di Torino introdotto già da tempo
il sistema di raccolta differenziata “porta a porta” in
ambito cittadino, estendendolo gradualmente nel corso del
tempo alle diverse zone cittadine, il principio generale
applicabile risultava quello della collocazione dei
cassonetti all’interno degli spazi pertinenziali di
proprietà privata.
Il Tar, pur riconoscendo che la circolare del presidente
della giunta regionale n. 3 del 25.07.2005 ammetteva
delle deroghe nel caso in cui l’internalizzazione dei
cassonetti poteva costituire intralcio o ostacolo al
passaggio nelle stesse pertinenze dei fabbricati o dare
luogo a problemi igienici, ha ritenuto che nel caso di
specie il gestore non aveva imposto al condominio una
precisa collocazione dei cassonetti, ma i suoi dipendenti si
erano limitati ad individuare quella collocazione come la
più confacente.
In altre parole, il contenuto dell’imposizione del gestore
era limitato all’obbligo del condominio di collocare i
cassonetti all’interno del cortile condominiale. Restava in
facoltà del condominio proporre al gestore una diversa
collocazione dei cassonetti all’interno del cortile
condominiale che arrecasse minor pregiudizio alle ragioni
dei condomini e che nel contempo fosse tecnicamente
attuabile senza pregiudizio per l’efficace gestione del
servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani.
La circostanza poi che l’internalizzazione dei cassonetti
avrebbe sottratto dei posti già adibiti a parcheggio, a
parere del Tribunale era irrilevante, trattandosi di meri
interessi privati destinati a recedere a fronte
dell’interesse pubblico alla corretta realizzazione del
sistema di raccolta dei rifiuti “porta a porta”
(articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Disabili, servoscala da motivare.
La persona diversamente abile ha bisogno di una piattaforma
elevatrice nell'androne del palazzo per poter entrare e
uscire liberamente di casa. Ma il Comune boccia il permesso
di costruire perché il progetto non rispetta la larghezza
minima prevista dai regolamenti per le rampe di scale e le
porte di ascensore.
L'ente locale esclude una deroga al
regolamento edilizio e di igiene limitandosi a osservare che
l'interessato ben può far installare un servoscala, che non
ha bisogno di autorizzazioni da parte dell'amministrazione.
E invece no: perché se il dirigente dello sportello unico
area territorio indica l'alternativa del montascale deve
pure motivare spiegando come e perché sia una soluzione
praticabile per il disabile, il quale invece chiede a gran
voce la piattaforma.
È quanto emerge dalla
della
sentenza 03.07.2015 n. 1541 del TAR
Lombardia-Milano, Sez. II.
Astratto e concreto
Annullato il rigetto del permesso di costruire. È vero: ai
regolamenti comunali si può derogare soltanto quando non ci
sono alternative praticabili. Ma il cittadino aziona un
diritto che ha rilevanza costituzionale: l'eliminazione
delle barriere architettoniche per poter svolgere una
normale vita di relazione. Non basta che alla piattaforma
elevatrice esista l'alternativa astratta del servoscala, il
quale non ha invece bisogno di essere autorizzato neppure
dal condominio se a spese del privato: è necessario
coinvolgere l'interessato nell'istruttoria del procedimento
per verificare se il montascale nel caso specifico possa
davvero rispondere alle esigenze del disabile
(articolo ItaliaOggi del 18.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il bar rumoroso deve chiudere prima.
Schiamazzi. Per il Tar di Bolzano legittimo il provvedimento
che dispone l’anticipo.
Se il bar che
tiene aperto, senza riposo settimanale, fino alle prime ore
del mattino, disturba i condòmini del caseggiato e quelli
degli edifici vicini, è pienamente legittimo il
provvedimento del sindaco che, per preservare la pubblica
quiete, dispone l’anticipazione dell’orario di chiusura
serale, compromettendo in parte i profitti del gestore del
locale.
È quanto affermato dal TRGA
Trentino Alto Adige-Bolzano nella
sentenza 11.06.2015 n. 193.
La pronuncia si presenta di notevole interesse, perché
relativa a una situazione di fatto sempre più diffusa nelle
città dove si moltiplicano i pubblici esercizi che
somministrano alimenti e bevande fino all’orario serale di
chiusura fissato ben oltre la mezzanotte.
In questi locali è evidente che i numerosi avventori che
affollano l’esercizio e spesso stazionano anche all’esterno
degli stessi, provochino una situazione di schiamazzi e
rumorosità diffusa, tale da pregiudicare il riposo delle
persone che abitano nelle immediate vicinanze.
Nel caso esaminato dal Tar, un bar aperto sino alle prime
ore del mattino (e senza riposo settimanale), a causa del
forte rumore di musica proveniente dal locale (che lasciava
porte e finestre spalancate) e del comportamento dei clienti
(che gettavano rifiuti nelle vicinanze, danneggiavano beni
privati e pubblici, ostruivano gli accessi ai caseggiati con
parcheggi “selvaggi”), suscitava le proteste degli abitanti
del caseggiato in cui si trovava il locale e di numerosi
residenti della zona.
I comportamenti molesti proseguivano anche dopo l’orario di
chiusura, richiedendo il frequente intervento della polizia
municipale e dei carabinieri.
Per quanto sopra il Sindaco, per preservare la pubblica
quiete, l’ordine e la sicurezza, disponeva l’anticipazione
dell’orario di chiusura serale del locale alle ore 22.00,
con effetto immediato.
Al titolare del locale non rimaneva che ricorre al Tar di
Bolzano contestando l’inesistenza dei presupposti necessari
per giustificare il provvedimento e le inevitabili
conseguenze economiche per la riduzione forzata
dell’attività.
Tutte questi motivi di ricorso, però, venivano respinti dal
Tar Bolzano che condivideva pienamente la decisione adottata
dal Sindaco: le molteplici e ripetute lamentele formulate
dagli abitanti della zona costituiscono un’evidente prova
dei disagi arrecati dal locale in questione, soprattutto se
la fondatezza di quelle doglianze risulta riscontrata ed
avvalorata dalle relazioni di servizio dell’autorità di
pubblica sicurezza, dalle quali si ricava l’esigenza di
tutela del diritto alla quiete e alla sicurezza.
Di
conseguenza, come sottolineano gli stessi giudici
amministrativi, il sacrificio imposto al gestore di
anticipare l’orario di chiusura risulta pienamente adeguato
e proporzionato agli interessi generali da tutelare (salute
e sicurezza delle persone) che devono ritenersi comunque
prevalenti su quelli puramente economici di quanti
costituiscano la causa diretta o indiretta del disturbo o su
quelli dei clienti, tenuti a rispettare elementari regole di
convivenza civile (articolo Il Sole 24 Ore del
22.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: No al placet sui gazebo.
Per installare gazebo sui terrazzi non è necessario chiedere
autorizzazioni. L'utilizzo delle coperture come terrazze non
comporta un cambio della loro destinazione d'uso, ma è
necessario rispettare determinati accorgimenti.
È quanto
sostiene il Consiglio di Stato -Sez. VI- con la
sentenza 21.01.2015 n. 177.
Le coperture orizzontali degli edifici
in città, in cui dette coperture non richiedono protezioni
con tegole o strutture spioventi, vengono normalmente
utilizzate come terrazze –cioè come spazi architettonici
aperti e agibili, per quanto accessori ad appartamenti
sottostanti– con regole private che ne disciplinano
l'eventuale uso comune dei condomini (specie, almeno in
passato, come stenditoi condominiali).
Ne consegue che non
vi è alcun mutamento di destinazione d'uso quando, come
nella specie, una di queste coperture venga utilizzata quale
terrazza, utilizzabile nei modi e con i titoli abilitativi,
previsti per tali porzioni immobiliari
(articolo ItaliaOggi del 12.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sì al gazebo e all’arredo sul terrazzo. Modifiche
«libere» ai locali tecnici e che non rappresentano volumi.
Consiglio di Stato. Senza speciali permessi
possibili interventi per consentire l’utilizzo nel tempo
libero.
Nuove
possibilità di utilizzo dei terrazzi, valorizzandoli anche
per usi temporanei: lo consente la
sentenza 21.01.2015 n. 177 del Consiglio di Stato
- Sez. VI,
relativa al centro storico di Roma.
Il caso deciso riguarda
una nota casa di moda, che aveva collocato sette gazebi su
un terrazzo piano, diventato luogo di ricevimenti. Il
dissenso del Comune è stato annullato, qualificando minimo
il peso dell’intervento.
Molti altri terrazzi, centrali e panoramici, possono ora
essere utilizzati, e non più solo per antenne televisive;
chi ha stenditoi coperti o locali per serbatoi idrici, può
attrezzarli per altre finalità di servizio, ed anche chi ha
solo lastrici, cioè superfici piani, può pensare ad usi –anche temporanei- con opportuni arredi ed accorgimenti.
Ad esempio, si possono modificare l’ascensore e l’ultima
rampa di scale, partendo dal presupposto che il terrazzo già
esiste e che quindi ne muta solo l’utilizzo temporaneo.
Locali tecnici e strutture che non rappresentano volumi,
sono, infatti, consentiti e agevolati da norme urbanistiche
(articolo 6 Dpr 380/2001 modificato nel 2012 e nel 2014),
che eliminano la necessità di ottenere di permessi (espressi
o taciti). Gli elementi di arredo, così come quelli ludici
per il tempo libero, ad esempio una vasca con idromassaggio,
sono infatti sempre consentiti (se vi sono solai con
adeguati requisiti statici).
Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato vi erano stati
appunto il rifacimento del vano di “fine corsa”
dell’ascensore e la copertura di una scala esterna mediante
pannelli amovibili; la stessa scala era stata modificata,
allargandola fino a 120 centimetri. Tutto ciò è stato
ritenuto consentito con mera dichiarazione di inizio lavori
(oggi, Cia) partendo dal presupposto che queste modifiche
non generano una diversa qualificazione dell’area, da mero
lastrico solare a terrazza, quando vi siano caratteristiche
costruttive tali da rendere la superficie idonea al
«sostegno e sosta di persone».
Nel caso specifico, con una perizia era stata dimostrata
un’elevata capacità portante del solaio, con un carico
variabile da 350 a 500 kg al metro quadrato, corrispondente
a “folla compatta”. Inoltre, vi erano già parapetti.
Problemi di utilizzazione dell’ultimo livello degli edifici
possono invece sorgere da parte dei sottostanti condomini,
qualora il bene risulti comune e a tutti accessibile; se
invece il terrazzo è usato unicamente dal proprietario
dell’ultimo piano, che vi ha accesso esclusivo (consentito
una tantum a terzi, per gestire le antenne), può sostenersi
che la proprietà sia esclusiva.
In ogni caso, la parziale trasformazione di un sottotetto a
falde inclinate (volume tecnico di proprietà esclusiva), in
terrazza di piccole dimensioni, è agevolato
dall’orientamento della Cassazione (1737/2005), purché si
garantiscano isolamento e coibentazione. Ciò perché il
Codice civile impone di preservare la destinazione dei beni,
intendendola tuttavia in senso complessivo e quindi
ammettendo modifiche parziali della falda.
Per i terrazzi
nei centri storici e su beni tutelati possono sorgere
problemi per vincoli ambientali, se le strutture necessarie
all’utilizzo dell’area risultino permanenti e di impatto.
Diversamente, per piccole modifiche, si applica
l’autorizzazione semplificata ambientale (Dpr 139/2010),
mentre per quelle di maggior peso sono poi possibili
autorizzazioni ambientali provvisorie (party, settimane
promozionali).
Un dissenso rilevante, che può impedire l’impiego del
terrazzo, può infine venire da proprietari di zone
adiacenti, che possono lamentarsi per servitù di veduta
(dall’alto) sulle loro proprietà: basta tuttavia la
preesistenza di un parapetto per far presumere il precedente
utilizzo effettivo del terrazzo, tenendo presente che la
servitù non si aggrava se aumenta il numero delle persone
che ne fruiscono. Ciò avviene solo se muta la stabile
utilizzazione del terrazzo, ad esempio da uso privato a
pubblico esercizio (articolo Il Sole 24 Ore del
10.12.2015). |
AGGIORNAMENTO AL 21.12.2015 |
ã |
Incentivo alla progettazione interna per opere di
manutenzione straordinaria:
la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deferisce alla Sezione delle Autonomie ovvero
alle Sezioni riunite il
quesito relativo alla
possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla
progettazione per le attività di manutenzione
straordinaria anche a seguito delle modifiche
normative introdotte dall’articolo 13-bis del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114. |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
La Sezione regionale di
controllo per l’Emilia-Romagna
sospende la pronuncia e sottopone al Presidente della Corte
dei conti la valutazione circa la decisione di deferire alla
Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite la
questione oggetto della richiesta di parere in esame
relativa alla possibilità o meno di corrispondere
l’incentivo alla progettazione per le attività di
manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche
normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge
24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge
11.08.2014, n. 114.
---------------
Il Comune di Coriano (RN) ha rivolto alla Sezione una
richiesta di parere con la quale intende conoscere se, in
relazione a quanto previsto dall’articolo 93, comma 7-ter,
d.lgs. 163/2006, introdotto dal decreto-legge 24.06.2014, n.
90, convertito in legge 11.08.2014, n. 114, sia possibile
riconoscere l’incentivo di progettazione alle attività
qualificabili come manutentive, sia
straordinarie che
ordinarie,
susseguenti ad una preventiva attività di progettazione.
...
1. Il quesito proposto consiste nello stabilire se la
disciplina prevista nell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 (codice degli appalti pubblici), in
materia di cd. ‘compenso incentivante’ possa essere
applicata anche in relazione ad attività manutentive, sia
straordinarie sia ordinarie, susseguenti ad una preventiva
attività di progettazione.
1.1. Preliminarmente la Sezione rileva che la materia de
qua, originariamente disciplinata dall’articolo 92,
commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 è stata oggetto di recenti e
rilevanti modifiche. L’articolo 13 del decreto-legge
24.06.2014, n. 90 ha abrogato i commi 5 e 6 del richiamato
articolo 92 del codice degli appalti, e l’articolo 13-bis,
aggiunto in sede di conversione in legge, ha inserito,
nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione
per gli appalti e le concessioni di lavori"), i commi da
7-bis a 7-quinquies.
Per la disamina di tali modifiche si rinvia al
parere 19.09.2014 n. 183
di questa Sezione (punto n. 4 della parte in diritto).
Sinteticamente si rammenta che, a decorrere dal 19.08.2014
(data di entrata in vigore delle modifiche introdotte in
sede di conversione del citato decreto-legge), è stata
prevista una nuova disciplina in materia di incentivi
spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni per
le attività di progettazione. Tra le novità più importanti
messe in evidenza nella citata deliberazione, si ricordano
la esclusiva riconducibilità della disciplina dell’incentivo
alla progettazione alla sola realizzazione di opere
pubbliche e non ad attività di pianificazione territoriale,
l’esclusione della possibilità di riconoscere tale
emolumento al personale con qualifica dirigenziale.
Il comma 7-bis demanda ad un apposito regolamento dell’ente
la determinazione della percentuale effettiva delle risorse
(non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un’opera o di un lavoro) da destinare agli incentivi
per la progettazione e l’innovazione.
Le risorse così determinate possono essere destinate per
l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra
il responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; il restante 20 per cento è destinato
all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione di banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all’ammodernamento e all’accrescimento
dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs.
n. 163/2006 demanda alla predetta fonte regolamentare di
ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle
risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con
particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e
non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della
complessità delle opere, escludendo le attività manutentive,
e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo”.
1.2.
In relazione al riconoscimento dell’incentivo alla
progettazione per gli interventi di manutenzione,
giova rilevare che l’orientamento formatosi in sede di
attività consultiva da parte delle Sezioni regionali di
controllo ante novella del 2014
(Sez. Toscana
parere 19.03.2013 n. 15 e
parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72, Sez. Liguria
parere 10.05.2013 n. 24), era
stato nel senso di riconoscere il predetto emolumento solo
per le attività di manutenzione straordinaria, purché
si fosse resa necessaria un’attività di progettazione;
viceversa, l’incentivo era escluso nelle ipotesi di
interventi qualificabili come attività di manutenzione
ordinaria.
Nella nuova formulazione del comma 7-ter dell’articolo 93
d.lgs. 163/2006 le attività di manutenzione sono
espressamente escluse.
Sull’interpretazione di tale disposizione non vi è
uniformità di indirizzo da parte delle Sezioni regionali di
controllo che si sono sinora pronunciate.
Secondo un orientamento (cfr. Sez. Lombardia
parere 28.10.2015 n. 351
e Sez. Marche
parere 17.12.2014 n. 1414)
l’incentivo alla progettazione può essere
riconosciuto per le attività di manutenzione straordinaria,
purché si sia resa necessaria una preventiva attività di
progettazione. Le argomentazioni sulle quali tale
orientamento si fonda sono rappresentate dalla opportunità
di coniugare l’interpretazione letterale della disposizione
in parola con un’interpretazione sistematica che tenga conto
anche di altre disposizioni legislative, seppur dettate ad
altri fini.
Si richiamano, in particolare, l’articolo 3, comma 1, lett.
b), DPR 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico in materia di
edilizia) che definisce le attività di manutenzione
straordinaria; l’articolo 3, commi 7 e 8, del d.lgs.
163/2006 che include nell’ambito degli appalti pubblici di
lavori anche “le attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione di opere”;
l’articolo 3, comma 18, lett. a) e b), della legge 24
dicembre 2003, n. 350 che equipara gli interventi di
manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere
qualificandoli come spese di investimento per le quali è
consentito il ricorso all’indebitamento (cfr. Sez. Marche,
parere 17.12.2014 n. 141,
richiamata da Sez. Lombardia
parere 28.10.2015 n. 351).
Secondo il contrapposto orientamento (cfr.
Sez. Toscana
parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria,
parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria
parere 24.10.2014 n. 60)
-al quale questa Sezione regionale di controllo ritiene di
aderire- l’interpretazione letterale della
norma porta a sostenere che ogni tipologia di attività
manutentiva, a
prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività
di progettazione, non possa essere
remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs.
n. 163/2006.
Le argomentazioni sulle quali tale orientamento si fonda
sono rappresentate dalla utilizzazione dei “comuni canoni
ermeneutici sanciti dall’articolo 12 delle preleggi che
impone all’interprete di privilegiare, tra le possibili
interpretazioni, quella più conforme alla lettera della
norma”, che espressamente esclude dall’incentivo le “attività
manutentive”.
Anche la ratio legis ed
un’interpretazione sistematica conducono ad escludere la
possibilità di corrispondere l’incentivo per le attività di
manutenzione in quanto il richiamo operato alla legge
350/2003 non sarebbe pertinente in quanto rispondente alla
diversa ratio di tutelare “il patrimonio immobiliare
degli enti pubblici al fine di evitare che gli enti
dilapidino il proprio patrimonio per fronteggiare impellenti
esigenze di cassa”
(Sez. Umbria
parere 14.05.2015 n. 71).
Viceversa, la ratio della normativa in tema
di incentivi alla progettazione è quella di “valorizzare
al massimo le competenze e professionalità tecniche
possedute dal personale dipendente degli enti pubblici e ad
evitare nel contempo di ricorrere, per le attività di
progettazione finalizzata alla realizzazione di opere
pubbliche, a personalità esterne con conseguente aggravio di
costi” (Sez.
Umbria
parere 14.05.2015 n. 71).
A tali argomentazioni,
che questa Sezione regionale condivide pienamente poiché
tengono conto del dato letterale della norma che, in quanto
norma derogatoria, non può che essere considerata norma di
stretta interpretazione, va aggiunta anche
la considerazione che nel disegno di legge delega al Governo
per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE in materia di concessioni e di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture
(Atto
Senato 1678-B,
attualmente in Commissione al Senato) è
contenuto un criterio di delega (lettera “rr” del testo in
discussione al Senato) nel quale si prevede di destinare il
compenso incentivante (sempre fissato nell’importo del 2 per
cento dell’importo posto a base di gara) non più per la
remunerazione delle fasi della progettazione, quanto
piuttosto per le fasi “della programmazione della spesa
per investimenti, alla predisposizione e controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici,
di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare
riferimento ai profili dei tempi e dei costi”.
Pur trattandosi di una norma non ancora in vigore, ritiene
la Sezione che da essa possa trarsi un ulteriore elemento
mediante il quale rafforzare l’interpretazione dell’articolo
93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 che espressamente esclude
dall’incentivo qualsiasi attività di manutenzione, senza far
distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria.
La Sezione, preso atto della difformità di
orientamenti tra diverse Sezioni regionali di controllo,
ritiene di dover investire della questione il Presidente
della Corte dei conti ai fini della valutazione della
rimessione alle Sezioni Riunite o alla Sezione delle
autonomie.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna
sospende la pronuncia e sottopone al Presidente
della Corte dei conti la valutazione circa la decisione di
deferire alla Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni
riunite, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012,
n. 174 la questione oggetto della richiesta di parere in
esame relativa alla possibilità o meno di corrispondere
l’incentivo alla progettazione per le attività di
manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche
normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge
24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge
11.08.2014, n. 114
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 15.12.2015 n. 156). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La
Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna
sospende la pronuncia in relazione al quesito
indicato sub 1 nella parte motiva e, limitatamente al
suddetto quesito, sottopone al Presidente della Corte dei
conti la valutazione circa la decisione di deferire alla
Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite il
suddetto quesito relativo alla possibilità o meno di
corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività
di manutenzione straordinaria anche a seguito delle
modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
---------------
la Sezione,
contrariamente a quanto rappresentato dall’Ente nella
richiesta di parere, non ravvisa il
contrasto di interpretazioni tra la Sezione Lombardia
e la Sezione Marche,
nonché rispetto all’orientamento espresso dall’ANAC.
Su tale aspetto della disciplina in esame
l’orientamento della Sezioni di regionali di controllo che
sinora si sono espresse è univoco nel senso di ritenere che
-trattandosi di una disposizione di carattere derogatorio
rispetto alla disciplina generale sul trattamento economico
del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni
(cfr. art. 24 d.lgs. 165/2001) non suscettibile, pertanto,
di interpretazione analogica e/o estensiva- l’incentivo in
parola possa essere corrisposto solo alle figure
professionali tassativamente indicate dal legislatore.
---------------
La disciplina introdotta dal d.l. 90/2014
in materia di riparto del fondo per la progettazione e
l’innovazione, proprio in quanto non costituisce norma di
interpretazione autentica, non può essere applicata in via
retroattiva.
Da tale principio consegue che la corresponsione del
compenso incentivante per fasi finali di opere pubbliche
iniziate nel vigore della vecchia disciplina contenuta
nell’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 e nei
relativi regolamenti degli enti deve avvenire secondo i
criteri ed i parametri ivi previsti.
---------------
Il Comune di Ferrara ha rivolto alla Sezione tre quesiti
in tema di fondo per la progettazione e l’innovazione di cui
all’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Con il primo quesito l’Ente chiede
se le opere di manutenzione sono completamente escluse dal
riparto del predetto fondo, oppure se è possibile
distinguere tra attività di manutenzione
ordinaria, escluse
dall’incentivo, e progetti per lavori di
manutenzione straordinaria,
che, differenziandosi dai primi per natura dei lavori e
complessità, richiedono un’attività progettuale
specialistica, e se, in quest’ultimo caso possano essere
incentivati.
Con il secondo quesito l’Ente intende sapere se
tra i beneficiari del fondo, oltre alle categorie di
personale indicate nell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
163/2006, possa essere incluso anche il personale dei ruoli
amministrativo e/o contabile.
Infine, con il terzo quesito l’Ente chiede di
conoscere se per la prosecuzione e ultimazione di
attività iniziate precedentemente alla data del 19/08/2014
(data di entrata in vigore della nuova disciplina in tema di
compenso incentivante) si dovrà applicare il regolamento
vigente all’epoca del progetto o dovrà essere applicato un
nuovo regolamento, che andrà a modificare il quadro
economico, per la suddivisione dell’incentivo in 80% + 20% e
di conseguenza anche gli importi dei singoli beneficiari.
...
1. Con il primo quesito il Comune di Ferrara chiede
se il cd. compenso incentivante previsto dal novellato art.
93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006 possa essere corrisposto
per le attività di manutenzione straordinaria, che, a
differenza di quelle di manutenzione ordinaria, per le quali
l’incentivo andrebbe certamente escluso, in ragione della
natura dei lavori e della loro complessità, richiedono
un’attività progettuale specialistica tale da giustificare
la corresponsione del compenso.
1.1. Preliminarmente la Sezione rileva che la materia de
qua, originariamente disciplinata dall’articolo 92,
commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 (codice degli appalti
pubblici), è stata oggetto di recenti e rilevanti modifiche.
L’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 ha
abrogato i commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice
degli appalti, e l’articolo 13-bis, aggiunto in sede di
conversione in legge, ha inserito, nell’articolo 93
(rubricato “Livelli della progettazione per gli appalti e
le concessioni di lavori"), i commi da 7-bis a
7-quinquies.
Per la disamina di tali modifiche si rinvia al
parere 19.09.2014 n. 183
di questa Sezione (punto n. 4 della parte in diritto).
Sinteticamente si rammenta che, a decorrere dal 19.08.2014
(data di entrata in vigore delle modifiche introdotte in
sede di conversione del citato decreto-legge), è stata
prevista una nuova disciplina in materia di incentivi
spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni per
le attività di progettazione.
Tra le novità più importanti messe in evidenza nella citata
deliberazione, si ricordano la esclusiva riconducibilità
della disciplina dell’incentivo alla progettazione alla sola
realizzazione di opere pubbliche e non ad attività di
pianificazione territoriale, l’esclusione della possibilità
di riconoscere tale emolumento al personale con qualifica
dirigenziale.
Il comma 7-bis demanda ad un apposito regolamento dell’ente
la determinazione della percentuale effettiva delle risorse
(non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un’opera o di un lavoro) da destinare agli incentivi
per la progettazione e l’innovazione.
Le risorse così determinate possono essere destinate per
l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra
il responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; il restante 20 per cento è destinato
all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione di banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all’ammodernamento e all’accrescimento
dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs.
n. 163/2006 demanda alla predetta fonte regolamentare di
ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle
risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con
particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e
non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della
complessità delle opere, escludendo le attività manutentive,
e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo”.
1.2. In relazione al riconoscimento
dell’incentivo alla progettazione per gli interventi di
manutenzione, giova rilevare che l’orientamento
formatosi in sede di attività consultiva da parte delle
Sezioni regionali di controllo ante novella del 2014
(Sez. Toscana
parere 19.03.2013 n. 15 e
parere 13.11.2012 n. 293; Sez. Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72, Sez. Liguria
parere 10.05.2013 n. 24), era
stato nel senso di riconoscere il predetto emolumento solo
per le attività di manutenzione straordinaria, purché
si fosse resa necessaria un’attività di progettazione;
viceversa, l’incentivo era escluso nelle ipotesi di
interventi qualificabili come attività di manutenzione
ordinaria.
Nella nuova formulazione del comma 7-ter dell’articolo 93
d.lgs. 163/2006 le attività di manutenzione sono
espressamente escluse.
Sull’interpretazione di tale disposizione non vi è
uniformità di indirizzo da parte delle Sezioni regionali di
controllo che si sono sinora pronunciate.
Secondo un orientamento (cfr. Sez. Lombardia
parere 28.10.2015 n. 351 e Sez. Marche
parere 17.12.2014 n. 141)
l’incentivo alla progettazione può essere riconosciuto per
le attività di manutenzione straordinaria, purché si
sia resa necessaria una preventiva attività di
progettazione. Le argomentazioni sulle quali tale
orientamento si fonda sono rappresentate dalla opportunità
di coniugare l’interpretazione letterale della disposizione
in parola con un’interpretazione sistematica che tenga conto
anche di altre disposizioni legislative, seppur dettate ad
altri fini.
Si richiamano, in particolare, l’articolo 3, comma 1, lett.
b), DPR 06.06.2001, n. 380 (Testo unico in materia di
edilizia) che definisce le attività di manutenzione
straordinaria; l’articolo 3, commi 7 e 8, del d.lgs. n.
163/2006 che include nell’ambito degli appalti pubblici di
lavori anche “le attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione di opere”;
l’articolo 3, comma 18, lett. a) e b), della legge
24.12.2003, n. 350 che equipara gli interventi di
manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere
qualificandoli come spese di investimento per le quali è
consentito il ricorso all’indebitamento (cfr. Sez. Marche,
parere 17.12.2014 n. 141, richiamata da Sez.
Lombardia
parere 28.10.2015 n. 351).
Secondo il contrapposto orientamento (cfr. Sez.
Toscana
parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria,
parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria
parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione
regionale di controllo ritiene di aderire-
l’interpretazione letterale della norma porta a sostenere
che ogni tipologia di attività manutentiva,
a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva
attività di progettazione, non possa essere
remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs.
n. 163/2006.
Le argomentazioni sulle quali tale
orientamento si fonda sono rappresentate dalla utilizzazione
dei “comuni canoni ermeneutici sanciti dall’articolo 12
delle preleggi che impone all’interprete di privilegiare,
tra le possibili interpretazioni, quella più conforme alla
lettera della norma”, che espressamente esclude
dall’incentivo le “attività manutentive”.
Anche la ratio legis ed
un’interpretazione sistematica conducono ad escludere la
possibilità di corrispondere l’incentivo per le attività di
manutenzione: il richiamo operato alla legge 350/2003 non
sarebbe pertinente in quanto rispondente alla diversa
ratio di tutelare “il patrimonio immobiliare degli
enti pubblici al fine di evitare che gli enti dilapidino il
proprio patrimonio per fronteggiare impellenti esigenze di
cassa” (Sez.
Umbria
parere 14.05.2015 n. 71).
Viceversa, la ratio della normativa in tema
di incentivi alla progettazione è quella di “valorizzare
al massimo le competenze e professionalità tecniche
possedute dal personale dipendente degli enti pubblici e ad
evitare nel contempo di ricorrere, per le attività di
progettazione finalizzata alla realizzazione di opere
pubbliche, a personalità esterne con conseguente aggravio di
costi” (Sez.
Umbria
parere 14.05.2015 n. 71).
A tali argomentazioni,
che questa Sezione regionale condivide pienamente poiché
tengono conto del dato letterale della norma che, in quanto
norma derogatoria, non può che essere considerata norma di
stretta interpretazione, va aggiunta anche
la considerazione che nel disegno di legge delega al Governo
per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE in materia di concessioni e di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture
(Atto
Senato 1678-B, attualmente in Commissione al
Senato) è contenuto un criterio di delega
(lettera “rr” del testo in discussione al Senato) nel quale
si prevede di destinare il compenso incentivante (sempre
fissato nell’importo del 2 per cento dell’importo posto a
base di gara) non più per la remunerazione delle fasi della
progettazione, quanto piuttosto per le fasi “della
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento ai profili dei
tempi e dei costi”.
Pur trattandosi di una norma non ancora in vigore, ritiene
la Sezione che da essa possa trarsi un ulteriore elemento
mediante il quale rafforzare l’interpretazione dell’articolo
93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 che espressamente esclude
dall’incentivo qualsiasi attività di manutenzione, senza far
distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria.
La Sezione, preso atto della difformità di
orientamenti tra diverse Sezioni regionali di controllo,
ritiene di dover investire della questione il Presidente
della Corte dei conti ai fini della valutazione della
rimessione alle Sezioni Riunite o alla Sezione delle
autonomie.
2. Con il secondo quesito il Comune di Ferrara chiede
di conoscere se il compenso incentivante possa essere
riconosciuto, oltre al personale del ruolo tecnico elencato
nel comma 7-ter (responsabile del procedimento, incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro
collaboratori), anche al personale dei ruoli amministrativo
e/o contabile.
Sul punto la Sezione,
contrariamente a quanto rappresentato dall’Ente nella
richiesta di parere, non ravvisa il
contrasto di interpretazioni tra la Sezione Lombardia
(parere
26.03.2014 n. 135) e la Sezione
Marche (parere
17.12.2014 n. 141), nonché
rispetto all’orientamento espresso dall’ANAC
nel
parere sulla normativa del 27.05.2015 - rif. AG 41/2015/AC.
Su tale aspetto della disciplina in esame
l’orientamento della Sezioni di regionali di controllo che
sinora si sono espresse è univoco nel senso di ritenere che
-trattandosi di una disposizione di carattere derogatorio
rispetto alla disciplina generale sul trattamento economico
del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni
(cfr. art. 24 d.lgs. 165/2001) non suscettibile, pertanto,
di interpretazione analogica e/o estensiva- l’incentivo in
parola possa essere corrisposto solo alle figure
professionali tassativamente indicate dal legislatore.
3. Con il terzo ed ultimo quesito l’Ente chiede di
conoscere se per la prosecuzione e ultimazione di attività
iniziate precedentemente alla data del 19/08/2014 (data di
entrata in vigore della nuova legge) si dovrà applicare il
regolamento vigente all’epoca del progetto o dovrà essere
applicato il nuovo regolamento, che andrà a modificare il
quadro economico, per la suddivisione dell’incentivo in 80%
e 20% e di conseguenza anche gli importi dei singoli
beneficiari.
Ai fini della soluzione del quesito in esame, che riguarda
una questione di diritto intertemporale, la Sezione ritiene
di poter richiamare l’orientamento espresso dalla Sezione
delle autonomie nella
deliberazione 24.03.2015 n. 11. Nella suddetta
delibera è stato affermato il principio secondo il quale
la disciplina introdotta dal d.l. 90/2014 in materia
di riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione,
proprio in quanto non costituisce norma di interpretazione
autentica, non può essere applicata in via retroattiva.
Da tale principio consegue che la corresponsione del
compenso incentivante per fasi finali di opere pubbliche
iniziate nel vigore della vecchia disciplina contenuta
nell’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 e nei
relativi regolamenti degli enti deve avvenire secondo i
criteri ed i parametri ivi previsti.
P.Q.M.
La Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna:
- sospende la pronuncia in relazione al
quesito indicato sub 1 nella parte motiva e, limitatamente
al suddetto quesito, sottopone al Presidente della Corte dei
conti la valutazione circa la decisione di deferire alla
Sezione delle autonomie ovvero alle Sezioni riunite, ai
sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174 il
suddetto quesito relativo alla possibilità o meno di
corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività
di manutenzione straordinaria anche a seguito delle
modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114;
- rende il parere nei termini di cui in motivazione per i
quesiti sub 2 e 3;
- dispone che la presente deliberazione venga trasmessa, a
cura della Segreteria all’Ufficio di Presidenza della Corte
dei conti, al Presidente del Consiglio delle autonomie
locali della Regione Emilia-Romagna e al Comune di Ferrara e
che l’originale della presente pronuncia resti depositato
presso la predetta Segreteria (Corte dei Conti, Sez.
controllo Emilia Romagna,
parere 15.12.2015 n. 155). |
|
Ed
altre pronunce, ancora, sull'incentivo alla
progettazione interna: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La
legge
individua alcune regole generali per la
ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la
disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto
regolamentare interno alla singola amministrazione, assunto
previa contrattazione decentrata.
I parametri a cui il regolamento interno
deve conformarsi sono stati a più riprese ribaditi dalla
giurisprudenza di questa Corte e cioè:
- erogazione ai soli dipendenti
espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di
servizi);
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza,
direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione;
- devoluzione in economia delle
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni,
anche se svolte da dipendenti interni, prive
dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai
tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal
predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti
dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n.
114/2014).
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L'istituto dell“incentivo alla progettazione”, costituendo
eccezione al principio di onnicomprensività della
retribuzione, finalizzato ad incentivare il ricorso alle
professionalità interne dell’Ente (oltre che deroga alla
riserva di contrattazione collettiva in materia
determinazione del corrispettivo delle prestazione dei
dipendenti), è considerato di stretta interpretazione e, di
conseguenza, insuscettibile di applicazione analogica.
Proprio in relazione a siffatta connotazione di disciplina,
le Sezioni regionali di controllo hanno
espressamente escluso la riconoscibilità, per il futuro,
dell’incentivo di progettazione all’intero novero di
attività qualificabili come manutentive, sia
straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere
dalla presenza o meno di una preventiva attività di
progettazione.
In questo senso si è espressa, da ultimo, la Sezione
controllo Veneto che è giunta a conclusioni che questa
Sezione condivide: “in ragione della
natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può
riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione
straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori
finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica e sempre
che alla base sussista una necessaria attività progettuale
(ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le
fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed
esecutiva) (………) A seguito dei nuovi principi contenuti nel
citato d.l. 90/2014, l’indirizzo che valorizza il tenore
letterale della norma -la quale, come si evince dalla
formulazione della norma, espressamente prevede che i
criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che
ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le
attività manutentive”- fonda l’espressa esclusione della
riconoscibilità dell’incentivo di progettazione all’intero
novero di attività qualificabili come manutentive, sia
straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere dalla
presenza o meno di una preventiva attività di progettazione”.
Alla luce dei principi sopra richiamati,
le “attività manutentive” escluse dall’art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 dalla ripartizione delle
risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione
comprendono anche le attività di manutenzione
straordinaria.
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In ordine alla questione se,
in caso di affidamento all’esterno dell’attività di
progettazione, sia riconoscibile o meno al Responsabile
Unico del Procedimento il relativo incentivo, la stessa è
stata affrontata, da ultimo, dalla Sezione controllo
Lombardia che,
dopo aver ribadito la natura eccezionale della disciplina in
esame, ha ricordato come, per orientamento
costante delle Sezioni di controllo ed ai sensi del nuovo
comma 7-ter dell’art. 93, l’attribuzione dell’incentivo
afferisce alle sole attività concretamente affidate ed
espletate, con confluenza in economia delle quote parti del
fondo incentivante corrispondenti agli incarichi affidati
all’esterno.
Le previsioni appena richiamate costituiscono, infatti, una
declinazione, nello specifico settore considerato, del
principio sancito in via generale dall’art. 7, comma 5, del
d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “le amministrazioni
pubbliche non possono erogare trattamenti economici
accessori che non corrispondano alle prestazioni
effettivamente rese”.
Da qui il precipitato per cui la
normativa vigente non richiede, ai fini della legittima
erogazione, il necessario espletamento interno di tutta
l’attività progettuale, purché il regolamento ripartisca gli
incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite
e devolva in economia la quota relativa agli incarichi
conferiti a professionisti esterni.
La gradazione proporzionale dell’entità
degli incentivi, entro il limite generale posto dal
legislatore, è rimessa all’autonomia regolamentare del
singolo ente che dovrà essere conforme ai criteri di
logicità, congruenza e ragionevolezza.
Sotto tale profilo è stato osservato che “La
norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il
necessario espletamento interno di una o più attività (per
esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca
gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità
attribuite e devolva in economia la quota relativa agli
incarichi conferiti a professionisti esterni”.
Ciò in quanto l’incentivo alla progettazione
costituisce, come già osservato, una deroga legislativa al
principio di onnicomprensività della retribuzione.
Dalle coordinate ermeneutiche appena ricordate si desume,
pertanto, che l’erogazione dell’incentivo
in questione a favore del RUP (soggetto rientrante
nell’elencazione tassativa dell’art. 93) è subordinata al
previo positivo accertamento dell’attività concretamente
svolta, oltre che all’effettivo rispetto, in fase di
realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal
quadro economico del progetto esecutivo.
In caso di affidamento all’esterno di
prestazioni, tuttavia, è compito del responsabile del
procedimento, sotto la propria responsabilità, accertare e
certificare la sussistenza dei presupposti
dell’esternalizzazione enunciati dall’art. 90, co. 6, d.lgs.
163/2006 (carenza in organico di personale tecnico,
difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei
lavori o di svolgere le funzioni di istituto, lavori di
speciale complessità o rilevanza architettonica o
ambientale, necessità di predisporre progetti integrali che
richiedono l’apporto di particolari competenze).
Il ricorso all’esterno per le prestazioni
in argomento, quindi, può avvenire solo nelle ipotesi
tassativamente indicate, previa valutazione -per ciascuna di
esse- dell’impossibilità di utilizzare le professionalità
interne (art. 7, co. 6, d.lgs. 165/2001). Si tratta di
presupposti dei quali il responsabile deve analiticamente
dare conto nella propria certificazione, la cui motivazione
dovrà essere particolarmente pregnante in caso di
esternalizzazione dell’intera attività di progettazione.
In questo senso si è espressa la Sezione delle Autonomie che
ha osservato come “Le disposizioni
di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo
evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità
interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi
consistenti in prestazioni d’opera professionale e,
pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle
norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le
amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente,
al quale applicheranno le regole generali previste per il
pubblico impiego".
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Il Sindaco del Comune di Racale (LE) chiede alla
Sezione un parere in merito alla disciplina degli incentivi
alla progettazione di cui all’art. 93 d.lgs. 163/06, alla
luce delle modifiche introdotte dagli artt. 13 e 13-bis d.l.
90/2014 conv. dalla l. 114/2014.
In particolare, il Sindaco formula i seguenti quesiti:
1) se le “attività manutentive escluse ex art. 93,
comma 7-ter, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 dalla ripartizione
delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione
ricomprendano non solo la manutenzione ordinaria, ma anche
gli interventi di manutenzione straordinaria che comportino
la redazione di un apposito progetto”;
2) se, “in caso di affidamento all’esterno
dell’attività di progettazione, sia riconoscibile o meno al
Responsabile Unico del Procedimento il relativo incentivo”.
...
Passando al merito della richiesta, l’Ente formula due
quesiti vertenti sulla nuova disciplina del fondo per la
progettazione e l’innovazione, scaturita dalle modifiche
apportate nel corpo del c.d. codice dei contratti pubblici
dal d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014. Il decreto citato,
in particolare, ha abrogato (art. 13) i commi 5 e 6
dell’art. 92 d.lgs. 163/2006 ed ha introdotto quattro nuovi
commi (art. 13-bis) nel testo dell’art. 93 del medesimo
decreto legislativo (commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e
7-quinquies).
I commi da ultimo citati, in particolare, delineano i nuovi
tratti della materia, la quale, tuttavia, non vede stravolta
la propria essenza di fondo rispetto alla disciplina
previgente (su cui si richiamano i principi espressi da
questa Sezione con
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114; si ricordano anche Sez.
controllo Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72,
parere 28.05.2014 n. 188,
parere 01.10.2014 n. 246
e
parere 13.11.2014 n. 300;
Sez. controllo Liguria
parere 10.05.2013 n. 24,
parere 24.10.2014 n. 60,
parere 16.12.2014 n. 73 e
parere 22.12.2014 n. 75; Sez. controllo Piemonte
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana
parere 13.11.2012 n. 293,
parere 19.03.2013 n. 15 e
parere 12.11.2014 n. 237), prevedendo quanto
segue: “7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al
comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo
per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in
misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a
base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale
effettiva è stabilita da un regolamento adottato
dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta
offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del
presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione
dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti
elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d).
La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o
dal responsabile di servizio preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie
del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato
all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all'ammodernamento e all'accrescimento
dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti
di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono
adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli
di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente
articolo".
La legge,
quindi, individua alcune regole generali
per la ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone
la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un
atto regolamentare interno alla singola amministrazione,
assunto previa contrattazione decentrata.
I parametri a cui il regolamento interno
deve conformarsi sono stati a più riprese ribaditi dalla
giurisprudenza di questa Corte
(Sezione controllo Lombardia
parere 01.10.2014 n. 246,
Sezione controllo Piemonte
parere 20.01.2015 n. 17, si richiama anche, con
riferimento ai presupposti e limiti di erogabilità, Sezione
controllo Campania
parere 23.02.2015 n. 20):
- erogazione ai soli dipendenti espletanti
gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro”
(non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di
servizi);
- puntuale ripartizione del fondo
incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile
del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza,
direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza;
- devoluzione in economia delle quote del
fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte
dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione;
- devoluzione in economia delle quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte
da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione
dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti
(novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per
gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della
legge di conversione n. 114/2014).
Premesso quanto sopra, la soluzione al quesito n. 1
avanzato dal Comune istante si fonda, da un lato, sul
dato letterale della nuova disciplina (che, contrariamente
al previgente art. 92, co. 5, espressamente esclude “le
attività manutentive” dal riparto delle risorse del
fondo), e, dall’altro lato, sul carattere eccezionale
e derogatorio che da sempre è stato riconosciuto al c.d. “incentivo
alla progettazione”.
Tale istituto,
infatti, costituendo eccezione al principio
di onnicomprensività della retribuzione, finalizzato ad
incentivare il ricorso alle professionalità interne
dell’Ente (oltre che deroga alla riserva di contrattazione
collettiva in materia determinazione del corrispettivo delle
prestazione dei dipendenti), è considerato di stretta
interpretazione e, di conseguenza, insuscettibile di
applicazione analogica
(Sezione controllo Puglia
parere 18.07.2014 n. 133,
Sezione controllo Campania
parere 23.02.2015 n. 20,
Sezione controllo Lombardia
parere 01.10.2014 n. 246,
Sezione controllo Umbria
parere 14.05.2015 n. 71, Sezione controllo Veneto
parere 09.09.2015 n. 393).
Proprio in relazione a siffatta connotazione di disciplina,
le Sezioni regionali di controllo hanno
espressamente escluso la riconoscibilità, per il futuro,
dell’incentivo di progettazione all’intero novero di
attività qualificabili come manutentive, sia
straordinarie che ordinarie, e ciò a prescindere
dalla presenza o meno di una preventiva attività di
progettazione (ex
multis, Sezione Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 300
e
parere 01.10.2014 n. 246;
Sez. Toscana,
parere 12.11.2014 n. 237; Sez. Emilia Romagna,
parere 19.09.2014 n. 183;
Sez. Liguria
parere 24.10.2014 n. 60, Sezione controllo Umbria
parere 14.05.2015 n. 71).
In questo senso si è espressa, da ultimo, la Sezione
controllo Veneto che, con il già citato
parere 09.09.2015 n. 393,
è giunta a conclusioni che questa Sezione condivide: “in
ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo
non può riconoscersi per qualunque intervento di
manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo
per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera
pubblica e sempre che alla base sussista una necessaria
attività progettuale (ancorché non condizionata alla
presenza di tutte e tre le fasi della progettazione:
preliminare, definitiva ed esecutiva) (………) A seguito dei
nuovi principi contenuti nel citato d.l. 90/2014,
l’indirizzo che valorizza il tenore letterale della norma
-la quale, come si evince dalla formulazione della norma,
espressamente prevede che i criteri di riparto del fondo
stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è
tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”-
fonda l’espressa esclusione della riconoscibilità
dell’incentivo di progettazione all’intero novero di
attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie
che ordinarie, e ciò a prescindere dalla presenza o meno di
una preventiva attività di progettazione”.
Alla luce dei principi sopra richiamati, le
“attività manutentive” escluse dall’art. 93, comma
7-ter, d.lgs. 163/2006 dalla ripartizione delle risorse del
fondo per la progettazione e l’innovazione comprendono anche
le attività di manutenzione straordinaria.
Passando al quesito n. 2, il Comune chiede se, in
caso di affidamento all’esterno dell’attività di
progettazione, sia riconoscibile o meno al Responsabile
Unico del Procedimento il relativo incentivo.
La questione è stata affrontata, da ultimo, dalla Sezione
controllo Lombardia (parere
01.10.2014 n. 247),
che, dopo aver ribadito la natura eccezionale della
disciplina in esame, ha ricordato come, per
orientamento costante delle Sezioni di controllo ed ai sensi
del nuovo comma 7-ter dell’art. 93, l’attribuzione
dell’incentivo afferisce alle sole attività concretamente
affidate ed espletate, con confluenza in economia delle
quote parti del fondo incentivante corrispondenti agli
incarichi affidati all’esterno
(Sezione controllo Lombardia
parere 01.10.2014 n. 247,
nello stesso senso Sezione controllo Piemonte
parere 02.10.2014 n. 197).
Le previsioni appena richiamate costituiscono, infatti, una
declinazione, nello specifico settore considerato, del
principio sancito in via generale dall’art. 7, comma 5, del
d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “le amministrazioni
pubbliche non possono erogare trattamenti economici
accessori che non corrispondano alle prestazioni
effettivamente rese”.
Da qui il precipitato per cui la normativa
vigente non richiede, ai fini della legittima erogazione, il
necessario espletamento interno di tutta l’attività
progettuale, purché il regolamento ripartisca gli incentivi
in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva
in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni.
La gradazione proporzionale dell’entità
degli incentivi, entro il limite generale posto dal
legislatore, è rimessa all’autonomia regolamentare del
singolo ente che dovrà essere conforme ai criteri di
logicità, congruenza e ragionevolezza.
Sotto tale profilo è stato osservato che “La
norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il
necessario espletamento interno di una o più attività (per
esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca
gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità
attribuite e devolva in economia la quota relativa agli
incarichi conferiti a professionisti esterni”
(Sezione controllo Lombardia
parere 01.10.2014 n. 247).
Ciò in quanto l’incentivo alla progettazione
costituisce, come già osservato, una deroga legislativa al
principio di onnicomprensività della retribuzione.
Dalle coordinate ermeneutiche appena ricordate si desume,
pertanto, che l’erogazione dell’incentivo
in questione a favore del RUP (soggetto rientrante
nell’elencazione tassativa dell’art. 93) è subordinata al
previo positivo accertamento dell’attività concretamente
svolta, oltre che all’effettivo rispetto, in fase di
realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal
quadro economico del progetto esecutivo.
In caso di affidamento all’esterno di
prestazioni, tuttavia, è compito del responsabile del
procedimento, sotto la propria responsabilità, accertare e
certificare la sussistenza dei presupposti
dell’esternalizzazione enunciati dall’art. 90, co. 6, d.lgs.
163/2006 (carenza in organico di personale tecnico,
difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei
lavori o di svolgere le funzioni di istituto, lavori di
speciale complessità o rilevanza architettonica o
ambientale, necessità di predisporre progetti integrali che
richiedono l’apporto di particolari competenze).
Il ricorso all’esterno per le prestazioni
in argomento, quindi, può avvenire solo nelle ipotesi
tassativamente indicate, previa valutazione -per ciascuna di
esse- dell’impossibilità di utilizzare le professionalità
interne (art. 7, co. 6, d.lgs. 165/2001). Si tratta di
presupposti dei quali il responsabile deve analiticamente
dare conto nella propria certificazione, la cui motivazione
dovrà essere particolarmente pregnante in caso di
esternalizzazione dell’intera attività di progettazione.
In questo senso si è espressa la Sezione delle Autonomie
che, con
deliberazione 15.04.2014 n. 7,
ha osservato come “Le disposizioni di
cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo
evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità
interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi
consistenti in prestazioni d’opera professionale e,
pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle
norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le
amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente,
al quale applicheranno le regole generali previste per il
pubblico impiego"
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 02.12.2015 n. 233). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Gli incentivi possono
(per attività espletate prima dell’entrata in vigore del
decreto-legge n. 90 del 2014) essere corrisposti solo per
remunerare la redazione di un atto di pianificazione che,
oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti
dell’ente, risulti collegato direttamente ed in modo
immediato alla progettazione di un’opera pubblica.
In
precedenti pareri resi in materia, ha negato, di
conseguenza, la configurabilità dell’incentivo per la
redazione del Piano di governo del territorio o delle
relative varianti, così come dei Piani integrati di
intervento.
Ai fini del riconoscimento degli incentivi di cui all’art.
92, comma 6, del codice dei contratti, per le attività
conclusesi prima della riforma, si richiede che la redazione
dello strumento urbanistico abbia comportato l’espletamento
di attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente
richieste dalla predisposizione di un generico atto di
pianificazione e che si estrinsechino nella puntuale
progettazione di un’opera pubblica.
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Il Sindaco del Comune di Laveno Mombello (VA) ha formulato
una richiesta di parere avente ad oggetto l’erogazione dei
c.d. incentivi alla progettazione e pianificazione a favore
del personale dipendente.
Premette che, con deliberazione di
Consiglio n. 15 del 17.05.2010, il Comune disponeva che
il Piano di governo del territorio, adottato dalla
precedente amministrazione (con delibera di Consiglio
comunale n. 5 dell'08.02.2010), non venisse depositato
e pubblicato nei termini di cui all’art. 13, comma 4, della
legge regionale n. 12/2005, essendo intenzione
dell'amministrazione neo eletta di procedere all'avvio di un
riesame dei suoi contenuti, da concludersi entro 150 giorni
dall’esecutività della summenzionata deliberazione, con
nuova adozione, nel rispetto dei termini previsti dalla
legge regionale del 31.03.2011.
A tal fine, con deliberazione di Giunta comunale n. 85 del 07.06.2010, come modificata con atto n. 90 del 21.06.2010, veniva istituito un apposito Ufficio di piano, e
relativo gruppo di lavoro, per la redazione del nuovo Piano.
Con deliberazione della Giunta comunale n. 102 dell'08.07.2010, veniva deliberava una variazione di bilancio per
stanziare, tra l'altro, la somma di “€ 23.000,00 a favore
del personale interno (incluso oneri riflessi ed Irap a
carico Ente) che saranno distribuite nel rispetto del
regolamento di cui all’art. 92, comma 5, DLgs 163/2006 e la
delibera GC 183 del 26.07.2004 (con oggetto "Approvazione del
regolamento per la disciplina degli incentivi di cui
all'art. 18, legge 109/1994 e successive modifiche ed
integrazioni”) e secondo l'art. 12, comma 3, secondo
l'allegato prospetto, previa adozione di determina di
impegno da parte del responsabile del servizio".
Con determinazione n. 745 del 09.07.2010 del Responsabile
del settore urbanistica-edilizia privata-demanio sono stati
conferiti gli incarichi ai dipendenti del settore,
impegnando le relative somme. Le prestazioni relative alla
redazione del nuovo Piano sono state regolarmente svolte dai
dipendenti incaricati, al di fuori del normale orario di
servizio, ed il Piano è stato approvato con deliberazione di
Consiglio comunale n. 32 dei 22.07.2013 (e risulta
vigente dal 26.02.2014).
Il Responsabile del settore urbanistica, incaricato di
posizione organizzativa (il Comune di Laveno Mombello è
privo di dirigenza), nella sua qualità di responsabile del
procedimento, ed i dipendenti del gruppo di lavoro hanno
chiesto la liquidazione delle somme impegnate a loro favore.
L’istanza ricorda anche come l'art. 13, comma 1, del
decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge
11.08.2014, n. 114, abbia, tra l'altro, abrogato i commi
5 e 6 dell'art. 92 del decreto legislativo n. 163/2006.
Inoltre, che le Sezioni regionali di controllo e la Sezione
delle Autonomie della Corte dei Conti hanno recentemente
precisato il corretto significato da attribuire alla
locuzione "atto di pianificazione, comunque denominato",
inserita nel testo dell'abrogato art. 92, comma 6, del
d.lgs. 163/2006. In particolare, l'atto di pianificazione
deve necessariamente riferirsi alla progettazione di opere
pubbliche, e non la mera pianificazione territoriale.
Sulla base di quanto premesso, il Comune chiede se sia
legittimo precedere alla liquidazione delle somme, aventi
connotazione di compenso ai sensi dell’abrogato art. 18
della legge n. 109/1994, impegnate a favore del Responsabile
del settore urbanistica e dei dipendenti del gruppo di
lavoro, anche in ragione delle norme che disciplinavano la
materia nel momento di adozione degli atti sopra richiamati
e dell'incertezza interpretativa delle suddette.
...
Conviene preliminarmente ricordare che l’art. 13 del decreto
legge 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni
dalla legge 11.08.2014, n. 114, ha abrogato l’art. 92,
commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163
(c.d. codice dei contratti pubblici), recante la disciplina
relativa agli incentivi spettanti a dipendenti delle
amministrazioni aggiudicatrici per le attività di
progettazione (comma 5) e pianificazione (comma 6).
L’art. 13-bis del medesimo decreto legge, introdotto in sede
di conversione, e in vigore dal 19.08.2014, ha dettato
una nuova disciplina in materia, confluita nell’art. 93 del
d.lgs. n. 163 del 2006, c.d. codice dei contratti pubblici,
ai commi da 7-bis a 7-quinquies.
La novella, nel confermare la possibilità di remunerare i
dipendenti incaricati dello svolgimento di determinate
attività secondo i modi e criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e recepiti in un regolamento
dell’ente, restringe, sotto diversi aspetti, la portata
applicativa della disciplina precedente. Si registra, in
particolare, per quanto di specifico interesse ai fini del
presente parere, la definitiva soppressione degli incentivi
per la redazione di atti pianificazione la cui disciplina
non è stata riproposta nelle nuove disposizioni di legge le
quali, viceversa, limitano la remunerazione alle sole
attività di progettazione propriamente detta.
Si deve, tuttavia, ritenere, come confermato dai pareri resi
in materia dalle sezioni di controllo di questa Corte, che i
dipendenti che abbiano realizzato attività di pianificazione
conclusesi prima dell’entrata in vigore della riforma sopra
accennata, mantengano il diritto agli incentivi maturato nel
rispetto della precedente disciplina normative.
Premessa l’esposizione sintetica del quadro normativo, che,
peraltro, il Comune istante mostra di conoscere (anche nelle
sue interpretazioni giurisprudenziali), l’esame del merito
del quesito proposto richiede di richiamare la corretta
interpretazione del previgente art. 92, comma 6, del Codice
dei contratti pubblici, ove si disponeva che “il trenta per
cento della tariffa professionale relativa alla redazione di
un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito,
con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui
al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione
aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Si tratta di
chiarire, in particolare, la natura delle attività
riconducibili alla nozione di “atto di pianificazione
comunque denominato” agli effetti del riconoscimento al
personale interno dell’ente dei compensi “incentivanti” ivi
previsti.
Questa Sezione, nei diversi pareri forniti in materia
(da ultimo nella deliberazione n. 33/2015/PAR),
ha sempre ritenuto di circoscrivere tale nozione ai
soli atti di pianificazione che siano strettamente connessi
alla progettazione di opere pubbliche, escludendo la
possibilità di corrispondere gli incentivi per la redazione
di atti di pianificazione di carattere generale, privi dei
predetti requisiti e rientranti, come tali, nelle ordinarie
mansioni richieste al personale dipendente
(Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 06.03.2012 n. 57,
parere 30.05.2012 n. 259,
parere 23.10.2012 n. 440,
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 10.02.2014 n. 62). Si rinvia, per i dettagli motivazionali,
nonché per i profili di diritto intertemporale, ai
precedenti sopra citati.
Il predetto orientamento è stato, peraltro, condiviso dalla
maggioranza delle Sezioni regionali di controllo della Corte
dei conti (tra le varie: Sezione regionale di controllo per
la Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15; Sezione regionale
di controllo per il Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290).
Infine, la Sezione delle Autonomie,
con pronuncia di orientamento generale, con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, ha aderito all’orientamento
maggioritario, che riconosce di palmare evidenza il
riferimento della definizione “atto di pianificazione
comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici,
reputando l’ambito applicativo della disposizione di legge,
apparentemente ampio ed indefinito, limitato esclusivamente
all’attività progettuale e tecnico amministrativa
direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori
pubblici.
La Sezione non può che ribadire il proprio precedente e
consolidato orientamento, secondo cui gli incentivi possono
(per attività espletate prima dell’entrata in vigore del
decreto-legge n. 90 del 2014) essere corrisposti solo per
remunerare la redazione di un atto di pianificazione che,
oltre ad essere affidato in via esclusiva ai dipendenti
dell’ente, risulti collegato direttamente ed in modo
immediato alla progettazione di un’opera pubblica.
In
precedenti pareri resi in materia, ha negato, di
conseguenza, la configurabilità dell’incentivo per la
redazione del Piano di governo del territorio o delle
relative varianti, così come dei Piani integrati di
intervento (parere
24.10.2012 n. 452).
Ai fini del riconoscimento degli incentivi di cui all’art.
92, comma 6, del codice dei contratti, per le attività
conclusesi prima della riforma, si richiede che la redazione
dello strumento urbanistico abbia comportato l’espletamento
di attività ulteriori rispetto a quelle ordinariamente
richieste dalla predisposizione di un generico atto di
pianificazione e che si estrinsechino nella puntuale
progettazione di un’opera pubblica (Corte dei Conti, Sez.
controllo Lombardia,
parere 16.11.2015 n. 417). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia di edifici crollati o demoliti.
Con gli interventi modificativi apportati dal d.l. 69/2013 (noto
anche come «decreto del fare»), si è notevolmente ampliato
il concetto di
ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della
sagoma ai soli immobili
vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione
degli edifici crollati o
demoliti.
Considerata la
disciplina ora vigente,
gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel
ripristino o nella
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, debbono
ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è
possibile accertare la
preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora
ricadano in zona
paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare
anche la precedente
sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura
semplificata della SCIA
se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e
rispettano la preesistente volumetria, anche quando
implicano una modifica della
sagoma dell'edificio.
Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che
detti
interventi impongono,
quale imprescindibile condizione, che sia possibile
accertare la preesistente
consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale
accertamento dovrà
essere effettuato con il massimo rigore e dovrà
necessariamente fondarsi su dati
certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica,
cartografie etc., in base ai
quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza
del manufatto
preesistente.
Tale principio è condiviso dal Collegio, il quale intende
darvi continuità,
con l'ulteriore precisazione che l'utilizzazione del termine
«consistenza», da
parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), 380/2001
inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali
dell'edifico
preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva,
etc.), con la
conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali
elementi,
necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà
escludersi la
sussistenza del requisito richiesto dalla norma.
Parimenti,
detta verifica
non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente
soggettivi o al
risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma
dovrà, invece,
basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente rilevato, con riferimento al primo motivo
di ricorso, che,
sulla base del contenuto della sentenza impugnata e del
ricorso, unici atti ai
quali, come è noto, questa Corte ha accesso, emerge che,
durante
l'espletamento del proprio servizio, personale del Corpo
Forestale dello Stato si
imbatteva in un manufatto in corso di realizzazione sulla
base di un permesso di
costruire (n. 42/2010) avente ad oggetto il «ripristino
parziale e la ristrutturazione
di un antichissimo fabbricato rurale, privo di copertura» e
relativo a «lavori edili
riferibili ad una preesistente costruzione, già in parte
diruta e poi integralmente
demolita».
Le opere realizzate risultavano eseguite in totale
difformità dal titolo
abilitativo, in quanto era stato realizzato un vano da
adibire a servizio igienico.
Per la parte in difformità era stato poi rilasciato un
permesso di costruire in
sanatoria (n. 4/2012) in considerazione della possibilità di
ampliamento, fino al
10% per motivi igienico-sanitari, prevista dai vigenti
strumenti urbanistici.
Il Tribunale rilevava la illegittimità del titolo
autorizzatorio del 2010, stante
l'inesistenza di un preesistente manufatto da ristrutturare,
perché quasi
interamente crollato, del quale non potevano determinarsi la
volumetria e la
sagoma originarie, escludendo, conseguentemente, la
possibilità della
ristrutturazione di un rudere. Conseguentemente, rilevava
anche l'inefficacia del
permesso in sanatoria, in quanto destinato a sanare
l'ampliamento di un
immobile abusivo.
La tesi della legittimità del permesso di costruire n.
42/2010 era invece
sostenuta dagli imputati, nell'appello, sulla base del fatto
che quell'atto aveva ad
oggetto due distinte fasi: una di ripristino e ricostruzione
delle parti mancanti del
manufatto e l'altra di ristrutturazione dello stesso.
La Corte territoriale, nel confutare le censure mosse dagli
appellanti, ha
negato la possibilità della ristrutturazione di un rudere e
negato, altresì, la
possibilità di applicare, nella fattispecie, l'art. 3 d.P.R.
380/2001 come modificato nel
2013.
2. Ritiene il Collegio che le conclusioni cui sono pervenuti
i giudici del
gravame siano corrette.
Occorre, in primo luogo, precisare che il reato contestato è
stato posto in
essere nel 2011, prima, dunque, delle modifiche legislative
richiamate dai
ricorrenti, così come la decisione del primo giudice, è
stata emessa, come
ricordato, nel 2012, con la conseguenza che il Tribunale non
poteva che tener
conto dell'art. 3 d.P.R. 380/2001 così come all'epoca
formulato e della
giurisprudenza formatasi sul tema, che escludeva la
possibilità di
ristrutturazione dei ruderi.
Con riferimento all'originario concetto di ristrutturazione
risultava, infatti, di
tutta evidenza che esso, così come individuato dalla
normativa previgente,
presupponeva la preesistenza di un fabbricato da
ristrutturare provvisto di
murature perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Conseguentemente, era
stata sempre esclusa la possibilità che la ricostruzione di
un rudere potesse
ricondursi entro la nozione di ristrutturazione,
trattandosi, al contrario, di un
intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del
26/10/2007, Scupola, Rv.
238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/01/2007, Meli e altro, Rv.
236338; Sez. 3, n. 20776
del 13/01/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.). Si
riteneva, infatti, che la mancanza dei suddetti elementi
strutturali, rendesse
impossibile qualsiasi valutazione circa l'esistenza e la
consistenza dell'edifico da
consolidare.
Con gli interventi modificativi apportati dal più volte
citato d.l. 69/2013 (noto
anche come «decreto del fare»), si è notevolmente ampliato
il concetto di
ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della
sagoma ai soli immobili
vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione
degli edifici crollati o
demoliti.
L'articolo 3, comma primo, lettera d), del D.P.R. 380/2001,
nella formulazione
attualmente vigente, così definisce gli interventi di
ristrutturazione: «interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la
modifica e l'inserimento di
nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia
sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione
e ricostruzione con la
stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica,
nonché quelli volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la
loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi
di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono
interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove
sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente».
3. A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte,
richiamata anche dai
ricorrenti, ha avuto modo di precisare che,
considerata la
disciplina ora vigente,
gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel
ripristino o nella
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, debbono
ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è
possibile accertare la
preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora
ricadano in zona
paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare
anche la precedente
sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura
semplificata della SCIA
se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e
rispettano la preesistente volumetria, anche quando
implicano una modifica della
sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del
03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Va richiamata l'attenzione anche sul fatto che
detti
interventi impongono,
quale imprescindibile condizione, che sia possibile
accertare la preesistente
consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale
accertamento dovrà
essere effettuato con il massimo rigore e dovrà
necessariamente fondarsi su dati
certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica,
cartografie etc., in base ai
quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza
del manufatto
preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e
altri, Rv. 258597; Sez. 3
n. 26713 del 25/06/2015, Petitto, non massimata).
4. Tale principio è condiviso dal Collegio, il quale intende
darvi continuità,
con l'ulteriore precisazione che l'utilizzazione del termine
«consistenza», da
parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), 380/2001
inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali
dell'edifico
preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva,
etc.), con la
conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali
elementi,
necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà
escludersi la
sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti,
detta verifica
non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente
soggettivi o al
risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma
dovrà, invece,
basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili.
5. Ciò posto, va rilevato che, nel caso in esame,
correttamente i giudici del
merito hanno stigmatizzato la singolarità del procedimento autorizzatorio che ha
riguardato l'intervento edilizio realizzato dai ricorrenti
laddove, in presenza di un
manufatto ormai in condizioni di rudere, si è, con unico
provvedimento, autorizzato il ripristino e, successivamente,
la ristrutturazione.
Si tratta di un'operazione che non sembra trovare altra
giustificazione,
almeno sulla base di quanto emerge dalla sentenza e dal
ricorso, se non quella di
rendere possibile, sull'edificio ormai in rovina,
un'attività allora non consentita
per le ragioni che la Corte territoriale e, prima ancora, il
Tribunale, hanno, come
si è detto, correttamente individuato.
6. La sentenza impugnata risulta parimenti corretta laddove
esclude
l'applicabilità, nella fattispecie, delle disposizioni che i
ricorrenti assumono
violate.
Osservano infatti i giudici del gravame che risulta
impossibile, sulla base
della mera disamina della documentazione fotografica in
atti, individuare in
maniera attendibile le caratteristiche originarie del
manufatto.
Tale assunto non viene minimamente intaccato dalle diverse
considerazioni
dei ricorrenti, i quali ritengono possibile la dimostrazione
della originaria
consistenza del manufatto sulla base della testimonianza
resa dal tecnico
comunale nel corso del dibattimento e parzialmente
riprodotta in ricorso.
Si tratta, invero, come risulta dalla mera lettura dei brani
riportati, di mere
valutazioni soggettive e mere ipotesi, la cui irrilevanza è
stata correttamente
ritenuta dai giudici del merito.
li motivo di ricorso appena esaminato risulta, pertanto,
infondato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da
www.lexambiente.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: normativa regionale - approvate:
* delibera regionale circa l’esercizio degli impianti
termici per la stagione invernale 2015-2016;
* ulteriore delibera di semplificazione di alcune misure
in materia di impianti termici
(ANCE di Bergamo,
circolare 11.12.2015 n. 233). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: normativa regionale - approvata delibera
regionale di proroga dei requisiti prestazionali relativi ai
serramenti (ANCE di Bergamo,
circolare 11.12.2015 n. 232). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Oggetto: Fruizione permessi amministratori locali ex art.
79, D.L.gs. 267/2000 - Aspettativa
(ANCI Veneto,
nota 20.11.2015). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO:
G.U. 18.12.2015 n. 294 "Concessione in uso a privati
di beni immobili del demanio culturale dello Stato" (Ministero
dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo,
decreto 06.10.2015). |
APPALTI SERVIZI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 16.12.2015, "Approvazione
strumenti attuativi del programma regionale di gestione dei
rifiuti – Linee guida per la costruzione di un capitolato
per l’affidamento dei servizi di igiene urbana" (deliberazione
G.R. 10.12.2015 n. 4544). |
VARI:
G.U. 15.12.2015 n. 291 "Modifica del saggio di interesse
legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 11.12.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
11.12.2015 n. 288 "Disposizioni per la tutela e la
valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e
alimentare" (Legge
01.12.2015 n. 194). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2015,
"Adozione delle misure di conservazione relative a 154
siti Rete Natura 2000, ai sensi del d.p.r. 357/1997 e s.m.i.
e del d.m. 184/2007 e s.m.i. e proposta di integrazione
della rete ecologica regionale per la connessione ecologica
tra i siti Natura 2000 lombardi" (deliberazione
30.11.2015 n. 4429). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 10.12.2015, "Introduzione
di misure di semplificazione in materia di impianti termici
ad integrazione delle disposizioni approvate con d.g.r. 3965
del 31.07.2015" (deliberazione
30.11.2015 n. 4427). |
CORTE DEI CONTI |
PATRIMONIO:
A decorrere dall’01.07.2014, la riduzione nella
misura del 15 per cento dei canoni di locazione corrisposti
per i contratti di locazione passiva stipulati dalle
amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs.
165/2001, è insuscettibile di
applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie
analoghe (dato il carattere eccezionale della norma), sicché
-inevitabilmente- è preclusa che una previsione normativa
formulata per un contratto di locazione trovi applicazione
per la fattispecie -non sovrapponibile- di un rapporto di
concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili,
attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di
interessi pubblici.
---------------
Il Sindaco del Comune di Reggio nell’Emilia ha inoltrato
a questa Sezione una richiesta di parere con la quale
intende conoscere se l’art. 3, comma 4 (richiamato
dal successivo comma 7) del d.l. n. 95/2012, convertito
dalla l. n. 135/2012 e s.m.i., che prevede, a decorrere
dall’01.07.2014, la riduzione nella misura del 15 per cento
dei canoni di locazione corrisposti per i contratti di
locazione passiva stipulati dalle amministrazioni di cui
all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001, trovi applicazione
anche nell’ipotesi in cui il comune abbia dato in
concessione e non in locazione un determinato immobile ad
altro ente pubblico.
...
In via preliminare, occorre operare una breve ricognizione
del quadro normativo di riferimento.
Il richiamato art. 3, comma 4, del decreto legge 06.07.2012,
n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n.135, come successivamente modificato dall’art.
24, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89, statuisce che “Ai fini del contenimento della spesa
pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva
aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale stipulati
dalle Amministrazioni centrali … i canoni di locazione sono
ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per
cento di quanto attualmente corrisposto. … La riduzione del
canone di locazione si inserisce automaticamente nei
contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 c.c., anche
in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle
parti, salvo il diritto di recesso del locatore. …”.
Il successivo comma 7 del medesimo articolo puntualizza,
altresì, che “Fermo restando quanto previsto dal comma
10, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 si applicano
altresì alle altre amministrazioni di cui all’articolo 1,
comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, in
quanto compatibili. …”.
Il problema esegetico che si pone, alla luce del richiamato
contesto fattuale e normativo, è duplice.
In primo luogo, sotto il profilo soggettivo, afferisce
l’applicabilità della summenzionata previsione normativa
quando le parti del rapporto di concessione siano due
pubbliche amministrazioni. In secondo luogo, sotto il
profilo oggettivo, riguarda l’applicabilità in sé della
prescrizione, prevista nell’ambito dei rapporti di
locazioni, anche ai rapporti di concessione di beni
pubblici.
Sotto il primo profilo, in sé assorbente rispetto al
quesito posto, la disposizione del
novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012 non pare
applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra
due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva, in tal senso,
l’interpretazione finalistica e financo letterale della
normativa richiamata avente, peraltro, natura di norma
eccezionale e, come tale insuscettibile di applicazione “oltre
i casi e i tempi” in essa considerati
(cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale).
Si osserva, infatti che la statuizione
oggetto di disamina è applicabile, prima di ogni ulteriore
considerazione, quando realizzi la finalità richiamata nel
testo di legge di “contenimento della spesa pubblica”.
All’evidenza, tale finalità non si realizza
qualora il rapporto concessorio, cui sarebbe eventualmente
da applicare la riduzione automatica del canone nella misura
del 15 per cento, intervenga tra due pubbliche
amministrazioni. Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto
neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa
pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione
automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel
rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni,
pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15
per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra
comporterebbe, in egual misura, un minor introito.
Sotto il secondo profilo dell’ambito oggettivo, poi,
presenta non pochi profili di criticità
l’applicazione di una norma di carattere eccezionale,
prevista per l’ipotesi di contratti di locazione, a una
concessioni di beni.
Preliminarmente, non è revocabile in dubbio e si ribadisce
il carattere di norma eccezionale della previsione citata,
appunto di eccezione alla regola generale, principio cardine
dell’ordinamento, per cui le parti del rapporto negoziale
(nella fattispecie locativo) sono vincolate nei termini
contrattualmente previsti.
Ne consegue, pertanto, che l’insuscettibilità
dell’applicazione analogica, ovvero in casi simili o materie
analoghe, della norma di carattere eccezionale,
inevitabilmente preclude che una previsione normativa
formulata per un contratto di locazione trovi applicazione
per la fattispecie non sovrapponibile di un rapporto di
concessione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili,
attesa la loro diretta destinazione alla realizzazione di
interessi pubblici
(cfr. C.S.U. del 26.06.2003, n. 10157)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 15.12.2015 n. 157). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In assenza di spesa storica nei due periodi considerati
dalla norma (2009 o media del triennio 2007-2009), gli enti
non possono che considerarsi obbligati ad assumere
comportamenti gestionali volti alla eliminazione delle
tipologie di spese contemplate dall’art. 9, comma 28, del
D.L. n. 78/2010, salve le eccezioni di legge
e salvi i margini di flessibilità individuati da
deliberazione SS.RR. 11/2012.
Sicché, nessuna deroga, salvo quelle
espressamente previste dalla legge, è possibile, ma soltanto
adattamenti (es. possibilità di considerare le varie voci di
spesa come un unico coacervo, ampliando le possibilità di
azione dell’ente), al ricorrere dei presupposti e delle
condizioni indicate dalle Sezioni Riunite nella
deliberazione n. 11/2012/CONTR a cui si rinvia.
---------------
Il Sindaco del Comune di Novoli (LE) chiede alla Sezione un
parere sui limiti di spesa in materia di incarichi esterni.
In particolare, il Sindaco riferisce che:
- l’ente è attualmente privo della figura dirigenziale di
responsabile del settore affari generali (che comprende
numerosi servizi, quali i servizi sociali, i servizi
demografici, il personale, la cultura, la pubblica
istruzione ed il contenzioso);
- nelle more dell’espletamento di un concorso, tale figura
risulta indispensabile per garantire i servizi sopra
indicati;
- non vi sono altre figure apicali all’interno dell’ente in
grado di ricoprire detto ruolo, attesa la carenza di
personale;
- il Comune non ha effettuato alcuna assunzione di personale
qualificabile come assunzione c.d. flessibile nell’anno
2009, né nel triennio 2007-2009, per cui non dispone di
alcun tetto di spesa per le assunzioni flessibili.
Premesso quanto sopra, il Sindaco chiede se “per la
copertura di figure ritenute indispensabili, in assenza di
altre professionalità idonee all’interno dell’ente, si possa
ricorrere al conferimento di incarichi esterni per funzioni
dirigenziali ex art. 110 Tuel, comma 1 o 2, o in altra forma
flessibile, anche andando in deroga al limite della spesa
flessibile 2009 e del triennio 2007-2009”.
...
Passando al merito della richiesta, il quesito formulato
dall’Ente afferisce alla possibilità di derogare al limite
di spesa per le assunzioni a tempo determinato, previsto
dall’art. 9, co. 28, d.l. 78/2010, in caso di incarichi
esterni, conferiti ai sensi dell’art. 110 Tuel e finalizzati
all’espletamento di servizi essenziali.
L’orientamento tradizionale espresso sul punto dalle Sezioni
di controllo, collocandosi nel solco dei principi sanciti
dalla Sezione delle Autonomie con deliberazione 12/SEZAUT/2012/INPR
del 12.06.2012, ha ritenuto che il limite di spesa sopra
richiamato non si applicasse agli “incarichi a contratto
nella dotazione organica dirigenziale conferibili ai sensi
dell’art. 110, comma 1, del TUEL”, mentre vi rimanevano
assoggettate tutte le altre posizioni in organico
ricopribili mediante incarichi a contratto ovvero posti di
responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche di
alta specializzazione (Sezione controllo Puglia
deliberazioni n. 147/PAR/2013, 168/PAR/2013, n. 125/PAR/2013
e n. 42/PAR/2014 e Sezione controllo Piemonte, deliberazione
n. 147/2014/PAR).
Ciò in quanto l’art. 19, comma 6-quater, dlgs. 165/2001,
contenente la disciplina degli incarichi dirigenziali ex
art. 110, comma 1, Tuel, era ritenuta norma assunzionale
speciale e parzialmente derogatoria rispetto al regime
vigente, con la conseguenza che “gli incarichi conferibili
(contingente) con contratto a tempo determinato in
applicazione delle percentuali individuate dal riscritto
comma 6-quater dell’articolo 19, del d.lgs. 165/2001,
riguardano solo ed esclusivamente le funzioni dirigenziali”
e che ”a detti incarichi non si applica la disciplina assunzionale vincolistica prevista dall’articolo 9, comma
28, del d.l. 78/2010” (Sezione delle Autonomie con
deliberazione 12/SEZAUT/2012/INPR).
La disciplina degli incarichi in esame è stata da ultimo
modificata dall’art. 11 d.l. n. 90/2014, convertito dalla
legge n. 114/2014, che, da un lato, ha sostituito in toto il
contenuto dell’art. 19, co. 6-quater, d.lgs. 165/2001 (comma 2
dell’art. 11 cit.), eliminando le previsioni relative agli
enti locali ed introducendone altre inerenti agli enti di
ricerca, e, dall’altro lato, ha modificato l’art. 110 Tuel
(comma 1 dell’art. 11), concentrando nella suddetta
disposizione la disciplina inerente alle tipologie
contrattuali in esame.
La citata modifica normativa ha prodotto il duplice effetto
di cancellare il regime assunzionale speciale dettato
dall’art. 19, comma 6-quater, e di ricondurre,
conseguentemente, anche gli incarichi conferiti ai sensi
dell’art. 110, comma 1, Tuel nel perimetro applicativo del
limite di spesa per il lavoro flessibile.
Quanto sopra trova conferma nei principi espressi sul punto
sia dalla Sezione delle Autonomie -che, con deliberazione n.
13/SEZAUT/2015/INPR del 31.03.2015 (“Linee guida e relativi
questionari per gli organi di revisione economico
finanziaria degli enti locali per l’attuazione dell’articolo
1, commi 166 e seguenti, della legge 23.12.2005, n.
266. Rendiconto della gestione 2014”), a seguito
dell’avvenuta abrogazione dell’art. 19, co. 6-quater,
ha
espressamente assoggettato i contratti in esame al limite di
spesa per il lavoro flessibile previsto dall’art. 9, co 28,
d.l. 78/2010-, sia dalle Sezioni regionali di controllo
(cfr. Sezione controllo Lazio, deliberazione n.
221/2014/PAR, Sezione controllo Toscana,
parere 20.10.2015 n. 447, Sezione controllo
Calabria deliberazione n. 169/PAR/2012, Sezione controllo
Puglia deliberazioni n. 219/PAR/2015 e 223/PAR/2015.).
D’altra parte, gli incarichi conferiti ai sensi dell’art.
110, comma 1, Tuel, non rientrando nel genus dei rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, non possono che configurarsi
come rapporti a tempo determinato e, in quanto tali,
rimangono assoggettati al limite di cui all’art. 9, co. 28, d.l.
78/2010 che “pone un obiettivo generale di contenimento
della spesa relativa ad un vasto settore del personale e,
precisamente, a quello costituito da quanti collaborano con
le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi
dal rapporto di impiego a tempo indeterminato” (Corte Cost.
n. 173/2012).
Una volta ricondotti i contratti de quibus nell’ambito della
previsione dell’art. 9, co. 28, d.l. 78/2010, rimane da
affrontare l’ulteriore aspetto inerente alla corretta
individuazione dell’ambito di applicazione della richiamata
disciplina, anche a seguito delle modifiche introdotte con
d.l. 90/2014 conv. dalla l. 114/2014.
Sul punto, la Sezione delle Autonomie n. 2/SEZAUT/2015/QMIG
ha sancito che l’espressione “Le limitazioni previste dal
presente comma non si applicano agli enti locali in regola
con l'obbligo di riduzione delle spese di personale di cui
ai commi 557 e 562 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296”, introdotta dall’art. 11, comma 4-bis, d.l.
90/2014, “ha il chiaro significato di porre un tetto alla
spesa del personale derivante dai contratti flessibili,
stabilendo un limite più elevato (100 per cento) rispetto a
quello di cui all’art. 9, comma 28, primo periodo, del d.l.
n. 78/2010 (50 per cento)”.
Per gli enti “virtuosi”, pertanto, il limite viene elevato
fino al 100% della spesa sostenuta per le medesime finalità
per l’anno 2009. Si tratta di un limite massimo a cui
rimangono assoggettate anche le voci di spesa per le quali,
già prima dell’addenda di cui al d.l. 90/2014, il tetto del
50% poteva essere superato (l'esercizio delle funzioni di
polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale
nonché per le spese sostenute per lo svolgimento di attività
sociali).
Non essendo state introdotte ulteriori fattispecie
derogatorie ad opera del legislatore, devono ritenersi
validi gli approdi interpretativi cui è pervenuta
giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo, secondo
cui “in assenza di spesa storica nei due periodi considerati
dalla norma (2009 o media del triennio 2007-2009), gli enti
non potranno che considerarsi obbligati ad assumere
comportamenti gestionali volti alla eliminazione delle
tipologie di spese contemplate dall’art. 9, comma 28, del
D.L. n. 78/2010, salve le eccezioni di legge (cfr. SRC
Campania n. 213/2014; Sez. Autonomie n. 21/2014/QMIG, sia
pure incidenter; SRC Lombardia n. 215/2014/PAR)
e salvi i margini di flessibilità individuati da
SS.RR. 11/2012”
(Sezione regionale Campania n. 245/2014/PAR, Sezione
controllo Puglia n. 65/PAR/2015).
Per le ragioni sopra esposte, nessuna deroga, salvo quelle
espressamente previste dalla legge, è possibile, ma soltanto
adattamenti (es. possibilità di considerare le varie voci di
spesa come un unico coacervo, ampliando le possibilità di
azione dell’ente), al ricorrere dei presupposti e delle
condizioni indicate dalle Sezioni Riunite nella
deliberazione n. 11/2012/CONTR a cui si rinvia
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 10.12.2015 n. 237). |
URBANISTICA:
Le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale
della quota dovuta a titolo di contributo di urbanizzazione
sono quelle opere pubbliche, asservite alle edificazioni
private, che il costruttore può chiedere di realizzare e che
il Comune ha la facoltà di accettare o respingere la
proposta dell’operatore (comma 2 dell’art. 16 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, che ha sostituito l’art. 11 della L.
28.01.1977 n. 10).
La decisione di effettuare lo scomputo ed ogni altra
questione viene disciplinata in una convenzione, che precede
il rilascio del permesso a costruire o della D.I.A. e
“emerge dalla normativa urbanistica che il privato attuatore
del piano e/o titolare del permesso di costruire, debitore
del versamento degli oneri di urbanizzazione, possa
liberarsi mediante l’esecuzione diretta delle opere di
urbanizzazione".
"La convenzione con
la quale si autorizza e si disciplina lo scomputo determina
una sorta di novazione dell’obbligazione originaria a carico
del titolare del permesso di costruire”,
conseguentemente il costruttore non è più tenuto al
pagamento degli oneri, bensì alla realizzazione di un’opera
di urbanizzazione.
Orbene, se dopo la stipula della convenzione che prevede
l’esecuzione di opere di urbanizzazione anziché il pagamento
di oneri, il soggetto titolare del permesso a costruire non
può decidere unilateralmente di non realizzare le opere che
si era impegnato a realizzare e versare gli oneri
originariamente previsti. Ove intenda procedere in questo
senso deve rivolgere specifica richiesta all’Amministrazione
che deve decidere se accedere o meno alla stessa in
relazione agli interessi della collettività, tenuto anche
conto della circostanza che, al momento della stipula della
convenzione, l’ente aveva ritenuto più vantaggioso che il
privato procedesse direttamente alla realizzazione delle
opere anziché versare gli oneri.
Tuttavia, se a seguito di una valutazione ulteriore, anche
in base ad esigenze sopravvenute, risulta maggiormente
favorevole per l’ente pubblico ricevere l’importo relativo
agli oneri anziché attendere la realizzazione diretta delle
opere da parte del costruttore, la convenzione originaria
può essere modificata seguendo la stessa procedura ed
adottando la medesima forma dell’atto originario.
In questo modo si verrebbe a novare, per la seconda volta,
il contenuto dell’obbligazione del privato che non risulta
più tenuto ad eseguire le opere di urbanizzazione ma a
versare l’importo relativo agli oneri di urbanizzazione, nei
tempi e secondo le modalità che devono essere precisati
nella nuova convenzione.
Al riguardo occorre sottolineare, però, che
il Comune deve
valutare criticamente la richiesta proveniente dall'impresa
costruttrice e la proposta di variazione potrà essere
accettata unicamente se ritenuta conforme agli interessi
della collettività, tenendo nel dovuto conto il disposto
dell'art. 12, co. 2, del d.p.r. n. 380 del 2001 dal quale si
evince la stretta ed imprescindibile correlazione fra
intervento edilizio ed opere di urbanizzazione che, quindi,
devono essere realizzate, a cura del Comune, contestualmente
all'intervento edilizio.
A seguito della modifica della convenzione originaria il
privato costruttore risulta tenuto ad effettuare il
versamento degli oneri entro la data stabilita nel nuovo
disciplinare.
Parallelamente, il Comune vanta un diritto di credito ad
ottenere il versamento della somma concordata entro la data
stabilita nella convenzione.
Si tratta di un comune diritto di credito, soggetto alla
disciplina del codice civile e, come ogni altro diritto di
questo genere, suscettibile di cessione a terzi.
La cessione del credito è un contratto mediante il quale il
creditore, nel caso di specie il Comune, trasferisce ad un
altro soggetto il proprio diritto di credito (art. 1260 cod.
civ.), purché il trasferimento non sia vietato dalla legge
(art. 1261 cod. civ.).
La cessione può essere pro soluto o pro solvendo a seconda
che l’estinzione dell’obbligazione originaria sia collegata
o meno alla riscossione del credito ceduto (art. 1267 cod.
civ.).
Ove le parti modifichino la convenzione urbanistica
originaria e prevedano l’obbligo da parte del costruttore di
versare un importo predeterminato al Comune entro una data
prestabilita, l’ente pubblico può cedere, ovviamente a
titolo oneroso, il credito ad un terzo soggetto ed incassare
e contabilizzare l’importo stabilito, anche prima della data
stabilita nella convenzione.
Tuttavia, al fine di evitare che si tratti di una manovra
elusiva, diretta ad aggirare divieti di legge o a violare
norme imperative quali quelle relative al patto di
stabilità, l’operazione di cessione del credito deve essere
reale ed effettiva e comportare, per il Comune, l’incasso,
senza riserve, del credito derivante dalla convenzione. Deve
trattarsi, quindi, di una cessione pro soluto che addossi al
cessionario ogni rischio, anche di insolvenza, in ordine al
credito originario.
Val la pena rilevare, da ultimo, che la scelta del
cessionario del credito deve avvenire per il tramite di una
procedura ad evidenza pubblica.
Infatti, sia in relazione ai principi della contabilità
pubblica che alla disciplina dei contratti pubblici, la
scelta del contraente non può essere discrezionale ma deve
avvenire nel rispetto dei principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento che devono informare
l'attività dell'Amministrazione pubblica.
A questo proposito, se in base alla normativa sui contratti
pubblici, la cessione del credito può rientrare nella
previsione dell'art. 19, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 163
del 2006, il cessionario dovrà comunque essere scelto “nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e
proporzionalità” facendo precedere l'individuazione del
contraente da una procedura di gara, sia pure ristretta.
---------------
Il Sindaco del Comune di Arese (MI) ha posto alla Sezione un
quesito in ordine all'applicazione di alcuni aspetti della
disciplina relativa all’applicazione del Patto di stabilità
interno per il 2009, con particolare riferimento alle
entrate che possono essere conteggiate ai fini del calcolo
dei saldi di riferimento.
In particolare, domanda se può cedere a terzi il credito
vantato nei confronti di una società che, dopo aver
stipulato una convenzione edilizia con la quale si era
impegnata ad effettuare opere di urbanizzazione in
sostituzione del pagamento di oneri, avrebbe deciso di non
più effettuare le opere, ma di versare l’importo relativo
agli oneri entro il 30.06.2010 e se può incassare il
corrispettivo della cessione entro il 31.12.2009,
conteggiandolo fra le entrate di competenza dell’esercizio
2009.
Al fine di chiarire ambito e portata del quesito, il
richiedente ha messo in luce, sia con l’originaria richiesta
di parere che con l’integrazione successiva del 16.11.2009,
che a seguito della stipula di una convenzione urbanistica
una società che intendeva attuare un intervento edilizio si
era impegnata, in un primo tempo, a realizzare opere a
scomputo degli oneri di urbanizzazione per il complessivo
importo di euro 2.500.000.
A causa di alcuni non meglio precisati ritardi e “problemi
connessi alla società”, le opere non sarebbero state
realizzate e la società interessata avrebbe proposto al
Comune di versare l’importo relativo alle opere scomputate,
pari a 2.500.000 di euro, entro il 30.06.2010.
Ritenendo di accettare la proposta e, pertanto acconsentendo
a “novare il rapporto giuridico in essere e sostituire
l’esecuzione delle opere a scomputo con il pagamento della
somma corrispondente a titolo di oneri di urbanizzazione”
il Sindaco di Arese si domanda se sia possibile “ricevere
il pagamento di tale somma, entro il 31/12/2010, da un
soggetto terzo che si sostituisce alla società debitrice”,
la quale, successivamente, “estinguerà il suo debito
pagando al soggetto terzo quanto pattuito entro il
30/06/2009”.
Questo risultato potrebbe essere raggiunto, secondo il
richiedente, stipulando un “contratto di cessione di
credito che, estinguendo l’obbligazione contrattuale della
società obbligata, ai sensi dell’articolo 1198 del codice
civile, consentisse di incamerare al bilancio dell’ente,
entro il 31/12/2009, le somme oggetto dell’originaria
obbligazione”.
In questo modo l’ente incasserebbe entro il 31 dicembre un
importo pari ad euro 2.500.000, necessario per riportare il
saldo finanziario dell’ente ad un importo tale da permettere
di “rientrare nei parametri” di rispetto del Patto di
stabilità interno.
...
Il richiedente, come si è visto, ha posto alla Sezione un
quesito complesso in ordine all'interpretazione ed
applicazione di alcuni aspetti della disciplina
dell’attività contrattuale della pubblica amministrazione e
delle ricadute in ordine ai vincoli di finanza pubblica che
rientrano nella disciplina del Patto di stabilità interno.
Sostanzialmente, il Comune di Arese vuole appurare se, ad
avviso della Sezione, la cessione a terzi di un credito
vantato nei confronti di un’impresa che dopo essersi
impegnata ad effettuare opere di urbanizzazione ha deciso,
in accordo con l’ente pubblico, di non eseguire le opere ma
di versare l’importo relativo agli oneri, sia un’entrata
idonea a garantire il rispetto dei saldi relativi al Patto
di stabilità.
Al fine di rispondere al quesito, è necessario verificare,
sia pure brevemente e sinteticamente, da un lato, se
l’originaria obbligazione di effettuare opere di
urbanizzazione in sostituzione del pagamento degli oneri
possa essere modificata prevedendo il pagamento di una somma
di denaro e, dall’altro, se l’ente pubblico possa cedere il
relativo credito.
1) In via preliminare è opportuno ribadire che
gli enti
territoriali che concorrono a costituire la Repubblica sono
tenuti ad osservare il Patto di stabilità interno, così come
disciplinato dalle leggi finanziarie statali.
L'osservanza dei vincoli di spesa o finanziari imposti
all'interno di questa disciplina deve essere stabilita sin
dall’individuazione degli interventi contenuti nel bilancio
preventivo, anche se l’effettivo scostamento è accertabile
solo al termine dell’esercizio, come questa Sezione ha avuto
modo di precisare sin dalla delibera n. 10 del 13.10.2006
(da ultimo, sul punto:
parere
22.01.2009 n. 2).
Questa Sezione ha messo in luce in numerose occasioni che la
disciplina del Patto di stabilità interno è stata
caratterizzata, sin dall’origine, da una forte instabilità
poiché quasi ogni anno le regole che gli enti sono tenuti ad
applicare vengono modificate o integrate, al fine di
rispondere, a seconda dei casi, ad esigenze strutturali o
anche soltanto contingenti.
Al contrario, una disciplina, quale quella del “Patto”, che
pone rigidi limiti all'autonomia operativa degli enti
territoriali non solo dovrebbe essere concordata fra lo
Stato e gli stessi destinatari ma, soprattutto, dovrebbe
essere caratterizzata da una elevata stabilità al fine di
permettere ai Comuni ed alle Province di programmare
adeguatamente i loro interventi, sia in relazione alle
attività ordinarie che a quelle di realizzazione di opere
pubbliche che richiedono, ovviamente, la possibilità di
operare in un contesto temporale che oltrepassa l'ordinaria
gestione annuale (sul punto, da ultimo: parere n. 26, in
data 10.02.2009).
Le questioni inerenti il rispetto del Patto di stabilità si
sono ulteriormente complicate a seguito della
reintroduzione, con la manovra finanziaria per il 2009, di
specifiche limitazioni amministrative o sanzioni a carico
degli enti che non rispettano le previsioni del Patto, i
quali, nell'esercizio successivo, subiscono una riduzione
dei contributi ordinari dovuti dal Ministero dell'Interno
(art. 2, co. 41, l. n. 203 del 2008), non possono né
procedere all'assunzione di nuovo personale né ricorrere
all'indebitamento per finanziare i nuovi investimenti e non
debbono assumere impegni per spese correnti in misura non
superiore a quella minima effettuata nell'ultimo triennio
(art. 76, del d.l. 25.06.2008, n. 112, conv. in l. 06.08.2008, n. 133). Inoltre, sono tenuti a ridurre del 30%
le indennità di funzione e i gettoni di presenza degli
amministratori rispetto a quelli in vigore alla data del 30.06.2008.
Diviene, quindi, ancora più importante verificare se ed a
quali condizioni sia possibile operare al fine di addivenire
al rispetto della disciplina relativa al Patto.
2) La prima questione da prendere in esame riguarda la
convenzione urbanistica conclusa dal Comune con un’impresa
privata e, in particolare, quali siano gli obblighi e
diritti delle parti in ordine alla realizzazione delle opere
di urbanizzazione a scomputo.
Le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale
della quota dovuta a titolo di contributo di urbanizzazione
sono quelle opere pubbliche, asservite alle edificazioni
private, che il costruttore può chiedere di realizzare e che
il Comune ha la facoltà di accettare o respingere la
proposta dell’operatore (comma 2 dell’art. 16 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, che ha sostituito l’art. 11 della L.
28.01.1977 n. 10).
La decisione di effettuare lo scomputo ed ogni altra
questione viene disciplinata in una convenzione, che precede
il rilascio del permesso a costruire o della D.I.A. e, come
osservato dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici,
“emerge dalla normativa urbanistica che il privato attuatore
del piano e/o titolare del permesso di costruire, debitore
del versamento degli oneri di urbanizzazione, possa
liberarsi mediante l’esecuzione diretta delle opere di
urbanizzazione” (determinazione
16.07.2009 n. 7).
Sempre l’Autorità ha messo in luce che “la convenzione con
la quale si autorizza e si disciplina lo scomputo determina
una sorta di novazione dell’obbligazione originaria a carico
del titolare del permesso di costruire”, e che,
conseguentemente, il costruttore non è più tenuto al
pagamento degli oneri, bensì alla realizzazione di un’opera
di urbanizzazione.
Orbene, se dopo la stipula della convenzione che prevede
l’esecuzione di opere di urbanizzazione anziché il pagamento
di oneri, il soggetto titolare del permesso a costruire non
può decidere unilateralmente di non realizzare le opere che
si era impegnato a realizzare e versare gli oneri
originariamente previsti. Ove intenda procedere in questo
senso deve rivolgere specifica richiesta all’Amministrazione
che deve decidere se accedere o meno alla stessa in
relazione agli interessi della collettività, tenuto anche
conto della circostanza che, al momento della stipula della
convenzione, l’ente aveva ritenuto più vantaggioso che il
privato procedesse direttamente alla realizzazione delle
opere anziché versare gli oneri.
Tuttavia, se a seguito di una valutazione ulteriore, anche
in base ad esigenze sopravvenute, risulta maggiormente
favorevole per l’ente pubblico ricevere l’importo relativo
agli oneri anziché attendere la realizzazione diretta delle
opere da parte del costruttore, la convenzione originaria
può essere modificata seguendo la stessa procedura ed
adottando la medesima forma dell’atto originario.
In questo modo si verrebbe a novare, per la seconda volta,
il contenuto dell’obbligazione del privato che non risulta
più tenuto ad eseguire le opere di urbanizzazione ma a
versare l’importo relativo agli oneri di urbanizzazione, nei
tempi e secondo le modalità che devono essere precisati
nella nuova convenzione.
Al riguardo occorre sottolineare, però, che
il Comune deve
valutare criticamente la richiesta proveniente dall'impresa
costruttrice e la proposta di variazione potrà essere
accettata unicamente se ritenuta conforme agli interessi
della collettività, tenendo nel dovuto conto il disposto
dell'art. 12, co. 2, del d.p.r. n. 380 del 2001 dal quale si
evince la stretta ed imprescindibile correlazione fra
intervento edilizio ed opere di urbanizzazione che, quindi,
devono essere realizzate, a cura del Comune, contestualmente
all'intervento edilizio.
3) A seguito della modifica della convenzione originaria il
privato costruttore risulta tenuto ad effettuare il
versamento degli oneri entro la data stabilita nel nuovo
disciplinare.
Parallelamente, il Comune vanta un diritto di credito ad
ottenere il versamento della somma concordata entro la data
stabilita nella convenzione.
Si tratta di un comune diritto di credito, soggetto alla
disciplina del codice civile e, come ogni altro diritto di
questo genere, suscettibile di cessione a terzi.
La cessione del credito è un contratto mediante il quale il
creditore, nel caso di specie il Comune, trasferisce ad un
altro soggetto il proprio diritto di credito (art. 1260 cod.
civ.), purché il trasferimento non sia vietato dalla legge
(art. 1261 cod. civ.).
La cessione può essere pro soluto o pro solvendo a seconda
che l’estinzione dell’obbligazione originaria sia collegata
o meno alla riscossione del credito ceduto (art. 1267 cod.
civ.).
4) Ove le parti modifichino la convenzione urbanistica
originaria e prevedano l’obbligo da parte del costruttore di
versare un importo predeterminato al Comune entro una data
prestabilita, l’ente pubblico può cedere, ovviamente a
titolo oneroso, il credito ad un terzo soggetto ed incassare
e contabilizzare l’importo stabilito, anche prima della data
stabilita nella convenzione.
Tuttavia, al fine di evitare che si tratti di una manovra
elusiva, diretta ad aggirare divieti di legge o a violare
norme imperative quali quelle relative al patto di
stabilità, l’operazione di cessione del credito deve essere
reale ed effettiva e comportare, per il Comune, l’incasso,
senza riserve, del credito derivante dalla convenzione. Deve
trattarsi, quindi, di una cessione pro soluto che addossi al
cessionario ogni rischio, anche di insolvenza, in ordine al
credito originario.
Val la pena rilevare, da ultimo, che la scelta del
cessionario del credito deve avvenire per il tramite di una
procedura ad evidenza pubblica.
Infatti, sia in relazione ai principi della contabilità
pubblica che alla disciplina dei contratti pubblici, la
scelta del contraente non può essere discrezionale ma deve
avvenire nel rispetto dei principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento che devono informare
l'attività dell'Amministrazione pubblica.
A questo proposito, se in base alla normativa sui contratti
pubblici, la cessione del credito può rientrare nella
previsione dell'art. 19, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 163
del 2006, il cessionario dovrà comunque essere scelto “nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e
proporzionalità” facendo precedere l'individuazione del
contraente da una procedura di gara, sia pure ristretta
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 19.11.2009 n. 1044). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. Dati
relativi a personale dipendente distaccato presso altro
soggetto.
Per effetto della legge 190/2012 è stato
introdotto nel nostro ordinamento un sistema organico di
prevenzione della corruzione che prevede l'obbligo, da parte
delle pubbliche amministrazioni, di predisporre un Piano
triennale per la prevenzione della corruzione (PTPC) al cui
interno si colloca anche il Programma triennale per la
trasparenza e l'integrità (PTTI).
Si ritiene che l'Azienda che ha distaccato ad altro soggetto
il personale dipendente debba comunque compilare il PTPC,
innanzitutto perché si tratta di adempimento di legge che
non prevede eccezioni per questi casi, in secondo luogo
perché il documento si compone di diverse parti, alcune
delle quali non riguardano direttamente il personale e
infine perché l'istituto del distacco non fa cessare, né
sospende, il rapporto alle dipendenze dell'Azienda,
nonostante la prestazione lavorativa sia svolta
temporaneamente a favore di altri.
L'Azienda pubblica di Servizi alla Persona ha recentemente
appaltato l'intera gestione della casa di riposo ad una
società consortile, assegnandole in distacco tutto il
personale dipendente. In considerazione di un tanto,
l'Azienda chiede un parere sulla necessità o meno di
procedere alla stesura del Piano Triennale per la
Prevenzione della Corruzione (PTPC) e del Programma
Triennale per la Trasparenza e l'Integrità (PTTI) e, in caso
affermativo, come possano essere articolati questi documenti
in relazione all'assenza di personale direttamente gestito.
La legge 06.11.2012, n. 190 [1],
ha definito gli indirizzi generali e gli strumenti volti a
introdurre, nel nostro ordinamento, un sistema organico di
prevenzione della corruzione, che si articola su due
livelli: il primo, quello nazionale, vede la
predisposizione, da parte del Dipartimento della funzione
pubblica, di un Piano nazionale anticorruzione (PNA); il
secondo, quello decentrato, si concretizza nei piani
triennali per la prevenzione della corruzione (PTPC), che
ciascuna amministrazione deve adottare, sulla base delle
indicazioni presenti nel PNA da un lato, e l'analisi e la
valutazione dei rischi specifici di corruzione all'interno
dell'ente, unitamente agli interventi organizzativi atti a
prevenirli dall'altro. Il quadro normativo in materia di
prevenzione della corruzione si completa con il contenuto
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33
[2], e del decreto
legislativo 08.04.2013, n. 39 [3],
entrambi di attuazione della legge delega.
Per quanto qui di interesse, si osserva che, ai sensi
dell'art. 1, comma 60, della legge 190/2012, l'adozione del
PTPC (e del PTTI, che ne costituisce una sezione) è uno
degli adempimenti obbligatori al fine di dare piena e
sollecita attuazione alle disposizioni recate
[4].
Con riferimento all'ambito soggettivo, l'art. 1, comma 59,
della legge 190/2012, determina l'applicazione delle norme
in materia di prevenzione della corruzione a tutte le
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[5]. Parimenti, ai
sensi del comma 34 del medesimo articolo, lo stesso vale per
le disposizioni (contenute nei commi da 15 a 33) in materia
di trasparenza dell'attività amministrativa. Ne deriva
pertanto che anche le aziende pubbliche di servizi alla
persona sono destinatarie di tali provvedimenti normativi.
Considerato quindi il carattere obbligatorio che rivestono
questi strumenti, si ritiene che l'ASP debba adottare il
PTPC ed il PTTI, a prescindere dalla presenza o meno di
personale direttamente gestito.
Al di là dell'obbligatorietà dei due documenti, occorre poi
tenere presente che essi si compongono di diversi elementi
(per la cui descrizione si rimanda al PNA ed ai suoi
allegati), alcuni dei quali non riguardano segnatamente il
personale.
Ad esempio, per quanto concerne il PTPC, si pensi alla
definizione delle aree di rischio, che comprendono, fra gli
altri, i processi finalizzati all'affidamento di lavori,
servizi e forniture nonché alla concessione di vantaggi
economici a terzi; oppure, con riferimento al PTTI, si pensi
alla individuazione dei dati oggetto di pubblicazione nella
sezione 'Amministrazione trasparente' del sito
internet istituzionale o delle misure volte a garantire
l'accesso civico. E' del tutto evidente che simili azioni
esulano dalla problematica relativa alla gestione diretta o
indiretta del personale dipendente.
Per quanto riguarda la fattispecie in esame, la collocazione
dei dipendenti in distacco presso altro soggetto non fa
cessare, né sospende, il loro rapporto alle dipendenze
dell'Azienda: infatti gli stessi permangono nella pianta
organica dell'Ente, che rimane titolare del rapporto di
lavoro, anche se la prestazione lavorativa è temporaneamente
svolta a favore di altri [6].
Pertanto, si ritiene che le sezioni del PTPC il cui
contenuto è connesso alla situazione gestionale dell'Azienda
vadano compilate. Va infatti considerato che la
programmazione triennale dei documenti in oggetto non
necessariamente coincide con la durata del distacco e che
sussiste inoltre la possibilità che il contratto di appalto
cessi anticipatamente per altra causa. In entrambe le
ipotesi il personale rientra in servizio a tutti gli effetti
presso l'ente di appartenenza.
---------------
1. [1] 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione
della corruzione e dell'illegalità nella pubblica
amministrazione.'
2. [2] 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi
di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni.'
3. [3] 'Disposizioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo
pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della
legge 06.11.2012, n. 190.'
4. [4] Le altre due azioni che ciascuna amministrazione deve
intraprendere sono la predisposizione di norme regolamentari
relative all'individuazione degli incarichi vietati ai
dipendenti pubblici e l'adozione del codice di
comportamento.
5. [5] 'Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche.' Il comma citato
così dispone: 'Per amministrazioni pubbliche si intendono
tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli
istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le
Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le
istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case
popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non
economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni,
le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale,
l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto
legislativo 30.07.1999, n. 300. (...).'
6. [6] Cfr M. Rossi, L'applicazione degli istituti del
comando e del distacco ai dipendenti pubblici del comparto
regioni-autonomie locali, reperibile all'indirizzo
http://www.noccioli.it/newsletter/newsletter66.htm secondo
il quale l'istituto del distacco comporta 'una sorta di
dissociazione tra la titolarità del rapporto di lavoro, che
è in capo al distaccante, e la titolarità della prestazione
lavorativa, che è appannaggio del distaccatario' (15.12.2015
-
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LAVORI PUBBLICI:
Il premio di accelerazione.
DOMANDA:
Nel momento in cui si configura l’ipotesi di provvedere a
riconoscere un premio di accelerazione di cui all'art. 145
del DPR 207/2010, per un appalto di lavori pubblici,
correttamente previsto sia nel Capitolato Speciale d’appalto
che nella lex specialis di gara, e nel contratto
d’appalto, si chiede se l’importo determinato da
corrispondere debba essere assoggettato a IVA o meno.
RISPOSTA:
Mentre le penali per ritardata consegna dei lavori, o per
altra violazione contrattuale, sono escluse dal campo di
applicazione dell’IVA per espressa previsione dell’art. 15
del DPR 633/1972, il premio accelerazione ex art. 145 del
DPR 207/2010 non può che essere assoggettato ad IVA secondo
i principi generali IVA fissati dal 1° comma dell’art. 13
del medesimo decreto, con la stessa aliquota prevista per
l’esecuzione ordinaria dell’opera.
Si tratta, infatti di somma che concorre alla formazione
dell’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al
cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali
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EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire.
DOMANDA:
E’ stata presentata una istanza di permesso di costruire per
realizzare una nuova abitazione in ampliamento e staccata
dalla abitazione esistente con la legge del Piano Casa
Regione Veneto.
Questa nuova abitazione, distante circa 100 metri dalla
abitazione esistente, risulterebbe accessibile da una strada
bianca esistente in proprietà privata (per il tratto
iniziale in proprietà del richiedente, il resto in altra
proprietà con servitù di passaggio).
Questa strada bianca in terra battuta, non asfaltata, non è
dotata di illuminazione pubblica e non è dotata di
fognature; è invece servita della linea elettrica e della
linea dell’acqua potabile (in quanto serve una altra
abitazione isolata realizzata in epoca remota) ed è
identificata nello stradario comunale come “via”.
Si chiede se i requisiti di questa strada bianca dalla quale
si accede al terreno che sarebbe oggetto della nuova
edificazione sono sufficienti a soddisfare il requisito del
2° comma dell’art. 12 del DPR 380/2001, che recita che il
rilascio del permesso di costruire “è comunque
subordinato alla esistenza delle opere di urbanizzazione
primaria”, tenendo presente che il comune non ha in
previsione di realizzare alcuna opera di urbanizzazione
primaria nella zona interessata, e che l’interessato non ha
dichiarato, al momento, nessun impegno di procedere con
l’attuazione di alcuna opera di urbanizzazione.
RISPOSTA:
Come correttamente osservato nel quesito il rilascio del
permesso a costruire presuppone ai sensi del cit. art. 12,
comma 2, del DPR n. 380/2001, l’esistenza di adeguate opere
di urbanizzazione primarie e secondarie come definite
dall’art. 7, 7-bis ed 8 dell’art. 16 del cit. DPR.
Tale preventiva urbanizzazione va peraltro accertata
evidentemente non già in relazione al singolo lotto di
terreno interessato dalla richiesta del titolo abilitativo a
costruire, quanto con riferimento all’intero comparto o zona
urbanistica nell’ambito dei quali si colloca la costruzione
da assentire, tenendo conto quindi della previsioni di piano
vigenti in detta zona.
Si è quindi dell’avviso che una corretta valutazione della
problematica posta non possa prescindere da tale preventivo
accertamento ed anche tenendo conto delle caratteristiche di
autonomia (come sembra dalle notizie riferite) di tale
costruzione la quale, seppure configurata come “ampliamento”
dal punto di vista del piano casa, risulta in realtà una
nuova costruzione dal punto di vista urbanistico e delle
necessarie opere di urbanizzazione
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ATTI
AMMINISTRATIVI
I certificati anagrafici.
DOMANDA:
Il rappresentante territoriale di un sindacato, con semplice
nota trasmessa a mezzo fax, ha richiesto dei certificati per
un suo iscritto, senza allegare fotocopia del suo documento
d'identità, né copia della delega ricevuta con copia del
documento di quest'ultimo.
Inoltre chiede dei certificati
anagrafici (certificato di famiglia originario, certificato
contestuale di residenza, nascita e cittadinanza) in carta
semplice per "uso pensione estera" senza indicare
specificatamente l'articolo che riguarda l'esenzione.
Si
chiedono indicazioni in merito sia alla correttezza del
soggetto legittimato a richiedere i certificati sia in
merito all'esenzione dal bollo.
RISPOSTA:
Preliminarmente si ricorda che l’art. 33 del D.P.R. 223/1989
“Nuovo regolamento anagrafico” prevede espressamente che:
”L'ufficiale di anagrafe rilascia a chiunque ne faccia
richiesta, fatte salve le limitazioni di legge, i
certificati concernenti la residenza e lo stato di famiglia.
Ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici, ad
eccezione delle posizioni previste dal comma 2 dell'art. 35,
può essere attestata o certificata, qualora non vi ostino
gravi o particolari esigenze di pubblico interesse,
dall'ufficiale di anagrafe d'ordine del sindaco".
L’art. 450
del codice civile dispone: ”I registri dello stato civile
sono pubblici. Gli ufficiali dello stato civile devono
rilasciare gli estratti e i certificati che vengono loro
domandati con le indicazioni dalla legge prescritte. Essi
devono altresì compiere negli atti affidati alla loro
custodia le indagini domandate dai privati.”
Relativamente
agli estratti degli atti di stato civile il comma 3
dell’art. 177 del D.Lgs. 196/2003 “Codice in materia di
protezione dei dati personali” ha precisato: ”Il rilascio
degli estratti degli atti dello stato civile di cui
all'articolo 107 del decreto del Presidente della Repubblica
03.11.2000, n. 396 è consentito solo ai soggetti cui
l'atto si riferisce, oppure su motivata istanza comprovante
l'interesse personale e concreto del richiedente a fini di
tutela di una situazione giuridicamente rilevante, ovvero
decorsi settanta anni dalla formazione dell'atto.”
Sulla
base delle disposizioni richiamate la richiesta di
certificati anagrafici con nota inviata per fax dalla quale
era rilevabile il soggetto richiedente é sufficiente per il
rilascio. Non necessita né copia del documento di identità
del richiedente, né delega accompagnata da copia del
documento del delegante. Per la richiesta di certificati di
stato civile, se presentata da soggetti diversi da quelli
cui l’atto si riferisce, è invece necessario precisare il
motivo della richiesta comprovante l'interesse personale e
concreto del richiedente a fini di tutela di una situazione
giuridicamente rilevante.
Anche in questo caso, se il
richiedente è identificato, non necessita allegare copie di
documenti. Ovviamente vanno poste a carico del richiedente
eventuali spesa di spedizione degli atti. Le certificazioni
di stato civile sono esenti da bollo ai sensi dell'art. 7,
comma 5, della legge n. 405/1990. I certificati anagrafici
sono atti soggetti sin dall'origine all'imposta di bollo, ai
sensi dell’articolo 4 della Tabella A, allegata al D.P.R. n.
642/1972 “Disciplina dell’imposta di bollo”.
Sono però
esenti dall'imposta modo assoluto, ai sensi dell’art. 9
della tabella allegato B allo stesso decreto, i certificati
anagrafici occorrenti per la liquidazione e il pagamento
delle pensioni dirette o di reversibilità da presentare
all'estero. E’ previsto che il richiedente indichi
espressamente l’uso, non è necessario che sia precisato
l’articolo che prevede l’esenzione (link a
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TRIBUTI:
Regolamento ai sensi dell'art. 24 del D.L. 133/2014.
L'art. 24, D.L. n. 133/2014, nell'ottica
di favorire la partecipazione della comunità locale alla
valorizzazione e tutela del territorio, consente ai comuni
di affidare a cittadini singoli o associati determinati
interventi aventi ad oggetto la cura di aree e di edifici
pubblici.
In relazione ai predetti interventi, l'art. 24 in commento
dà facoltà ai comuni di deliberare riduzioni o esenzioni,
specificamente, di tributi inerenti al tipo di attività
posta in essere.
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non
aventi natura tributaria, ad avviso dell'IFEL e come
specificato dall'ANCI, istituti analoghi possono essere
attivati dall'ente, nell'ambito della disciplina
regolamentare generale delle entrate (art. 52, D.Lgs. n.
446/1997) e avvalendosi della facoltà riconosciuta dall'art.
1197 c.c., secondo cui 'il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se
di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore
consenta'.
Il Comune intende approvare il Regolamento ai sensi
dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, e chiede se sia legittimo
estendere l'agevolazione ivi prevista anche alle entrate non
tributarie, quali ad esempio le tariffe (rette per mense
scolastiche, tariffe scuolabus) ed i canoni di locazione di
immobili comunali.
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si esprime quanto segue.
In via preliminare, si sottolinea la natura statale della
norma in oggetto da cui consegue la competenza degli organi
statali a fornire i chiarimenti in ordine all'ambito
applicativo della stessa. Le considerazioni che seguono
vengono, pertanto, espresse in via meramente collaborativa.
Ai sensi dell'art. 24, rubricato 'Misure di agevolazione
della partecipazione delle comunità locali in materia di
tutela e valorizzazione del territorio', D.L. n.
133/2014 [1],
'i comuni possono definire con apposita delibera i
criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi
su progetti presentati da cittadini singoli o associati,
purché individuati in relazione al territorio da
riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia,
la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze,
strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e
riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni
immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una
limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In
relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni
possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti
al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa
per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e
per attività individuate dai comuni, in ragione
dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere.
Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di
cittadini costituite in forme associative stabili e
giuridicamente riconosciute'.
La disposizione in esame riconosce la partecipazione dei
cittadini attivi per la tutela e la valorizzazione del
territorio, con ciò ricollegandosi all'art. 118, comma 4,
della Costituzione, ove si prevede che gli enti locali
favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà
orizzontale [2].
Specificamente, l'art. 24, D.L. n. 133/2014, consente ai
comuni di affidare a cittadini singoli o associati
determinati interventi aventi ad oggetto la pulizia, la
manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade
ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata
zona del territorio urbano o extraurbano
[3].
In ordine alle modalità applicative dell'agevolazione
(specificamente tributaria) prevista dall'art. 24 in
commento, il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico,
istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare [4],
ha espresso l'avviso secondo cui «l'impressione è che la
norma non autorizzi affatto gli enti locali, in modo
indiscriminato, a disporre la riduzione o l'esonero. Ma
esiga, piuttosto, un preciso rapporto di connessione 'fra
attività posta in essere' e tributo interessato».
Per quanto concerne la questione posta dall'Ente, relativa
alla possibilità di estendere l'agevolazione tributaria
prevista dall'art. 24, D.L. n. 133/2014, oltre ai tributi
anche alle tariffe e ad altre entrate extra tributarie, si
formulano alcune riflessioni -si ribadisce- in via
collaborativa, stante la competenza degli organi statali al
riguardo.
Il tenore letterale dell'art. 24 in argomento prevede
un'agevolazione (esenzione o riduzione) esplicitamente
riferita ai tributi, la cui essenza consiste nell'essere
prestazioni patrimoniali imposte dall'ente pubblico,
caratterizzate dall'attitudine (idoneità) a determinare il
concorso alla pubblica spesa dell'ente impositore, e
gravanti su tutti i cittadini aventi una retribuzione o un
reddito imponibile a fini fiscali [5].
Specificamente, deve essere riconosciuta natura tributaria a
tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione o
in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o
in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed
il beneficio che il singolo riceve [6].
Per quanto concerne, invece, le entrate patrimoniali non
aventi natura tributaria [7],
l'Istituto per la finanza e l'economia locale (IFEL),
fondazione istituita dall'Anci, nel constatare che l'ambito
di applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, si
riferisce, appunto, esplicitamente al campo dei tributi
comunali, per cui non sembrano potersi ricondurre al suo
ambito applicativo anche le entrate patrimoniali non
tributarie, ha osservato, però, che istituti analoghi
possono comunque essere attivati per tali entrate non
tributarie, in relazione alle quali l'ente locale può ancora
più flessibilmente disporre modalità alternative di
adempimento anche sotto il profilo dei pagamenti.
Un tanto l'ente potrà disporre nell'ambito della disciplina
regolamentare generale delle proprie entrate (art. 52,
D.Lgs. n. 446/1997 [8]),
e avvalendosi della facoltà riconosciutagli dall'art. 1197
cod. civ., secondo cui 'il debitore non può liberarsi
eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se
di valore uguale o maggiore, salvo che il creditore consenta'
[9].
---------------
[1] D.L. 12.09.2014, n. 133, recante: 'Misure urgenti per
l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione
burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle attività produttive', convertito, con
modificazioni, dalla L. n. 164/2014.
[2] Il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico,
istituito presso il Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e del mare, ha chiarito che l'individuazione
delle attività 'in ragione dell'esercizio sussidiario', è da
intendersi, secondo ragionevolezza, nel senso fatto palese
dall'art. 118, Cost., laddove ci si riferisce solo ad
attività di interesse generale (deliberazione n. 5, del
23.02.2015).
[3] L'IFEL (Istituto per la finanza e l'economia locale,
fondazione istituita dall'ANCI), ha precisato che l'attività
cui collegare le agevolazioni non può essere individuata
liberamente dal comune, ma deve essere riconducibile alle
tipologie di attività elencate dalla norma, nel rispetto del
principio della riserva di legge, ex art. 23 della
Costituzione (nota del 16.10.2015).
[4] Deliberazione n. 5/2015, cit..
[5] C. Cost., 12.01.1995, n. 2, con specifico riferimento
alla natura tributaria del contributo per il Servizio
sanitario nazionale, specificamente finalizzato al
finanziamento della spesa pubblica sanitaria. La pronuncia è
richiamata da Cass. civ., sez. un., Ordinanza 09.01.2007, n.
123. Conformi: Corte Costituzionale 10.02.1982, n. 26, Corte
Costituzionale, 14.03.2008, n. 64; Corte Costituzionale,
11.02.2005, n. 73, tutte nel senso di qualificare il tributo
come una prestazione patrimoniale imposta e collegata alla
spesa pubblica.
[6] Cass. civ., Ordinanza 11.02.2008, n. 3171, che afferma
la natura tributaria del contributo per il Servizio
sanitario nazionale, in quanto trova applicazione a
prescindere dall'an e dal quantum dei servizi (e della
natura degli stessi) richiesti; e non ha un rapporto
sinallagmatico con l'utilizzazione del Servizio.
[7] In particolare, per le entrate cui il Comune vorrebbe
estendere l'applicazione dell'art. 24, D.L. n. 133/2014
(retta mensa, tariffa scuolabus), si osserva che sussiste un
nesso di sinallagmaticità (che, alla luce delle elaborazioni
giurisprudenziali riportate, non appartiene ai tributi) tra
la retta per la mensa e la fruizione del relativo servizio,
come emerge dalle considerazioni della Suprema Corte che,
relativamente al servizio di mensa nella scuola materna, ha
escluso una contribuzione, se pur ridotta, per gli utenti
che avevano dichiarato di non voler mai usufruire della
mensa, per il solo fatto di frequentare la scuola, che
invece non deve comportare alcun onere economico a loro
carico (Cass. civ., Sez. un., 04.12.1991, n. 13030). Lo
stesso, appare configurarsi un nesso sinallagmatico tra la
prestazione economica della tariffa scuolabus e
l'utilizzazione del relativo servizio di trasporto
scolastico.
[8] L'art. 52, D.Lgs. n. 446/1997 (Potestà regolamentare
generale delle province e dei comuni), riconosce ai Comuni e
alle Province il potere di disciplinare con regolamento le
proprie entrate, anche tributarie.
Su questo punto, cfr. Anci, nota del 15.09.2015.
L'Associazione, nel rispondere ad un quesito sulla portata
applicativa dell'art. 24, D.L. n. 133/2014, in particolare
sulla possibilità di prevedere, con regolamento comunale,
anche riduzioni o esenzioni di canoni e di tariffe comunali,
ha affermato la possibilità per il comune, nell'esercizio
della potestà regolamentare prevista dall'art. 52, D.Lgs. n.
446/1997, di disporre ulteriori esenzioni ed agevolazioni,
in materia di entrate e tributi.
[9] Cfr. nota Anci del 26.10.2015 (03.12.2015 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Permessi agli amministratori locali per mandato elettivo.
L'art. 79, comma 6, TUEL richiede, per
le varie tipologie di permessi per assentarsi dal lavoro di
cui un amministratore locale può fruire per l'esercizio del
mandato elettivo, la necessità di un'attestazione dell'ente.
Per i permessi per la partecipazione alle riunioni degli
organi dovrà risultare, tramite attestazione dell'Ente,
l'ora di inizio della riunione o quella successiva nel caso
in cui l'amministratore sia arrivato in un secondo momento e
quella della fine dei lavori o quella, eventualmente
precedente, in cui l'interessato si sia definitivamente
allontanato.
Con riferimento, invece, all'attestazione relativa alle ore
di permesso per l'espletamento del mandato, utilizzate per
attività non espressamente documentate agli atti
dell'amministrazione (art. 79, commi 4 e 5, TUEL), l'ente
può richiedere la presentazione da parte dell'interessato di
una dichiarazione con la quale lo stesso attesti giorni, ore
e motivi delle attività effettuate mensilmente per
l'esercizio del mandato e, sulla base di questa, rilasciare
la certificazione per il datore di lavoro.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
disciplina dei permessi spettanti agli amministratori locali
per l'espletamento del mandato e, in particolare,
relativamente alle modalità di fruizione di tali permessi.
L'articolo 79 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
stabilisce il diritto degli amministratori locali di fruire
di permessi, retribuiti e non, per assentarsi dal lavoro per
l'esercizio del mandato correlato alla carica rivestita
presso gli enti in cui sono stati eletti o nominati.
Il comma 6 dell'indicato articolo prevede, in particolare,
che 'l'attività ed i tempi di espletamento del mandato
per i quali i lavoratori chiedono ed ottengono permessi,
retribuiti e non retribuiti, devono essere prontamente e
puntualmente documentati mediante attestazione dell'ente'.
Come chiarito dal Ministero dell'Interno con propri pareri
resi sull'argomento, 'risulta fondamentale che le
attività svolte dall'amministratore in questione siano
correlate esclusivamente alle funzioni amministrative
ricoperte, desunte da incarichi demandati all'amministratore
dall'ente, proprio in forza della carica rivestita presso lo
stesso'. [1]
La necessità di attestazione riguarda le varie tipologie di
permessi, siano essi retribuiti oppure no, e sia che
riguardino la partecipazione alle riunioni dei diversi
organi dei quali l'amministratore è componente (e per i
quali la legge riconosce il diritto ad usufruire dei
permessi) sia che attengano alle ulteriori attività
politico-amministrative svolte dall'amministratore nel monte
ore massimo concessogli dalla legge. A supporto di un tanto
si consideri la sentenza del giudice contabile
[2] la
quale, benché relativa alla disciplina dei permessi allora
contenuta nella legge 27.12.1985, n. 816, di contenuto
analogo all'attuale articolo 79 TUEL, recita: «In
conclusione, tutti i permessi previsti dall'art. 4 della L.
n. 816/1985, compresi le '24 o 48 ore retribuite' di cui al
3° comma del medesimo articolo, devono trovare puntuale
riscontro nelle attestazioni dell'Ente presso il quale i
permessi stessi vengono fruiti, sì che il diritto a tali
permessi resta 'subordinato all'assolvimento degli obblighi
di diligenza e documentazione di cui al (ripetuto) art. 16'
(cfr. Pretore di Asti del 27/12/1988 [...]).»
Circa gli adempimenti connessi alla fruizione dei permessi,
essi si possono suddividere in una fase preventiva
finalizzata all'ottenimento dei permessi e in una fase
successiva collegata all'attestazione dei permessi fruiti.
Per quanto riguarda gli adempimenti della prima fase, si
rileva che, benché tali permessi si configurino come un
diritto soggettivo perfetto, non subordinato alla preventiva
valutazione discrezionale del datore di lavoro, dottrina e
giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il diritto
dell'amministratore locale a fruire dei permessi lavorativi
vada contemperato con il diritto dell'ente di appartenenza,
con cui l'amministratore ha mantenuto il rapporto
lavorativo, al rispetto delle norme organizzative interne.
Ne consegue che il datore di lavoro non può negare il
permesso ma potrebbe pretendere, da parte del dipendente,
una comunicazione preventiva delle assenze dal servizio e,
ove possibile, una pianificazione delle stesse. In tal senso
si è espresso il Consiglio di Stato affermando che 'a
fronte di tale diritto non si rinviene alcun potere del
datore di lavoro di comprimerne l'esercizio per ragioni
attinenti all'organizzazione del servizio restando a carico
del lavoratore solo l'onere di previa comunicazione
dell'assenza e della sua causa giustificatrice'.
[3]
Quanto agli adempimenti della seconda fase relativa
all'attestazione dei permessi fruiti si evidenzia che le
modalità di fruizione dei permessi variano a seconda della
tipologia degli stessi.
I permessi per la partecipazione alle riunioni degli organi
non sono soggetti a limitazione temporale, mentre i permessi
per l'espletamento del mandato sono limitati al monte ore
mensile fissato per legge.
Nel primo caso dovrà risultare, tramite attestazione
dell'Ente, l'ora di inizio della riunione o quella
successiva nel caso in cui l'amministratore sia arrivato in
un secondo momento e quella della fine dei lavori o quella,
eventualmente precedente, in cui l'interessato si sia
definitivamente allontanato. Dovrà, altresì, risultare il
tempo impiegato per lo spostamento da e per il luogo di
lavoro. Più precisamente, l'attestazione dovrà fare
riferimento alla 'sola presenza dell'amministratore alle
relative riunioni presso l'ente locale e alla durata delle
stesse e non invece, ai tempi di percorrenza per il viaggio
di andata e ritorno che potranno invece essere attestati
dallo stesso amministratore con un'autodichiarazione di cui
all'art. 47 del DPR 28.12.2000, n. 445, corredata dalla
documentazione, biglietti di viaggio o pedaggi autostradali,
eventualmente in possesso'. [4]
Circa i soggetti legittimati al rilascio dell'attestazione,
il Ministero dell'Interno ha chiarito che 'in assenza di
specifica norma regolamentare, l'attestazione dell'utilizzo
dei permessi può essere rilasciata dal sindaco, dal
segretario comunale, o dal segretario del collegio cui
partecipano gli amministratori interessati, se prestabilito,
o da un consigliere facente le veci di segretario, ovvero
dal presidente dell'adunanza' [5]
o, ancora 'dal dirigente competente ai sensi dell'art.
107, comma terzo, lett. h) del d.lgs. 267/2000'.
[6]
Con riferimento, invece, all'attestazione relativa alle ore
di permesso per l'espletamento del mandato, relativamente a
quelle utilizzate per attività non espressamente documentate
agli atti dell'ente, [7]
il Ministero dell'Interno ha ritenuto che, in tal caso, la
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui
all'articolo 47 del DPR 445/2000, sia idonea a giustificare
l'assenza. A tale riguardo, ha affermato che 'la
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui
all'art. 47 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, fatte salve le
eccezioni espressamente previste per legge, ha la stessa
validità legale dell'atto che sostituisce tanto più che,
nella fattispecie, tale dichiarazione viene effettuata da un
amministratore locale investito di pubbliche funzioni'.
[8]
Si segnala, tuttavia, la posizione assunta dal Consiglio di
Stato, [9]
ove si afferma che 'esiste una stretta correlazione tra
gli obblighi inerenti al mandato e la fruibilità dei
permessi incidenti nella relazione di dipendenza lavorativa'
e che 'il sacrificio imposto al datore di lavoro trova
giustificazione nella non volontaria coincidenza
dell'impegno nascente dalla carica (convocazione dei
consigli ovvero degli organi cui si fa parte), con
l'attività subordinata, salva la possibilità di fruire di un
monte ore (nel limite partecipato dalla norma) per
l'esercizio delle altre funzioni che competono in forza
della carica medesima, le quali debbono trovare
giustificazione nell'attestazione dell'Ente presso il quale
viene espletato il mandato, senza che a ciò possa sopperire
la dichiarazione dell'interessato e la programmazione
personale degli impegni da parte del singolo amministratore.'
In ogni caso, anche aderendo alla impostazione assunta dalla
giurisprudenza, secondo la quale non si può prescindere
dall'attestazione dell'Ente, si può ritenere che, per i
permessi relativi all'espletamento del mandato di cui ai
commi 4 e 5 dell'articolo 79 TUEL, l'Ente possa richiedere
la presentazione da parte dell'interessato di una
dichiarazione con la quale lo stesso attesti giorni, ore e
motivi [10]
delle attività effettuate mensilmente per l'esercizio del
mandato e, sulla base di questa, rilasci la certificazione
per il datore di lavoro.
Per concludere, come si legge in un parere del Consiglio di
Stato (parere n. 1717/96 in data 07.05.1997), 'l'Amministrazione
(datore di lavoro) non può esercitare alcuna valutazione
dell'opportunità o meno del permesso; può solo verificare
che l'attestazione dell'Ente corrisponda ai giorni per i
quali i permessi sono stati chiesti e che si tratti di
attività inerente ...(all'espletamento del mandato). ... Il
sistema di affidare l'onere certificativo all'Ente, presso
cui il dipendente svolge il mandato elettorale, ed
all'Amministrazione (datore di lavoro) di verificare la
corrispondenza dell'attestazione alle previsioni
legislative, costituisce, garanzia da ogni forma di
limitazione del diritto o di abuso del suo esercizio.'
---------------
[1] Ministero Interno, parere del 19.01.2015. Nello
stesso senso si veda anche parere del 10.06.2014.
[2] Corte dei Conti, sezione giurisdizionale dell'Umbria,
sentenza del 18.05.1999, n. 379.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 24.05.2000, n.
2997. Nello stesso senso si veda anche parere dell'ANCI del
10.11.2011 ove si afferma che: 'Il sindaco non è tenuto a
chiedere autorizzazione per assentarsi dal posto di lavoro
per motivi inerenti al proprio mandato, ma deve, con
ragionevole anticipo, comunicare l'assenza e la durata
prevista al datore di lavoro, al fine di consentire di
affrontare le esigenze di servizio del datore di lavoro in
supplenza all'assenza dell'amministratore, senza causare
disagio o pregiudizio all'attività dell'azienda'. In senso
analogo si è espresso il Ministero dell'Interno, con parere
del 10.02.2010, ove ha affermato che 'le assenze a tale
titolo vadano tempestivamente comunicate dal dipendente
all'ufficio di appartenenza per consentire allo stesso di
contemperare le esigenze di servizio con gli impegni
connessi al mandato amministrativo'. A tal fine, il
Ministero richiama una sentenza del Consiglio di Stato, sez.
VI, del 13.01.1988, n. 103 in cui si ribadisce che: 'Perché
un lavoratore assuma una carica elettiva non ha bisogno
dell'autorizzazione del datore di lavoro; egli, tuttavia,
non può esimersi dal comunicare al datore di lavoro le
presumibili assenze in un determinato periodo, in relazione
al calendario dei lavori dell'organo di cui sia stato
chiamato a far parte al fine di giustificare le assenze dal
servizio'.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 30.04.2014.
[5] Ministero dell'Interno, pareri del 19.01.2015 e del
10.06.2014.
[6] Ministero dell'Interno, pareri del 30.04.2014 e del
03.05.2010.
[7] Si pensi, ad esempio, ad attività da svolgere al di
fuori dell'Ente e non necessariamente ufficializzate.
[8] Ministero dell'Interno, pareri del 19.01.2015 e del
10.06.2014.
[9] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 29.03.2001, n.
1855.
[10] Rientrano nei permessi retribuiti c.d. a plafond (oltre
che in quelli non retribuiti) previsti dall'articolo 79 del
D.Lgs. 267/2000 la partecipazione alle c.d. 'giunte
politiche', consistenti in riunioni che i componenti la
Giunta tengono in via informale. Così, Corte dei Conti, sez.
giurisdizionale dell'Umbria, sentenza citata in nota 2 (03.12.2015
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PATRIMONIO:
Contratti di locazione passiva di nuova stipulazione.
Ai sensi dell'art. 3, comma 6, D.L. n.
95/2012, per i contratti di locazione passiva, aventi ad
oggetto immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi,
di nuova stipulazione a cura delle amministrazioni pubbliche
(ivi compresi gli enti locali, ai sensi del comma 7
dell'art. 3 in argomento, come novellato dall'art. 24, comma
4, lett. b), D.L. n. 66/2014), si applica la riduzione del
15 per cento sul canone congruito dall'Agenzia del demanio.
Quest'ultima ha precisato che è facoltativo per gli enti
locali chiedere la verifica di congruità del canone; una
scelta in tal senso -evidenzia la Corte dei conti- è
comunque prudenziale, anche al fine di non incorrere in
responsabilità per danno erariale.
In ogni caso, per il magistrato contabile, sul canone
congruito (a seguito della relativa attestazione
dell'Agenzia del demanio, cui le amministrazioni comunali
abbiano ritenuto di rivolgersi) dei contratti di nuova
stipulazione, si applica la riduzione del 15%, a norma
dell'art. 3, comma 6, D.L. n. 95/2012.
Il Comune necessita di un immobile da adibire a magazzino
comunale ed, essendo scaduto il contratto di locazione che
aveva a tal fine stipulato, ha individuato, attraverso
selezione pubblica, un nuovo immobile di superficie maggiore
rispetto alla precedente. L'Ente chiede dunque se possa
stipulare il nuovo contratto, atteso che il proprietario
richiede un canone di locazione leggermente superiore a
quello precedente.
Si evidenzia al riguardo che l'art. 3, comma 6, D.L. n.
95/2012, stabilisce che 'Per i contratti di locazione
passiva, aventi ad oggetto immobili ad uso istituzionale di
proprietà di terzi, di nuova stipulazione a cura delle
Amministrazioni di cui al comma 4
[1], si
applica la riduzione del 15 per cento sul canone congruito
dall'Agenzia del Demanio [...]' [2].
Ai sensi del comma 7 dell'art. 3 in argomento, a seguito
della novella recata dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L.
n. 66/2014, le previsioni di cui ai commi da 4 a 6 dell'art.
3 medesimo, si applicano altresì alle altre amministrazioni
di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, ivi compresi
gli enti locali.
Come chiarito dalla Corte dei conti, l'espressione 'canone
congruito dall'Agenzia del Demanio' si riferisce alla
valutazione, demandata all'Agenzia, nell'ambito della sua
attività di monitoraggio, di congruità del prezzo rispetto
ai prezzi medi di mercato, per il rinnovo dei contratti di
locazione, ai sensi dell'articolo 1, comma 388, della L. n.
147/2013 [3].
Per quanto concerne, specificamente, le locazioni di nuova
stipulazione, la Corte dei conti chiarisce che gli enti
locali potranno rivolgersi all'Agenzia del Demanio per la
valutazione di congruità del prezzo: come precisato dalla
medesima Agenzia (circolare n. 16155/2014 dell'11.06.2014)
si tratta di una scelta facoltativa (ma prudenziale, anche
al fine di non incorrere in responsabilità per danno
erariale), in quanto le disposizioni in materia di
locazioni, commi da 4 a 6 del D.L. n. 95/2012, si applicano
alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. n.
165/2001, in quanto compatibili.
In ogni caso -sottolinea la Corte dei conti
[4]- sul
canone congruito [5]
dei contratti di nuova stipulazione, si applica la riduzione
del 15%, a norma del comma 6 dell'art. 3 del D.L. n.
95/2012.
Ed invero, per la Corte dei conti [6],
l'unica eccezione all'applicazione della riduzione
obbligatoria del canone viene ravvisata con riferimento ai
contratti di locazione in corso, nella sola ipotesi in cui
il canone corrisposto al privato sia già inferiore
all'importo ritenuto congruo dall'Agenzia del demanio,
ridotto del 15%. E questo per evitare che l'ulteriore
automatica riduzione, operata ai sensi del comma 4 dell'art.
3, D.L. n. 95/2012 [7],
induca il privato ad esercitare il diritto di recesso. In
questa evenienza, infatti, l'amministrazione si troverebbe
nella necessità di stipulare un nuovo contratto ad un canone
necessariamente più alto di quello originariamente
corrisposto, anche in applicazione del comma 6 dell'art. 3
del D.L. n. 95/2012 (canone 'congruito' ridotto del
15%), vanificando proprio la finalità di vantaggio per
l'Erario perseguita dalla norma.
A ben vedere, la Corte dei conti prende in esame il problema
della stipula di un nuovo contratto di locazione ad un
canone più alto di quello già pagato, per evitare che questo
sia la conseguenza del recesso da parte del locatore, a
seguito della decurtazione del canone, ai sensi dell'art. 3,
comma 4, D.L. n. 95/21012. E a scongiurare tale rischio (di
un effetto opposto a quello voluto dalla norma), la Corte
dei conti fornisce la soluzione di ritenere plausibile
un'interpretazione integrativa dell'art. 3, comma 4, D.L. n.
95/2012, che, in luogo di applicare il 15% di riduzione ad
un canone di importo già modesto -provocando, in caso di
recesso da parte del privato, la successiva stipula di un
contratto meno vantaggioso per l'amministrazione- consenta
di mantenere in essere il contratto in corso al canone
attuale, fino alla naturale scadenza, ed eventualmente anche
di procedere al rinnovo alle medesime condizioni
[8].
All'infuori di questa precisa circostanza, la Corte dei
conti ribadisce per i contratti di locazione
l'obbligatorietà della specifica disciplina di contenimento
della spesa pubblica ed in particolare, per le locazioni di
nuova stipulazione, l'applicazione in ogni caso della
riduzione del 15% sul canone ritenuto congruo dall'Agenzia
del demanio, a cui le amministrazioni abbiano valutato di
rivolgersi per la valutazione di congruità del prezzo
[9].
---------------
[1] Il comma 4 si riferisce alle Amministrazioni
centrali.
[2] In tema di locazioni passive, non è più vigente la norma
imperativa (contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12 del
d.l. n. 98/2011, così come introdotto dall'art. 1, comma
138, della legge n. 228/2012) che vietava, nell'anno 2013,
oltre l'acquisto di beni immobili anche la stipula di
contratti di locazione passiva. (Cfr. Corte dei conti, sez.
reg. controllo per il Piemonte, 15.01.2015, n. 3).
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. per la Puglia,
23.07.2015, n. 154. Secondo l'art. 1, comma 388, L. n.
147/2013, richiamato dalla Corte dei conti, 'Anche ai fini
della realizzazione degli obiettivi di contenimento della
spesa, i contratti di locazione di immobili stipulati dalle
amministrazioni individuate ai sensi dell'articolo 1, comma
2, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive
modificazioni, non possono essere rinnovati, qualora
l'Agenzia del demanio, nell'ambito delle proprie competenze,
non abbia espresso nulla osta sessanta giorni prima della
data entro la quale l'amministrazione locataria può
avvalersi della facoltà di comunicare il recesso dal
contratto. Nell'ambito della propria competenza di
monitoraggio, l'Agenzia del demanio autorizza il rinnovo dei
contratti di locazione, nel rispetto dell'applicazione di
prezzi medi di mercato, soltanto a condizione che non
sussistano immobili demaniali disponibili. I contratti
stipulati in violazione delle disposizioni del presente
comma sono nulli'.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit..
[5] A seguito della relativa attestazione dell'Agenzia del
demanio, cui le amministrazioni abbiano ritenuto di
rivolgersi.
[6] Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Toscana,
15.01.2015, n. 8, richiamata dalla Corte dei conti Puglia,
n. 154/2015, cit..
[7] L'art. 3, comma 4, DL n. 95/2012, come novellato
dall'art. 24, comma 4, lett. b), D.L. n. 66/2014, ai fini
del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai
contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a
uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali,
prevede la riduzione automatica del 15% dei canoni di
locazione, a decorrere dall'01.07.2014 (la decorrenza della
misura finanziaria, originariamente fissata all'01.01.2015,
è stata anticipa all'01.07.2014 dalla novella di cui al D.L.
n. 66/2014).
[8] Nell'ambito di questi principi, la Corte dei conti
rimette alla discrezionalità dell'ente la valutazione
complessiva dell'economicità dell'operazione, in coerenza
con la disciplina di contenimento della spesa in materia di
locazioni (Corte dei conti Puglia, n. 154/2015, cit.).
[9] Al riguardo, l'Anci, nella nota dell'08.07.2014, ha
espresso l'avviso per cui, anche nel caso di contratti di
nuova locazione, per un principio di prudenza e di garanzia
del rispetto della economicità, è opportuno che, in ogni
caso, l'ente locale chieda la verifica della congruità del
canone all'Agenzia del demanio.
L'Agenzia del demanio, nella circolare n. 16155/2014
richiamata, fornisce chiarimenti in ordine all'istanza di
congruità del canone che dovesse esserle rivolta dalle p.a.
per i contratti di nuova stipulazione.
In particolare, detta istanza dovrà essere corredata dal
canone proposto dal proprietario dell'immobile interessato
ed inviata unitamente ad una perizia del bene.
Per la perizia, l'Agenzia del demanio mette a disposizione
un apposito modello estimale (Allegato 3 della circolare,
riferito specificamente alle nuove locazioni), che richiede
l'indicazione del canone proposto dal proprietario e del
canone di mercato. Per la valutazione dell'immobile (ai fini
del valore/canone), il modello indica dei criteri
valutativi, tra cui, il criterio valutativo principe del
'Canone di mercato per comparazione diretta', basato sulla
comparazione diretta del bene oggetto di stima con quei beni
ad esso similari, locati nel recente passato, nella stessa
zona ed in regime di libero mercato.
Qualora il canone di locazione, determinato a seguito della
perizia trasmessa ai fini della congruità, risulti inferiore
a quello richiesto dalla Proprietà, le Amministrazioni
dovranno acquisire da parte di quest'ultima l'accettazione
di detto importo, specificando che lo stesso non ha
carattere definitivo, ma dovrà essere sottoposto alla
congruità da parte dell'Agenzia del demanio.
Inoltre, l'Agenzia evidenzia che, se interessata ai fini
dell'espletamento dell'attività di congruità, comunicherà,
ad ogni buon fine, oltre l'esito della verifica sul canone,
anche l'eventuale disponibilità di immobili, potenzialmente
idonei alle esigenze dell'Amministrazione interessata, di
proprietà statale ovvero, in subordine, di proprietà
pubblica - comunicati dalle P.A. all'Agenzia del demanio
mediante apposito applicativo informatico (27.11.2015
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APPALTI:
I requisiti per la gara.
DOMANDA:
Questa Stazione appaltante ha pubblicato il bando pubblico
prot. n. del 09.10.2015 per l’affidamento in concessione, ai
sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i. e con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, del
servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza e
viabilità stradale post incidente.
Tra i requisiti di
partecipazione ha chiesto anche il possesso all’iscrizione
all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali per la categoria
“bonifica dei siti contaminati” nonché il possesso della
certificazione di conformità delle attività della Sala
operativa secondo le norme UNI EN 15838/2010 e UNI
11200/2010.
Con determinazione Reg. Gen. 866 del 26.10.2015,
a seguito osservazioni presentate da due operatori economici
in merito all’iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori
Ambientali per la categoria “bonifica dei siti contaminati”,
nonché il possesso della certificazione di conformità delle
attività della Sala operativa, requisiti ritenuti troppo
restrittivi e quindi lesivi della concorrenza e del favor partecipazionis, si è stabilito di sospendere i termini di
presentazione dell’offerta fissati per il giorno 06.11.2015 per approfondire l’argomento.
Con determinazione Reg.
Gen. n del 04.11.2015 sono stati riaperti i termini di
presentazione dell’offerta, fissati per il 27.11.2015,
mantenendo integrale il bando prot. n. del 09.10.2015 per i
seguenti motivi: 1. che i requisiti oggetto di osservazione
sono stati richiesti da altri Comuni in procedure di gara
analoghe; 2. che il territorio comunale è attraversato dalla
S.R. F, strada a traffico sostenuto soprattutto nei fine
settimana e strada alternativa in caso di chiusura
temporanea della A4 tra il casello M. e quello di F., con
passaggio anche di mezzi pesanti che trasportano materiali
inquinanti.
Con la riapertura dei termini sono pervenute
altre osservazioni da parte di operatori economici del
settore sempre in merito ai requisiti suddetti.
Questa
Stazione appaltante con determinazione Reg. Gen. n. del
20.11.2015 ha stabilito di ritirare in autotutela
amministrativa, ai sensi della legge n. 241/1990 e s.m.i., il
bando pubblico prot. n. allo scopo di approfondire
ulteriormente la materia e favorire la massima
partecipazione degli operatori economici del settore ed
evitare possibili ricorsi innanzi al Tribunale
Amministrativo con conseguenti spese di giudizio a carico
dell’Ente e tempi lunghi per la definizioni delle
controversie.
Alla luce di quanto sopra esposto si chiede un
parere in merito a quali siano i requisiti minimi da
chiedere agli operatori economici per partecipare alla
procedura in argomento il cui valore economico è stato
quantificato in complessivi € 10.000,00 per una durata della
concessione di anni due.
RISPOSTA:
Su fattispecie analoga a quella sottoposta a questo ufficio
di consulenza si è espressa l'Autorità Nazionale
Anticorruzione (Anac), con Parere n. 128 del 06/06/2014 al
cui contenuto integrale si rinvia.
Per quanto di maggior
attinenza al caso di specie, l'Anac ha ricordato che, con
specifico riguardo all’appalto di pulizia delle strade a
seguito di incidenti, la giurisprudenza ha censurato
l’irragionevolezza della lex specialis di gara che richieda
l’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali per
l’attività di bonifica ambientale dei siti inquinati, sul
rilievo che la bonifica esula dalla competenza dell’ente
proprietario della strada ed incombe, di regola, sul
soggetto che ha causato l’inquinamento; viceversa, per
l’esecuzione degli ordinari interventi di pulizia delle
strade e ripristino della viabilità, non sarebbero necessari
così stringenti requisiti di qualificazione tecnica, tali da
equiparare impropriamente il servizio di pulizia e
ripristino alla bonifica di un sito inquinato (cfr. TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 04.02.2011 n. 227; CGA
Sicilia, sez. giurisdiz., 15.12.2011 n. 998).
Da parte
sua, l’Autorità ha affermato l’illegittimità di un’analoga
clausola, precisando tuttavia che la congruità e la
ragionevolezza della qualificazione prescritta dal bando di
gara devono sempre essere vagliate in concreto, ponendo
attenzione alla natura delle prestazioni effettivamente
rimesse all’appaltatore secondo la disciplina contrattuale
predisposta dall’amministrazione, con riguardo all’oggetto
dell’appalto ed alle sue specifiche peculiarità (cfr. A.V.C.P., parere 21.03.2012 n. 42).
A tal fine andrebbero
verificate le operazioni di ripristino delle condizioni di
sicurezza stradale previste, in concreto, nel capitolato di
gara.
Nel parere, l'Autorità suggerisce di inserire nel
disciplinare di gara una clausola più flessibile, come ad
esempio "l'iscrizione Albo Nazionale Gestori Ambientali alla
categoria 1 ed almeno classe F, oppure categoria 1 limitata
per attività di spazzamento meccanizzato Classe F”.
E' pur
vero, però, nell'ottica richiamata, che se il disciplinare
di gara dovesse prevedere che l’affidatario del servizio
effettui anche “interventi straordinari”, quali il
trattamento di sversamenti di materiale pericoloso,
inquinante o tossico in quantità tale da richiedere la
bonifica del territorio, oppure il recupero di materiali
trasportati dispersi a seguito di incidente e non facilmente
allontanabili dalla carreggiata, il requisito di iscrizione
contestato (iscrizione all’Albo Nazionale dei Gestori
Ambientali per la categoria “bonifica dei siti contaminati”)
non sarebbe né illogico, né incongruente.
Si rimette
pertanto all'amministrazione una valutazione in merito alla
congruità e alla ragionevolezza dei requisiti prescritti in
rapporto alla natura delle prestazioni richieste in concreto
all’appaltatore (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Anci Risponde - Non è consentito partecipare al consiglio
comunale in videoconferenza.
Un comune chiede al servizio ANCI Risponde se un consigliere
comunale, fuori sede, possa partecipare e votare in una
seduta di consiglio in atto, partecipandovi in
videoconferenza.
Gli uffici comunali chiedono, inoltre, di
indicare eventuali riferimenti legislativi sulla questione.
Gli esperti del servizio, su tale argomento, sono lapidari:
l'art. 38, comma 2, del TUEL prevede che "Il funzionamento
dei consigli, nel quadro dei princìpi stabiliti dallo
statuto, e disciplinato dal regolamento, approvato a
maggioranza assoluta, che prevede, in particolare, le
modalità per la convocazione e per la presentazione e la
discussione delle proposte. Il regolamento indica altresì il
numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la
presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia."
Il termine "presenza"
utilizzato dalla disposizione normativa non consente
interpretazioni estensive e pertanto, al momento, non è
possibile consentire la partecipazione ai consigli comunali,
né tantomeno la votazione in teleconferenza o comunque con
modalità telematiche. Qualsiasi diversa disposizione dovrà
essere oggetto di apposita disposizione normativa (link a
www.centrodocumentazionecomuni.it). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Compete
alla compagnia aerea di appartenenza la rimozione e
smaltimento dei rottami del velivolo precipitato a terra.
---------------
Il comma 3 dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006,
stabilisce che “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di
cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui
ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione,
all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali
di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Al riguardo non pare rilevare nel caso di specie l’ampio
dibattito giurisprudenziale (e dottrinale) riguardante le
condizioni in presenza delle quali possa ritenersi
sussistente la responsabilità anche del proprietario del
terreno -che sorge esclusivamente in relazione ad un
atteggiamento doloso o colposo- con particolare riguardo al
suo comportamento meramente omissivo.
Dibattito che –quanto meno a livello extra penale– non
appare ancora definitivamente assestato impingendo i temi
generali della cd. causalità omissiva.
In effetti, nel particolare caso in esame, rileva la
peculiarità della vicenda, e soprattutto dell’evento, che fa
ritenere insussistente il nesso causale tra la condotta del
proprietario dei terreni sul quale il velivolo è precipitato
(nella specie: il Comune) e il danno.
Il clamore del fatto -una sciagura che ha colpito un aereo
passeggeri– le modalità degli eventi -lo spargimento di
rottami tipici come parti di fusoliera, di carrelli, di
timoni di coda e di parti interne– l’assoluta inevitabilità
dell’evento, esclude che i proprietari delle aree
interessate potessero essere coinvolti nella responsabilità
riguardante lo “spargimento dei rifiuti”; così come appare
del tutto pleonastica la comunicazione di avvio del
procedimento di rimozione onde attivare il contraddittorio
tra le parti, visto che la responsabilità non poteva che
risalire alla Società proprietaria dell’aeromobile.
---------------
Va disatteso il quarto motivo, inerente la “vetustà” dei
rifiuti, l’inerzia delle amministrazioni coinvolte ed il
lungo tempo trascorso dai fatti, che avrebbero reso i
rottami aerei res derelictae usucapite dai proprietari dei
terreni.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre affermato
che l’inquinamento dà luogo a una situazione di carattere
permanente al pari dell’abuso edilizio, che perdura fino a
che non ne siano rimosse le cause e i parametri ambientali
non siano riportati entro i limiti normativamente
accettabili; da tale presupposto la giurisprudenza ha fatto
derivare l’applicazione della legge ratione temporis vigente
per far cessare i perduranti effetti della condotta omissiva
ai fini della bonifica (nei casi citati l’art. 17 del d.lgs.
n. 22 del 1997), anche indipendentemente dal momento in cui
siano avvenuti i fatti origine dell’inquinamento.
---------------
Oggetto della presente controversia è l’intimazione a carico
dell’Alitalia Linee Aeree Italiane s.p.a., attualmente in
amministrazione straordinaria, a rimuovere e smaltire i
rottami del velivolo del tipo Dc9 precipitato nel territorio
comunale di Sarroch, area del Monte Conca d’Oru, il 14.09.1979, mentre percorreva la rotta tra Alghero e
Cagliari.
Tale velivolo apparteneva alla Aero Trasporti Italiani
s.p.a., meglio conosciuta come A.T.I., incorporata 15 anni
dopo nell’Alitalia Linee Aeree Italiane.
Con riguardo all’elemento di contestazione contenuto nel
secondo motivo di appello e relativo all’assenza di
responsabilità dell’Alitalia quale successore universale di
A.T.I., non si può che richiamare l’art. 192, co. 4, del D.Lgs. n. 152 del 2006, secondo il quale “Qualora la
responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad
amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai
sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido
la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei
diritti della persona stessa, secondo le previsioni del
decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,
delle società e delle associazioni”.
Con ciò si sgombra il campo dal rilievo rappresentato
dall’appellante, cui hanno fatto e fanno capo i rapporti
giuridici attivi e passivi della Società incorporata,
rapporti che in questo caso non attengono a sanzioni
amministrative, le quali sono notoriamente intrasmissibili
agli eredi, ma concernono la responsabilità conseguente ad
un evidente danno ambientale causato dalla Società dante
causa; le sanzioni amministrative menzionate dal
provvedimento amministrativo in origine impugnato concernono
infatti la mancata ed attuale inesecuzione dell’ordinanza di
rimozione dei rottami.
Devono poi essere ritenuti infondati i motivi primo e terzo
con cui l’appellante si duole, da un lato, dell’assenza di
un accertamento della responsabilità in capo ai proprietari
delle aree interessate dallo spargimento dei rottami e,
dall’altro, dell’omessa comunicazione di avvio del
procedimento ai fini di provocare il contraddittorio tra le
parti coinvolte.
Il comma 3 dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006,
stabilisce che “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di
cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui
ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione,
all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali
di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Al riguardo non pare rilevare nel caso di specie l’ampio
dibattito giurisprudenziale (e dottrinale) riguardante le
condizioni in presenza delle quali possa ritenersi
sussistente la responsabilità anche del proprietario del
terreno -che sorge esclusivamente in relazione ad un
atteggiamento doloso o colposo- con particolare riguardo al
suo comportamento meramente omissivo.
Dibattito che –quanto meno a livello extra penale– non
appare ancora definitivamente assestato impingendo i temi
generali della cd. causalità omissiva.
In effetti, nel particolare caso in esame, rileva la
peculiarità della vicenda, e soprattutto dell’evento, che fa
ritenere insussistente il nesso causale tra la condotta del
proprietario dei terreni sul quale il velivolo è precipitato
(nella specie: il Comune) e il danno.
Il clamore del fatto -una sciagura che ha colpito un aereo
passeggeri– le modalità degli eventi -lo spargimento di
rottami tipici come parti di fusoliera, di carrelli, di
timoni di coda e di parti interne– l’assoluta inevitabilità
dell’evento, esclude che i proprietari delle aree
interessate potessero essere coinvolti nella responsabilità
riguardante lo “spargimento dei rifiuti”; così come appare
del tutto pleonastica la comunicazione di avvio del
procedimento di rimozione onde attivare il contraddittorio
tra le parti, visto che la responsabilità non poteva che
risalire alla Società proprietaria dell’aeromobile.
Infine va disatteso il quarto motivo, inerente la “vetustà”
dei rifiuti, l’inerzia delle amministrazioni coinvolte ed il
lungo tempo trascorso dai fatti, che avrebbero reso i
rottami aerei res derelictae usucapite dai proprietari dei
terreni.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre affermato
che l’inquinamento dà luogo a una situazione di carattere
permanente al pari dell’abuso edilizio, che perdura fino a
che non ne siano rimosse le cause e i parametri ambientali
non siano riportati entro i limiti normativamente
accettabili (Cons. Stato, VI, 05.03.2015 n. 1109; id., 23.06.2014, n. 3165; id.,
09.10.2007, n. 5283); da tale
presupposto la giurisprudenza ha fatto derivare
l’applicazione della legge ratione temporis vigente per far
cessare i perduranti effetti della condotta omissiva ai fini
della bonifica (nei casi citati l’art. 17 del d.lgs. n. 22
del 1997), anche indipendentemente dal momento in cui siano
avvenuti i fatti origine dell’inquinamento.
Il ricorso, pertanto, va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.12.2015 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Qualora
il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire
ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo
edilizio, viene meno la giustificazione causale della
corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso
all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove
tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento
risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di
dare, cosicché l'importo versato va restituito.
---------------
L’accoglimento della domanda di annullamento per mancata
utilizzazione del permesso di costruire, in tale specifico
caso, non comporta la restituzione della somma da parte del
Comune, atteso che il pagamento, dalla documentazione agli
atti, non risulta sia stato effettuato al Comune, bensì a
soggetto, non legittimato dall’Amministrazione a riceverlo,
che poi non abbia effettuato il versamento alla stessa.
In tal caso, resta salva l’applicazione delle regole
civilistiche stabilite per la ripetizione nei confronti di
colui che ha ricevuto il pagamento indebito, ovviamente
nella sussistenza di tutti i presupposti di legge.
---------------
1. La sig.ra Maria Francesca Mazza ha proposto ricorso in
riassunzione –a seguito di sentenza n. 1411 del 05.09.2015 del Tribunale di Cosenza che ha dichiarato il difetto
di giurisdizione- in opposizione a cartella di pagamento
per l’annullamento, previa sospensione, della cartella e
degli atti di cui in epigrafe.
Ha dedotto i seguenti motivi:
I. la ricorrente avrebbe provveduto al pagamento delle somme
richieste, come si evincerebbe dai bollettini prodotti e
dalla stessa concessione edilizia; l’estinzione non verrebbe
meno per la circostanza che le somme sarebbero state pagate
a un funzionario del Comune che ha rilasciato i bollettini e
che non ha versato le somme al Comune; tanto in quanto il
pagamento -avvenuto nelle mani del funzionario pubblico
preposto al rilascio dei permessi a costruire, che ha poi
patteggiato per il reato di peculato-, sarebbe, comunque,
dimostrato dalle ricevute prodotte, ancorché poi rivelatesi
false; peraltro, secondo quanto riferito
dall’Amministrazione comunale nel precedente giudizio
civile, il Tribunale di Cosenza ha, su ricorso del medesimo
Ente, con ordinanza del 04.01.2013, disposto il sequestro
conservativo sui beni del funzionario in questione, con la
conseguenza che il Comune non potrebbe agire per il recupero
delle dette somme anche nei confronti dell’utente;
II. le somme di cui in cartella, comunque, non sarebbero
dovute per non avere la ricorrente utilizzato la concessione
cui si ricollegano gli oneri.
Ha, quindi, chiesto la declaratoria della illegittimità
della cartella e conseguente l’annullamento; ha, altresì,
chiesto l’ammissione della prova per testi.
2. Il Comune intimato si è costituito, controdeducendo al
ricorso e chiedendone il rigetto.
3. Alla camera di consiglio del 10.12.2015, fissata
per la trattazione dell’istanza cautelare, il ricorso,
sussistendone i presupposti e previo avviso alle parti, è
stato mandato in decisione ai sensi dell’art. 60 del cod.
proc. amm..
4. Il ricorso è fondato per l’accoglimento del terzo motivo,
con cui parte ricorrente ritiene non dovuta la somma in
questione per non avere utilizzato la concessione relativa.
4.1. Reputa il Collegio che non sussistono ragioni per
discostarsi dal principio, ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il
privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire
ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo
edilizio, venga meno la giustificazione causale della
corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione. Il contributo
concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività
di trasformazione del territorio e quindi, ove tale
circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta
privo della causa dell'originaria obbligazione di dare,
cosicché l'importo versato va restituito (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 02.02.1988 n. 105; id. 12.06.1995 n. 894 e 23.06.2003 n.
3714; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.03.2010 n. 728; TAR
Lazio, Roma, Sez. I-bis, 12.03.2008 n. 2294; TAR Abruzzo
15.12.2006 n. 890; TAR Parma 07.04.1998 n. 149; da ultimo TAR
Marche, sez. I, sent. 06.02.2015 n. 114 e TAR Puglia Bari, sez. III, 17.03.2015 n. 420).
4.2. Al riguardo prive di pregio sono le affermazioni del
Comune secondo cui “l’odierna ricorrente non ha mai
comunicato alla amministrazione de qua la propria intenzione
di rinunciare al titolo edilizio di che trattasi, né ha
presentato alcuna istanza di sgravio”; né ha rilievo che,
solo con missiva del 27.10.2015, la sig.ra Ma. ha chiesto
il detto rimborso.
Il Comune, peraltro, non risulta che, in riscontro a detta
richiesta, abbia contestato l’utilizzo del titolo, bensì che
abbia solo rilevato che, a seguito di controlli effettuati,
non risultavano versate le dette somme all’Amministrazione.
4.3. La fondatezza di tale motivo, con assorbimento degli
ulteriori, comporta l’accoglimento della domanda avanzata,
con accertamento e declaratoria che la sig.ra Ma.Fr.Ma. non è debitrice della somma contestata nei
confronti del Comune di San Fili e il conseguente
annullamento della cartella impugnata.
4.4. L’accoglimento della domanda di annullamento per
mancata utilizzazione del permesso di costruire, in tale
specifico caso, però, non comporta la restituzione della
somma da parte del Comune (a cui, peraltro, si fa cenno solo
in seno al II motivo), atteso che il pagamento, dalla
documentazione agli atti, non risulta sia stato effettuato
al Comune, bensì a soggetto, non legittimato
dall’Amministrazione a riceverlo, che poi non abbia
effettuato il versamento alla stessa; in tal caso, resta
salva l’applicazione delle regole civilistiche stabilite per
la ripetizione nei confronti di colui che ha ricevuto il
pagamento indebito, ovviamente nella sussistenza di tutti i
presupposti di legge
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.12.2015 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sul
diritto -o meno-
di accesso agli atti della gara.
La ricorrente, partecipante alla gara in
oggetto e risultante non aggiudicataria, presentava istanza
di accesso allo specifico “fine di valutare la possibilità
di effettuare un formale ricorso”.
Non si può quindi escludere una specifica esigenza difensiva
per la tutela di una posizione concreta e differenziata.
Riguardo alla pretesa esigenza di salvaguardare il “know-how
industriale e commerciale”, va osservato che l’esigenza di
riservatezza viene genericamente affermata
dall’amministrazione richiamando le opposizioni delle
controinteressate trascritte nel provvedimento impugnato che
contengono, nella sostanza, un generico dissenso senza
specificare quale tipo di segreto verrebbe divulgato e in
quali documenti sarebbe contenuto.
L’amministrazione ha l’onere di rappresentare quali sono le
specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e
commerciale custoditi negli atti di gara, in riferimento a
precisi dati tecnici. In assenza di tale dimostrazione,
l’accesso deve essere consentito.
Di conseguenza, ove non sia fornita, in modo puntuale,
idonea prova circa l’esistenza di un vero e proprio segreto,
non possono che prevalere le esigenze di trasparenza della
procedura cui lo stesso concorrente (che oggi si oppone
all’accesso) si è volontariamente ed implicitamente
assoggettato con la partecipazione alla gara, peraltro con
la duplice garanzia offerta dall’ordinamento della
limitazione, sul piano della legittimazione soggettiva
attiva, dell’accessibilità dell’offerta ad esclusivo
vantaggio dei soli concorrenti che abbiano partecipato alla
selezione e, sul piano oggettivo, per le sole esigenze di
tutela giurisdizionale.
---------------
... per l'annullamento in parte qua, della nota prot.
n. 5916 del 20/02/2015 recante parziale diniego di accesso
agli atti di gara per la fornitura biennale di generi
alimentali vari per refezione scolastica periodo 01/01/2015
31/12/2016.
...
Con l’odierno ricorso viene impugnato il diniego di accesso
agli atti della gara per la fornitura biennale di generi
alimentari, con specifico riferimento alle offerte
presentate dalle ditte controinteressate stante
l’opposizione delle stesse, ai sensi dell’art. 13, comma 5,
del D.Lgs. n. 163/2006, per salvaguardare proprie esigenze
tecniche e commerciali la cui divulgazione avvantaggerebbe
le aziende concorrenti in difetto di una concreta esigenza
difensiva manifestata dalla ricorrente.
Il ricorso è fondato.
Contrariamente a quanto affermato nel provvedimento di
diniego, la ricorrente, partecipante alla gara in oggetto e
risultante non aggiudicataria, presentava istanza di accesso
allo specifico “fine di valutare la possibilità di
effettuare un formale ricorso”.
Non si può quindi escludere una specifica esigenza difensiva
per la tutela di una posizione concreta e differenziata.
Riguardo alla pretesa esigenza di salvaguardare il “know-how
industriale e commerciale”, va osservato che l’esigenza di
riservatezza viene genericamente affermata
dall’amministrazione richiamando le opposizioni delle controinteressate trascritte nel provvedimento impugnato che
contengono, nella sostanza, un generico dissenso senza
specificare quale tipo di segreto verrebbe divulgato e in
quali documenti sarebbe contenuto.
Solo Ri. Srl aggiunge che alcuni documenti sono stati
rilasciati da enti pubblici loro clienti che non l’hanno
autorizzata a diffonderli ma, al riguardo, è agevole
rilevare che gli enti pubblici sono soggetti alla disciplina
sulla trasparenza.
Sul punto va ricordato che l’amministrazione ha l’onere di
rappresentare quali sono le specifiche ragioni di tutela del
segreto industriale e commerciale custoditi negli atti di
gara, in riferimento a precisi dati tecnici. In assenza di
tale dimostrazione, l’accesso deve essere consentito.
Di conseguenza, ove non sia fornita, in modo puntuale,
idonea prova circa l’esistenza di un vero e proprio segreto,
non possono che prevalere le esigenze di trasparenza della
procedura cui lo stesso concorrente (che oggi si oppone
all’accesso) si è volontariamente ed implicitamente
assoggettato con la partecipazione alla gara, peraltro con
la duplice garanzia offerta dall’ordinamento della
limitazione, sul piano della legittimazione soggettiva
attiva, dell’accessibilità dell’offerta ad esclusivo
vantaggio dei soli concorrenti che abbiano partecipato alla
selezione e, sul piano oggettivo, per le sole esigenze di
tutela giurisdizionale (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III,
26.02.2013, n. 2106; TAR Lombardia, Milano, Sez. III,
15.01.2013 n. 116).
L’impugnato diniego è quindi illegittimo e va annullato
(TAR Marche,
sentenza 11.12.2015 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E'
consolidato l’indirizzo giurisprudenziale che considera
quale atto dovuto l’esercizio del diritto-dovere
dell’Amministrazione di ripetere le somme indebitamente
corrisposte ai pubblici dipendenti.
Il recupero di tali somme costituisce il risultato di
attività amministrativa, di verifica, di controllo, priva di
valenza provvedimentale; in tali ipotesi l’interesse
pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione:
infatti, a prescindere dal tempo trascorso, l’oggetto del
recupero produce di per sé un danno all’Amministrazione,
consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo ed
un vantaggio ingiustificato per il dipendente.
Si tratta dunque di un atto dovuto che non lascia
all’Amministrazione alcuna discrezionale facultas agendi e,
anzi, configura il mancato recupero delle somme
illegittimamente erogate come danno erariale; il solo
temperamento ammesso è costituito dalla regola per cui le
modalità di recupero non devono essere eccessivamente
onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore.
A ciò si aggiunga anche che l’affidamento del pubblico
dipendente e la stessa buona fede non sono di ostacolo
all’esercizio del potere-dovere di recupero, per cui
l’Amministrazione non è tenuta a fornire un’ulteriore
motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile
all’interessato.
Ne discende, ancora, che è destinato a essere recessivo il
richiamo ai principi in materia di autotutela amministrativa
sotto il profilo della considerazione del tempo trascorso e
dell’affidamento maturato in capo agli interessati.
Peraltro, in proposito è utile osservare che, secondo un
altrettanto consolidato e condivisibile orientamento della
giurisprudenza amministrativa, la doverosità del recupero da
parte dell'Amministrazione delle somme indebitamente
corrisposte ai propri dipendenti esclude che l'omissione
della comunicazione di avvio del procedimento configuri
causa di illegittimità della ripetizione, anche ai sensi
dell’art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241 perché,
trattandosi di atto completamente vincolato e non
autoritativo, il suo contenuto non sarebbe stato diverso,
sia in quanto l'eventuale mancanza del preavviso non
influisce sulla debenza delle somme né sulla possibilità di
difesa del destinatario perché questi, nell'ambito del
rapporto obbligatorio di reciproco e paritetico dare/avere,
può sempre far valere le sue eccezioni nell'ordinario
termine di prescrizione.
---------------
Secondo un ormai costante giurisprudenza “l'azione di
recupero di somme indebitamente corrisposte al pubblico
dipendente da parte della pubblica amministrazione è
soggetta all'ordinaria prescrizione decennale di cui
all'art. 2946, c.c., e non a quella quinquennale prevista
dall'art. 2948, c.c., non potendosi far rientrare tale
fattispecie fra le ipotesi espressamente contemplate in
quest'ultima norma”.
Invero, il diritto alla repetitio indebiti da parte della
p.a., a norma dell’art. 2946 cod. civ., è soggetto a
prescrizione ordinaria decennale il cui termine decorre dal
giorno in cui le somme sono state materialmente erogate.
Più specificamente, l’azione di ripetizione di indebito ha
come suo fondamento l’inesistenza dell’obbligazione
adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non
è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, a
seguito ad esempio di annullamento.
---------------
Al riguardo, è consolidato l’indirizzo giurisprudenziale che
considera quale atto dovuto l’esercizio del diritto-dovere
dell’Amministrazione di ripetere le somme indebitamente
corrisposte ai pubblici dipendenti.
Il recupero di tali somme costituisce il risultato di
attività amministrativa, di verifica, di controllo, priva di
valenza provvedimentale; in tali ipotesi l’interesse
pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione:
infatti, a prescindere dal tempo trascorso, l’oggetto del
recupero produce di per sé un danno all’Amministrazione,
consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo ed
un vantaggio ingiustificato per il dipendente.
Si tratta dunque di un atto dovuto che non lascia
all’Amministrazione alcuna discrezionale facultas agendi e,
anzi, configura il mancato recupero delle somme
illegittimamente erogate come danno erariale; il solo
temperamento ammesso è costituito dalla regola per cui le
modalità di recupero non devono essere eccessivamente
onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore
(cfr. Cons. Stato, sez. III, 09.06.2014, n. 2902; idem,
28.10.2013, n. 5173).
A ciò si aggiunga anche che l’affidamento del pubblico
dipendente e la stessa buona fede non sono di ostacolo
all’esercizio del potere-dovere di recupero, per cui
l’Amministrazione non è tenuta a fornire un’ulteriore
motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile
all’interessato (cfr. Cons. Stato, sez. III, 12.09.2013, n. 4519; idem, sez. V, 30.09.2013, n. 4849).
Ne discende, ancora, che è destinato a essere recessivo il
richiamo ai principi in materia di autotutela amministrativa
sotto il profilo della considerazione del tempo trascorso e
dell’affidamento maturato in capo agli interessati (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. III,
04.09.2013, n. 4429;
idem, 31.05.2013, n. 2986; idem, 10.12.2012, n.
11548).
Peraltro, in proposito è utile osservare che, secondo un
altrettanto consolidato e condivisibile orientamento della
giurisprudenza amministrativa, la doverosità del recupero da
parte dell'Amministrazione delle somme indebitamente
corrisposte ai propri dipendenti esclude che l'omissione
della comunicazione di avvio del procedimento configuri
causa di illegittimità della ripetizione, anche ai sensi
dell’art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241
perché, trattandosi di atto completamente vincolato e non autoritativo, il suo contenuto non sarebbe stato diverso,
sia in quanto l'eventuale mancanza del preavviso non
influisce sulla debenza delle somme né sulla possibilità di
difesa del destinatario perché questi, nell'ambito del
rapporto obbligatorio di reciproco e paritetico dare/avere,
può sempre far valere le sue eccezioni nell'ordinario
termine di prescrizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. III,
04.09.2013, n. 4429).
...
E’ possibile
procedere ora all’esame dei plurimi motivi aggiunti con i
quali i ricorrenti hanno eccepito, sotto diversi profili, la
sopravvenuta prescrizione del credito vantato
dall’amministrazione.
A tale riguardo si osserva, innanzitutto, che secondo un
ormai costante giurisprudenza “l'azione di recupero di somme
indebitamente corrisposte al pubblico dipendente da parte
della pubblica amministrazione è soggetta all'ordinaria
prescrizione decennale di cui all'art. 2946, c.c., e non a
quella quinquennale prevista dall'art. 2948, c.c., non
potendosi far rientrare tale fattispecie fra le ipotesi
espressamente contemplate in quest'ultima norma” (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 20.09.2012, n. 4989).
Ciò premesso la censura non merita adesione.
Il diritto alla repetitio indebiti da parte della p.a., a
norma dell’art. 2946 cod. civ., è soggetto a prescrizione
ordinaria decennale il cui termine decorre dal giorno in cui
le somme sono state materialmente erogate (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 24.04.1993, nr. 294; Corte Conti, sez. giur.
Veneto, 19.11.2009, nr. 782).
Più specificamente, l’azione di ripetizione di indebito ha
come suo fondamento l’inesistenza dell’obbligazione
adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non
è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, a
seguito ad esempio di annullamento.
Nel caso in esame l’erogazione delle somme è avvenuta in
esecuzione dell’ordinanza n. 470/2003, con la quale era
stato disposto l’inquadramento nelle rispettive posizioni
superiori, ai fini sia giuridici che economici, di militari
che all’esito delle procedure di avanzamento a suo tempo
espletate erano risultati semplicemente idonei ma non
promossi; pertanto, a nulla vale il richiamo dei ricorrenti
al periodo di servizio anteriore cui vanno formalmente
imputati gli emolumenti indebitamente corrisposti, dovendosi
avere riguardo unicamente al momento della loro materiale
erogazione, verificatasi nel 2003 e nel 2005, poiché è solo
da tale momento che il diritto dell’Amministrazione alla
restituzione avrebbe potuto essere fatto valere.
L’ordinanza impugnata, che ha annullato l’erogazione delle
somme è stata emanata il 22.08.2012, e pertanto l’attività di
ripetizione è certamente tempestiva rispetto al termine
decennale (la tesi della prescrizione quinquennale è, come
già osservato, destituita di fondamento) prevista dall’art.
2946 cod. civ..
Invero, il fatto “genetico” che ha determinato l’erogazione
delle somme è costituito dall’ordinanza n. 470/2003 e
dall’ordinanza n. 227/2005 (tale dato è incontestato);
- ne consegue che, per logica, l’erogazione degli emolumenti
abbia potuto seguire, e non già precedere, tale ordinanza;
- quindi, la corresponsione delle somme non può non essere
avvenuta che nel 2003 e nel 2005 (e segnatamente dopo
l’ordinanza del n. 470 del 17.03.2003 e n. 227 del
04.05.2005), la prescrizione decennale (art. 2946 cod. civ.)
alla data del 22.08.2012 di emissione della avversata
ordinanza commissariale n. 394 (momento “genetico”
dell’azione di ripetizione) non si era compiuta ed il
termine di prescrizione, quindi, non era ancora decorso;
In armonia con la sopra richiamata consolidata
giurisprudenza, come detto, il termine di prescrizione non
può essere quinquennale, ma si estende per dieci anni, in
quanto nel caso in esame si verte sulla ripetizione, ex art.
2033 c.c., di somme indebitamente percepite alle quali è
applicabile l'ordinaria prescrizione decennale di cui
all'art. 2946 c.c. (cfr. fra le altre Con. Stato Sez. II
18.12.1996 n. 2612 Sez. IV n. 2150/2006, Sez. VI n.
6599/2002), per cui la pretesa recuperatoria può spingersi
sino al decennio precedente l'atto interruttivo.
Né sotto tale profilo merita adesione la prospettata
questione di legittimità costituzionale dell’art. l’art.
2948, n. 4 cod. civ. e dell’art. 2 del r.d.l. 19.01.1939, n.
295, in relazione all’art. 3 della Costituzione.
Nel caso di specie, infatti, non si controverte del mancato
pagamento al creditore (lavoratore) degli importi dovuti per
un servizio reso, bensì della differente ipotesi in cui
proprio il soggetto (la Pubblica Amministrazione) che ha
pagato richiede la ripetizione di quanto corrisposto a chi
non aveva titolo e, dunque, di un’azione per la ripetizione
dell'indebito oggettivo (art. 2033 cod. civ.), che
giustifica l’applicazione del regime della prescrizione
ordinaria decennale.
In tal senso, del resto, si è espressa anche la Corte di
Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 24418 del
23.11.2010, quando ha statuito che la ripetizione
dell'indebito oggettivo, essendo azione tesa a ripristinare
l'equilibrio tra le posizioni di due contraenti, leso dal
mancato rispetto del vincolo sinallagmatico tra le
prestazioni, è soggetta al termine prescrizionale decennale.
In altri termini, la diversità della posizione del
lavoratore che può agire per ottenere quanto dovuto per le
proprie prestazioni nel termine di cinque anni previsto
dall’art. 2948, n. 4 cod. civ. per i pagamenti periodici è
ben diversa rispetto a quella in cui lo stesso dipendente
abbia attenuto somme non dovute, il che giustifica
l’applicazione del diverso regime della prescrizione
ordinaria decennale.
A fronte di tale sequenza i ricorrenti avrebbero dovuto
dimostrare che l’erogazione è avvenuta prima del 2003, ma
gli stessi non hanno assolto a tale onere, limitandosi a
sostenere l’applicazione della prescrizione quinquennale, il
che a contrario rafforza la tesi della insussistenza della
(ulteriore) eccepita prescrizione decennale.
Vale la pena osservare, in proposito, che la allegazione e
prova del fatto estintivo incombe sulla parte che eccepisca
la prescrizione, spettando al creditore, invece, provare la
circostanza eccezionale che impedisca il prodursi degli
effetti del predetto fatto estintivo (cfr. Cassazione
civile, sez. I, 05.04.2013, n. 8426).
Peraltro, l’ordinanza commissariale n. 394 del 22.08.2012 è
stata preceduta da formali atti di messa in mora che hanno
interrotto i termini di prescrizione, emanati dalla Croce
Rossa Italiana – Comitato Centrale Dipartimento Risorse
Umane e Organizzazione – Ispettorato Nazionale del Corpo
Militare di cui danno conto gli stessi ricorrenti (nr. Prot.
0019039.12 notificata a Ba.Ma. il 19.12.2012 – nr.
Prot. 0018964.12 notificata a Pe.Si. il 30.11.2012 - nr. Prot. 0018985.12 notificata a Ma.Pi.Pa. il
28.11.2012 – nr.prot. 00168.13 notificata a Fu.Ma. il
11.01.2013 e nr. Prot. 18739.12 notificata il 27.11.2012- nr.
Prot. 18714.13 notificata a Co.Ro. il 27.11.2012)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 10.12.2015 n. 13835 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio e sanatoria ordinaria: diversità di
presupposti e finalità.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui
sussiste il principio di “doppia conformità”) e l’istituto
straordinario del condono edilizio operano, infatti, su
presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da
apposite normative che non possono, evidentemente,
sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione
(anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono
escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo
le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che
riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide
sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione
del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella
prevista.
---------------
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed
assorbenti le argomentazioni difensive con cui l’appellante
sottolineava come la nuova configurazione del manufatto (in
posizione rialzata rispetto al progetto originariamente
assentito) fosse stata già oggetto di sanatoria, con
successiva richiesta di condono edilizio solo per estinguere
il reato paesaggistico.
Dette argomentazioni appaiono ragionevoli e non smentite
dalla documentazione in atti, in cui si rinvengono
certificato di assenza di danno ambientale (rectius:
paesaggistico) in data 06.02.2003, concessione edilizia in
sanatoria n. 2.653/1 del 26.03.2003, per “innalzamento
quota d’imposta di fabbricato” e permesso di costruire
in variante n. 2653/3 del 04.05.2004.
In tale contesto la domanda di condono edilizio, depositata
il 04.03.2004, appare plausibilmente riconducibile
all’intento enunciato dall’appellante, o a finalità
tuzioristiche in rapporto ad eventuali iniziative
dell’Amministrazione in via di autotutela (in effetti
annunciate il 31.03.2003, ma della cui eventuale conclusione
non si ha notizia).
L’atto di condono edilizio del 09.10.2006, in effetti, non
poteva validamente riferirsi solo alle fondamenta e al piano
interrato, posto che –come rilevato nella sentenza
appellata– l’art. 32, comma 25, del decreto-legge
30.09.2003, n. 269, convertito dalla legge 24.11.2003, n.
326, circoscrive l’oggetto della sanatoria alle “opere
abusive che risultino ultimate entro il 31.03.2003”:
circostanza, quest’ultima, non sussistente nel caso di
specie.
Sotto il profilo in questione, pertanto, le conclusioni
della medesima sentenza, nella parte riferita
all’annullamento del condono edilizio, sono condivisibili,
mentre non può dirsi altrettanto per l’affermazione, secondo
cui tutti gli atti antecedenti al condono sarebbero stati
assorbiti da quest’ultimo, il cui “travolgimento
determinerebbe il venir meno dell’unico titolo legittimante
l’intervento avversato”.
L’ordinaria sanatoria edilizia (per cui sussiste il
principio di “doppia conformità”) e l’istituto
straordinario del condono edilizio operano, infatti, su
presupposti e con finalità ben diversi, disciplinati da
apposite normative che non possono, evidentemente,
sovrapporsi: non può quindi ritenersi che la presentazione
(anche a fini meramente tuzioristici) di istanza di condono
escluda gli effetti di una sanatoria, già rilasciata secondo
le disposizioni di legge vigenti “a regime”.
L’annullamento del condono edilizio, pertanto, non può che
riguardare in via esclusiva il condono stesso, ma non incide
sull’intervenuta sanatoria (ordinaria) della realizzazione
del fabbricato ad una quota superiore, rispetto a quella
prevista.
E’ vero che detta sanatoria e le successive varianti erano
state oggetto del ricorso introduttivo e dei primi motivi
aggiunti del controinteressato, signor Se.Sa.; ma tali
argomentazioni difensive non sono state riproposte in
appello, mentre l’improcedibilità risulta sostanzialmente
contestata dall’appellante, che sottolinea le differenti
sequenze procedimentali della sanatoria e del condono
edilizio, con conseguente sopravvivenza della prima
all’annullamento del secondo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.12.2015 n. 5624 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumori: Cassazione, se il cane abbaia anche di notte, non
c'è bisogno della perizia per condannare il padrone.
Il disturbo alla quiete pubblica è reato di pericolo
presunto, desumibile da elementi probatori diversi dalla
consulenza tecnica.
Non serve la perizia per far scattare la
condanna nei confronti del padrone se i testi confermano che
il cane abbaia giorno e notte disturbando il riposo di chi
abita nelle vicinanze.
Sono queste le conclusioni cui è giunta la terza sezione
penale della Cassazione (con la
sentenza
09.12.2015 n. 48460), confermando la condanna di una donna alla
contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. e a 200 euro di
ammenda, per non aver impedito lo strepitio del proprio
pastore tedesco disturbando così le occupazioni e il riposo
dei residenti.
La donna era stata ritenuta responsabile dal tribunale di
Cagliari anche in seguito alle deposizioni rese dai
testimoni che avevano confermato che l'animale era solito
abbaiare di giorno e quasi tutte le notti, "con grande
frequenza", sì da rendere impossibile il sonno di tutti gli
abitanti nelle immediate adiacenze. Del resto, la stessa
proprietaria del cane aveva ammesso che lo stesso abbaiasse,
pur contestandone l'asserita frequenza.
Per gli Ermellini, ciò è sufficiente per affermare la
responsabilità della padrona, in quanto la fattispecie de
qua non implica, "attesa la natura di reato di pericolo
presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone,
essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne
un numero indeterminato".
Per cui, hanno proseguito i giudici di legittimità,
l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le
occupazioni delle persone "non va necessariamente accertata
mediante perizia o consulenza tecnica –e- il giudice ben
può fondare il proprio convincimento su elementi probatori
di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono
in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei
rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la
soglia della normale tollerabilità".
Da qui
l'inammissibilità del ricorso e la condanna della donna
anche al pagamento delle spese
(commento tratto da www.studiocataldi.it).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Il Tribunale di Cagliari, infatti, ha riconosciuto la
responsabilità della Ec. in
ragione di plurimi elementi istruttori e, in particolare,
delle deposizioni rese da
tre testimoni (Al.Ma., Ga. e Gi.Mo.) che -senza alcun
motivo di astio o risentimento verso la ricorrente- avevano
confermato quanto
contestato ex art. 659 cod. pen.; in particolare, che il
cane di proprietà della
Ec. era solito abbaiare di giorno e quasi tutte le notti,
con grande frequenza, sì
da disturbare il sonno, reso quasi impossibile, e recare
evidente disturbo al
riposo degli stessi, tutti abitanti nelle immediate
adiacenze.
Di seguito, la
sentenza ha esaminato gli elementi di prova indotti dalla
difesa, ma -con
motivazione logica e congrua- ne ha affermato
l'inattendibilità (i testi Or. e
Si. erano ex fidanzati della ricorrente); fino a
precisare -emergenza non
contestata neppure in questa sede- che la stessa Ec. aveva
ammesso che il
cane abbaiava, anche se «non così continuamente come mi si
accusava...anche
perché il cane dorme, non è che stava 24 ore ad abbaiare di
continuo».
Orbene, in forza di questa motivazione -che si apprezza per
completezza,
congruità e logicità- la sentenza ha richiamato:
1) il
costante principio secondo
cui
l'affermazione di responsabilità per la fattispecie de
qua non implica, attesa la
natura di reato di pericolo presunto, la prova
dell'effettivo disturbo di più
persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a
disturbarne un numero
indeterminato
(per tutte, Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, Calvarese, Rv.
262510);
2) l'ulteriore principio, del pari consolidato, per
cui
l'attitudine dei
rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone
non va
necessariamente accertata mediante perizia o consulenza
tecnica, di tal ché il
Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi
probatori di
diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in
grado di riferire le
caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che
risulti oggettivamente superata la soglia della normale
tollerabilità
(per tutte, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli, Rv. 263433, a mente della quale in tema
di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone, l'effettiva idoneità
delle emissioni sonore
ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di
persone costituisce un
accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice
di merito, il quale
non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di
specifiche indagini
tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su
altri elementi
probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un
fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete);
3)
la piena attendibilità
delle deposizioni assunte, invero non contestata con
argomenti concreti neppure
nel presente gravame.
Sì da manifestarsi la piena infondatezza degli argomenti
dedotti e, in
particolare, l'invocata necessità di esperire comunque
accertamenti di natura
tecnica, nonché di provare il numero indeterminato di
soggetti potenzialmente
danneggiati, non risultando a ciò sufficienti tre persone.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Alla luce della
sentenza 13.06.2000, n. 186, della Corte costituzionale
e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la
parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della
causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità
medesima consegue, a
norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del
procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa
delle ammende,
equitativamente fissata in euro 1.000,00 (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
09.12.2015 n. 48460). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In caso di pubblico impiego
privatizzato nel caso di
domanda proposta da una amministrazione nei confronti di un
proprio
dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di
retribuzione, qualora,
risulti accertato che l'erogazione sia avvenuta sine titulo,
è consentita la ripetibilità delle somme ex art. 2033 c.c. e
tale ripetibilità non è esclusa per la buona fede
dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il
profilo soggettivo,
soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi.
---------------
Il ricorso merita accoglimento, per quanto di ragione.
L'assunto secondo cui l'Ente ricorrente avrebbe operato una
ripetizione di
indebito regolata dall'art. 2033 c.c., come prospettato dai
dipendenti a
fondamento della domanda, non corrisponde all'esatta
qualificazione giuridica
dei fatti, i quali non sono sussumibili nell'alveo di tale
fattispecie legale,
risultando conseguentemente errata anche la soluzione data
dalla Corte di
appello, che tale prospettazione ha condiviso.
Giova premettere che, in caso di pubblico impiego
privatizzato nel caso di
domanda proposta da una amministrazione nei confronti di un
proprio
dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di
retribuzione, qualora,
risulti accertato che l'erogazione sia avvenuta sine
titulo,
è consentita la ripetibilità delle somme ex art. 2033 c.c. e
tale ripetibilità non è esclusa per la buona fede
dell'accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il
profilo soggettivo,
soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (Cass.
sent. n. 8338/2010 cit. e
Cass. n. 29926/2008).
Ma nella vicenda che interessa, nulla è stato recuperato nei
confronti dei
singoli lavoratori, i quali nessuna trattenuta hanno subito
sulle competenze
mensili per ricalcolo del compenso incentivante a ciascuno
erogato negli anni
interessati dalla verifica ispettiva, pur avendo costoro
percepito l'incentivo -come è pacifico in giudizio- in misura superiore a quanto
sarebbe spettato ove
la parte datoriale avesse correttamente operato, in esatta
applicazione delle
regole della contrattazione nazionale e in osservanza dei
vincoli di bilancio, le
cui omissioni restano suscettibili di integrare
responsabilità amministrative e
contabili, profili tuttavia estranei al presente giudizio.
Invero, la C.R.I., proprio ritenendo (sulla scorta di un
parere espresso
dall'Avvocatura dello Stato) che non potesse ricorrere
un'ipotesi di erogazione sine titulo, a fronte di una prestazione lavorativa già
resa, dell'operata verifica del
raggiungimento dei risultati e della avvenuta ripartizione
del Fondo degli anni
2003 e 2004 concordata con le organizzazioni sindacali -e
dunque muovendo da
premesse opposte a quelle poste a base della domanda e
condivise dalla Corte di
appello nella sentenza impugnata- ha posto in essere
un'operazione non
riconducibile nella ripetizione di indebito di cui all'art.
2033 c.c..
Deve pure precisarsi che la domanda dei lavoratori non aveva
ad oggetto la
rivendicazione di differenze retributive (in ipotesi)
spettanti per errata
ripartizione del fondo in relazione agli anni interessati
dal piano di rientro
(2006/2010). Non si deduce, in tale domanda, l'erroneità del
calcolo del dovuto
in relazione agli stanziamenti del fondo per gli anni
2006/2010, ma si contesta "a monte" la composizione del
fondo assumendosi l'illegittimità della trattenuta
annua deliberata a titolo di rientro contabile.
La domanda proposta dai lavoratori investe, principalmente,
la
Determinazione Direttoriale n. 86 del 17.07.2007 con la
quale la C.R.I.
dispose il recupero, a carico di tutti i dipendenti del
comparto, della somma
complessiva di € 5.154.216,87 (distribuita in cinque
annualità di € 1.030.843,37),
mediante prelievo di tale somma dai Fondi per il trattamento
accessorio di ente
relativi agli anni 2006/2010.
Al riguardo, il Collegio osserva quanto segue.
La disciplina contrattuale di riferimento è contenuta negli
artt. 31 e 32 del
CCNL comparto Enti Pubblici non Economici 1998/2001 del
16.2.1999. L'art.
31 detta le regole di costituzione del Fondo di Ente per i
trattamenti accessori
del personale ricompreso nelle Aree A, B e C, stabilendo che
"è costituito presso
ciascun ente del comparto un Fondo per i trattamenti
accessori..." e indica le
fonti di finanziamento, elencando con quali risorse
economiche il Fondo deve
essere alimentato, confermando il principio di
precostituzione e tassatività nella
contrattazione collettiva nazionale delle fonti di
finanziamento di trattamenti
accessori.
L'art. 32 del CCNL detta le regole per
l'utilizzazione del Fondo, che è
"prioritariamente finalizzato a promuovere reali e
significativi miglioramenti dei
livelli di efficienza/efficacia dell'amministrazione e di
qualità dei servizi
istituzionali, mediante realizzazione, attraverso la
contrattazione integrativa, di
piani produttivi annuali e pluriennali e di progetti
strumentali e di risultato,
basati su sistemi di programmazione e di controllo
quali-quantitativo dei
risultati".
La composizione del Fondo è dunque atto unilaterale
dell'Amministrazione,
che tuttavia non è libera di decidere tipologia ed entità
delle risorse da destinare al finanziamento dei trattamenti
accessori, ma deve disporre in conformità al
CCNL e alle previsioni legislative di finanza pubblica,
mentre è oggetto di
accordo sindacale l'utilizzazione delle risorse che vengono
a comporre il Fondo.
Il compenso incentivante viene dunque attribuito mediante
ripartizione tra i
dipendenti dell'importo del Fondo per il trattamento
accessorio di cui all'art. 31
citato, al netto delle somme erogate ai dipendenti per altri
titoli cui lo stesso è
destinato.
È principio generale del rapporto di impiego pubblico
contrattualizzato,
affermato dal testo unico D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art.
8, che la spesa
sostenuta dall'Amministrazione per il proprio personale
debba essere "evidente,
certa e prevedibile nella evoluzione" e che le risorse
finanziarie destinate a tale
spesa siano "determinate in base alle compatibilità
economico-finanziarie
definite nei documenti di programmazione e di bilancio"
(art. 8). Tale
disposizione, di tenore programmatico, ha come destinatarie
(anche)
direttamente le amministrazioni, che hanno il compito di
adottare tutte le misure
necessarie a far conoscere l'entità e l'evoluzione delle
spese per il personale in
rapporto alle prestazioni erogate e ai risultati conseguiti,
nonché i controllori,
interni ed esterni, che hanno il dovere di segnalare
anomalie riscontrate; la
norma rinvia dunque anche al titolo V del medesimo d.lgs.
165/2001 (artt. 58-62)
relativo al "controllo di spesa". Per le amministrazioni di
tutti i comparti sono
previste verifiche degli organi interni di controllo sul
rispetto dei limiti imposti
dalla contrattazione collettiva integrativa e sulle sue
implicazioni finanziarie.
Inoltre, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 3 (nel
testo originale
precedente la riforma introdotta con il D.Lgs. n. 150 del
2009), è volto a
sanzionare espressamente con la nullità le clausole del
contratto di secondo
livello difformi dalle prescrizioni del primo livello e che
comportino la violazione di vincoli derivanti dagli
strumenti di programmazione economico-finanziaria.
Prescrizione quest'ultima che risulta successivamente
ribadita dal
disposto dell'art. 40-bis del suddetto decreto (introdotto
dalla L. n. 448 del 2001,
art. 17) in forza del quale l'accertamento in sede di
verifica e monitoraggio della
contrattazione collettiva di costi non compatibili con i
vincoli di bilancio delle
amministrazioni determina la conseguente applicazione della
sanzione della
nullità della clausola difforme.
Alla luce di tali principi, deve ritenersi legittima la
riduzione operata dalla
C.R.I., in conformità alla cogente previsione dell'art. 40,
terzo comma, d.lgs.
165/2001 (nel testo applicabile ratione tetnporis alla
fattispecie), per il vincolo di
bilancio posto dalla relazione ispettiva trasmessa con nota
23.10.2006, n.
137691, cui la C.R.I. era tenuta a conformarsi.
Né di converso tale riduzione integrava alcuna violazione di
diritti quesiti dei
lavoratori.
Invero, l'operazione di recupero di cui alla D.D. n. 86/2007
veniva a gravare su
fondi non ancora costituiti, tali dovendo ritenersi anche
quelli relativi agli anni
2006 e 2007, la cui costituzione venne sospesa in corso di
verifica ispettiva.
Occorre pure tenere conto della natura retributiva del
compenso incentivante ex
art. 28, primo comma, lett. e) c.c.n.l. 1998/2001, da
corrispondere tuttavia non già
con cadenza periodica mensile come gli altri istituti
ordinari secondo lo
svolgimento cronologico della prestazione lavorativa, ma
dopo la necessaria
verifica del raggiungimento dei risultati secondo le
disposizioni ex art. 31,
secondo comma, CCNL cit..
Pertanto, al momento della d.d. n.
86/2007 non era
ancora maturato, per gli anni 2006/2007 (e a maggior ragione
per gli anni
successivi), il diritto al compenso incentivante non
essendosi perfezionati tutti
gli elementi costitutivi della fattispecie, integrati dalla
prestazione lavorativa e dalla compiuta verifica del
raggiungimento dei risultati relativi agli obiettivi e
programmi di incremento della produttività dell'anno (in
relazione all'an
debeatur) e dalla ripartizione del fondo a seguito di
accordo sindacale (in relazione
al quantum debeatut). Il recupero di cui al piano
quinquennale di rientro ha
riguardato, dunque, somme non ancora entrate nel patrimonio
individuale dei
singoli dipendenti.
Quanto al Fondo per l'anno 2005, relativamente al quale
furono erogati al
personale solo acconti, con sospensione del pagamento del
saldo (che sarebbe
dovuto avvenire nel maggio 2006), deve ritenersi che tutti
gli elementi della
fattispecie costitutiva del diritto -ed ai quali dianzi si
è fatto richiamo- si
fossero già perfezionati anteriormente alla D.D. n. 86/2007 e
che, dunque, non vi
fossero i presupposti per negare agli odierni resistenti il
pagamento del residuo
dovuto.
Può quindi concludersi che l'Ente ben poteva (ed anzi
doveva) procedere al
recupero delle somme corrisposte in mancanza di valida
copertura finanziaria e
con irregolarità contabili in forme quali la rimodulazione
di retribuzioni
accessorie e comunque aggiuntive per il futuro, compatibili
con la necessità di
predisporre un piano di rientro indicato nella nota del
Ministero dell'Economia,
mediante rideterminazione del Fondo a ciò destinato per gli
anni 2006/2010,
con stipulazione di relativi accordi con le rappresentanze
sindacali, mentre non
poteva incidere su diritti già acquisiti, anche nel quantum,
quale doveva ritenersi il
compenso incentivante maturato per l'anno 2005 secondo il
piano di utilizzo
definito nel relativo accordo negoziale con le 00.SS.
intervenuto prima
dell'accertamento ispettivo.
Vale pure osservare, incidentalmente, che, con la riforma di
cui al d.lgs. n. 150
del 2009, con l'introduzione (art. 54), all'art. 40, del
comma 3-quinquies, l'apparato sanzionatorio sopra accennato
è stato ulteriormente rafforzato, con previsione
della sostituzione automatica delle disposizioni illegittime
con quelle legali
derogate e la conservazione del contratto in caso di nullità
parziale (artt. 1339 e
1419 c.c.) e contemplandosi espressamente l'obbligo, per le
pubbliche
amministrazioni, in caso di "accertato superamento dei
vincoli finanziari", di
"recupero nell'ambito della sessione negoziale successiva".
In definitiva, non si è in presenza di una ripetizione di
indebito operata ai sensi
dell'art. 2033 c.c., ma di una rimodulazione dei compensi
accessori per il futuro,
imposta dalla necessità di compensare con minori erogazioni
de futuro le
eccedenze indebite del passato, pertanto incidendo su
compensi sui quali,
relativamente agli anni dal 2006 al 2010, nessun diritto ad
una diversa e maggiore
erogazione si era perfezionato. Il personale odierno
resistente non ha quindi
subito alcuna decurtazione dello stipendio, bensì una
attribuzione di trattamenti
economici aggiuntivi rimodulati alla stregua della
rideterminazione al ribasso del
Fondo di ente per gli anni successivi al 2005.
In sede di memoria ex art. 378 c.p.c. la difesa dei
controricorrenti ha prodotto
il decreto 26.02.2015 del Presidente della Repubblica
che, su parere del
Consiglio di Stato, si è pronunciato, accogliendoli, sui
ricorsi straordinari
proposti da altri lavoratori nei confronti della C.R.I.
aventi il medesimo petitum,
ossia aventi ad oggetto l'illegittimità del "recupero del
compenso incentivante
relativo agli anni dal 2003 al 2005".
Il decreto, a seguito
di una ricostruzione
fattuale del tutto sovrapponibile a quella della presente
causa, ha pronunciato sul
rapporto controverso, ravvisando l'insussistenza di un
pagamento indebito ai
dipendenti, i quali, "alla luce degli artt. 1429, 1431 e
2126 c.c. e nel rispetto dei
principi di proporzionalità ed adeguatezza della
retribuzione di cui all'art. 36 Cost., avevano indubbiamente
titolo a percepire o, a seconda dei casi, trattenere tali
compensi che, oltre tutto erano stati loro corrisposti per
prestazioni
effettivamente rese, ed in base ad ordinanze commissariali
della C.R.I. e ad
accordi tra l'ente e le organizzazioni sindacali".
Avverso
tale pronuncia non
risulta che sia stato proposto ricorso ex art. 111, co. 8,
Cost., art. 362 c.p.c..
Come affermato da S.U. n. 23464 del 2012 (v. pure S.U.
10414/2014), in tema di
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la
decisione presidenziale
conforme al parere del Consiglio di Stato ripete dal parere
stesso la natura di
atto giurisdizionale in senso sostanziale, come tale
impugnabile in cassazione per
motivi di giurisdizione (S.U. 10414/2014, v. pure S.U. 20569
del 2013).
Sebbene l'art. 7 del c.p.a. abbia definito il perimetro
delle controversie
devolute alla giurisdizione amministrativa ed, all'ultimo
comma, abbia precisato
che il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le
controversie devolute
alla giurisdizione amministrativa, così riducendo l'ambito
di applicazione
dell'istituto ed escludendo ogni possibilità di intervento
in sfere di competenza
della giurisdizione ordinaria, osserva il Collegio che la
pronuncia anzidetta,
sollecitata ad individuare patologie della contestata
delibera le ha ravvisate anche
all'esito di disamina del rapporto controverso.
E' stato di recente osservato dalle SS.UU. di questa Corte
(SS.UU. n. 19786/2015), che,
come ha ricordato la Corte costituzionale, l'estensione del
ricorso straordinario
anche a materie di competenza dell'autorità giudiziaria
ordinaria era il frutto di
una risalente tradizione interpretativa, consolidatasi, 'praeter
legem', nel
presupposto della natura amministrativa del rimedio, in
virtù della quale era
consentito al giudice ordinario disapplicare la decisione
sul ricorso straordinario
al Capo dello Stato. La netta esclusione di tale estensione
da parte del codice del
processo amministrativo risponde ad una finalità di
"ricomposizione
sistematica", perché è consequenziale alla scelta del
legislatore del 2009 nel senso della traslazione del ricorso
straordinario dall'area dei ricorsi
amministrativi a quella dei rimedi giustiziali, che aveva
fatto venire meno il
presupposto su cui si fondava la tradizione interpretativa
su ricordata. (Corte
cost. 02.04.2014, n. 73).
Ma al di là dei rilievi appena formulati sulla estensione e
sui limiti della potestas
judicandi , appare al Collegio assorbente che , nella
fattispecie in esame non è
configurabile giudicato formatosi in sede di decisione del
ricorso straordinario,
perché manca l'identità soggettiva. Questa Corte ha difatti
affermato che,
affinché la decisione su un ricorso straordinario al Capo
dello Stato possa essere
invocata con autorità di giudicato (ove emessa, come quella
di cui si discute, su
ricorsi proposti successivamente al 16.09.2010, data
di entrata in vigore
del d.lgs. 02.07.2010, n. 104) sia necessaria l'identità
delle parti dei due giudizi
(Cass. n. 20054/2013), presupposto nella specie
insussistente.
Neppure è ipotizzabile un'efficacia riflessa del giudicato,
poiché nei confronti
di soggetti rimasti estranei al processo tale efficacia è
ravvisabile solo
allorquando questi siano titolari di un diritto dipendente o
comunque di un
diritto subordinato a tale situazione, con la conseguenza
che l'efficacia del
giudicato non si estende a quanti siano titolari di un
diritto autonomo rispetto al
rapporto giuridico definito con il giudicato (cfr. Cass.
6788/2013, 2137/2014,
4130/2014).
Conclusivamente, il ricorso va accolto per quanto di ragione
e la sentenza va
cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di
legittimità, alla Corte di
appello di Ancona, in diversa composizione
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 09.12.2015 n. 24834). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo il diniego per l'installazione di un'insegna di
esercizio, lungo un'autostrada, che abbia valenza di
pubblicità della ditta.
L'art. 23 del D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della
Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma
di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane
principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento
di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade,
o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano
confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo
visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo
per la sicurezza della circolazione.
---------------
L'articolo 47, primo comma, del
D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di
esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada)
qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri
alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da
marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi
natura, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra
riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale
debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima,
per poter essere qualificata come tale, impone che sia
strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce
e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare
l’ubicazione della sede della stessa impresa.
Anche recenti pronunce hanno avuto modo di precisare che la nozione di
insegna di esercizio deve essere intesa in senso
rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi
in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47,
comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a
segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito che un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è
consentita solo ove non presenti alcun contenuto
riconducibile a finalità pubblicitarie.
E’ allora evidente che verificare se una determinata
insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23
sopra citato impone un esame in concreto sulle
caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di
individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire
con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se
quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento
meramente pubblicitario.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento (prot.
CVE-0022778-P) del 17/07/2015 con il quale Anas Spa ha
comunicato alla ricorrente l’esito negativo della fase
istruttoria relativa all’istanza di ottenimento
dell’autorizzazione/nulla osta all’installazione di un mezzo
pubblicitario;
...
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
1.1 Sul punto è dirimente constatare che l'art. 23 del
D.Lgs. n. 285/1992 ("Nuovo Codice della
Strada"), al comma 7, sancisce il divieto di qualsiasi forma
di pubblicità lungo le autostrade e le strade extraurbane
principali e i relativi accessi.
La ratio di detta disposizione va individuata nell’intento
di introdurre un divieto all’installazione lungo le strade,
o in vista di esse, di impianti pubblicitari che possano
confondersi con la segnaletica stradale, o arrecare disturbo
visivo a chi circola su di esse, con conseguente pericolo
per la sicurezza della circolazione.
1.2 Va, altresì, rilevato come l'articolo 47, primo comma,
del D.P.R. 16.12.1992, n. 495 (Regolamento di
esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada)
qualifica l’insegna d'esercizio, quale "scritta in caratteri
alfanumerici, completata eventualmente da simboli e da
marchi, realizzata e supportata con materiali di qualsiasi
natura, installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa".
1.3 Ne consegue che sebbene nessuna delle disposizioni sopra
riportate preveda che l’insegna di un esercizio commerciale
debba essere unica, è parimenti evidente che quest’ultima,
per poter essere qualificata come tale, impone che sia
strettamente contigua all’esercizio commerciale cui inerisce
e sia, nel contempo, funzionale e diretta a identificare
l’ubicazione della sede della stessa impresa.
1.4 Anche recenti pronunce (Cons. Stato Sez. IV, 25.11.2013,
n. 5586) hanno avuto modo di precisare che la nozione di
insegna di esercizio deve essere intesa in senso
rigorosamente restrittivo, circoscrivendola a quei soli casi
in cui l'insegna -con le modalità prescritte dall' art. 47,
comma 1, del d.P.R. n. 495 del 1992- serve esclusivamente a
segnalare il luogo ove si esercita l'attività di impresa.
Si è, inoltre, sancito (Cons. Stato Sez. IV, 27.04.2012, n.
2480) che un'insegna d'esercizio visibile dall’autostrada è
consentita solo ove non presenti alcun contenuto
riconducibile a finalità pubblicitarie.
1.5 E’ allora evidente che verificare se una determinata
insegna integri il divieto di pubblicità di cui all’art. 23
sopra citato impone un esame in concreto sulle
caratteristiche della singola insegna e, ciò, al fine di
individuare quale sia la funzione che si intenda perseguire
con l’installazione del singolo manufatto e, quindi, se
quest’ultima vada ricondotta (o meno) ad un intento
meramente pubblicitario.
1.6 Nel caso di specie è dirimente constatare come sia stata
la stessa parte ricorrente a rilevare che l’insegna in
questione è collocata sulla facciata dell'esercizio, rivolta
verso la strada, senza che sulla stessa facciata sia
presente un’entrata dell’esercizio.
1.7 E’ allora evidente che, seppur l’insegna in questione
abbia le caratteristiche proprie di un’insegna di esercizio,
ai sensi dell’art. 47 del DPR 16.12.1992 n. 495, la sua
installazione è stata posta in essere per realizzare un
intento pubblicitario, diretto nei confronti degli
utilizzatori della strada prospiciente.
Dette conclusioni sono confermate dal fatto che l’insegna in
questione, non solo duplica l’insegna di esercizio già
esistente, ma in quanto posizionata su un lato in cui non vi
è l’entrata dell’impresa, non aggiunge alcuna informazione
ulteriore circa l’identificazione della stessa impresa che,
in quanto tale, è già resa dall'altra insegna d'esercizio.
1.8 Ne consegue che risulta integrato il divieto di
installazione di strumenti pubblicitari in prossimità delle
strade, circostanza che consente di ritenere infondate le
argomentazioni di parte ricorrente.
In definitiva il ricorso è, pertanto, infondato e va
respinto (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 09.12.2015 n. 1315 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte effettuate dall'Amministrazione all'atto
dell'approvazione del P.R.G. costituiscono apprezzamenti di
merito e sono sottratte al sindacato di legittimità del
giudice amministrativo, salvo che siano inficiate da errori
di fatto, da grave illogicità o da contraddittorietà.
Inoltre è stato chiarito come tali scelte non necessitano di
apposita motivazione, oltre quella che possa evincersi dai
criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti per
l'impostazione del piano stesso, salvo che particolari
situazioni consolidate non abbiano creato aspettative
qualificate del privato.
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa
del privato all'ottenimento di una tipizzazione più gradita,
è cedevole rispetto all'esercizio della potestà
pianificatoria finalizzata alla corretta e razionale
disciplina urbanistica del territorio comunale.
---------------
Nel merito, ritiene il Collegio che il ricorso sia
infondato.
Si premette che, secondo giurisprudenza consolidata, da cui
il Collegio ritiene di non doversi discostare (ex multis
Tar Genova, sez. I, 03.05.2012 n. 623; Tar Trieste, sez. I,
07.10.2014, n. 488), le scelte effettuate
dall'Amministrazione all'atto dell'approvazione del P.R.G.
costituiscono apprezzamenti di merito e sono sottratte al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo
che siano inficiate da errori di fatto, da grave illogicità
o da contraddittorietà.
Inoltre è stato chiarito come tali scelte non necessitano di
apposita motivazione, oltre quella che possa evincersi dai
criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti per
l'impostazione del piano stesso, salvo che particolari
situazioni consolidate non abbiano creato aspettative
qualificate del privato (v. la stipula di convenzioni di
lottizzazione e di accordi di diritto privato intercorsi tra
il Comune e i proprietari delle aree, in specie non
sussistenti né dimostrati).
Ciò implica, quale necessario corollario, che l'aspettativa
del privato all'ottenimento di una tipizzazione più gradita,
è cedevole rispetto all'esercizio della potestà
pianificatoria finalizzata alla corretta e razionale
disciplina urbanistica del territorio comunale
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 04.12.2015 n. 3197 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Come
noto, ai sensi dell’art. 113, comma 4, D.Lgs. 163/2006 “La
mancata costituzione della garanzia di cui al comma 1,
determina la decadenza dell'affidamento e l'acquisizione
della cauzione provvisoria di cui all'art. 75 da parte della
stazione appaltante, che aggiudica l'appalto o la
concessione al concorrente che segue nella graduatoria”
senza al riguardo alcun margine di discrezionalità per la
stazione appaltante.
---------------
L'utilizzo del fax costituisce modalità "ordinaria" di
scambio delle comunicazioni tra la stazione appaltante e le
imprese partecipanti alle gare e rappresenta, pertanto, uno
strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del
provvedimento.
Infatti, il fax costituisce un sistema basato su linee di
trasmissione di dati e su apparecchiature che consentono di
documentare sia la partenza del messaggio dall'apparato
trasmittente sia -attraverso il c.d rapporto di
trasmissione- la ricezione del messaggio in quello
ricevente.
Pertanto, la trasmissione del fax consente di presumere
l'avvenuta ricezione senza che colui che dimostra di aver
inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova,
salva l'eventuale prova contraria concernente la
funzionalità dell'apparecchio ricevente fornita, secondo
l'ordinaria regola processualistica, da chi afferma la
mancata ricezione del messaggio.
Va rilevato come nella fattispecie per cui è causa la difesa
del ricorrente non ha abbia né allegato né tantomeno provato
eventuali malfunzionamenti del fax da essa stessa indicato
in sede di offerta.
---------------
Laddove la lettera di invito alla gara, ai sensi dell’art.
79, comma 5-quinqiues, del D.lgs. 163 del 2006, richieda
espressamente l’autorizzazione dei concorrenti a ricevere le
comunicazioni inerenti la gara stessa a mezzo fax in tal
caso parte della giurisprudenza ritiene, invero, che nelle
gare per l'aggiudicazione di appalti pubblici la
comunicazione mediante fax non può rappresentare uno
strumento idoneo a determinare la piena conoscenza
dell'aggiudicazione e/o di un atto o documento, nel caso in
cui non sia stata espressamente autorizzata dal concorrente;
ciò perché, in base alla disposizione normativa di cui al
comma 5-bis dell'art. 79, D.lgs. n. 163 del 2006, la
comunicazione a mezzo fax degli atti di una procedura di
evidenza pubblica è consentita “solo se espressamente
autorizzata dal concorrente”.
Rileva il Collegio che ai sensi dell’art. 43, comma 6, del
d. P.R. 28.12.2000, n. 445, i documenti trasmessi tramite
fax o altro mezzo idoneo ad accertarne la fonte di
provenienza soddisfano il requisito della forma scritta e
che la loro trasmissione non deve essere seguita da quella
del documento originale, salva la necessità del riscontro
dell’avvenuta ricezione mediante il rapporto di
trasmissione.
Il fax, infatti, rappresenta ormai un modo del tutto
ordinario di comunicazione idoneo a determinare la
conoscenza dalla quale decorre il termine per impugnare,
qualora il rapporto di trasmissione indichi che questa sia
avvenuta regolarmente, spettando unicamente a chi eccepisce
la mancata ricezione la prova della non funzionalità
dell’apparecchio ricevente.
Anche volendo ritenere imprescindibile l’autorizzazione del
ricorrente, invero richiesta come visto nella lex specialis,
ritiene il Collegio che la comunicazione attraverso fax, il
cui numero è stato espressamente riportato dalla società
offerente nell’offerta economica presentata per partecipare
alla gara quale sede legale dell’impresa, e della cui
ricezione esiste rapporto negli atti di causa, costituisce
mezzo di comunicazione sufficiente a fondare la conoscenza
del procedimento e della sua lesività, valendo
sostanzialmente tale indicazione come autorizzazione
implicita ai sensi del citato art. 79, comma 5-bis, Codice
contratti pubblici.
---------------
2. E’ materia del contendere la legittimità del
provvedimento 1643 del 14.05.2013 con cui il Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti ha disposto ai sensi
dell’art. 113, comma 4, del D.lgs. 163 del 2006 la decadenza
dall’aggiudicazione dei lavori di ristrutturazione,
manutenzione straordinaria e adeguamento degli impianti
elettrici e speciali della Caserma “Cefalonia-Corfù”
vecchio edificio, sede del Comando Provinciale della Guardia
di Finanza di Perugia, con importo a base di gara di
806.139,20 euro.
3. Preliminarmente deve essere esaminata la questione
preliminare di ammissibilità del ricorso per mancata
notificazione alla controinteressata impresa “Delta
Impianti s.r.l.”.
Trattasi di questione di rito eccepita soltanto all’udienza
di discussione nel merito e quindi oltre i termini
pacificamente perentori di cui all’art. 73, comma 1, cod.
proc. amm. e che non può essere esaminata d’ufficio, non
essendosene dato atto al verbale d’udienza così come
prescrive l’art. 73, comma 3, cod. proc. amm. (Consiglio di
Stato sez. IV, 26.08.2015, n. 3992; id. 12.05.2014, n.
2420).
4. L’esame della suesposta questione è comunque non decisivo
nell’economia del giudizio, essendo il ricorso infondato nel
merito.
Come noto, ai sensi dell’art. 113, comma 4, “La mancata
costituzione della garanzia di cui al comma 1, determina la
decadenza dell'affidamento e l'acquisizione della cauzione
provvisoria di cui all'art. 75 da parte della stazione
appaltante, che aggiudica l'appalto o la concessione al
concorrente che segue nella graduatoria” senza al
riguardo alcun margine di discrezionalità per la stazione
appaltante (ex multis TAR Sicilia Catania sez. IV,
05.12.2013, n. 2909; TAR Lombardia Brescia sez. II,
02.05.2013, n. 401).
Come emerge dalla documentazione depositata in giudizio dal
Ministero resistente, la nota prot. 1479 dell’11.04.2013 di
diffida a produrre la documentazione necessaria alla
stipulazione del contratto, tra cui la cauzione definitiva,
è stata spedita a mezzo fax al numero della sede legale
dell’impresa ricorrente indicato negli atti di gara (vedi
offerta economica allegato n. 2 al ricorso) e regolarmente
ricevuta lo stesso giorno alle ore 9 e 11 minuti, come da
rapporto di trasmissione depositato dall’Amministrazione
resistente.
L'utilizzo del fax costituisce modalità "ordinaria"
di scambio delle comunicazioni tra la stazione appaltante e
le imprese partecipanti alle gare e rappresenta, pertanto,
uno strumento idoneo a determinare la piena conoscenza del
provvedimento. Infatti, il fax costituisce un sistema basato
su linee di trasmissione di dati e su apparecchiature che
consentono di documentare sia la partenza del messaggio
dall'apparato trasmittente sia -attraverso il c.d rapporto
di trasmissione- la ricezione del messaggio in quello
ricevente. Pertanto, la trasmissione del fax consente di
presumere l'avvenuta ricezione senza che colui che dimostra
di aver inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore
prova, salva l'eventuale prova contraria concernente la
funzionalità dell'apparecchio ricevente fornita, secondo
l'ordinaria regola processualistica, da chi afferma la
mancata ricezione del messaggio (ex multis TAR
Sicilia Palermo sez. I, 04.03.2014, n. 613; Consiglio di
Stato sez. IV, 12.06.2013, n. 3252).
Va rilevato come nella fattispecie per cui è causa la difesa
del ricorrente non ha abbia né allegato né tantomeno provato
eventuali malfunzionamenti del fax da essa stessa indicato
in sede di offerta.
Deve invece essere rilevato come la lettera di invito (pag
4, punto HH) ai sensi dell’art. 79, comma 5-quinqiues, del
D.lgs. 163 del 2006 richiedesse espressamente
l’autorizzazione dei concorrenti a ricevere le comunicazioni
inerenti la gara a mezzo fax.
In tal caso, parte della giurisprudenza ritiene invero che
nelle gare per l'aggiudicazione di appalti pubblici, la
comunicazione mediante fax non può rappresentare uno
strumento idoneo a determinare la piena conoscenza
dell'aggiudicazione e/o di un atto o documento, nel caso in
cui non sia stata espressamente autorizzata dal concorrente;
ciò perché, in base alla disposizione normativa di cui al
comma 5-bis dell'art. 79, D.lgs. n. 163 del 2006, la
comunicazione a mezzo fax degli atti di una procedura di
evidenza pubblica è consentita “solo se espressamente
autorizzata dal concorrente” (TAR Calabria Catanzaro
sez. I, 12.12.2012, n. 1171; Consiglio di Stato sez. III,
11.07.2012, n. 4116).
Rileva il Collegio che ai sensi dell’art. 43, comma 6, del
d. P.R. 28.12.2000, n. 445, i documenti trasmessi tramite
fax o altro mezzo idoneo ad accertarne la fonte di
provenienza soddisfano il requisito della forma scritta e
che la loro trasmissione non deve essere seguita da quella
del documento originale, salva la necessità del riscontro
dell’avvenuta ricezione mediante il rapporto di
trasmissione.
Il fax, infatti, rappresenta ormai un modo del tutto
ordinario di comunicazione idoneo a determinare la
conoscenza dalla quale decorre il termine per impugnare,
qualora il rapporto di trasmissione indichi che questa sia
avvenuta regolarmente, spettando unicamente a chi eccepisce
la mancata ricezione la prova della non funzionalità
dell’apparecchio ricevente (ex multis TAR Lazio sez.
III, 13.02.2008, n. 1254; id. sez. II, 08.01.2015, n. 151).
4.1. Anche volendo ritenere imprescindibile l’autorizzazione
del ricorrente, invero richiesta come visto nella lex
specialis, ritiene il Collegio che la comunicazione
attraverso fax, il cui numero è stato espressamente
riportato dalla società offerente nell’offerta economica
presentata per partecipare alla gara quale sede legale
dell’impresa, e della cui ricezione esiste rapporto negli
atti di causa, costituisce mezzo di comunicazione
sufficiente a fondare la conoscenza del procedimento e della
sua lesività, valendo sostanzialmente tale indicazione come
autorizzazione implicita ai sensi del citato art. 79, comma
5-bis, Codice contratti pubblici.
5. Le doglianze di illegittimità del provvedimento di
decadenza e del consequenziale atto di segnalazione
all’Autorità di Vigilanza per mancata ricezione della
presupposta diffida prot. 1479/13 sono pertanto prive di
pregio.
6. Parimenti infondate oltre che pretestuose risultano tutte
le rimanenti censure, del tutto prive di capacità
invalidante, non avendo la ricorrente mai provveduto, così
come più volte richiesto dalla stazione appaltante, a
produrre la documentazione richiesta e necessaria per la
stipulazione del contratto
(TAR Umbria,
sentenza 04.12.2015 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Notifica
del ricorso a mezzo del servizio postale.
Ai sensi dell’art. 7 della l. n. 890 del
1982, in caso di notifica a mezzo del servizio postale (e
per quanto di interesse):
- l’avviso di ricevimento prova, fino a querela di falso, la
consegna al destinatario, a condizione che l’atto sia stato
consegnato presso il suo indirizzo e che il consegnatario
abbia apposto la propria firma, ancorché illeggibile o
apparentemente apocrifa, nello spazio dell’avviso relativo
alla «firma del destinatario o di persona delegata»,
risultando irrilevante, in quanto non integra una nullità ex
art. 160 c.p.c., la mancata indicazione dell’indirizzo del
destinatario sulla ricevuta di ritorno;
- è valida la notificazione a mezzo posta effettuata nelle
mani del portiere dello stabile, ex art. 7 cit., qualora
l’agente postale gli abbia consegnato il plico raccomandato
nell’assenza del destinatario e in mancanza delle altre
persone indicate nel 2º comma del suddetto articolo,
dovendosi presumere, fino a prova contraria, che tra le
mansioni del custode del fabbricato rientri la distribuzione
della posta ai destinatari che vi abitano; non ha pertanto
rilievo la circostanza che la relazione di notifica, redatta
dall’ufficiale giudiziario, non contenga l’attestazione del
mancato rinvenimento delle persone abilitate a ricevere
l’atto e delle loro vane ricerche;
- l’adempimento costituito dall’invio della raccomandata di
avviso previsto dal 6º comma dell’art. 7 cit. -rispetto al
quale non possono ravvisarsi profili di illegittimità
costituzionale, trattandosi di valutazione riservata al
legislatore- è elemento essenziale del procedimento di
notificazione, che deve quindi considerarsi nullo se il
piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza
del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al
destinatario stesso mediante lettera raccomandata; in tal
caso, infatti, la mancata attestazione della spedizione
della lettera raccomandata prevista dal più volte menzionato
art. 7 costituisce non una mera irregolarità, ma un vizio
dell’attività dell’agente postale che determina, fatti salvi
gli effetti della consegna dell’atto all’ufficiale
giudiziario, la nullità della notificazione nei riguardi del
destinatario.
---------------
8. L’appello è irricevibile.
In considerazione dei principi elaborati dalla sentenza
dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2015 (circa la tassonomia
delle questioni che devono essere decise dal giudice
amministrativo), in ordine logico è prioritario l’esame
dell’eccezione di irricevibilità del gravame che, in quanto
fondata, esime il Collegio, ex art. 49, co. 2, c.p.a.,
dall’affrontare il tema della difettosa integrazione del
contraddittorio per mancata notificazione dell’appello, da
parte della società Ma., nei confronti di tutte le imprese
aggiudicatarie dei restanti lotti.
8.1. In fatto giova premettere quanto segue.
L’impugnata sentenza è stata avviata per la notificazione
alla Ma. dal difensore della Fe., ex lege n. 53 del 1994, in
data 13.05.2015 per il tramite di Poste italiane.
Dall’avviso di ricevimento redatto dall’agente postale si
evince che:
- il plico recante la copia conforme della sentenza è stato
consegnato in data 15.05.2015 al portiere (che ha
sottoscritto per ricevuta) dello stabile dove era ubicato lo
studio del difensore domiciliatario della ditta Ma. per il
giudizio di primo grado (quale risultante del resto dalla
medesima sentenza impugnata), stante l’assenza del
destinatario e delle altre persone abilitate a ricevere il
plico;
- l’agente postale ha spedito in pari data (15.05.2015)
raccomandata recante comunicazione dell’avvenuta notifica;
- l’atto di appello proposto dalla ditta Ma. è stato
notificato a mezzo posta dal difensore, sempre ex lege
n. 53 del 1994, in data 18.06.2015.
8.2. La difesa della ditta Ma., per superare l’eccezione di
tardività del gravame, ha sostenuto la tesi secondo cui la
notificazione della sentenza nei confronti della propria
assistita sarebbe nulla, perché l’agente postale non avrebbe
indicato il numero della raccomandata spedita per comunicare
l’avvenuta notifica.
8.3. La tesi è inaccoglibile, alla stregua della
ricostruzione in fatto operata al precedente § 8.1. nonché
dei principi elaborati dalla giurisprudenza sul punto
controverso (cfr. Cass. civ. [ord.], sez. VI, 31.07.2015, n.
16289; Cass. civ., sez. lav., 13.03.2013, n. 6345; Cass.
civ., sez. III, 04.12.2012, n. 21725 ; Cass. sez. lav.,
29.08.2011, n. 17733 cui si rinvia a mente dell’art. 120, co.
10, c.p.a.).
Per tale giurisprudenza, in particolare, qualora il
difensore proceda alla notificazione di atti processuali
avvalendosi del servizio postale ai sensi dell’art. 2, l. n.
53 del 1994, trovano applicazione, per l’art. 3, co. 3,
della medesima legge, le disposizioni degli artt. 4 e ss.
della l. n. 890 del 1982.
Ai sensi dell’art. 149, u.c., c.p.c., in linea generale la
notificazione a mezzo del servizio postale si perfeziona per
il destinatario «dal momento in cui lo stesso ha la
legale conoscenza dell’atto».
La legale conoscenza dell’atto si ha con il perfezionamento
delle procedura di notificazione, ovvero con il
completamento di tutti gli adempimenti richiesti dalla legge
come essenziali.
Ai sensi dell’art. 7 della l. n. 890 del 1982, in caso di
notifica a mezzo del servizio postale (e per quanto di
interesse):
- l’avviso di ricevimento prova, fino a querela di falso, la
consegna al destinatario, a condizione che l’atto sia stato
consegnato presso il suo indirizzo e che il consegnatario
abbia apposto la propria firma, ancorché illeggibile o
apparentemente apocrifa, nello spazio dell’avviso relativo
alla «firma del destinatario o di persona delegata»,
risultando irrilevante, in quanto non integra una nullità ex
art. 160 c.p.c., la mancata indicazione dell’indirizzo del
destinatario sulla ricevuta di ritorno;
- è valida la notificazione a mezzo posta effettuata nelle
mani del portiere dello stabile, ex art. 7 cit., qualora
l’agente postale gli abbia consegnato il plico raccomandato
nell’assenza del destinatario e in mancanza delle altre
persone indicate nel 2º comma del suddetto articolo,
dovendosi presumere, fino a prova contraria, che tra le
mansioni del custode del fabbricato rientri la distribuzione
della posta ai destinatari che vi abitano; non ha pertanto
rilievo la circostanza che la relazione di notifica, redatta
dall’ufficiale giudiziario, non contenga l’attestazione del
mancato rinvenimento delle persone abilitate a ricevere
l’atto e delle loro vane ricerche;
- l’adempimento costituito dall’invio della raccomandata di
avviso previsto dal 6º comma dell’art. 7 cit. -rispetto al
quale non possono ravvisarsi profili di illegittimità
costituzionale, trattandosi di valutazione riservata al
legislatore- è elemento essenziale del procedimento di
notificazione, che deve quindi considerarsi nullo se il
piego viene consegnato al portiere dello stabile in assenza
del destinatario e l’agente postale non ne dà notizia al
destinatario stesso mediante lettera raccomandata; in tal
caso, infatti, la mancata attestazione della spedizione
della lettera raccomandata prevista dal più volte menzionato
art. 7 costituisce non una mera irregolarità, ma un vizio
dell’attività dell’agente postale che determina, fatti salvi
gli effetti della consegna dell’atto all’ufficiale
giudiziario, la nullità della notificazione nei riguardi del
destinatario.
In base alle norme ed ai principi su richiamati, deve
escludersi che sia elemento essenziale del procedimento di
notificazione in esame l’indicazione, nell’avviso di
ricevimento, del numero della raccomandata spedita
dall’agente postale.
Sotto tale profilo è irrilevante, contrariamente a quanto
affermato dalla difesa della ditta Ma., che, nel particolare
caso di specie, sugli altri avvisi di ricevimento della
sentenza impugnata (in particolare quello alla società
mandate Vi. & Ca.) sia stato indicato il numero della
raccomandata.
Conseguentemente, in base al combinato disposto degli artt.
92, co. 1, e 119, co. 1, lett. a) e co. 2, c.p.a., l’atto di
appello è stato proposto oltre il termine perentorio
dimidiato di 30 giorni, decorrente dalla rituale
notificazione dell’impugnata sentenza effettuata alla ditta
Ma. in data 15.05.2015.
9. In conclusione l’appello deve essere dichiarato
irricevibile (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.12.2015 n. 5456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Il
datore di lavoro non va esente da responsabilità in caso di
caduta conseguente a malore.
In tema di infortuni sul
lavoro, non occorre, per configurare la responsabilità del
datore, che sia integrata la violazione di specifiche norme
dettate per la prevenzione degli infortuni stessi, essendo
sufficiente che l’evento dannoso si verifichi a causa
dell’omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti
imposti all’imprenditore dall’art. 2087 cod. civ. ai fini
della più efficace tutela dell’integrità fisica del
lavoratore, con la conseguenza che ricadono sul datore di
lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed
accorgimenti, anche quei rischi derivanti da cadute
accidentali, stanchezza, disattenzione o malori comunque
inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta svolgendo.
---------------
2. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono infondati in
quanto muovono
da un'interpretazione della sentenza non coerente con il
testo della motivazione.
2.1. E' bene sottolineare che la condotta colposa ascritta a
Mi.Br. era descritta nel capo d'imputazione, oltre che
in termini di colpa
generica, anche quale specifica violazione della regola
cautelare posta
dall'art. 11, comma 7, lett. d), d.P.R. 27.04.1955, n. 547,
a mente del quale
<Quando i lavoratori occupano posti di lavoro all'aperto,
questi devono essere
strutturati, per quanto tecnicamente possibile, in modo tale
che i lavoratori non
possano scivolare o cadere>, per avere il datore di lavoro
permesso che il
Br. lavorasse in piedi su una trave di cemento armato
posta ad
un'altezza di m. 1,47 dal piano del solaio ed avente una
larghezza di m. 0,30
omettendo di strutturare il posto di lavoro in modo tale che
il lavoratore non
potesse scivolare o cadere.
Tale obbligo era stato, quindi,
specificato nella
sentenza di primo grado in termini di omesso utilizzo di
scarpe antiscivolamento
e casco protettivo, nonché in termini di utilizzo di un
cordolo non munito di
alcuna protezione da cadute con una base dì appoggio di
appena m. 0,30 sulla
quale il lavoratore doveva effettuare le operazioni con le
braccia alzate.
2.2. La Corte territoriale, in replica a specifico motivo di
gravame, ha
richiamato il punto della decisione di primo grado in cui si
era sostenuto che
l'esecuzione dell'opera commissionata al lavoratore
infortunato avrebbe dovuto
indurre il responsabile a predisporre adeguate opere
provvisionali (ponteggi) ai
sensi dell'art. 16 d.P.R. 07.01.1956, n. 164 per evitare
il rischio di cadute
dall'alto in quanto il lavoratore doveva operare con le
braccia alzate ad un'altezza di tre metri.
Tale richiamo è
stato, tuttavia, operato al solo fine di
evidenziare che la normativa richiamata dall'appellante
(art. 107 d.Lgs. 09.04.2008, n. 81) era entrata in vigore successivamente
all'infortunio. L'erronea
interpretazione dell'art. 16 d.P.R. n. 164/1956 come norma
applicabile alla
lavorazione in esame, considerando l'altezza di tre metri
alla quale erano le
braccia del lavoratore, non ha avuto influenza sul
dispositivo e può essere
emendata mediante soppressione ai sensi dell'art. 619, comma
1, cod. proc. pen..
2.3. Se è, infatti, vero che la necessità di predisporre un
ponteggio nel caso
in esame non avrebbe potuto comunque desumersi da una
precisa previsione
normativa, non essendo applicabile l'art. 16 d.P.R. 07.01.1956, n. 164 che
disciplinava i lavori eseguiti ad un'altezza superiore ai 2
metri, deve sottolinearsi
che la censura, seppure suggestiva, trascura gli altri
profili di colpa presi in
esame dal giudice di merito e richiamati a pag. 3 della
sentenza impugnata, ossia
l'omessa predisposizione di scarpe antiscivolamento e di una
base di appoggio
idonea ad evitare perdite di equilibrio.
Il giudice di primo
grado aveva, peraltro,
rimarcato che l'infortunato non portava casco protettivo né
abbigliamento da
lavoro (scarpe antiscivolamento) e che il cordolo sul quale
egli era salito non era
munito di alcuna protezione da eventuali cadute, mentre il
lavoro da eseguire
comportava una situazione di instabilità dell'operatore
anche in relazione alla
larghezza della base d'appoggio, pari a 30 centimetri.
La
decisione risulta,
dunque, immune da erronea applicazione della normativa
antinfortunistica in
vigore all'epoca dell'infortunio, non dovendosi sovrapporre
l'obbligo di
predisposizione di idonei ponteggi per i lavori da eseguire
ad un'altezza superiore
ai due metri al più generale obbligo, regolarmente indicato
nel capo
d'imputazione, di strutturare il posto di lavoro in modo da
evitare scivolamenti o
cadute.
2.4. Tale regola cautelare è, peraltro, rispondente ai
generali principi di
diligenza e di prudenza, che impongono a chiunque assuma, in
qualsiasi
momento ed in qualsiasi occasione, una posizione di garanzia
rispetto ad
un'attività di lavoro, di operare per prevenire ogni
prevedibile ed evitabile rischio
e per garantire la sicurezza del luogo di lavoro. Invero,
entrambe le regole
cautelari menzionate (art. 11, comma 7, lett. d), d.P.R.
n. 547/55 e art. 16 d.P.R.
n. 164/1956) possono riferirsi a lavori non eseguiti ad altezza
d'uomo, bensì ad
un'altezza dal suolo -qualunque essa sia- che ne renda più
difficile e rischiosa
l'esecuzione, tanto da rendere necessario il ricorso a
misure capaci di prevenire il
rischio di cadute.
Il diverso ambito di operatività di tali
regole non concerne,
pertanto, la sussistenza o meno dell'obbligo di protezione
gravante sul datore di
lavoro in caso di lavorazioni, ove svolte ad altezza
inferiore ai due metri dal suolo, quanto piuttosto il tipo
di opere provvisionali e di sistemi di protezione da
predisporre in rapporto all'altezza alla quale si svolge la
lavorazione.
2.5. L'individuazione della regola cautelare che l'imputato
avrebbe dovuto
rispettare risulta, peraltro, frutto di un ragionamento
coerente anche rispetto
all'evento che l'osservanza di tale regola avrebbe dovuto
evitare, ossia la caduta
del lavoratore.
La Corte territoriale ha, in proposito,
rimarcato che la morte di
Br.Gu. era stata causata da un grave trauma
cranico e che non vi
fosse prova certa che la caduta fosse conseguenza di un
malore piuttosto che
della perdita di equilibrio o di scivolamento.
Contrariamente a quanto dedotto nel
ricorso, non è dunque certo che la caduta del lavoratore sia
stata causata da
malore.
Pleonastica, e comunque inidonea a scardinare la
congruità della
motivazione, risulta l'affermazione secondo la quale <la
predisposizione di
misure di protezione (realizzazione di un ponteggio) avrebbe
evitato l'evento
mortale in caso di caduta a seguito di malore>, fondandosi
in ogni caso la
decisione sull'assunto che di tale malore non fosse stata
fornita prova certa.
2.6. E' bene, in ogni caso, ricordare che, in tema di
infortuni sul lavoro, non
occorre, per configurare la responsabilità del datore, che
sia integrata la
violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione
degli infortuni stessi,
essendo sufficiente che l'evento dannoso si verifichi a
causa dell'omessa
adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti
all'imprenditore dall'art.2087
cod. civ. ai fini della più efficace tutela dell'integrità
fisica del lavoratore (Sez. 4,
n. 4917 del 01/12/2009, dep. 2010, Filiasi, Rv. 246643; Sez.
4, n. 13377 del
28/09/1999, Bassi, Rv. 215537); con la conseguenza che
ricadono sul datore di
lavoro, che abbia omesso di adottare tali misure ed
accorgimenti, anche quei
rischi derivanti da cadute accidentali, stanchezza,
disattenzione o malori
comunque inerenti al tipo di attività che il lavoratore sta
svolgendo (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 26.11.2015 n.
46979). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze tra costruzioni, la Cassazione sui fondi con
dislivelli.
In caso di modifica al piano di campagna, l’altezza del muro
di confine va misurata computandovi il terrapieno creato
artificialmente.
In tema di muri di cinta tra fondi a
dislivello, qualora l'andamento altimetrico del piano di
campagna -originariamente livellato sul confine tra due
fondi- sia stato artificialmente modificato mediante la
realizzazione di un innalzamento del piano di campagna
stessa, al fine di verificare se sia rispettata l'altezza
massima del muro di cinta che sia stato costruito sul
confine, l'altezza va misurata computandovi il terrapieno
creato ex novo dall'opera dell'uomo, e quindi tenendo conto
dell'originario posizionamento del terreno prima
dell'innalzamento.
---------------
2. - Con il secondo motivo (erronea applicazione di norme di
legge; erronea e contraddittoria motivazione; erronea
valutazione di un elemento essenziale attinente alle
risultanze istruttorie) ci si duole che la Corte d'appello
abbia ritenuto illegittima l'altezza del muro di recinzione
perché, pur realizzato all'altezza prevista dalla norma
all'epoca in vigore, questa sarebbe stata calcolata rispetto
alla nuova situazione di fatto derivante dalla mutazione del
piano di campagna.
Il motivo si conclude con il quesito "se dall'esecuzione
di opere di livellamento dà fondi limitrofi, con alterazione
degli originari piani di campagna, derivi il conseguente
obbligo di limitare l'altezza dei muri di confini in
relazione al dislivello raggiunto dai fondi a seguito del
mutamento del piano di campagna".
2.1. - Il motivo è infondato.
In tema di muri di cinta tra fondi a dislivello, qualora
l'andamento altimetrico del piano di campagna
-originariamente livellato sul confine tra due fondi- sia
stato artificialmente modificato mediante la realizzazione
di un innalzamento del piano di campagna stessa, al fine di
verificare se sia rispettata l'altezza massima del muro di
cinta che sia stato costruito sul confine, l'altezza va
misurata computandovi il terrapieno creato ex novo
dall'opera dell'uomo, e quindi tenendo conto dell'originario
posizionamento del terreno prima dell'innalzamento (cfr.
Cass., Sez. Il, 24.06.2003, n. 9998; Cass., Sez. Il,
04.06.2010, n. 13628) (Corte di Cassazione, Sez. II, civile,
sentenza 24.11.2015 n. 23934). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può configurarsi come elemento meramente
accessorio dell'edificio, la realizzazione di una canna
fumaria, che, pur non consistendo in opere murarie, in
quanto realizzata in metallo od altro materiale, vada a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore, ciò
comportando una modifica del prospetto e della sagoma del
fabbricato cui inerisce, riconducendosi tale intervento
nell'ambito delle opere di ristrutturazione edilizia di cui
all'art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia), realizzate mediante inserimento di nuovi
elementi ed impianti, assoggettato al regime del permesso di
costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello
stesso D.P.R.”.
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato
anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in
cotto.
Né peraltro, la costruzione di canne
fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella
disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che
le stesse producono una modifica dei prospetti
dell’edificio.
---------------
Non appare rilevante, in favore del
ricorrente, il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso
ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è
subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti
giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso
di un significativo intervallo temporale tra la
realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e
sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche
che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera
ragionevolmente certa la colpevole inerzia
dell’amministrazione.
Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal
ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta
nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul
piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei
suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza
dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche
implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in
occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di
altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di
specie, non può sostenersi essersi verificata.
---------------
L’attribuzione all’opera (abusiva)
contestata di un nome diverso da quello in concreto
pertinente, non è da sola sufficiente per compromettere la
legittimità dell’atto sanzionatorio, soprattutto laddove, al
di là del profilo nominalistico, l’amministrazione ne
individui esattamente la collocazione, la consistenza, i
materiali e le caratteristiche. Nel caso specifico, non vi
sono dubbi né contestazioni sull’esatta identificazione di
questi elementi.
----------------
La consistenza e la natura dei due
manufatti difformi dalla licenza di costruzione non possono
che risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione
all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi
preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i
soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del
ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono
obiettivamente destituite di fondamento.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 21 del 28.11.2012
del Dirigente del settore, notificata il successivo 6
dicembre, con cui si intima la demolizione di opere
asseritamente abusive.
...
6.- I tre motivi di censura possono essere trattati
congiuntamente, in relazione agli evidenti profili di
connessione argomentativa negli stessi presenti.
6.1.- Va, in primo luogo, smentita la premessa dalla quale
poi generano le molteplici censure a vario titolo sollevate
dal ricorrente, ossia le modeste dimensioni della canna
fumaria.
Come rilevato dal sopralluogo dell’U.T.C., condotto in data
19.05.2012 –che si ritiene opportuno riportare
integralmente- risultano i seguenti manufatti: “A margine
dell'ala del piano seminterrato posta in aggetto alla
facciata est del fabbricato per civile abitazione
strutturato su quattro livelli, risulta ubicata una canna
fumaria che si eleva per circa ml. 3,00 sul terrazzo a
livello del piano rialzato, distante dalla facciata circa mt.
4,10. Su tale facciata risultano esposte ad altezza
superiore rispetto alla sommità della canna fumaria ed in
direzione della stessa, una finestra appartenente al primo
piano ed un'altra appartenente al secondo piano. I piani
seminterrato e rialzato costituiscono l'appartamento abitato
dal sig. De Si. come sopra generalizzato.
La suddetta canna fumaria, rivestita con scaglie di pietra,
si erge, come già accennato, a margine del terrazzo lato est
del piano rialzato incastonata nel parapetto che delimita il
terrazzo; ai lati della canna fumaria si elevano sul
parapetto, due pilastrini rivestiti con mattoncini di cotto
di altezza circa mt. 1,50 mentre altri due risultano
posizionati ai margini ed in aderenza alla parete
retrostante; sulla sommità dei suddetti pilastrini e nella
parte alta della canna fumaria risulta ancorata tramite
traverse, una tettoia di legno lamellare reticolare priva di
copertura, costituente ingombro di superficie circa mq. 20.”.
Quanto sopra lascia intendere che l’opera, per la superficie
che occupa e per l’altezza che sviluppa non può essere
minimizzata. In ogni caso, a prescindere dalle dimensioni,
la stessa è conseguente ad una evidente intervento in
difformità ad una licenza di costruzione.
6.2.- E’ quindi applicabile, al caso di specie,
quell’orientamento giurisprudenziale (Tar Venezia, sez. II,
825/2013) secondo cui “non può
configurarsi come elemento meramente accessorio
dell'edificio, la realizzazione di una canna fumaria, che,
pur non consistendo in opere murarie, in quanto realizzata
in metallo od altro materiale, vada a soddisfare esigenze
non precarie del costruttore, ciò comportando una modifica
del prospetto e della sagoma del fabbricato cui inerisce,
riconducendosi tale intervento nell'ambito delle opere di
ristrutturazione edilizia di cui all'art. 3, comma 1, lett.
d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), realizzate
mediante inserimento di nuovi elementi ed impianti,
assoggettato al regime del permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso D.P.R.”
(cfr. anche, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 4005/2012).
Va peraltro aggiunto che la canna fumaria ha comportato
anche opere murarie, essendo stata rivestita con mattoni in
cotto.
6.3.- Né peraltro, la costruzione di canne
fumarie della specie è suscettibile di rientrare nella
disciplina della c.d. SCIA o DIA, dovendo considerarsi che
le stesse producono una modifica dei prospetti
dell’edificio.
Ciò è tanto più rilevante sotto il profilo urbanistico ove
si consideri che il comune di Trecase è incluso nell’ambito
del Piano Territoriale Paesistico dell’area Vesuvio, di cui
al decreto ministeriale 14.12.1995, redatto ai sensi
dell'art. 1-bis della legge 08.08.1985 n. 431.
Nello specifico, come emerge dalla stessa relazione peritale
di parte, la proprietà del ricorrente ricade in zona R.U.A.
(Recupero Urbanistico-Edilizio Restauro
Paesistico-Ambientale), con possibilità di interventi di
ristrutturazione edilizia e di adeguamento
igienico-sanitario e tecnologico delle unità abitative.
Quest’ultima circostanza, tuttavia, non è comunque idonea a
superare l’esigenza, anche ai fini del rispetto dei vincoli
paesaggistico-ambientali, di ottenere il preventivo
nullaosta, laddove, com’è accaduto, si verifichino
alterazioni prospettiche e volumetriche rispetto al
preesistente stato dei luoghi.
6.4.- Né, in favore del ricorrente, appare
rilevante il tempo trascorso tra l’accertamento dell’abuso
ed il suo compimento.
In simili ipotesi, la tutela dell'affidamento del privato è
subordinata al rigoroso accertamento dei suoi presupposti
giustificativi. A questo fine, non è sufficiente il decorso
di un significativo intervallo temporale tra la
realizzazione dell'abuso e l’intervento repressivo e
sanzionatorio dell’amministrazione, ma è necessario anche
che l’interessato adempia all’onere di rilevare in maniera
ragionevolmente certa la colpevole inerzia
dell’amministrazione.
Quest’ultimo aspetto è stato soltanto menzionato dal
ricorrente, con riferimento ad una segnalazione, avvenuta
nel 1996, per un intervento di manutenzione ordinaria sul
piano seminterrato, ma di fatto risulta non dimostrato nei
suoi certi contenuti.
A tacere la considerazione che la presenza
dell'opera realizzata deve essere stata ritenuta, anche
implicitamente, regolare dalla stessa amministrazione in
occasione dell'esame di precedenti pratiche edilizie, o di
altre attività amministrative, circostanza che, nel caso di
specie, non può sostenersi essersi verificata
(TAR Umbria, Perugia, sez. I, 21.01.2010, n. 23).
6.5.- Non risolutiva appare poi la censura relativa
all’erronea qualificazione che il comune avrebbe formulato
sull’altro manufatto, indicato erroneamente come “tettoia”,
in luogo del più appropriato “pergola pompeiana”.
L’attribuzione all’opera contestata di un
nome diverso da quello in concreto pertinente, non è da sola
sufficiente per compromettere la legittimità dell’atto
sanzionatorio, soprattutto laddove, al di là del profilo
nominalistico, l’amministrazione ne individui esattamente la
collocazione, la consistenza, i materiali e le
caratteristiche. Nel caso specifico, non vi sono dubbi né
contestazioni sull’esatta identificazione di questi
elementi.
Sicché la censura non può essere seguita.
7.- Infine, con il quarto motivo il ricorrente censura, in
via subordinata, la violazione dell’art. 12 Legge n. 47/1985
e dell’art. 34 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere per
difetto di motivazione, lo sviamento nella forma sintomatica
dell’ingiustizia manifesta.
Nell’ipotesi in cui si ritenga che le opere realizzate siano
comunque soggette al controllo dell’amministrazione
comunale, il ricorrente si duole del fatto che quest’ultima
non avrebbe comunque valutato l’incidenza della disposta
demolizione sull’intera struttura né avrebbe in alcun modo
esaminato l’eventualità di applicare, in luogo della più
invasiva misura demolitoria, una sanzione pecuniaria, come
espressamente contemplato dall’art. 12 L. n. 47/1985,
recepito dall’art. 34 d.p.r. 380/2001.
La censura non può essere presa in considerazione.
Come appurato in esito all’esame delle precedenti censure,
la consistenza e la natura dei due manufatti
difformi dalla licenza di costruzione non possono che
risolversi nella loro rimozione, ciò in relazione
all’accertata modifica dei prospetti e dei volumi
preesistenti e di quelli autorizzati.
Tra l’altro, poiché è chiaro che la rimozione riguarda i
soli manufatti abusivi e non il resto, le preoccupazioni del
ricorrente in ordine alle ricadute sullo stabile appaiono
obiettivamente destituite di fondamento.
8.- Per quanto sopra, il ricorso va respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 23.11.2015 n. 5424 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni culturali. Tutela delle pertinenze.
Sono oggetto di tutela non solo gli immobili considerati
nella loro struttura edilizia, ma anche le cose che,
costituendone pertinenza, contribuiscono a salvaguardare
l'interesse storico ed artistico del bene.
---------------
1. Il ricorso è
infondato.
Occorre osservare, con riferimento al primo motivo di
ricorso, che, per quanto è dato rilevare dal ricorso e dalla
sentenza impugnata, unici atti ai quali questa Corte ha
accesso, il nuraghe nei pressi del quale sono stati eseguiti
gli interventi in contestazione rientra tra i beni culturali
di cui all'art. 10, comma 1, d.lgs. 42/2004, il quale
individua, tra detti beni culturali, le cose immobili e
mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri
enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed
istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine
di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico.
Tali beni sono sottoposti alle disposizioni del d.lgs.
42/2004 fino a quando non sia stata effettuata la verifica
dell'interesse culturale di cui all'art. 12, garantendone
così la tutela. L'esito positivo della verifica equivale
alla dichiarazione di interesse culturale del bene.
L'art. 169 del d.lgs. 42/2004 considera quattro diverse
condotte costituenti reato e già previste dall'articolo 59
della legge 1089/1939 e poi dall'articolo 118 del
d.lgs. 490/1999. Quella contemplata dal comma 1, lett. a),
contestata agli odierni ricorrenti, prende in considerazione
la condotta di chiunque, senza autorizzazione demolisca,
rimuova, modifichi, restauri ovvero, senza approvazione,
esegua opere di qualunque genere sui beni culturali indicati
nell'articolo 10.
2. I destinatari del precetto vanno quindi individuati non
solo nei soggetti proprietari del bene vincolato o negli
altri soggetti ad essi equiparabili, ma anche in coloro che,
con la propria condotta, anche in concorso con altri,
possono materialmente incidere sulla cosa protetta o
comunque trasgredire le prescrizioni indicate.
Il reato, considerata la sua natura, è stato collocato tra i
reati formali di pericolo presunto e si perfeziona con la
sola realizzazione degli interventi non autorizzati,
indipendentemente dal pregiudizio arrecato al bene tutelato
e dal conseguimento della prescritta autorizzazione in un
momento successivo all'esecuzione delle opere, sempre che
sussista un minimo di idoneità offensiva della condotta tale
da incidere sul bene tutelato, nel senso della diminuzione
del godimento estetico complessivo.
3.
La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di
precisare, sotto la vigenza della legge 1089/1939, che sono
oggetto di tutela non solo gli immobili considerati nella
loro struttura edilizia, ma anche le cose che, costituendone
pertinenza, contribuiscono a salvaguardare l'interesse
storico ed artistico del bene
(Sez. 3, n. 6295 del
10/04/1997, Franceschetti, Rv. 208692; Sez. 2, n. 7622 del
27/02/1986 - dep. 25/07/1986, Simoni, Rv. 173415; Sez. 3, n.
11927 del 29/10/1985, Pisano, Rv. 171323).
Tali principi, ad avviso del Collegio, paiono senz'altro
condivisibili, atteso che consentono un'adeguata protezione
dell'immobile di interesse culturale considerato nel suo
complesso, sebbene debba tenersi conto della possibilità di
imposizione dei vincoli di tutela indiretta di cui
all'articolo 45 del D.Lv. 42/2004 (già previsti dall'
articolo 21 legge 1089/1939).
4. L'articolo 45, comma 1, d.lgs. 42/2004 stabilisce, come è
noto, che il competente Ministero ha facoltà di prescrivere
le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare
che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali
immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne
siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.
Si fa in tal caso riferimento ad una ipotesi di «tutela
indiretta», in quanto il provvedimento di prescrizione
incide su beni diversi da quelli tutelati, ma con specifiche
finalità di conservazione di questi ultimi, con particolare
riferimento alla «cornice ambientale», in modo tale da
evitare ogni alterazione dell'insieme delle caratteristiche
fisiche e culturali che caratterizzano lo spazio circostante
al monumento.
5. Quanto sopra scongiura il rischio, paventato dai
ricorrenti, di una incerta estensione dell'ambito di
operatività dell'art. 169 d.lgs. 42/2004, poiché è evidente
che il riferimento alle pertinenze implica necessariamente
un collegamento oggettivo e funzionale al bene vincolato,
come peraltro è dimostrato dal contenuto delle richiamate
decisioni, le quali riguardano le parti mobili di una «stube»,
la sostituzione di sporti in ferro con altri di alluminio
anodizzato e la realizzazione abusiva di opere su cantoria
in legno sovrapposta alla struttura edilizia.
6. Tenuto conto di quanto appena osservato, occorre
considerare la fattispecie in esame.
Come si è detto, secondo la prospettazione dei ricorrenti,
ricavabile dai motivi di ricorso, il vincolo culturale
opererebbe esclusivamente con riferimento al nuraghe
isolatamente considerato, mancando ogni verifica preventiva
dell'interesse culturale dell'area, che (pag. 3 del ricorso)
viene descritta come «area di sedime distante diverse decine
di metri dal limite del fortilizio».
Di diverso avviso sono, invece, i giudici del gravame, i
quali intendono estesa la tutela anche a quest'area.
Si legge nella sentenza impugnata (pag. 9) che i limiti
dell'area di interesse archeologico erano stati
preventivamente individuati dalla sovrintendenza con
rilevamento mediante GPS e riportati sulle carte di
progetto; che tale area consiste in quella circostante al
nuraghe, caratterizzata anche dalla presenza di pietre
rappresentati i resti di una possibile «muraglia
perimetrale» del nuraghe e che, vicino e sotto alcune
pietre, erano stati rinvenuti frammenti di ceramica
risalenti all'epoca in cui sul sito era stato edificato un
insediamento romano alto medievale.
La Corte territoriale, inoltre, ricorda che l'art. 49 del
piano paesaggistico regionale prescrive anche, per i beni
archeologici, una fascia di rispetto di almeno cento metri
dai margini.
7. Le considerazioni svolte dai giudici dell'appello non
sembrano dunque sconfinare in una arbitraria estensione
dell'ambito di efficacia del vincolo, risultando, piuttosto,
il risultato di un accertamento in fatto che pone in
evidenza come l'area interessata dall'intervento costituisca
con il nuraghe un unico complesso.
Le conclusioni in fatto cui perviene la Corte territoriale
sono sorrette da motivazione priva di cedimenti logici o
manifeste contraddizioni e, in quanto tali, non censurabili
in questa sede ed il complessivo ed univoco percorso
giustificativo seguito non verrebbe comunque intaccato dal
fatto, diffusamente segnalato dai ricorrenti, che la
citazione di un brano della motivazione della sentenza del
giudice amministrativo (Cons. Stato Sez. 6 n. 457 del
02/02/2015) non sarebbe pertinente.
Il motivo di ricorso è dunque infondato.
8. Ad identiche conclusioni deve pervenirsi per ciò che
concerne il secondo motivo di ricorso.
Va ricordato, a tale proposito, che la Legge 308/2004 (c.d.
Legge - delega ambientale), apportando consistenti modifiche
all'articolo 181 d.lgs. 42/2004 ha, tra l'altro, previsto la
possibilità di una valutazione postuma della compatibilità
paesaggistica di alcuni interventi definibili come «minori»,
all'esito della quale, pur mantenendo ferma l'applicazione
delle misure amministrative pecuniarie previste
dall'articolo 167, non si applicano le sanzioni penali
stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal
primo comma dell'articolo 181.
Gli interventi suscettibili di «sanatoria» riguardano, come
stabilito dal comma 1-ter, i lavori, realizzati in assenza o
difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi,
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica e lavori configurabili
quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria
ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380. Tali interventi possono, come
si è detto, essere definiti "minori", in quanto
caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto
sull'assetto del territorio vincolato rispetto agli altri
considerati nella medesima disposizione di legge.
La procedura per il conseguimento della valutazione postuma
di compatibilità paesaggistica è disciplinata dal comma
1-quater del menzionato articolo 181, il quale dispone che
il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi in
questione deve presentare apposita domanda all'autorità
preposta alla gestione del vincolo, la quale si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della soprintendenza, da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni.
9. La Corte territoriale ha, nella fattispecie, escluso che
la determinazione dirigenziale 2373/2010 emessa dal Servizio
Tutela paesaggistica dell'Assessorato regionale Enti Locali
consista in un accertamento di compatibilità paesaggistica,
riguardando la sola estinzione del procedimento
sanzionatorio di cui all'art. 167 d.lgs. 42/2004.
L'assunto viene però contestato dai ricorrenti, i quali,
riproducendo testualmente parte del menzionato
provvedimento, ritengono che lo stesso abbia effettivamente
comportato una efficace e valida valutazione di
compatibilità paesaggistica, idonea, pertanto, a produrre
gli effetti estintivi invocati.
Va tuttavia rilevato che secondo la giurisprudenza di questa
Corte (Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011 (dep. 2012), Falconi e
altri, Rv. 251640; Sez. 3, n. 27750 del 27/05/2008, Sarro e
altro, Rv. 240822),
il mero rilascio della valutazione
paesaggistica all'esito della menzionata procedura non
determina automaticamente la non punibilità in ordine al
reato contestato, dovendo essere sempre accertata dal
giudice la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto
legittimanti la «sanatoria».
Tale verifica è stata evidentemente effettuata dai giudici
del merito mediante valutazione in fatto, sulla base della
documentazione nella loro disponibilità e non accessibile a
questa Corte, che non può essere messa in discussione in
questa sede, sostanzialmente sollecitando un analogo
giudizio da parte del giudice di legittimità, peraltro sulla
base della parziale trascrizione del contenuto di un unico
atto amministrativo
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
11.11.2015 n. 45149 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La condotta colposa
del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza
all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie
concesse dagli strumenti
urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a
tecnici qualificati e che
non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad
esempio, l'erronea
convinzione che un determinato intervento non necessiti di
specifico titolo
abilitativo.
---------------
7. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il secondo
motivo di ricorso.
Va a tale proposito ricordato come questa Corte abbia già
specificato (Sez. 3,
n. 23998 del 12/05/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che
la condotta colposa
del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza
all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie
concesse dagli strumenti
urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a
tecnici qualificati e che
non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile, ad
esempio, l'erronea
convinzione che un determinato intervento non necessiti di
specifico titolo
abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del
02/05/1988, Rurali, Rv.
178593).
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità
dell'errore sulla legge penale
non si configura quando l'agente svolge una attività in uno
specifico settore,
rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza
sulla normativa esistente
(Sez. 5, n. 22205 del 26/02/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez.
3, n. 1797 del
16/01/1996, Lombardi, Rv. 205384).
Tale onere di informazione non può ritenersi superato per la
sola esistenza
dei provvedimenti amministrativi, menzionati dai ricorrenti,
in presenza di un
consolidato indirizzo giurisprudenziale che escludeva, come
si è visto, la possibilità di ristrutturazione dei ruderi e
che la Corte territoriale ha giustamente
posto in evidenza, unitamente all'inosservanza del
richiamato onere di
informazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.11.2015 n. 45147 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disposta misura repressivo-ripistinatoria
perde la propria efficacia in seguito alla presentazione
dell’istanza di sanatoria.
Nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame– in cui,
successivamente all’emissione di un’ordinanza di
demolizione, e prima della proposizione del ricorso
giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli
abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab
origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad
ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento
repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente
inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di
accertamento di conformità obbliga, infatti,
l’amministrazione comunale a riattivare comunque il
procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata
insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex
art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il
diniego oppostogli.
---------------
Come evidenziato retro, in narrativa, sub n. 4, dopo
l’emissione del provvedimento repressivo-ripristinatorio, e
prima dell’esperimento dell’impugnazione, Gr.Lu. e Gr.An., in data 28.01.2014 (prot. n. 3095),
hanno rassegnato al Comune di Aversa domanda di sanatoria ex
art. 37 del d.p.r. n. 380/2001.
Al riguardo, il Collegio ritiene di dover aderire al
consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la
disposta misura repressivo-ripistinatoria perde la propria
efficacia in seguito alla presentazione dell’istanza di
sanatoria (cfr., ex multis, Const. Stato, sez. IV, 26.06.2007, n. 3569; sez. VI, 12.11.2008, n. 5646;
07.05.2009, n. 2833; 26.03.2010, n. 1750; sez. V, 28.06.2012, n. 3821; sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; 21.10.2013, n. 5115, 21.10.2013, n. 5090; sez. V, 17.01.2014, n. 172; TAR Campania, Napoli, sez. VI,
05.03.2008,
n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n.
3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n.
5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV,
26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315;
07.11.2008, n. 19352;
sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211;
sez. IV, 13.03.2014, n. 1517 e n. 1519; Salerno, sez. I,
23.05.2014, n. 981; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258;
04.03.2014, n. 697; TAR Piemonte,
Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; 15.05.2014, n.
885; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Umbria, Perugia, 28.02.2014, n. 149; 19.12.2014, n. 625; TAR Marche,
Ancona, 07.07.2014, n. 699; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 12.08.2014, n. 1359; TAR Molise, Campobasso, 11.12.2014, n. 691).
Ed invero, nella specie, la richiesta di riesame
dell’abusività degli interventi eseguiti ha comportato la
formazione di un nuovo provvedimento espresso di rigetto, il
quale è valso comunque a superare la precedente ingiunzione
a demolire, cosicché l’amministrazione comunale è rimasta
obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con
l’assegnazione di un ulteriore termine per adempiere.
Ciò posto, nell'ipotesi –quale, appunto, quella in esame–
in cui, successivamente all’emissione di un’ordinanza di
demolizione, e prima della proposizione del ricorso
giurisdizionale, sia avanzata domanda di sanatoria degli
abusi edilizi contestati, è da reputarsi esulante ab
origine, in capo alla parte ricorrente, l’interesse ad
ottenere l’annullamento dell’impugnato provvedimento repressivo-ripristinatorio, reso ormai irreversibilmente
inefficace e ineseguibile.
Come dianzi osservato, il rigetto dell’avanzata domanda di
accertamento di conformità obbliga, infatti,
l’amministrazione comunale a riattivare comunque il
procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata
insanabilità delle opere, così concentrandosi l’interesse ex
art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sull’azione avverso il
diniego oppostogli (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli,
sez. VII, 05.06.2009, n. 3105; sez. III, 18.06.2009,
n. 3354; sez. VII, 02.07.2009, n. 3673; 09.07.2009, n.
3829; sez. IV, 15.11.2013 n. 5114; sez. VIII, 09.01.2014, n. 63;
07.02.2014, n. 883; 14.05.2014, n. 2668; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1455;
09.04.2009, n. 605; TAR Piemonte, Torino,
sez. I, 16.04.2014, n. 617; TAR Emilia Romagna, Parma, 09.07.2014, n. 274; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
05.08.2014, n. 2132; TAR Liguria, Genova, sez. II, 03.09.2014, n. 1336; TAR Umbria, Perugia,
03.12.2014, n. 590)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per consolidata
giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo
edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere
complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua
disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere
controversie circa i diritti reali su di esso vantati da
terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo,
quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di
legittimazione formalmente idoneo.
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a
integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità
dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali
fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza,
dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai
terzi controinteressati.
---------------
I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come,
appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia
richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto
richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente
confliggente posizione di qualificata disponibilità
dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo
che questi, sulla base di detta posizione, ove
incontroversa, abbiano manifestato il proprio dissenso.
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al
pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare
domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario
dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp.
artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma
1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione
non solo in presenza di una domanda avanzata dal
proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui
l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda
avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una
volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle
relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva
(afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia
dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa,
cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente).
E tanto è coerente con la diversa ottica dei due
procedimenti: l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del
d.p.r. n. 380/2001, presuppone necessariamente la verifica
della posizione giuridica che consente la legittima
esplicazione del ius aedificandi e, come tale, sottende un
rapporto qualificato di disponibilità con l’immobile;
l’altro, disciplinato dai successivi artt. 36 e 37,
presuppone, invece, un abuso commesso e, quindi, ben può
riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un
collegamento soggettivamente qualificato non già con
l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con
la possibilità di sanarne gli effetti.
---------------
6. Osserva,
innanzitutto, il Collegio che, in sede di presentazione
della domanda di sanatoria ex art. 37 del d.p.r. n.
380/2001, prot. n. 3095, del 28.01.2014, Gr.Lu.
e Gr.An. hanno allegato, oltre alla planimetria
catastale, quale titolo di proprietà, copia del testamento
pubblico dell’11.02.1999, rep. n. 34, col quale Ma.An. ha lasciato loro in legato “la porzione
della casa colonica sita in Aversa con ingresso dal viale
Kennedy, n. 39/A, costituita da un appartamento al piano
terra e da un appartamento al primo piano, individuata in
catasto al foglio 5, particella 707, sub 6 e 7, con la
proprietà esclusiva della corte annessa attualmente
recintata”.
Ebbene, a fronte del titolo di legittimazione esibitogli,
avente per oggetto l’immobile attinto dalle opere contestate
(cfr. retro, in narrativa, sub n. 2), il resistente Comune
di Aversa ha esorbitato dai propri poteri istruttori, avendo
svolto, in assenza di formali e specifiche contestazioni da
parte dei terzi controinteressati (non rinvenibili ex actis),
ulteriori e autonome indagini circa la sussistenza di
diritti vantati da questi ultimi (sul punto, cfr. Cons.
Stato, sez. V, 15.03.2001, n. 1507; TAR Trentino Alto
Adige, Trento, 04.11.2003, n. 376; TAR Piemonte,
Torino, sez. I, 16.12.2003, n. 1801; 24.03.2004, n.
500) ed avendo annesso rilievo indebitamente preclusivo ad
una controversa civilistica con i medesimi insorta (sul
punto, cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., 19.04.2002, n. 199; TAR Campania, Salerno, sez. II, 17.11.2003, n. 1536).
In questo senso, giova rammentare che, per consolidata
giurisprudenza, in sede di rilascio di un titolo abilitativo
edilizio, l'amministrazione comunale non è tenuta a svolgere
complesse indagini sulle vicende dell’immobile e sulla sua
disponibilità in capo al richiedente ovvero a risolvere
controversie circa i diritti reali su di esso vantati da
terzi, restando tali diritti comunque salvi ed essendo,
quindi, sufficiente l'esibizione di un titolo di
legittimazione formalmente idoneo (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. V, 07.07.2005, n. 3730; 07.09.2007, n.
4703; 07.09.2009, n. 5223; 24.03.2011, n. 1770;
sez. IV, 22.11.2013, n. 5563; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 28.04.2010, n. 1168; TAR Piemonte, Torino, sez.
I, 15.06.2010, n. 2841; TAR Campania, Napoli, sez. II,
18.11.2008, n. 19795; sez. VI, 03.12.2010, n.
26792; sez. VIII, 16.12.2010, n. 27527; sez. II, 31.07.2012, n. 3666; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 25.01.2012, n. 32; TAR Abruzzo, Pescara,
09.02.2012,
n. 52; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 26.03.2012, n.
328; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 27.09.2012, n.
1569; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 24.04.2013, n.
1150).
In altri termini, al Comune spetta soltanto la verifica, in
capo al richiedente, di un titolo sostanziale idoneo a
integrare la c.d. posizione legittimante, senza alcuna
ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori ostativi alla disponibilità
dell'immobile, salvo che, ovviamente, la sussistenza di tali
fattori ostativi non emerga, con pari grado di certezza,
dalle risultanze procedimentali eventualmente procurate dai
terzi controinteressati (nel caso in esame –come detto–
neppure attivatisi, se non nella presente sede processuale);
certezza che, all’evidenza, non sussiste in pendenza di un
contenzioso civile non ancora definito (cfr. TAR Sicilia,
Catania, sez. I, 15.09.2011, n. 2220), quale quello
evocato nella gravata nota del 18.12.2014, prot. n.
2949.
7. I superiori approdi valgono vieppiù, allorquando –come,
appunto, nella specie– il titolo abilitativo edilizio sia
richiesto in sanatoria.
In una simile ipotesi, rispetto alla posizione del soggetto
richiedente, si presenta recessiva la potenzialmente
confliggente posizione di qualificata disponibilità
dell’immobile da parte dei terzi controinteressati, salvo
che questi, sulla base di detta posizione, ove incontroversa
–e non è tale il caso di Ma.An. e di Ma.Al.–, abbiano manifestato il proprio dissenso –e
neppure tale è il caso di Ma.An. e di Ma.Al.– (cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 17.02.2012, n. 358).
Ed invero, l’art. 37, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, al
pari del precedente art. 36, comma 1, consente di presentare
domanda di sanatoria, oltre che al “proprietario
dell’immobile”, al mero “responsabile dell’abuso”.
La norma, a differenza di quanto previsto dal comb. disp.
artt. 11, comma 1, e 20, comma 1, nonché dall’art. 23, comma
1, del citato d.p.r. n. 380/2001, trova, cioè, applicazione
non solo in presenza di una domanda avanzata dal
proprietario o da altro titolare ad esso equiparabile, cui
l'abuso sia ascrivibile, ma anche in presenza della domanda
avanzata dal mero responsabile dell’abuso, il quale, una
volta sanato quest’ultimo, si gioverebbe dello sconto delle
relative misure sanzionatorie, penali e/o amministrative.
In altri termini, la conformità ex artt. 36, comma 1, e 37,
comma 4, del d.p.r. n. 380/2001 è soltanto oggettiva
(afferente, cioè, alla disciplina urbanistico-edilizia
dell’area di intervento), e non anche soggettiva (relativa,
cioè, alle condizioni legittimanti il richiedente). E tanto
è coerente con la diversa ottica dei due procedimenti:
l’uno, disciplinato dagli artt. 20 e 23 del d.p.r. n.
380/2001, presuppone necessariamente la verifica della
posizione giuridica che consente la legittima esplicazione
del ius aedificandi e, come tale, sottende un rapporto
qualificato di disponibilità con l’immobile; l’altro,
disciplinato dai successivi artt. 36 e 37, presuppone,
invece, un abuso commesso e, quindi, ben può riferirsi –come è paradigmatico dell'illecito– anche ad un
collegamento soggettivamente qualificato non già con
l’immobile, bensì con la vicenda generativa dell’abuso e con
la possibilità di sanarne gli effetti (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 196; TAR Puglia,
Bari, sez. III, 09.07.2011, n. 1057; Lecce, sez. III, 25.09.2014, n. 2409; TAR Liguria, Genova, sez. I, 19.03.2013, n. 486; 28.05.2014, n. 800; 26.02.2015, n. 235)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti non
autorizzata - Raccolta e trasporto di rifiuti in forma
ambulante - Artt. 256, 260 e 266 D.Lgs. 152/2006.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Motivazione circa il periculum
in mora - Esclusione - Sequestro preventivo preordinato alla
confisca obbligatoria.
La condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256,
comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del
prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra
quelle assentibili ai sensi del citato d.lgs., artt. 208,
209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216, svolta anche di fatto o
in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una
attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità (Cass., sez. 3,
24/06/2014, n. 29992); la deroga prevista dal d.lgs. n. 152
del 2006, art. 266, comma 5, per l'attività di raccolta e
trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma
ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il
soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per
l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai
sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di
rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
In merito alla motivazione circa il periculum in
mora, la stessa è superflua, trattandosi di sequestro
preventivo preordinato alla confisca obbligatoria del mezzo
di trasporto, ai sensi dell'art. 260-ter, comma 5, del
d.lgs. n. 152 del 2006.
---------------
Nota di commento
REATI AMBIENTALI – Attività di gestione di rifiuti non
autorizzata – Raccolta e trasporto di rifiuti in forma
ambulante – Artt. 256, 266 D.Lgs. 152/2006.
Il caso
Il Tribunale di Chieti rigettava l’appello cautelare
avanzato da C.V. –indagato per il reato di cui all’art. 256
comma I D.L.vo 152/2006– avverso l’ordinanza con cui il
Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale
aveva a sua volta rigettato l’istanza di revoca del
sequestro preventivo di un autocarro.
Avverso tale decisione ricorreva per Cassazione l’indagato,
deducendo un unico motivo di gravame afferente l’erronea
applicazione della disposizione incriminatrice oggetto di
contestazione, lamentando come il Tribunale non aveva
considerato che egli svolgeva attività di robivecchi, non
rientrante nell’alveo della gestione di rifiuti ma in quella
di commercio ambulante per il quale aveva regolare
autorizzazione.
Il discrimine tra la raccolta ed il
trasporto di rifiuti in forma ambulante e la gestione di
rifiuti non autorizzata
I Giudici della Terza Sezione della Suprema Corte hanno
ritenuto corretta la valutazione sulla cui scorta il
Tribunale è addivenuto al rigetto dell’appello cautelare,
ritenendo configurata l’ipotesi di reato di gestione abusiva
di rifiuti: in effetti l’attività concretamente svolta dal
ricorrente non è quella, come asserito nel motivo di
doglianza, di robivecchi –che, effettivamente, resterebbe
sottratta alla disciplina generale dei rifiuti stante la sua
minima pericolosità per la salute e per l’ambiente– ma
quella di trasporto abusivo di rifiuti, trattandosi
addirittura di una tonnellata di rottami metallici di
variegata natura, assolutamente inutilizzabili in mancanza
della prescritta autorizzazione.
Sul punto, la Corte Regolatrice ha richiamato la consolidata
giurisprudenza di legittimità, secondo cui la condotta
sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, è
riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto
titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle
assentibili ai sensi del citato d.lgs., artt. 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216, svolta anche di fatto o in modo
secondario o consequenziale all’esercizio di una attività
primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei
titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da
occasionalità.
La deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 266,
comma 5, per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera
qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività
commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano
oggetto del suo commercio (ex plurimis, Cass. Pen.,
Sez. III, 24/06/2014, n. 29992, rv. 260266) (Corte
di Cassazione, Sez. III,
sentenza 04.11.2015 n. 44471 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Ricorre
la presupposizione, o condizione non espressa, quando una
determinata situazione, di fatto o di diritto, passata,
presente o futura, di carattere obiettivo -la cui esistenza,
cessazione e verificazione sia del tutto indipendente
dall'attività o dalla volontà dei contraenti e non
costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione-
debba ritenersi, pur in mancanza di un espresso riferimento
ad essa nelle clausole contrattuali, essere stata tenuta
presente dai contraenti medesimi nella formazione del loro
consenso, come presupposto avente valore determinante ai
fini dell'esistenza e del permanere del vincolo
contrattuale.
Così intesa, la presupposizione assume rilevanza giuridica,
determinando l'invalidità o la risoluzione del contratto,
quando la situazione presupposta, passata o presente, in
effetti non sia mai esistita e, comunque, non esista al
momento della conclusione del contratto, ovvero quando
quella contemplata come futura (ma certa) non si verifichi.
---------------
Va ricordato che l'indagine diretta a stabilire se una
determinata situazione di fatto o di diritto, esterna al
contratto, sia stata tenuta presente dai contraenti nella
formulazione del consenso, secondo lo schema della
presupposizione si esaurisce nell'interpretazione del
contratto e costituisce, pertanto, un accertamento di fatto
riservato al giudice del merito, incensurabile in sede di
legittimità, se, come in specie, immune da vizi logici e
giuridici.
---------------
I motivi di ricorso principale, che per la loro connessione
possono essere esaminati congiuntamente, sono entrambi
infondati.
Ricorre la presupposizione, o condizione
non espressa, quando una determinata situazione, di fatto o
di diritto, passata, presente o futura, di carattere
obiettivo -la cui esistenza, cessazione e verificazione sia
del tutto indipendente dall'attività o dalla volontà dei
contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica
obbligazione- debba ritenersi, pur in mancanza di un
espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali,
essere stata tenuta presente dai contraenti medesimi nella
formazione del loro consenso, come presupposto avente valore
determinante ai fini dell'esistenza e del permanere del
vincolo contrattuale.
Così intesa, la presupposizione assume
rilevanza giuridica, determinando l'invalidità o la
risoluzione del contratto, quando la situazione presupposta,
passata o presente, in effetti non sia mai esistita e,
comunque, non esista al momento della conclusione del
contratto, ovvero quando quella contemplata come futura (ma
certa) non si verifichi
(cfr.: cass. civ., sez. 1^, sent. 11.03.2006, n. 5390; cass.
civ., sez. 1^, sent. 21.11.2001, n. 14629; cass. civ., sez.
2^, sent. 24.03.1998, n. 3083).
Su tali principi l'impugnata sentenza ha basato la sua
decisione allorché ha ritenuto, attraverso l'esame della
volontà delle parti, che esse avevano stipulato il contratto
preliminare tenendo presente la situazione, considerata per
certa, della possibilità di edificare sul terreno promesso
in vendita.
Ed invero, dopo avere sottolineato che con il contratto le
parti avevano pattuito la stipula del rogito di vendita del
fondo entro e non oltre 30 giorni dalla licenza di
lottizzazione del restante terreno ad ovest di quello
promesso in vendita, al cui rilascio il venditore era stato
incaricato dal fratello, e la concessione su detto restante
terreno di una incondizionata servitù di transito carraio su
strada, park, uso reti fogna, acqua, sip, gas, enel, verde,
ecc. in favore del fondo oggetto del preliminare, ha
desunto, da tale regolamentazione negoziale non solo che era
pacifico che il terreno costituente il fondo servente
sarebbe stato lottizzato a scopo edificatorio, ma anche che
analoga lottizzazione le parti avevano prevista per il fondo
dominante, giacché la natura delle servitù concesse non
poteva trovare giustificazione nella sola volontà di
garantire uno spazio di aria e di verde intorno
all'abitazione del promissario, ma assumeva un significato
soltanto in previsione della realizzazione di strade e di
allacciamenti primari e dello sfruttamento (ai fini della
cubatura) di eventuali spazi verdi esistenti sul fondo
servente.
Ha poi aggiunto che tanto il prezzo pattuito per l'acquisto,
corrispondente al valore di un terreno edificabile e non a
destinazione agricola, quanto la previsione, in caso di
inadempienza del promittente, di una rivalutazione del
prezzo versato in base esclusivamente al valore di mercato
dei nuovi alloggi abitabili non avrebbero avuto senso se le
parti non avessero presupposto una possibilità di
edificazione, successivamente non verificatasi non essendo
stata consentita la lottizzazione.
Per il resto va ricordato che l'indagine
diretta a stabilire se una determinata situazione di fatto o
di diritto, esterna al contratto, sia stata tenuta presente
dai contraenti nella formulazione del consenso, secondo lo
schema della presupposizione si esaurisce
nell'interpretazione del contratto e costituisce, pertanto,
un accertamento di fatto riservato al giudice del merito,
incensurabile in sede di legittimità, se, come in specie,
immune da vizi logici e giuridici,
e che è inammissibile, in sede di ricorso per Cassazione,
una censura relativa alla violazione dei canoni di
ermeneutica contrattuale, qualora la parte ricorrente si
limiti, come in specie, a riportare nella rubrica gli artt.
1362 c.c., e segg., senza specificare le ragioni e il modo
in cui si sarebbe realizzata l'asserita violazione
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.11.2006 n. 24295). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
In tema di rapporti giuridici sorti da contratto,
la cosiddetta "presupposizione" deve intendersi come figura
giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare
forma di "condizione", da considerarsi implicita e,
comunque, certamente non espressa nel contenuto del
contratto e, dall'altro, alla stessa "causa" del contratto,
intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il
contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta
dunque affidato all'interpretazione della volontà
contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai
termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime
stipulato.
Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione
tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si
evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non
espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione
del medesimo, quale presupposto imprescindibile della
volontà negoziale, venga successivamente mutata dal
sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti
stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai
loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una
base diversa da quella in forza della quale era stata
convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la
risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'articolo 1467
cod. civ..
---------------
Il motivo non è fondato.
Ed invero, rileva questo Collegio che, accertato
correttamente che nel caso di specie è intercorso tra le
parti un rapporto contrattuale di affitto parziale del
manufatto canale di carico del molino di proprietà M., con
concessione al Consorzio di immettervi le proprie acque
derivate direttamente dal fiume Tenna a scopo irriguo, il
Tribunale di Fermo ha rigettato l'appello proposto dal M.,
avendo ritenuto in applicazione dell'art. 1463 c.c., che il
Consorzio era stato "liberato dalla propria prestazione
per impossibilità sopravvenuta relativa alla prestazione di
controparte" e, quindi, non "tenuto al pagamento del
canone", stante il fatto che in altra causa pendente tra
le stesse parti dinanzi al Tribunale delle acque era rimasto
comprovato che anteriormente al 1988 l'erosione del letto
del fiume suddetto aveva determinato un dislivello di circa
tre metri rispetto alla originaria imboccatura del canale in
questione, con la conseguenza che quest'ultimo era divenuto
totalmente inadeguato a captare l'acqua del fiume stesso.
Tale motivazione deve ritenersi erronea in punto di diritto.
Ed infatti, nella specie va considerato inconferente il
riferimento all'ipotesi normativa di cui all'art. 1463 c.c.,
in quanto, dovendo derivare l'assoluta impossibilità della
prestazione a carico del ricorrente da causa a lui non
imputabile, cioè da una causa obiettiva estranea alla sua
volontà, caso fortuito o forza maggiore (v. Cass. Civ., sez.
2^, 05.04.1975, n. 1221), l'abbassamento del letto fluviale
non può farsi rientrare in tali categorie, non traducendosi
in un impedimento assoluto, tale cioè da non poter essere
rimosso in alcun modo.
L'erroneità della motivazione in punto di diritto non tocca
peraltro la correttezza della decisione finale in ordine al
rigetto dell'appello, per cui, ai sensi dell'art. 384 c.p.c.,
comma 2, compete a questa Corte la correzione della
motivazione stessa. Nel senso, cioè, che a fondamento di
quest'ultima debba porsi una analisi logico-giuridica delle
risultanze processuali che sia ispirata dai
principi propri della c.d. "presupposizione",
intesa questa come figura giuridica che, da un lato, si
avvicina ad una particolare forma di "condizione" da
considerarsi implicita e comunque certamente non espressa
nel contenuto del contratto e, dall'altro lato, alla stessa
"causa" del contratto, intendendosi per causa la
funzione tipica in concreto che il contratto è destinato a
realizzare.
E' evidente che il rilievo della "presupposizione"
resta affidato all'interpretazione della volontà
contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai
termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime
stipulato.
L'orientamento giurisprudenziale di questa
S.C. in materia di "presupposizione" si individua nel
senso di ritenerla configurabile tutte le volte in cui dal
contenuto del contratto si evinca che una situazione di
fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle
parti in sede di stipulazione del medesimo, quale
presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga
successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non
imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che
costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a
trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza
della quale era stata convenuta l'operazione negoziale
(cfr. ex multis, Cass. Civ., sez. 1^, 21.11.2001, n.
14629), così da comportare la risoluzione
del contratto stesso ex art. 1467 c.c.
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 24.03.2006 n. 6631). |
AGGIORNAMENTO AL 09.12.2015 |
ã |
IN EVIDENZA |
Luoghi di culto in Lombardia: il Consiglio di Stato
sconfessa il TAR Lombardia-Brescia.
Anche senza
opere edilizie, il cambio d'uso (da negozio a luogo
di culto) richiede il rispetto del c.d. Piano dei
servizi, anche a prescindere dalla sussistenza della
condizione rappresentata dall’accesso indiscriminato
a tutti i fedeli interessati, e del pur necessario
titolo edilizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi degli art. 71, comma 1, c-bis) e 72 L.R. n.
12/2005 Lombardia, l’installazione di attrezzature
per servizi religiosi in immobili destinati a sede
di associazioni le cui finalità siano da ricondurre
alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano
dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza
della condizione rappresentata dall’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati.
Inoltre, che nel caso di specie il mutamento della
destinazione d’uso (da negozio a luogo destinato al
culto) è avvenuto in assenza del pur necessario
titolo edilizio.
---------------
... per la riforma dell'ordinanza
31.07.2015 n. 1506
del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA, resa
tra le parti, concernente ripristino originale
destinazione d'uso a negozio nei locali di via
Tremana 11, Bergamo;
...
- Considerato che ai sensi degli art. 71, comma 1,
c-bis) e 72 L.R. n. 12/2005 Lombardia,
l’installazione di attrezzature per servizi
religiosi in immobili destinati a sede di
associazioni le cui finalità siano da ricondurre
alla religione richiede il rispetto del c.d. Piano
dei servizi, anche a prescindere dalla sussistenza
della condizione rappresentata dall’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati;
- ritenuto, inoltre, che nel caso di specie il
mutamento della destinazione d’uso (da negozio a
luogo destinato al culto) è avvenuto in assenza del
pur necessario titolo edilizio;
- ritenuto, pertanto, che l’appello proposto dal
Comune meriti accoglimento, con conseguente rigetto
dell’istanza cautelare proposta in primo grado;
- ritenuto che sussistono i presupposti per
compensare le spese della fase cautelare;
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta)
Accoglie l'appello (Ricorso numero: 8729/2015) e,
per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata,
respinge l'istanza cautelare proposta in primo
grado.
Ordina che a cura della segreteria la presente
ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita
fissazione dell'udienza di merito ai sensi dell'art.
55, comma 10, cod. proc. amm.
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 25.11.2015 n. 5254 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
destinazione ad attività di culto di un locale, la
quale impone il rispetto delle pertinenti previsioni
urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in cui al
locale stesso sia permesso l’accesso indiscriminato
a tutti i fedeli interessati.
Questo appare non essere il caso, poiché da un lato
gli agenti di Polizia Locale non hanno rilevato sul
posto alcun afflusso di persone, dall’altro lato,
come dichiarato alla camera di consiglio dal
responsabile della comunità, al momento l’accesso al
locale è riservato ai soci dell’associazione e, come
da contratto allegato 3 alla citata relazione, la
destinazione al culto è configurata come futura ed
eventuale, subordinata all’ottenimento degli assensi
amministrativi necessari.
Pertanto il fumus del ricorso sussiste, nel senso
che allo stato non può impedirsi che gli associati
all’ente ricorrente, nominativamente individuati,
accedano alla struttura per professarvi il culto
religioso da loro scelto, con esclusione del
pubblico accesso.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensiva, del
provvedimento 24.02.2015 prot. n. U0036176,
notificato alla ricorrente in data 06.03.2015, con
la quale il Dirigente del servizio interventi
edilizi e gestione del territorio del Comune di
Bergamo ha ordinato, fra gli altri, al legale
rappresentante della Missione della Chiesa di
Scientology delle Orobie di ripristinare nei locali
siti in Bergamo, alla via Tremana civico 11 la
originaria destinazione di uso a negozio;
...
Rilevato:
- che l’associazione ricorrente, di carattere
religioso, insorge contro il provvedimento di cui
meglio in epigrafe, con il quale si è vista imporre
lo sgombero dai locali in questione, sul presupposto
che negli stessi si svolga attività di culto (doc. 1
ricorrente, copia ordinanza);
- che tale apprezzamento si fonda su un sopralluogo
effettuato in data 27.01.205, il cui tenore è
ricostruibile dalla conseguente relazione di
servizio del 05.02.2015, prodotta dal Comune il
24.07.2015;
- che la destinazione ad attività di culto di un
locale, la quale impone il rispetto delle pertinenti
previsioni urbanistiche, si ravvisa nel solo caso in
cui al locale stesso sia permesso l’accesso
indiscriminato a tutti i fedeli interessati, così
come ritenuto, fra le molte, dalla sentenza della
Sezione 29.05.2013 n. 522, ove ulteriori rimandi;
- che questo appare non essere il caso, poiché da un
lato gli agenti operanti (v. rel. citata) non hanno
rilevato sul posto alcun afflusso di persone,
dall’altro lato, come dichiarato alla camera di
consiglio 04.06.2015 dal responsabile della
comunità, al momento l’accesso al locale è riservato
ai soci dell’associazione e, come da contratto
allegato 3 alla citata relazione, la destinazione al
culto è configurata come futura ed eventuale,
subordinata all’ottenimento degli assensi
amministrativi necessari;
- che pertanto il fumus del ricorso sussiste,
nel senso che allo stato non può impedirsi che gli
associati all’ente ricorrente, nominativamente
individuati, accedano alla struttura per professarvi
il culto religioso da loro scelto, con esclusione
del pubblico accesso;
- che le spese di fase seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione
Prima)
accoglie la suindicata istanza cautelare e per
l’effetto sospende il provvedimento 24.02.2015 prot.
n. U0036176 del Dirigente del servizio interventi
edilizi e gestione del territorio del Comune di
Bergamo. Spese di fase compensate. Fissa per la
trattazione del merito la pubblica udienza del
19.10.2016 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 31.07.2015 n. 1506 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa che si è pronunciata
su tale questione, ha in più occasioni affermato che
il computo del quantum della sanzione amministrativa
in relazione al “profitto conseguito” ex art. 167
dgs 42/2004 deve avvenire mediante una disamina
compiuta ed esaustiva della documentazione che si
profili utile al fine di ricostruire il vantaggio
economico che il trasgressore ha tratto
dall’illecito commesso e, pertanto, tale disamina
deve essere effettuata necessariamente avvalendosi
di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la
quantificazione operata possa essere oggetto di una
dimostrazione articolata ed analitica.
In particolare, la
giurisprudenza ha stabilito che il “profitto” non
può essere presunto, in quanto va identificato
nell’incremento del valore venale che gli immobili
acquistano per effetto della trasgressione,
incremento che viene determinato come differenza tra
il valore attuale ed il valore dell’immobile prima
dell’esecuzione delle opere abusive.
---------------
Il Tribunale deve innanzitutto osservare che la
nuova determinazione, da parte del Comune,
dell’importo della sanzione pecuniaria di cui
all’art. 167, comma 5, del D. lgs. n. 42 del 2004 da
irrogare agli ex committenti degli odierni
ricorrenti si fonda –come richiede espressamente la
citata disposizione– su una perizia di stima redatta
dalla “U.I. Tecnica del Settore Patrimonio del
comune di Bologna” (v. doc. n. 6 del Comune).
La tabella facente parte integrante della nuova
perizia evidenzia un calcolo del “maggiore
profitto”, asseritamente tratto dai proprietari
del fabbricato, per mezzo dell’abuso paesaggistico
in questione, ammontante ad €. 157.860,90 e, di
conseguenza, ridetermina in tale somma l’importo
della sanzione ex art. 167, comma 5, del D.Lgs. n.
42 del 2004.
A tale conclusione l’Ente perviene partendo dai
seguenti dati: a) un volume abusivo effettivamente
realizzato di mc. 199,23; b) un’altezza dei vani di
riferimento su cui calcolare la sanzione di m. 2,40
(corrispondente all’altezza dei vani accessori); c)
una superficie dichiaratamente qualificata “virtuale”,
calcolata in mq. 83,01, sulla base dei precedenti
dati di volume ed altezza; nonché d) il valore
unitario della superficie stimato in €/mq. 1.901,65.
Il ragionamento del Comune per pervenire, sulla base
di questi dati, a tale somma di “maggiore
profitto”, può essere sintetizzato riportando
quanto riferisce l’Ufficio comunale per la Tutela
del Paesaggio nella nota del 14/07/2015 diretta
al’Avvocatura comunale, secondo cui: “E’ evidente
che il poter sanare un aumento di 199,23 mc. ha
determinato un profitto che pur non consistendo al
momento in termini di superfici utili reali, si
realizza nel non aver demolito una struttura. In
condizioni normali, nel 2005, se i proprietari
avessero richiesto legittimamente la possibilità di
ispessire le strutture e quindi aumentare la sagoma
plani volumetrica, avrebbero potuto farlo chiedendo
prima le autorizzazioni necessarie (autorizzazione
paesaggistica e permesso di costruire).
Realizzandolo in assenza delle necessarie
autorizzazioni, ha comportato un abuso edilizio,
paesaggistico che per le modifiche introdotte nel
Codice dei Beni Culturali, non potevano essere
sanate in quanto comportante aumento di volumetria”.
Secondo il Comune, poi “E’ evidente che di fronte
alla scelta della demolizione in luogo del pagamento
della sanzione, come si è detto, per ragioni
tecnico–costruttive non si è potuto demolire il
volume abusivo e pertanto si è mantenuto
quell’aumento di volume che appunto costituisce il
maggior profitto sanzionato dalla norma.
L’ispessimento dei solai e con la conseguente
altezza del fabbricato, hanno potuto beneficiare di
un bonus volumetrico oggi quantificabile in nuova
superficie. Da tali premesse, i tecnici comunali
pervengono alla conclusione che “Il maggior
profitto” conseguito mediante la trasgressione è
costituito da un volume che, essendo aumentato,
rappresenta una potenzialità edificatoria diversa e
maggiore da quella che il proprietario avrebbe senza
abuso: con gli strumenti urbanistici attuali, in
caso di demolizione e ricostruzione, il trasgressore
potrà utilizzare la volumetria abusivamente
realizzata per ottenere superficie utile o
accessoria, ricostruire quindi un nuovo volume
trasformando le strutture portanti (il corpo "solido
cieco” descritto nel ricorso) in superficie. Ne
consegue che oggi l’aumento di 199,23 mc., potrebbe
potenzialmente diventare 83,01 mq. di superficie
accessoria o mq. 73,79 di superficie utile.”.
Il Tribunale ritiene che le
suddette considerazioni portate a supporto
motivazionale della nuova determinazione della
sanzione siano condivisibili unicamente riguardo a
parte di quanto contenuto nelle premesse, ma
certamente non per quanto concerne le ulteriori
considerazioni svolte, con particolare riferimento
alle conclusioni alle quali la civica
amministrazione erroneamente perviene.
La parte motiva del provvedimento che il Collegio
ritiene legittima è quella in cui, come si è detto,
il Comune rileva, quale unico parametro a
disposizione ai fini di determinare la sanzione
pecuniaria ex art. 167, comma 5, del D.lgs. n. 42
del 2004, quello del “maggior profitto”,
correttamente configurando ed adattando il parametro
espressamente indicato dalla norma al concreto,
specifico abuso da sanzionare, nonché quella parte
della motivazione nella quale il Comune,
contestualizzando altrettanto correttamente tale “maggiore
profitto” derivante dall’abuso solo volumetrico,
lo collega direttamente al solo effettivo, concreto
lucro tratto, nell’occasione, dai proprietari del
fabbricato. Secondo il Comune, infatti: “E’
evidente che il poter sanare un aumento di 199,23 mc
ha determinato un profitto che pur non consistendo
al momento in termini di superfici reali, si
realizza nel non avere demolito una struttura…”.
Pertanto, tale parte delle valutazioni svolte dal
Comune corrispondono pienamente sia alla lettera
che, soprattutto alla ratio della norma, la
quale, indicando il quantum di sanzione nel
maggiore importo tra danno paesaggistico derivante
dall’abuso e, appunto, il maggior profitto
conseguito dall’autore, si attiene a parametri
certamente connotati da concretezza ed attualità, di
modo che la sanzione pecuniaria irrogata, oltre che
a soddisfare i predetti requisiti, risulti altresì
proporzionata e comunque coerente con l’oggettiva
entità dell’abuso, nei suoi duplici riflessi
riferiti o al danno paesaggistico causato o al
concreto “maggior profitto” tratto dai
responsabili dell’abuso.
In conclusione, stante quanto dallo stesso Comune
rilevato, nella fattispecie in
esame, ove non può essere applicato il primo dei
parametri indicati dalla norma, non essendosi
verificato alcun danno paesaggistico
(v. il relativo specifico passaggio nella sentenza
di questo TAR n. 975 del 2014),
risulta del tutto condivisibile l’individuazione del
concreto profitto tratto dai proprietari
dell’edificio nel mancato esborso dell’importo
relativo ai costi della demolizione della sola opera
realizzata senza autorizzazione paesaggistica (costi
che dovranno essere ragguagliati all’anno 2005 in
cui tale operazione avrebbe dovuto essere
effettuata) e, quindi, senza tenere conto delle
altre parti dell’edificio realizzate legittimamente;
ciò anche ai fini equitativi e di necessaria
proporzionalità, non solo tra l’effettivo abuso
paesaggistico (minore) accertato e la corrispondente
sanzione pecuniaria da irrogare, ma anche fra
l’altra sanzione pecuniaria irrogata in riferimento
alla stessa opera in sede di sanatoria edilizia (€.
12.695,16) e quella che il Comune valuterà di
comminare quale “sanzione paesaggistica” in
esecuzione della presente decisione.
Per quanto riguarda, infine, l’ulteriore apparato
motivazionale a sostegno della nuova stima e le
conclusioni alle quali perviene –dopo le suesposte
corrette premesse- il Comune, il Collegio ritiene
che le stesse non siano assolutamente condivisibili,
risultando fondata, invece, la censura rassegnata
nei motivi aggiunti, con cui i ricorrenti rilevano
l’illegittimità della nuova sanzione per violazione
e falsa applicazione dell’art. 167, comma 5, del
D.Lgs. n. 42 del 2004.
Le conclusioni a cui perviene il Comune si pongono,
infatti, in chiaro contrasto con la lettera e la
ratio della più volte citata disposizione,
caratterizzata, appunto, da un concetto di “maggior
profitto” connotato da concretezza e da
attualità.
Tale contrasto si evidenzia soprattutto nell’avere
il Comune individuato detto profitto, che deriva,
come si è detto, da un abuso unicamente valutabile
in termini volumetrici, mediante la semplicistica
trasformazione di detto volume abusivo in superficie
dichiaratamente virtuale (seppure procedendo, in
quest’ultima stima, a determinare la superficie “virtuale”
con modalità diverse, come si è detto, da quelle
ritenute illegittime dal TAR con la citata decisione
n. 975 del 2014).
Ed ancor di più la nuova stima risulta in contrasto
con la norma, allorché l’amministrazione,
accorgendosi dell’arbitrarietà ed insostenibilità,
nella realtà, di un concetto di “profitto” in
tal modo elaborato, tenta di dare concretezza a
detta trasformazione, collegandola alla futura ed
eventuale realizzazione, ad opera dei proprietari,
di uno specifico intervento edilizio di completa
demolizione dell’edificio e successiva integrale
ricostruzione dello stesso. Solo a conclusione di
tale specifico e radicale intervento edilizio i
proprietari del fabbricato ricostruito potrebbero,
in teoria, utilizzare quella superficie divenuta
reale, che, in ogni altro caso, invece, rimarrebbe
inesorabilmente incorporata nel complessivo volume
del fabbricato originario.
Ma nonostante l’utilizzo di tale presunzione, la
tesi del Comune si rivela comunque incongrua ed
insufficiente al precisato scopo di dare concretezza
alla propria valutazione, cosicché l’ente ritiene di
potere sviluppare un’ulteriore presunzione,
ipotizzando, cioè, la vigenza di uno strumento
urbanistico le cui disposizioni, diversamente da
quanto ordinariamente avviene riguardo alle zone
tutelate sotto il profilo paesaggistico, consentono
la realizzazione proprio di tale specifico e
particolarmente impattante intervento di demolizione
e ricostruzione.
Risulta pertanto evidente, sulla base delle
considerazioni sopra esposte, quanto gran parte
della motivazione relativa all’irrogazione della
sanzione pecuniaria ex art. 167, comma 5, del D.Lgs.
n. 42 del 2004 sia lontana dalla lettera e dalla
ratio di tale norma, a contrario ponendosi, per
quanto detto, in palese contrasto con essa.
Anche la giurisprudenza
amministrativa che si è pronunciata su tale
questione, ha in più occasioni affermato che il
computo del quantum della sanzione
amministrativa in relazione al “profitto
conseguito,” deve avvenire mediante una disamina
compiuta ed esaustiva della documentazione che si
profili utile al fine di ricostruire il vantaggio
economico che il trasgressore ha tratto
dall’illecito commesso e, pertanto, tale disamina
deve essere effettuata necessariamente avvalendosi
di elementi oggettivi di valutazione, di modo che la
quantificazione operata possa essere oggetto di una
dimostrazione articolata ed analitica
(v. TAR Perugia, sez. I, 15/05/2015 n. 213; TAR
Lazio, sez. I-quater, 13/02/2009 n. 1450).
In particolare, la giurisprudenza
ha stabilito che il “profitto” non può essere
presunto, in quanto va identificato nell’incremento
del valore venale che gli immobili acquistano per
effetto della trasgressione, incremento che viene
determinato come differenza tra il valore attuale ed
il valore dell’immobile prima dell’esecuzione delle
opere abusive
(v. TAR Umbria sez. I. n. 213 del 15/05/2015 cit;
TAR Toscana, sez. III, 16/04/2012 n. 724).
Tanto basta ad avviso del Tribunale, per ritenere
fondata l’esaminata censura, stante l’accertato
ricorso, da parte del Comune, nella determinazione
impugnata a ben due presunzioni, peraltro non
riconducibili, in via diretta, all’abuso
paesaggistico sanzionato.
Pertanto, il ricorso per motivi aggiunti è accolto,
e, per l’effetto, è annullata la determinazione
della sanzione pecuniaria con esso impugnata, fatta
salva, comunque, la nuova perizia di stima che il
Comune dovrà redigere tenendo conto delle puntuali
indicazioni di cui sopra, con conseguente
rideterminazione, nei confronti dei soggetti
direttamente interessati, della sanzione pecuniaria
ai sensi dell’art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42
del 2004
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 27.11.2015 n. 1041 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
167 del d.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n.
1497/1939, divenuto poi art. 164 d.lgs. n. 490/1999)
va interpretato nel senso che l’indennità prevista
per abusi edilizi in zone soggette a vincoli
paesaggistici costituisce vera e propria sanzione
amministrativa (e non una forma di risarcimento del
danno) che, come tale, prescinde dalla sussistenza
effettiva di un danno ambientale.
E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica
applicabilità anche a tale sanzione del principio
contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo
cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le
violazioni amministrative punite con pena pecuniaria
si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno
in cui è stata commessa la violazione”;
disposizione, quest'ultima, applicabile, per
espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni
punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche
se non previste in sostituzione di una sanzione
penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione
pecuniaria.
Nell'applicare tale regola, con riguardo
all'individuazione del dies a quo della decorrenza
della prescrizione, occorre tener conto della
particolare natura degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove
consistano nella realizzazione di opere senza le
prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno
carattere di illeciti permanenti, sicché la
commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della
situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Al riguardo, questo tribunale ha più volte ritenuto
che “…il principio di autonomia delle due tipologie
di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato
nel menzionato precedente, deve essere inteso nel
senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso
edilizio non fa ex se venir meno la potestà
sanzionatoria per la diversa violazione
paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia
alcuna incidenza sulla permanenza della
violazione…(omissis)…con conseguente individuazione
del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la
violazione con l’emissione degli atti di sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va peraltro rilevato
che il Giudice Siciliano d’appello, con recente
decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la
sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo
all’orientamento adottato sia dal Consiglio di Stato
(decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle
Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n.
188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo,
ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il
quale “…il termine in questione deve ritenersi
coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel
tempo la illiceità del comportamento edilizio
osservato e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto
rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera
con gli assetti urbanistici e territoriali e fa
venir meno dunque la permanente illiceità che
l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; e
che “…appare conforme ad una più attenta
ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della
sanzione qui in discussione il momento della
intervenuta concessione edilizia…”.
---------------
F.1. – Per consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004
(già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164
d.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che
l’indennità prevista per abusi edilizi in zone
soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e
propria sanzione amministrativa (e non una forma di
risarcimento del danno) che, come tale, prescinde
dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale
(cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 28.07.2006, n.
4690; 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n.
7405; 12.11.2002, n. 6279).
E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da
questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a
tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28
della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a
riscuotere le somme dovute per le violazioni
amministrative punite con pena pecuniaria si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in
cui è stata commessa la violazione”;
disposizione, quest'ultima, applicabile, per
espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni
punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche
se non previste in sostituzione di una sanzione
penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche
agli illeciti amministrativi in materia urbanistica,
edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria
(v. anche TAR Sicilia, Sez. I, 23.07.2014, n. 1942;
13.05.2013, n. 1098).
Nell'applicare tale regola, con riguardo
all'individuazione del dies a quo della
decorrenza della prescrizione, occorre tener conto
della particolare natura degli illeciti in materia
urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove
consistano nella realizzazione di opere senza le
prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno
carattere di illeciti permanenti, sicché la
commissione degli illeciti medesimi si protrae nel
tempo, e viene meno solo con il cessare della
situazione di illiceità, vale a dire con il
conseguimento delle prescritte autorizzazioni (v.
Consiglio di Stato, 12.03.2009, n. 1464).
Al riguardo, questo tribunale, pur dando atto del
diverso orientamento assunto anche in tempi recenti
dal C.G.A. -secondo il quale “…la permanenza
cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in
alternativa, con il pagamento della sanzione
pecuniaria” (v. C.G.A. in sede giurisd.,
13.09.2011, n. 554)– ha più volte ritenuto che “…il
principio di autonomia delle due tipologie di
violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel
menzionato precedente, deve essere inteso nel senso
che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non
fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la
diversa violazione paesaggistica, ma non anche che
la stessa non abbia alcuna incidenza sulla
permanenza della violazione…(omissis)…con
conseguente individuazione del dies a quo nel
momento in cui viene eliminata la violazione con
l’emissione degli atti di sanatoria” (cfr. TAR
Sicilia, n. 1098/2013 cit.; nello stesso senso, TAR
Sicilia, n. 1942/2014 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va peraltro rilevato
che il Giudice Siciliano d’appello, con recente
decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la
sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo
all’orientamento adottato sia dal Consiglio di Stato
(decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle
Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n.
188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo,
ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il
quale “…il termine in questione deve ritenersi
coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel
tempo la illiceità del comportamento edilizio
osservato e cioè quello della intervenuta
concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto
rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera
con gli assetti urbanistici e territoriali e fa
venir meno dunque la permanente illiceità che
l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”;
e che “…appare conforme ad una più attenta
ricostruzione della disciplina giuridica da adottare
assumere quale dies a quo per la prescrizione della
sanzione qui in discussione il momento della
intervenuta concessione edilizia…” (cfr. C.G.A.
n. 123/2014 cit.).
Il Collegio ben conosce l’esistenza del precedente,
citato dalla difesa erariale (C.G.A. sentenza n.
143/2014 del 19.03.2014), di segno contrario alla
(coeva) sentenza n. 123/2014; ritiene, tuttavia, di
condividere, per le ragioni già espresse, la
ricostruzione della normativa operata nella citata
sentenza del C.G.A. n. 123/2014, confortato, sotto
tale profilo, dal consolidarsi del medesimo
orientamento, favorevole al privato, del Consiglio
di Stato, non ravvisando nuove ragioni per
discostarsi dal consolidato orientamento della
Sezione, ribadito anche con recentissime pronunce
(v.: pareri del Consiglio di Stato, Sez. II, n.
02091/2015 e data 16/07/2015, Adunanza di Sezione
del 17.06.2015, n. affare 01793/2014; n. 00909/2015
e data 24/03/2015, Adunanza di Sezione del
04.03.2015, n. affare 00479/2013; nonché: Consiglio
di Stato, Sez. VI, sentenza n. 4087 del 05.08.2013;
sentenze in forma semplifica di questa Sezione, n.
836/2015 e n. 812/1015; TAR Campania, Sez. VI,
13.02.2015, n. 1092)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 23.10.2015 n. 2645 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
PATRIMONIO:
E' illegittima la permuta di un terreno comunale a
trattativa privata.
In base al principio posto
dall’art. 41 del RD 827/1924 la trattativa privata
costituisce modalità di alienazione ammissibile solo
nei casi ivi espressamente previsti, casi tutti cui
certamente non può ascriversi quello in esame nel
quale si è alienato un terreno di proprietà
comunale.
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione
avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un
procedimento di evidenza pubblica tanto più che,
come riferisce lo stesso Comune, alla stessa
amministrazione comunale erano pervenute
relativamente al terreno di cui trattasi altre
istanze di acquisto da parte di diverso soggetto,
istanze che avrebbero richiesto un confronto
concorrenziale.
Lo stesso Regolamento comunale del resto conferma la
necessità dell’asta pubblica mentre l’art. 192
D.lgs. 267/2000 prescrive che la determina a
contrarre sia preceduta dall’indicazione delle
modalità di scelta del contraente ammesse dalle
disposizioni vigenti in materia di contratti delle
pubbliche amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2,
della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono
procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme sulla
contabilità generale degli enti locali, fermi
restando i principi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile e sempre che siano assicurati
criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti
proposte di acquisto, da definire con regolamento
dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di
alienazione non appare in linea con i principi
richiamati, stabiliti sia dalla legislazione
nazionale che dalla regolamentazione locale, in
quanto non risulta essere stata avviata alcuna
procedura di evidenza pubblica con adeguata
pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di
garantire la massima trasparenza e imparzialità
nella cessione del bene comunale.
---------------
... per l'annullamento:
- della nota prot. 9497 del 22.11.10, recante
comunicazione di indisponibilità alla stipula
dell'atto di permuta di suoli di cui alla delibera
consiliare n. 5/2007;
- della nota n. 10011 del 14.12.2010, recante
comunicazione di avvio del procedimento finalizzato
all’annullamento della prefata delibera consiliare.
...
1.- Con delibera consiliare n. 5 del 13.03.2007 il
Comune di Pimonte ha deciso di procedere, tra
l’altro, alla permuta di alcune aree di proprietà
comunale, nella specie un’area di mq. 103 con altra
di mq 80 di proprietà del sig. Ca.Ch., previa
corresponsione di un conguaglio di 1.186,50 euro da
parte del medesimo.
2.- A fronte della successiva richiesta del sig. Ch.
di dare seguito a tale delibera, il Comune -con nota
del 22.11.2010 prot. del responsabile dell’ufficio
Patrimonio- comunicava l’indisponibilità alla
permuta rilevando sia profili di illegittimità della
citata delibera n. 5/2007 che di inalienabilità del
bene attesa la sua vicinanza al depuratore pubblico.
3.- Avverso la nota il sig. Ch. ha svolto con il
ricorso in epigrafe le seguenti doglianze: ...
...
9.- Il ricorso non merita accoglimento.
Dalla richiamata delibera consiliare 5/2011, che ha
sospeso la delibera con cui era stata decisa la
cessione dell’area comunale, risultano –non essendo
oggetto di specifica contestazione da parte del
ricorrente– le seguenti circostanze:
- il regolamento comunale sui contratti (art. 54)
prevede che l’alienazione dei beni comunali avvenga
con il sistema dell’asta pubblica;
- antecedentemente alla citata delibera 5/2007, è
stata presentata per la stessa particella una
proposta di acquisto da parte di altro soggetto “ad
un prezzo uguale o maggiore”.
Fatte queste premesse, il Collegio rileva che in
base al principio posto dall’art. 41 del RD 827/1924
la trattativa privata costituisce modalità di
alienazione ammissibile solo nei casi ivi
espressamente previsti, casi tutti cui certamente
non può ascriversi quello in esame nel quale si è
alienato un terreno di proprietà comunale (cfr. Tar
Liguria n. 380/2008).
Nel caso di specie pertanto l'amministrazione
avrebbe dovuto correttamente ricorrere ad un
procedimento di evidenza pubblica tanto più che,
come riferisce lo stesso Comune, alla stessa
amministrazione comunale erano pervenute
relativamente al terreno di cui trattasi altre
istanze di acquisto da parte di diverso soggetto,
istanze che avrebbero richiesto un confronto
concorrenziale (cfr. per analogo indirizzo cfr.
ex multis Cons. Stato 338/2012).
Lo stesso Regolamento comunale (art. 58 su
richiamato) del resto conferma la necessità
dell’asta pubblica mentre l’art. 192 D.lgs. 267/2000
prescrive che la determina a contrarre sia preceduta
dall’indicazione delle modalità di scelta del
contraente ammesse dalle disposizioni vigenti in
materia di contratti delle pubbliche
amministrazioni.
A ciò si aggiunga che, in base all’art. 12, comma 2,
della l. n. 127/1997 i Comuni e le Province possono
procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme sulla
contabilità generale degli enti locali, fermi
restando i principi generali dell'ordinamento
giuridico-contabile e sempre che siano assicurati
criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti
proposte di acquisto, da definire con regolamento
dell'ente interessato.
Nella presente vicenda quindi la decisione di
alienazione non appare in linea con i principi
richiamati, stabiliti sia dalla legislazione
nazionale che dalla regolamentazione locale, in
quanto non risulta essere stata avviata alcuna
procedura di evidenza pubblica con adeguata
pubblicità da dare alla vendita del bene, al fine di
garantire la massima trasparenza e imparzialità
nella cessione del bene comunale.
Ne consegue che il diniego espresso dall’ufficio
Patrimonio risulta giustificato dall’applicazione
della normativa sopra richiamata.
Nel caso di specie, in presenza di atto
plurimotivato, la fondatezza di una delle
motivazioni è da sola idonea a sorreggerlo, con la
conseguenza che alcun rilievo avrebbero le ulteriori
censure volte a contestare gli ulteriori profili
della motivazione in quanto il rigetto della
doglianza volta a contestare una delle sue ragioni
giustificatrici comporta la carenza di interesse
della parte ricorrente all'esame delle ulteriori
doglianze volte a contestare le altre ragioni
giustificatrici.
In conclusione il ricorso viene respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 24.11.2015 n. 5456 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di
assentire varianti al progetto approvato.
La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti
in senso proprio, varianti essenziali e
varianti minime.
a) Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio,
deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione
originaria possono definirsi varianti e che queste si
configurano solo allorquando il progetto già approvato non
risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo
elaborato.
La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante
consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi
da prendere in considerazione, al fine di discriminare un
nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro
preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed
esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento –da rilasciarsi col medesimo
procedimento previsto per il rilascio del permesso di
costruire– rimane in posizione di sostanziale collegamento
con quello originario, e in questo rapporto di
complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la
caratteristica distintiva del permesso di costruire in
variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del
regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e
procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i
diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una
contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse
ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe
rendere irrealizzabile l'opera).
b) Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica
incompatibile col disegno globale ispiratore dell’originario
progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia
sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto,
soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata
dall’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il
mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione
degli standards, l’aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la
violazione delle norme vigenti in materia antisismica,
mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature
accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono,
dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al
rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e,
conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel
momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse,
solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare
un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali,
rispetto a quella originariamente assentita.
c) Caratteri peculiari presentano, infine,
le c.d. varianti minori.
In proposito, l’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001
prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le
varianti a permessi di costruire che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la
sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi
del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a. costituisce "parte integrante del
procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale" e può essere presentata prima
della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la
formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità
di dare corso alle opere in difformità dal permesso di
costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori,
purché si tratti –come si è visto– di ‘varianti leggere’.
---------------
1. Lamentano, innanzitutto, i nominati in epigrafe che
l’amministrazione resistente avrebbe disposto la gravata
misura repressivo-ripristinatoria senza previamente
rimuovere in autotutela gli effetti della d.i.a. del
06.05.2006, prot. n. 6238, in virtù della quale sarebbe
stato legittimato il contestato mutamento di destinazione
d’uso dei porticati/box auto e dei sottotetti-stenditoi
(cfr. relazione tecnica a corredo della menzionata d.i.a.,
esibita in giudizio il 21.10.2014), nonché senza previamente
verificare l’avvenuta presentazione o meno della stessa,
anche in contraddittorio con i soggetti interessati.
Tale ordine di doglianze si infrange contro le seguenti
argomentazioni, già propugnate in casi omologhi dalla
Sezione (cfr. sent. n. 3275 del 12.06.2014, n. 6080 del
26.11.2014, n. 6345 del 04.12.2014 e n. 1154 del
19.02.2015), dalle quali il Collegio non ritiene di doversi
discostare.
1.1. Giova, in primis, rammentare che la vigente
normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire
varianti al progetto approvato.
La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti
in senso proprio, varianti essenziali e
varianti minime (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007
n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236;
25.09.2012 n. 49290).
a) Per
quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio,
deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione
originaria possono definirsi varianti e che queste si
configurano solo allorquando il progetto già approvato non
risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo
elaborato.
La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante
consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi
da prendere in considerazione, al fine di discriminare un
nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro
preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la
volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le
caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed
esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento –da rilasciarsi col medesimo
procedimento previsto per il rilascio del permesso di
costruire– rimane in posizione di sostanziale collegamento
con quello originario, e in questo rapporto di
complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la
caratteristica distintiva del permesso di costruire in
variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del
regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e
procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i
diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una
contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse
ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe
rendere irrealizzabile l'opera).
b)
Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni
modifica incompatibile col disegno globale ispiratore
dell’originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto
qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto,
soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata
dall’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il
mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione
degli standards, l’aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la
violazione delle norme vigenti in materia antisismica,
mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature
accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono,
dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al
rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e,
conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel
momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse,
solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare
un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali,
rispetto a quella originariamente assentita.
c)
Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d. varianti
minori.
In proposito, l’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001
prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le
varianti a permessi di costruire che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la
sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi
del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a. costituisce "parte integrante
del procedimento relativo al permesso di costruzione
dell'intervento principale" e può essere presentata
prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la
formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità
di dare corso alle opere in difformità dal permesso di
costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori,
purché si tratti –come si è visto– di ‘varianti leggere’.
1.2. Ora, nella fattispecie in esame, le difformità
riscontrate dal Comune di Orta di Atella rientrano appieno
nel fuoco applicativo dell’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001 (“variazioni
essenziali”).
Trattasi, infatti, della trasformazione (non solo
funzionale, ma anche materiale) di 8 locali da porticati/box
auto e sottotetti-stenditoi ad appartamenti residenziali,
ossia di una significativa modifica al progetto originario,
in quanto incidente sulle destinazioni d’uso con aggravio
del carico urbanistico e, quindi, alterazione degli
standards, oltre che incidente, in via consequenziale, sui
parametri urbanistico-edilizi di zona.
1.3. Da quanto sopra discende, dunque, che, a dispetto degli
assunti di parte ricorrente, la natura essenziale della
variante posta in essere rende ab origine irrilevante
la presentazione della menzionata d.i.a. del 06.05.2006,
prot. n. 6238;
In altri termini, una volta accertato che gli interventi
edilizi erano difformi dal paradigma normativo (art. 22 del
d.p.r. n. 380/2001), l’amministrazione comunale, anche dopo
la scadenza del termine fissato dall’art. 23, comma 6, del
d.p.r. n. 380/2001, è rimasta nella condizione di esercitare
i poteri di vigilanza e sanzionatori previsti
dall’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30.06.2005 n.
3498; 12.09.2007 n. 4828; 18.12.2008 n. 6378; 12.02.2010 n.
781) e, più in generale, i poteri di controllo sulle
attività edilizie per i quali l’art. 27 del d.p.r. n.
380/2001 cit. non prevede alcun termine decadenziale (cfr.
TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 04.10.2007 n. 8951).
Ciò posto, essendosi riscontrate variazioni essenziali
ex art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, i poteri anzidetti si
sono correttamente incanalati nell’alveo naturale e
vincolato del ripristino dello stato dei luoghi.
1.4. A questo punto, costituisce dato processuale acquisito
che sono state introdotte varianti essenziali al progetto
assentito col permesso di costruire n. 69 del 06.05.2005.
Ebbene, siccome –per le ragioni dianzi illustrate– simili
variazioni giammai avrebbero potuto essere legittimamente
autorizzate ai sensi degli artt. 22 ss. del d.p.r. n.
380/2001, tale circostanza consente di dequotare il profilo
di censura incentrato sulla pretesa carenza di istruttoria
per omesso reperimento della d.i.a. del 06.05.2006, prot. n.
6238, poiché quest’ultima, ove pure rinvenuta e vagliata,
sarebbe rimasta, comunque, tamquam non esset, siccome
insuscettibile di produrre effetti abilitativi in ordine
alla tipologia di opere controverse
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Le Responsabilità del coordinatore per l'esecuzione dei
lavori.
Il coordinatore per l'esecuzione dei
lavori è tenuto:
- a verificare, con opportune azioni di coordinamento e
controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici
e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro
pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di
Coordinamento (P.S.C.) e la corretta applicazione delle
relative procedure di lavoro;
- a verificare l'idoneità del Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.),
assicurandone la coerenza con il P.S.C., che deve provvedere
ad adeguare in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle
eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle
imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in
cantiere;
- a verificare che le imprese esecutrici adeguino, se
necessario, i rispettivi P.O.S.;
- ad organizzare tra i datori di lavoro, ivi compresi i
lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento
delle attività nonché la loro reciproca informazione;
- a verificare l'attuazione di quanto previsto negli accordi
tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento
tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al
miglioramento della sicurezza in cantiere;
- a segnalare, al committente o al responsabile dei lavori,
le inosservanze alle disposizioni degli artt. 94, 95 e 96, e
art. 97, comma 1, e alle prescrizioni del P.S.C., proponendo
la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o
dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del
contratto in caso di inosservanza;
- a dare comunicazione di eventuali inadempienze alla
Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale
del Lavoro territorialmente competenti;
- a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente,
direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla
verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese
interessate.
In forza di quanto precede, risulta quindi evidente che
il coordinatore per l'esecuzione
riveste un ruolo di vigilanza "alta", che riguarda la
generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale
e stringente vigilanza "momento per momento", demandata alle
figure operative, ossia al datore di lavoro, al
dirigente, al preposto.
---------------
1. Con sentenza del 27/03/2014, il Tribunale di Messina
dichiarava Le.Ca. -nella qualità di coordinatore per
l'esecuzione dei lavori e di responsabile della "... C.
s.r.l."- responsabile di talune violazioni commesse
nell'ambito di un cantiere edile sito in Messina,
analiticamente indicate nel capo di imputazione, e lo
condannava alla pena di 6 mila euro di ammenda.
...
3. Il ricorso è fondato; al riguardo, risulta assorbente il
secondo motivo.
Come già affermato da questa Corte, con
riguardo alla figura del coordinatore per l'esecuzione
dei lavori, di
cui all'art. 92, d.lgs. n. 81 del 2008,
occorre rilevare che i compiti assegnati alla stessa
risalgono al d.lgs. 14.08.1996, n. 494
(di attuazione della Direttiva 92/57/CEE) -nell'ambito di
una generale e più articolata ridefinizione delle posizioni
di garanzia e delle connesse sfere di responsabilità
correlate alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute
da attuare nei cantieri temporanei o mobili- a fianco di
quella del committente, allo scopo
di consentire a quest'ultimo di delegare, a soggetti
qualificati, funzioni e responsabilità di progettazione e
coordinamento, diversamente a lui riferibili, implicanti
particolari competenze tecniche.
La definizione dei relativi compiti e della connessa sfera
di responsabilità discende, pertanto, da un lato,
dalla funzione di generale, "alta vigilanza" che la
legge demanda allo stesso, dall'altro dallo specifico
elenco, originariamente contenuto nell'art. 5, d.lgs. n. 494
del 1996, ed attualmente trasfuso nel citato art. 92, d.lgs.
n. 81 del 2008, in forza del quale il
coordinatore per l'esecuzione è tenuto:
- a verificare, con opportune azioni di coordinamento e
controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici
e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro
pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di
Coordinamento (P.S.C.) e la corretta applicazione delle
relative procedure di lavoro;
- a verificare l'idoneità del Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.),
assicurandone la coerenza con il P.S.C., che deve provvedere
ad adeguare in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle
eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle
imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in
cantiere;
- a verificare che le imprese esecutrici adeguino, se
necessario, i rispettivi P.O.S.;
- ad organizzare tra i datori di lavoro, ivi compresi i
lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento
delle attività nonché la loro reciproca informazione;
- a verificare l'attuazione di quanto previsto negli accordi
tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento
tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al
miglioramento della sicurezza in cantiere;
- a segnalare, al committente o al responsabile dei lavori,
le inosservanze alle disposizioni degli artt. 94, 95 e 96, e
art. 97, comma 1, e alle prescrizioni del P.S.C., proponendo
la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o
dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del
contratto in caso di inosservanza;
- a dare comunicazione di eventuali inadempienze alla
Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale
del Lavoro territorialmente competenti;
- a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente,
direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla
verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese
interessate.
In forza di quanto precede, risulta quindi evidente che
-come affermato dal ricorrente- il
coordinatore per l'esecuzione riveste un ruolo di
vigilanza "alta", che riguarda la generale
configurazione delle lavorazioni e non la puntuale e
stringente vigilanza "momento per momento", demandata
alle figure operative, ossia al datore di lavoro, al
dirigente, al preposto
(tra le altre, Sez. 4, n. 3809 del 07/01/2015, Cominotti, Rv.
261960; Sez. 4, n. 443 del 17/01/2013, Palmisano, Rv.
255102; Sez. 4, n. 18149 del 21/04/2010, Cellie, Rv.
247536).
Orbene, tutto ciò premesso, rileva il Collegio che la
motivazione stesa dal Tribunale di Messina risulta -oltre
che molto sintetica- non aderente al principio di diritto da
ultimo enunciato, atteso che riconosce la responsabilità del
Ca. in ordine a violazioni molto specifiche e puntuali
(relative, tra l'altro, alle lavorazioni in prossimità di
cavi elettrici, alle passerelle, alle aperture lasciate per
il vano ascensore), senza precisare se le stesse siano
comunque riferibili -nel caso di specie- a quei doveri di
vigilanza "alta" sopra richiamati, imposti al
coordinatore per l'esecuzione dei lavori, oppure invero
demandate ad altre figure.
Ancora, la sentenza non ha speso alcuna considerazione in
ordine ai testi Sa. e Di., escussi ex art. 507 cod. proc.
pen., i quali -giusta tenore del ricorso, in ciò specifico e
completo- avrebbero reso dichiarazioni in palese dissonanza
con quanto affermato dai testimoni indotti dal pubblico
ministero (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2015 n. 41820). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di una SCIA in forma cartacea anziché
telematica non presuppone la sua stessa
configurazione ed ammissibilità.
Una Scia presentata al
SUAP in modalità cartacea non può, per il solo fatto
di essere stata lì depositata, ritenersi una
segnalazione valida, mancando il presupposto per la
sua stessa configurazione e ammissibilità, ovvero la
modalità telematica.
Invero, il legislatore
è stato chiaro nello stabilire che le domande, le
dichiarazioni, le segnalazioni e le comunicazioni
concernenti le attività produttive, di prestazione di
servizi e quelle relative alle azioni di localizzazione,
realizzazione, trasformazione, ristrutturazione o
riconversione, ampliamento o trasferimento, e i relativi
elaborati tecnici e allegati debbano presentarsi
esclusivamente in modalità telematica al Suap competente per
territorio (cfr. art. 2 del DPR n. 160/2010).
---------------
... per
l'annullamento, previo accoglimento dell’istanza cautelare:
- del provvedimento prot. n. 821 del 21.01.2015 a firma del
Dirigente del Settore Servizi al Territorio del Comune di
Santeramo in Colle;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
consequenziale e, in particolare ove occorra, della nota
prot. n. 13278 del 02.03.2015 a firma del Responsabile Unico
del Procedimento del SUAP Associato del Sistema Murgiano;
con Motivi Aggiunti depositati in data 03.06.2015:
- del provvedimento prot. n. 5875 del 12.03.2015 a firma del
Dirigente del Settore Servizi al Territorio del Comune di
Santeramo in Colle;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
consequenziale e, in particolare ove occorra, della nota
prot. n. 13278 del 02.03.2015 a firma del Responsabile Unico
del Procedimento del SUAP Associato del Sistema Murgiano;.
...
La Telecom Italia
s.p.a., proprietaria di una stazione radio base per
telefonia cellulare sita nel territorio del Comune di
Santeramo in Colle, presentava, congiuntamente alla Vodafone
Omnitel B.V., una segnalazione certificata di inizio
attività (scia), indirizzata al Comune stesso ed acquisita
in formato cartaceo, per l’implementazione di un impianto di
proprietà Vodafone sulla suddetta stazione radio base.
Con provvedimento del 13.05.2014, veniva però disposta
l’archiviazione dell’istanza sul rilievo che la stessa
avrebbe dovuto essere presentata, a pena di inammissibilità,
presso il SUAP su apposita modulistica, ai sensi del DPR
447/1998, rilevando altresì che le installazioni di nuove
SRB avrebbero potuto essere realizzate esclusivamente nei
siti comunali all’uopo individuati col piano di
localizzazione comunale.
Il suddetto provvedimento veniva annullato da questo Tar con
Sentenza n. 1267/2014, ritenendo sussistente in capo
all’Amministrazione, con particolare riferimento al profilo
dell’inammissibilità dell’istanza, un obbligo di
trasmissione ufficiosa della domanda alla competente
articolazione del proprio apparato.
Tale sentenza è stata formalmente notificata in data
05.12.2014 al Comune di Santeramo - che l’ha successivamente
impugnata innanzi la Terza Sezione del Consiglio di Stato (Rg.
1129/2015).
Ritenendo da tale data decorso il termine per la formazione
del silenzio assenso ai sensi dell’art. 87-bis, D.Lgs.
259/03, la ricorrente comunicava quindi all’Amministrazione
comunale l’avvio dei lavori oggetto della scia.
Il Comune, con provvedimento n. 1821 del 21.01.2015,
disponeva tuttavia per ragioni istruttorie la sospensione
temporanea dell’efficacia della segnalazione, ai sensi degli
artt. 2 e 21-quater, comma 2, l. n. 241/1990, per la durata
di 60 giorni, inibendo per l’effetto, l’inizio dei lavori
preannunciati.
Successivamente, il SUAP–Murgia Sviluppo s.c.a.r.l.,
rilevata l’improcedibilità dell’istanza sottoscritta da
Telecom e Vodafone e trasmessa dall’Amministrazione
comunale, ne disponeva l’archiviazione – circostanza che ha
determinato in sede processuale la rinuncia alla domanda
cautelare incidentalmente avanzata con l’appello suddetto,
per sopravvenuto difetto di interesse.
Avverso la nota comunale del 21.01.2015, nonché il successivo
provvedimento di improcedibilità e archiviazione del SUAP,
l’odierna ricorrente ha quindi proposto un nuovo gravame
censurando la violazione e falsa applicazione degli artt. 87
e 87-bis, D.Lgs. 259/2003 nonché dell’art. 19, L. n. 241/1990, ed
eccesso di potere sotto diversi profili, chiedendone
pertanto l’annullamento previa sospensione dell’efficacia.
Con controricorso del 30.04.2015, si è costituito il Comune
intimato, eccependo preliminarmente l’inammissibilità e
improcedibilità del ricorso sotto diversi profili - ovvero
in considerazione della natura temporanea e provvisoria del
provvedimento di sospensione impugnato, che avrebbe quindi
già cessato di produrre effetti; della mancata notifica al SUAP; nonché della mancata impugnazione della successiva
nota comunale, prot. n. 5875 del 12.03.2015, con cui nel
trasmettere la nota di archiviazione del SUAP del 02.03.2015,
il Comune ha preso atto dell’arresto procedimentale così
determinatosi e dell’inefficacia della comunicazione di
inizio dei lavori.
Alla Camera di Consiglio del 06.05.2015, avvisate le parti
della possibile definizione in forma semplificata del
gravame ai sensi dell’art. 60 cpa, parte ricorrente ha
chiesto disporsi un rinvio per la presentazione di motivi
aggiunti.
Con atto di motivi aggiunti del 19.05.2015, notificati anche
al SUAP, la ricorrente ha infatti impugnato il sopra detto
provvedimento n. 5875 del 12.03.2015, conosciuto in data 20
marzo, deducendo vizi in via derivata e vizi propri, quali
violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 6, l. n.
291/1990, in quanto l’Amministrazione avrebbe dovuto chiedere
una regolarizzazione postuma della scia; eccesso di potere
sotto diversi profili, ed elusione della Sentenza n.
1267/2014 resa da questo Tar.
Alla successiva Camera di Consiglio del 02.07.2015, avvertite
nuovamente le parti ai sensi dell’art.60 c.p.a., la causa è
quindi passata in decisione.
Il Collegio deve preliminarmente rilevare che il
provvedimento comunale di sospensione per esigenze
istruttorie, è stato superato dalla successiva nota di
arresto procedimentale -impugnata con motivi aggiunti-
determinando in tal modo l’improcedibilità dell’azione di
annullamento proposta contro lo stesso.
Ritenute inoltre superate, con la proposizione dei motivi
aggiunti, le eccezioni di inammissibilità come sollevate
dalla difesa comunale, può quindi passarsi all’esame delle
censure mosse dalla ricorrente avverso la nota di
archiviazione Suap e la nota comunale di arresto
procedimentale, che il Collegio ritiene infondate per le
seguenti ragioni.
Pur condividendo in via di principio quanto affermato nella
precedente pronuncia resa da questo stesso TAR, il Collegio
deve tuttavia rilevare che l’applicazione nella specie dei
principi ivi esposti non avrebbe potuto determinare comunque
l’ammissibilità e la corretta formazione della scia.
Invero,
se in un’ottica di leale collaborazione tra la p.a.
e il cittadino, la mancata trasmissione in via officiosa di
una istanza alla competente articolazione amministrativa può
costituire violazione dei principi di economicità ed
efficacia dell’azione amministrativa, nel caso di specie
l’improcedibilità dell’istanza presentata dalla ricorrente
non ha concretizzato “un appello dell’Amministrazione a meri
formalismi”, come tali da censurare in sede giurisdizionale,
venendo invece in rilievo la possibile configurabilità, e
quindi esistenza, della domanda (recte, scia) stessa.
Il legislatore è stato infatti chiaro nello stabilire che le
domande, le dichiarazioni, le segnalazioni e le
comunicazioni concernenti le attività produttive, di
prestazione di servizi, e quelle relative alle azioni di
localizzazione, realizzazione, trasformazione,
ristrutturazione o riconversione, ampliamento o
trasferimento, ed i relativi elaborati tecnici e allegati,
debbano presentarsi esclusivamente in modalità telematica,
al Suap competente per territorio (art. 2, DPR 160/2010).
Di tale modalità tiene infatti conto anche l’art. 19, l. n.
241/1990, laddove nel disciplinare la scia, prescrive che la
stessa, corredata delle dichiarazioni, attestazioni e
asseverazioni nonché dai relativi elaborati tecnici, possa
essere presentata a mezzo posta con raccomandata con avviso
di ricevimento, ad eccezione dei procedimenti per cui è
previsto l’utilizzo esclusivo della modalità telematica. In
tal caso la segnalazione può considerarsi presentata solo al
momento della ricezione da parte dell'amministrazione.
Non è infatti estraneo all’ordinamento, tanto più nella
recente ottica di semplificazione e snellimento delle
procedure,
un procedimento interamente informatizzato,
articolato sin dalla fase di avvio in modalità
esclusivamente telematica.
Pertanto,
una Scia presentata al SUAP in modalità cartacea,
come nella specie, non può, per il solo fatto di essere
stata lì depositata, ritenersi una segnalazione valida,
mancando il presupposto per la sua stessa configurazione e
ammissibilità, ovvero la modalità telematica.
Prova ne è che dalla sentenza più volte citata -che la
parte assume essere stata elusa- non è derivato l’avvio del
relativo iter ai sensi dell’art. 87-bis del Dlgs. n. 259, per
il perfezionamento della scia, essendo stato invece statuito
il mero obbligo del Comune, ottemperato nella specie, di
trasmissione della domanda all’organismo competente.
Pertanto,
non può affatto ritenersi formato il silenzio-assenso, come invece asserito dalla ricorrente facendo
erroneamente decorrere il termine per la sua formazione
dalla notifica della sentenza all’Amministrazione, dovendosi
invece considerare quale unico dies a quo il momento di
recepimento dell’istanza da parte del Suap rappresentato dal
rilascio dell’apposita ricevuta, come sancito espressamente
dall’art. 5, DPR 160/2010.
Nella specie, il Suap si è tempestivamente espresso con un
provvedimento di archiviazione in considerazione
dell’inammissibilità dell’istanza, in quanto inoltrata dal
Comune, e non dal soggetto richiedente, in modalità
cartacea, e non telematica.
Né vale appellarsi al soccorso istruttorio, posto che tale
istituto deve intervenire a fronte di irregolarità ed
incompletezze sanabili, che presuppongono l’esistenza stessa
dell’istanza, condizione che, per le argomentazioni
suddette, non può però ritenersi verificata a fronte di una
scia cartacea.
Seguendo la tesi della ricorrente infatti, si arriverebbe
comunque alle medesime conclusioni del Collegio, a riprova
dell’inammissibilità di una segnalazione cartacea: la parte
sostiene invero che lo Sportello Unico avrebbe dovuto
invitarla a presentare la scia in modalità telematica,
anziché disporne l’archiviazione. Ma ripresentare la scia
secondo tale modalità -si ribadisce, l’unica possibile-
equivale a presentarla ex novo.
Il soccorso istruttorio invocato, è evidente, non potrebbe
diversamente giovare.
Nulla ha vietato, né vieta, infatti alla società ricorrente
di presentare una nuova scia nei termini previsti dalla
normativa di riferimento.
Alla luce delle considerazioni su fatte, le doglianze
formulate non meritano quindi accoglimento
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 16.10.2015 n. 1330 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Punibile
per omissione di atti d’ufficio il pubblico ufficiale che
non risponde ad una richiesta di provvedere anche se la
stessa non è direttamente a lui rivolta.
Integra gli estremi del reato di
omissione di atti d’ufficio il comportamento del
responsabile di un ufficio tecnico comunale che, ricevuta
dal Sindaco una lettera di diffida e messa in mora
direttamente rivolta all’organo politico –lettera inoltrata
dal Sindaco medesimo al responsabile dell’U.T. comunale con
l’esplicito “invito a darne immediato riscontro e relativa
comunicazione al sottoscritto”-, non provveda nel termine di
legge, atteso che detta diffida, pur essendo stata inviata a
soggetto diverso da quello competente a provvedere, era
giunta nella sfera di conoscenza del funzionario dell’ente
locale, ponendolo in condizione di conoscere l’oggetto
dell’incarico da adempiere, a lui affidato nella rispettiva
qualità
1. Il ricorso è in parte fondato e va pertanto
accolto nei limiti e per gli effetti di seguito
esposti e precisati.
2. Il primo, il terzo ed il quarto motivo di
doglianza sono inammissibili per manifesta
infondatezza, poiché le relative censure sono state
prospettate sulla base del richiamo ad un isolato
precedente del 1998, rimasto del tutto superato
dalla successiva evoluzione della giurisprudenza di
legittimità.
Al riguardo, invero, deve ribadirsi la pacifica
linea interpretativa tracciata da questa Suprema
Corte, che ha ormai da tempo stabilito il principio
secondo cui, in tema di delitto di omissione di atti
d’ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla
scadenza del termine di trenta giorni dalla
richiesta del privato costituisce un inadempimento
integrante la condotta omissiva richiesta per la
configurazione della fattispecie incriminatrice
(Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, dep. 13/11/2013,
Rv. 257706; Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep.
2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del
06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
Rispetto a tale indirizzo dominante, l’unico
precedente giurisprudenziale contrario, cui ha fatto
riferimento il ricorrente, non può essere sotto
alcun profilo condiviso in quanto, come più volte
evidenziato in questa Sede, sovrappone la questione
del rimedio apprestato dall’ordinamento contro
l’inerzia della pubblica amministrazione
–consentendo con la finzione del silenzio-rifiuto
che il cittadino possa procedere ad impugnazione–
con i diversi aspetti problematici inerenti la
responsabilità penale del pubblico funzionario.
Senza dire che, con l’esperibilità dei rimedi
giurisdizionali avverso il silenzio-rifiuto, non
soddisfano neppure interamente le esigenze di tutela
nei confronti della pubblica amministrazione (basti
pensare al vizio di merito dell’atto
amministrativo).
La fattispecie di cui all’articolo 328 c.p., comma
2, incrimina non tanto l’omissione dell’atto
richiesto, quanto la mancata indicazione delle
ragioni del ritardo entro i trenta giorni
dall’istanza di chi vi abbia interesse. L’omissione
dell’atto, in sostanza, non comporta ex se la
punibilità dell’agente, poiché questa scatta
soltanto se il pubblico ufficiale (o l’incaricato di
pubblico servizio), oltre a non avere compiuto
l’atto, non risponde per esporre le ragioni del
ritardo: viene punita, in tal modo, non già la
mancata adozione dell’atto, che potrebbe rientrare
nel potere discrezionale della pubblica
amministrazione, bensì l’inerzia del funzionario, la
quale finisce per rendere poco trasparente
l’attività amministrativa. In tal senso, la stessa
formulazione della norma, che utilizza la
congiunzione “e”, delinea una equiparazione ex
lege dell’omessa risposta che illustra le
ragioni del ritardo alla mancata adozione dell’atto
richiesto (v., in motivazione, Sez. 6, 22.06.2011,
n. 43647).
Ne discende, conclusivamente, che la richiesta
scritta di cui all’articolo 328 c.p., comma 2,
assume la natura e la funzione tipica della diffida
ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a
sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione
delle ragioni che lo impediscono, con il logico
corollario che il reato si “consuma” quando,
in presenza di tale presupposto, sia decorso il
termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto
sia stato compiuto, o senza che il mancato
compimento sia stato giustificato (Sez. 6,
15.01.2014–20.01.2014, n. 2331).
Con riferimento ai su indicati motivi di doglianza,
pertanto, la decisione impugnata ha fatto buon
governo delle regole stabilite da questa Suprema
Corte, ritenendo la condotta in contestazione idonea
ad integrare gli estremi del reato omissivo sul
pacifico rilievo, in punto di fatto, che la lettera
di diffida e messa in mora del 21.04.2008,
nonostante fosse direttamente rivolta al Sindaco,
era stata da questi inoltrata, il successivo
30.04.2008, al responsabile del Servizio urbanistico
tecnico, con l’esplicito “invito a darne
immediato riscontro e relativa comunicazione al
sottoscritto”, così ponendolo in condizione di
conoscere l’oggetto dell’incarico da adempiere, a
lui affidato nella rispettiva qualità.
3. Fondato, di contro, deve ritenersi il secondo
motivo di doglianza, là dove i Giudici di merito non
hanno adeguatamente affrontato e risolto, in punto
di fatto, un aspetto decisivo ai fini della
configurazione della responsabilità penale, atteso
che già in sede di gravame (v. pag. 5 della memoria
difensiva in data 22.10.2014) era stato posto in
dubbio il connesso profilo inerente l’accertamento
della effettiva riconducibilità del comportamento
omissivo alla persona dell’imputato, con riferimento
alla necessaria verifica della sua formale
condizione soggettiva di responsabile del servizio
tecnico comunale al momento della ricezione della
diffida da parte del Sindaco, con le relative
implicazioni in tema di competenza a provvedere
sull’oggetto della richiesta inoltrata al dirigente
di quell’Ufficio.
Su tali punti, specificamente contestati in sede di
gravame, non emerge dalla motivazione della
decisione impugnata una precisa ed argomentata
risposta a confutazione delle censure mosse dalla
difesa
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 06.10.2015 n. 42610). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Danno erariale da "lite temeraria": sul fatto
di costituirsi in giudizio "a tutti i costi",
la cui deliberazione giuntale è stata adottata
immotivatamente e sarebbe palesemente priva di
ragionevolezza e di elementi giustificativi a
supporto.
Parte della giurisprudenza è
orientata nel senso di ritenere che la deliberazione
di agire o resistere in giudizio debba considerarsi
fonte di responsabilità amministrativa se ed in
quanto la lite possa considerarsi temeraria, nel
senso cioè che gli amministratori, nel deliberare,
fossero consapevoli o avrebbero dovuto essere
consapevoli, con l’uso della diligenza minima, della
fondatezza della domanda proposta dalla controparte
o della infondatezza delle ragioni dell’appello, sì
da qualificare la resistenza o l’appello come
connotati da malafede o colpa grave.
Secondo la citata giurisprudenza, laddove la
resistenza in giudizio o la proposizione
dell’appello non siano temerarie o dilatorie, ma si
mantengano al di sotto di una ragionevole soglia di
rischio implicita in ogni difesa legale, la relativa
delibera esprimerebbe una scelta discrezionale di
merito, insindacabile da questo giudice.
Conformemente alla più recente giurisprudenza di
questa Corte, con riferimento agli atti
discrezionali delle Amministrazioni, il Collegio
osserva che, come le Sezioni Unite hanno già avuto
modo di affermare, la Corte dei Conti, nella
sua qualità di giudice contabile, può e deve
verificare la compatibilità delle scelte
amministrative con i fini pubblici dell'ente.
Infatti, in base all’art. 1, comma 1, L.
n. 20 del 1994, l'esercizio in concreto del potere
discrezionale dei pubblici amministratori, ossia la
scelta comparativa tra più soluzioni equivalenti sul
piano del merito, costituisce espressione di una
sfera di autonomia che il legislatore ha inteso
salvaguardare dal sindacato della Corte dei Conti;
in tale prospettiva, le aree della discrezionalità
amministrativa “devono essere espressamente
attribuite dalla legge”, escludendo dal sindacato
giurisdizionale sulle scelte discrezionali “soltanto
quelle in relazione alle quali la legge attribuisce
all’amministrazione una scelta elettiva tra diversi
comportamenti, negli stretti limiti di tale
attribuzione”.
In tale contesto, secondo le SS.UU. della
Cassazione, occorre tenere presente un “aspetto
fondamentale, che è quello di individuare le norme
che attribuiscono spazi di discrezionalità. Spesso,
infatti, vengono considerate come discrezionali
valutazioni che non si ricollegano all’attribuzione,
da parte del legislatore, di una scelta elettiva fra
più comportamenti, attribuzione che, come si è
detto, riconduce l’agire discrezionale al principio
di legalità”.
Sempre l’art. 1, comma 1, della L. n. 241 del 1990,
stabilisce che l'esercizio dell'attività
amministrativa deve ispirarsi ai criteri di
economicità e di efficacia, che costituiscono
specificazione del più generale principio sancito
dall'art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano
della legittimità (non della mera opportunità)
dell'azione amministrativa.
Pertanto, la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa non può prescindere
dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi
conseguiti e i costi sostenuti.
A tale stregua, l'insindacabilità nel merito
delle scelte discrezionali compiute dai soggetti
sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti
non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni
possibilità di controllo della conformità alla legge
dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto
funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza
dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti,
in via generale o in modo specifico, dal legislatore.
Più in generale è stato altresì precisato che
il comportamento contra legem del pubblico
amministratore non è mai al riparo dalla valutazione
giurisdizionale non potendo esso costituire
esercizio di scelta discrezionale insindacabile.
A questa ultima giurisprudenza ritiene di aderire
il Collegio.
---------------
La condotta della Giunta che ha deciso di
proporre appello è, senza dubbio, sindacabile da
questa Corte e va valutata alla stregua degli
ordinari parametri di verifica degli atti
discrezionali.
Non occorre, cioè, che la lite, proseguita con la
delibera di Giunta, oltrepassi la soglia della
temerarietà o sia dilatoria affinché si radichi la
competenza della Corte a valutarla e si sostanzi la
gravità della colpa nella condotta, ma la
valutazione della condotta va effettuata ex ante,
secondo i consueti parametri utilizzati per gli atti
discrezionali.
In particolare, quindi, non è sufficiente a
configurare la colpa grave dei componenti della
Giunta che hanno espresso il voto favorevole alla
proposizione dell’appello la circostanza che detto
appello sia stato respinto e sia stato accolto
l’appello incidentale, con conseguente ulteriore
danno per il Comune.
Ma va verificato che, ex ante, la
decisione di proporlo si configurasse come sorretta
da ragionevole motivazione.
---------------
3.2 La posizione del Sindaco e della
Giunta
Secondo la ricostruzione della Procura, un
contributo causale alla produzione dell’esborso di €
54.240,53, relativo alla condanna in sede di appello
deve essere attribuito ai componenti della Giunta
-il Sindaco Za. e gli Assessori Go., Fu., Sc.,
Se.Ro., Si., Te.-, che hanno votato la delibera n.
175 del 05.08.2010, con la quale si autorizzava la
proposizione dell’appello avverso la sentenza di
primo grado che, tra l’altro, condannava il Comune
al risarcimento dei danni derivati alla Pa. a causa
del demansionamento.
Secondo l’assunto dell’Organo requirente, il Sindaco
ed i componenti della Giunta sarebbero
corresponsabili, insieme ad Os. e alla Dirigente del
Servizio Affari Legali e Contratti, Eu.Ca., del
danno costituito dall’esborso della predetta somma,
nella misura di € 3.390,033 ciascuno, poiché la
citata delibera sarebbe stata assunta
immotivatamente e sarebbe palesemente priva di
ragionevolezza e di elementi giustificativi a
supporto, risultando palese il torto
dell’Amministrazione nella gestione del rapporto di
lavoro con la dipendente.
Occorre, innanzitutto, precisare che la decisione
della Giunta di proporre appello ha natura gestoria.
Parte della giurisprudenza (Sez. Campania,
sent. n. 153 dell’11.02.2010) è orientata nel
senso di ritenere che la deliberazione di agire o
resistere in giudizio debba considerarsi fonte di
responsabilità amministrativa se ed in quanto la
lite possa considerarsi temeraria, nel senso cioè
che gli amministratori, nel deliberare, fossero
consapevoli o avrebbero dovuto essere consapevoli,
con l’uso della diligenza minima, della fondatezza
della domanda proposta dalla controparte o della
infondatezza delle ragioni dell’appello, sì da
qualificare la resistenza o l’appello come connotati
da malafede o colpa grave.
Secondo la citata giurisprudenza, laddove la
resistenza in giudizio o la proposizione
dell’appello non siano temerarie o dilatorie, ma si
mantengano al di sotto di una ragionevole soglia di
rischio implicita in ogni difesa legale, la relativa
delibera esprimerebbe una scelta discrezionale di
merito, insindacabile da questo giudice (Corte
dei Conti, Sez. II d’Appello, sent. n. 36 del
18.01.2001).
Conformemente alla più recente giurisprudenza di
questa Corte (Sez. II d’Appello, sent. n. 296
dell’08.06.2015), con riferimento agli atti
discrezionali delle Amministrazioni, il Collegio
osserva che, come le Sezioni Unite hanno già avuto
modo di affermare (Cass. S.U. 09.07.2008 n.
18757; Cass. S.U. 28.03.2006 n. 7024; Cass. S.U.
29.09.2003 n. 14488), la Corte dei Conti, nella
sua qualità di giudice contabile, può e deve
verificare la compatibilità delle scelte
amministrative con i fini pubblici dell'ente.
Infatti, in base all’art. 1, comma 1, L. n. 20
del 1994, l'esercizio in concreto del potere
discrezionale dei pubblici amministratori, ossia la
scelta comparativa tra più soluzioni equivalenti sul
piano del merito (Cass. SS.UU. sent. n. 21291 del
2005), costituisce espressione di una sfera di
autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare
dal sindacato della Corte dei Conti; in tale
prospettiva, le aree della discrezionalità
amministrativa “devono essere espressamente
attribuite dalla legge”, escludendo dal
sindacato giurisdizionale sulle scelte discrezionali
“soltanto quelle in relazione alle quali la legge
attribuisce all’amministrazione una scelta elettiva
tra diversi comportamenti, negli stretti limiti di
tale attribuzione” (SS.UU., sent. n. 7024
del 2006).
In tale contesto, secondo le SS.UU. della
Cassazione, occorre tenere presente un “aspetto
fondamentale, che è quello di individuare le norme
che attribuiscono spazi di discrezionalità. Spesso,
infatti, vengono considerate come discrezionali
valutazioni che non si ricollegano all’attribuzione,
da parte del legislatore, di una scelta elettiva fra
più comportamenti, attribuzione che, come si è
detto, riconduce l’agire discrezionale al principio
di legalità” (v. SS.UU., sent. n. 7024 del
2006).
Sempre l’art. 1, comma 1, della L. n. 241 del 1990,
stabilisce che l'esercizio dell'attività
amministrativa deve ispirarsi ai criteri di
economicità e di efficacia, che costituiscono
specificazione del più generale principio sancito
dall'art. 97 Cost., e assumono rilevanza sul piano
della legittimità (non della mera opportunità)
dell'azione amministrativa.
Pertanto, la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa non può prescindere
dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi
conseguiti e i costi sostenuti.
A tale stregua, l'insindacabilità nel merito
delle scelte discrezionali compiute dai soggetti
sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti
non comporta la sottrazione di tali scelte ad ogni
possibilità di controllo della conformità alla legge
dell'attività amministrativa anche sotto l'aspetto
funzionale, vale a dire in relazione alla congruenza
dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti,
in via generale o in modo specifico, dal legislatore.
Più in generale è stato altresì precisato che il
comportamento contra legem del pubblico
amministratore non è mai al riparo dalla valutazione
giurisdizionale non potendo esso costituire
esercizio di scelta discrezionale insindacabile
(cfr., ad esempio, Cass. S.U. ordin. 27.02.2008 n.
5083; Cass. S.U. 28.03.2006 n. 7024).
A questa ultima giurisprudenza ritiene di aderire
il Collegio.
La condotta della Giunta che ha deciso di
proporre appello è, quindi, senza dubbio,
sindacabile da questa Corte e va valutata alla
stregua degli ordinari parametri di verifica degli
atti discrezionali.
Non occorre, cioè, che la lite, proseguita con la
delibera di Giunta, oltrepassi la soglia della
temerarietà o sia dilatoria affinché si radichi la
competenza della Corte a valutarla e si sostanzi la
gravità della colpa nella condotta, ma la
valutazione della condotta va effettuata ex ante,
secondo i consueti parametri utilizzati per gli atti
discrezionali.
In particolare, quindi, non è sufficiente a
configurare la colpa grave dei componenti della
Giunta che hanno espresso il voto favorevole alla
proposizione dell’appello la circostanza che detto
appello sia stato respinto e sia stato accolto
l’appello incidentale, con conseguente ulteriore
danno per il Comune.
Ma va verificato che, ex ante, la
decisione di proporlo si configurasse come sorretta
da ragionevole motivazione.
Ebbene, ad escludere la gravità della colpa nella
condotta di Sindaco e Assessori rileva che la
delibera sia stata assunta a fronte di conforme
parere di regolarità tecnica, reso dalla Dirigente
del Servizio Affari Legali ai sensi dell’art. 49 del
D.Lgs. n. 267 del 2000, le cui motivazioni sono poi
state esplicitate nell’atto di appello e non paiono
irragionevoli.
Se è vero, infatti, che il demansionamento risultava
evidente ed innegabile dai fatti per come venuti in
evidenza nel primo grado del giudizio, è altrettanto
vero che, ad una valutazione ex ante, poteva
apparire non irragionevole la proposizione
dell’appello almeno per contestare la decorrenza del
demansionamento e la quantificazione del danno.
Vanno, quindi, assolti il Sindaco Za. e gli
Assessori Go., Fu., Sc., Se.Ro., Si., Te. dagli
addebiti contestati
(Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Veneto,
sentenza 23.09.2015 n. 139). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti
termici, la nuova guida su esercizio, controllo e
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quando eseguire i controlli di efficienza energetica. Tutto
quello che c’e da sapere nella guida Enea ...
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EDILIZIA PRIVATA: Calcolo
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SICUREZZA LAVORO: Sistemi
di protezione degli scavi a cielo aperto, la guida Inail.
Guida Inail sui sistemi di protezione degli scavi a cielo
aperto: cosa sono, quali sono le tipologie e come sceglierli ...
(26.11.2015 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Contabilizzazione
del calore e termoregolazione: la nuova guida pratica di
BibLus-net.
Contabilizzazione del calore e termoregolazione: ecco la
guida pratica con approfondimenti teorici ed esempio
applicativo nello Speciale di BibLus-net ...
(12.11.2015 - link a www.acca.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Interpretazione e applicazione dell'articolo 5, comma 9,
del decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato
dall'articolo 17, comma 3, della legge 07.08.2015, n. 124.
Integrazione della circolare del Ministero per la
semplificazione e la pubblica amministrazione n. 6 del 2014
(circolare
10.11.2015 n. 4/2015). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Festività infrasettimanali - Il diritto al riposo
per l'ARAN si trasforma in un obbligo di lavorare se il
lavoratore è turnista
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 01.12.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni orizzontali - Possibili se si
rispettano alcune regole
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 17.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblico impiego - Trattamento economico - Oltre
al danno la beffa
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 05.11.2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Terre e rocce da scavo: consultazione pubblica
sul nuovo regolamento
(ANCE di Bergamo,
circolare 27.11.2015 n. 224). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: competenze regionali e sindacali in merito al
divieto autunno-invernale di utilizzazione agronomica degli
effluenti di allevamento (Regione Lombardia,
nota 26.11.2015 n. 359007 di prot.). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Oggetto: Considerazioni sulla normativa vigente in tema
di onorari, indennità e spese dei periti e dei CTU in ambito
penale e civile procedura e richiami giurisprudenziali, con
nota di accompagnamento - protocolli di intesa con i
Presidenti dei Tribunali (Consiglio Nazionale degli
Ingegneri,
circolare
20.11.2015 n. 630). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Diritti di istruttoria in relazione ai procedimenti
amministrativi di competenza del SUAP
(Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 17.11.2015 n. 243917 di prot.) |
SICUREZZA LAVORO:
OGGETTO: linea guida per lo svolgimento dell'incarico di
coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 10.11.2015 n. 626). |
APPALTI:
Oggetto: Indicazione del nominativo del subappaltatore in
fase di gara – Oneri della sicurezza aziendali e soccorso
istruttorio. Adunanza Plenaria n. 9/2015 (ANCE di
Bergamo,
circolare 06.11.2015 n. 214). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 09.12.2015, "Definizione
dei turni di servizio dei giorni festivi e dei turni di
ferie degli impianti di distribuzione di carburanti da
osservare nell’anno 2016 - Ex d.g.r. X/4071 del 25.09.2015"
(decreto
D.U.O. 23.11.2015 n. 10080). |
PATRIMONIO: G.U.
03.12.2015 n. 282 "Definizione dei termini e delle
modalità di attuazione degli interventi di adeguamento
strutturale e antisismico, in attuazione dell’art. 1, comma
160, della legge 13.07.2015, n. 107"
(D.P.C.M.
12.10.2015). |
APPALTI: G.U.U.E.
25.11.2015 n. L 307:
-
REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2015/2170 DELLA COMMISSIONE del
24.11.2015 che modifica la direttiva 2014/24/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie
applicabili per le procedure di aggiudicazione degli
appalti:
Articolo 1
La direttiva 2014/24/UE è così modificata:
1) il testo dell'articolo 4 è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito
da «5.225.000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «134.000 EUR» è sostituito da
«135.000 EUR»;
c) alla lettera c), l'importo «207.000 EUR» è sostituito da
«209.000 EUR»;
2) l'articolo 13, primo comma, è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito
da «5.225.000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «207.000 EUR» è sostituito da
«209.000 EUR».
---------------
-
REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2015/2171 DELLA COMMISSIONE del
24.11.2015 che modifica la direttiva 2014/25/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie
applicabili per le procedure di aggiudicazione degli
appalti:
Articolo 1
L'articolo 15 della direttiva 2014/25/UE è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «414.000 EUR» è sostituito da
«418.000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «5.186.000 EUR» è sostituito
da «5.225.000 EUR».
---------------
-
REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2015/2172 DELLA COMMISSIONE del
24.11.2015 che modifica la direttiva 2014/23/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio riguardo alle soglie
applicabili per le procedure di aggiudicazione degli
appalti:
Articolo 1
All'articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE, l'importo
«5.186.000 EUR» è sostituito da «5.225.000 EUR».
---------------
N.B.: i regolamenti entrano in vigore il
01.01.2016. |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
G.U. 25.11.2015 n. 275 "Misure urgenti per interventi nel
territorio" (D.L.
25.11.2015 n. 185).
---------------
Di particolare interesse si legga:
►
Art. 15. - Misure urgenti per favorire la realizzazione di
impianti sportivi nelle periferie urbane |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2015,
"Definizione delle modalità per l’identificazione delle
priorità temporali degli interventi di bonifica acustica del
territorio ai sensi dell’articolo 12 della legge regionale
10.08.2001, n. 13" (deliberazione
G.R. 20.11.2015 n. 4363). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2015, "Differimento
al primo gennaio 2017 delle disposizioni per l’efficienza
energetica degli edifici, approvate con d.g.r. n. 3868 del
17.07.2015, relative ai requisiti prestazionali dei
serramenti, in caso di riqualificazione energetica"
(deliberazione
G.R. 20.11.2015 n. 4362). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 46 del 12.11.2015, "Legge
di semplificazione 2015 - Ambiti economico, sociale e
territoriale"
(L.R.
10.11.2015 n. 38).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
Art. 2 - (Modifiche alla l.r. 31/2008 e alla l.r. 24/2006)
►
Art. 7 - (Semplificazione delle procedure di intesa ai sensi
del d.p.r. 383/1994 per opere pubbliche di interesse statale
previste dagli strumenti urbanistici comunali)
►
Art. 8 - (Semplificazione delle procedure di intesa ai sensi
del d.p.r. 383/1994 per opere pubbliche di interesse statale
soggette a VIA o a verifica di assoggettabilità a VIA di
competenza della Regione)
►
Art. 10 - (Modifiche alla l.r. 31/2014)
►
Art. 11 - (Abrogazione della l.r. 26/1995)
►
Art. 12 - (Modifiche alla l.r. 12/2005)
►
Art. 13 - (Disposizioni per l’utilizzo e la reimmissione in
falda delle acque sotterranee utilizzate per scambio termico
in impianti a pompa di calore)
►
Art. 14 - (Modifiche all’art. 26 della l.r. 16/1999)
►
Art. 15 - (Modifiche alla l.r. 14/1998)
►
Art. 16 - (Modifiche alla l.r. 86/1983 e alla l.r. 16/2007) |
APPALTI: G.U.U.E.
12.11.2015 n. L 296 "REGOLAMENTO
DI ESECUZIONE (UE) 2015/1986 DELLA COMMISSIONE
dell'11.11.2015 che stabilisce modelli di
formulari per la pubblicazione di bandi e avvisi nel settore
degli appalti pubblici e che abroga il regolamento di
esecuzione (UE) n. 842/2011". |
VARI:
G.U. 11.11.2015 n. 263 "Regolamento in materia di
fascicolo sanitario elettronico" (D.P.C.M.
29.09.2015 n. 178). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Cerioni,
Il cittadino-utente delle informazioni pubbliche. Linee di
tendenza dal D.lgs. n. 33/2013 sino alla “Riforma Madia”
(25.11.2015 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il cittadino e l’utente tra il
“purismo teorico” e la “prassi opacizzante”. - 2. Il
cittadino come titolare del diritto al rispetto dei principi
democratico e di trasparenza. - 3. L’utente diviene il
soggetto che esercita i diritti di cui è titolare il
cittadino. - 4. Il primo effetto dell’osmosi: la
responsabilità politica diffusa ed i feed-back per gli
utenti. - 5. Lo strumento - grimaldello dell’accesso civico
per rendere effettivo un controllo diffuso e costante dei
cittadini-utenti su politica e P.A. - 6. Il Consiglio
Nazionale dei Consumatori e degli Utenti elevato a parte
istituzionale. - 7. Alcune riflessioni (critiche) conclusive
sui paradossi della democrazia degli utenti. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
S. Moro,
I vincoli urbanistici per la tutela dei c.d. interessi
differenziati e dell’equilibrio ecologico: spunti
di riflessione propedeutici ad uno studio sulla relazione
fra il potere di governo degli interessi collegati all’uso
del territorio e il diritto di proprietà (16.11.2015
- tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Oggetto della ricerca: i vincoli di
cui all’art. 7, comma 2, nr. 5, l. n. 1150/1942 (d’ora in
avanti Vincoli). 2. Il presupposto della ricerca: i Vincoli
non sono meramente ricognitiva di quelli previsti dalla
normativa di settore, ma hanno un’autonoma efficacia
costitutiva. 3. I Vincoli si articolano in due specie
funzionali a tutelare rispettivamente: a) l’equilibrio
ecologico; b) i c.d. interessi differenziati. La figura
esemplificativa dei vincoli urbanistici con finalità
paesaggistiche. 4.1. La natura dei vincoli funzionali a
tutelare il c.d. equilibrio ecologico. 4.2. La natura dei
vincoli urbanistici preordinati alla tutela dei c.d.
interessi differenziati nel modello pianificatorio previsto
dalla l. n. 1150/1942. 4.3. La natura dei vincoli
urbanistici preordinati alla tutela dei c.d. interessi
differenziati nel modello pianificatorio previsto dalle
leggi regionali c.d. di terza generazione. 5. Conclusione:
spunti di riflessione propedeutici ad uno studio sulla
relazione fra il potere di governo degli interessi collegati
all’uso del territorio e il diritto di proprietà. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Tapetto,
Considerazioni sulla nuova definizione di produttore di
rifiuti e sulle conseguenze operative
(03.11.2015 - tratto da www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Lipari,
La SCIA e l’autotutela nella legge n. 124/2015: primi dubbi
interpretativi (21.10.2015
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La legge n. 124 e i suoi obiettivi.
Deleghe e modifiche immediate della legge n. 241/1990. - 2.
Il favore per l’espansione della SCIA e della sua
configurazione totalmente negoziale. - 3. La “nuova”
autotutela dell’art. 6: una nozione ampia? - 4. I nuovi
commi 3 e 4 dell’art. 19: maggiore chiarezza sui poteri
inibitori e correttivi dell’amministrazione? - 5. Le
differenze principali tra la nuova e la vecchia normativa
dei commi 3 e 4. - 6. La suddivisione del comma 3 in due
periodi: la distinzione tra i poteri inibitori (totali) e i
poteri conformativi (parziali). La disciplina dei termini. -
7. L’autotutela e la disciplina dell’art. 21-nonies:
“Condizioni” e termini dell’intervento successivo
dell’amministrazione. - 8. I poteri successivi incidenti
sulla SCIA e la decorrenza del termine di diciotto mesi. -
9. Quale spazio per il potere di sospensione dell’attività
oggetto di SCIA? - 10. L’ambito oggettivo di esercizio della
autotutela e gli interessi sensibili. - 11. Scompare il
riferimento al potere di “revoca” della SCIA. Il mutamento
di fatto delle “condizioni” per il conseguimento della SCIA.
- 12. Doverosità o discrezionalità dei provvedimenti
inibitori successivi? - 13. Le conseguenze delle
dichiarazioni mendaci rese in sede di presentazione della
SCIA: un quadro normativo confuso. - 14. Il mancato
coordinamento con il nuovo art. 21-nonies e con l’art. 21. -
15. Il termine per l’esercizio dei poteri di autotutela nel
nuovo art. 21-nonies. - 16. Il termine per l’esercizio
dell’autotutela e la protezione dei terzi. - 17. Le
dichiarazioni false e l’accertamento con sentenza passata in
giudicato. - 18. La disciplina derogatoria del comma 2-bis è
applicabile alla SCIA? - 19. La fattispecie delineata dal
comma 2-bis. - 20. La “salvezza” delle sanzioni previste dal
TU 445/2000. - 21. Le possibili conseguenze della norma di
salvezza del TU n. 445/2000 la necessità di una modifica
normativa che renda chiaro e coerente il quadro normativo. -
22. La ricostruzione del sistema a legislazione vigente. |
EDILIZIA PRIVATA:
F. de Leonardis,
Il silenzio-assenso in materia ambientale: considerazioni
critiche sull’art. 17-bis introdotto dalla cd. riforma Madia
(21.10.2015 - tratto da www.federalismi.it).
----------------
Sommario: 1. La previsione del silenzio assenso in
materia ambientale nei procedimenti tra pubbliche
amministrazioni. – 2. La prima criticità: incoerenza con
l’art. 20, quarto comma, l. 241/1990. – 3. La seconda
criticità: il contrasto con le sentenze della Corte di
Giustizia e della Corte Costituzionale. – 4. La terza
criticità: la mancata valutazione delle organizzazioni
amministrative preposte alla tutela. – 5. Spunti conclusivi. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Francario,
Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a
margine dell’art. 6 della l. 07.08.2015, n. 124)
(21.10.2015
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. La limitazione
dell’autotutela decisoria come potere generale. 3. La
teoresi dell’autotutela decisoria. 4. Osservazioni
conclusive. |
PATRIMONIO - VARI:
L’imposizione indiretta sui vincoli di destinazione:
nuovi orientamenti e prospettive interpretative
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio
01-02.10.2015 n. 132-2015/T).
---------------
Sommario: 1. La tassazione dei vincoli di
destinazione secondo la Corte di Cassazione: i casi
esaminati; 2. Segue: La “nuova” imposta sui vincoli di
destinazione secondo la Corte; 3. Conseguenze applicative
della tesi interpretativa della Corte di Cassazione per la
generalità dei vincoli di destinazione: la tassazione dei
vincoli non traslativi e di quelli non liberali; 4. Le
critiche avanzate alla interpretazione della Corte di
Cassazione e le prospettive future; 5. Ulteriori effetti sul
piano applicativo, in particolare con riferimento al momento
di imposizione per i trust. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. G. Annunziata e F. Panzuto,
L’istituto della presupposizione e delle sopravvenienze (31.03.2008 -
link a www.filodiritto.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E. Vileno,
La presupposizione nella dottrina e nella giurisprudenza,
con particolare riferimento ad una recente pronuncia della
Cassazione - nota a Corte di Cassazione - Sez. III civile,
sentenza 25.05.2007 n. 12235 (09.07.2007 -
link a www.filodiritto.com). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
Sezione autonomie ha affermato
il principio
della priorità della ricollocazione del personale
soprannumerario degli enti di vasta area.
In altri termini, al fine di
assicurare la conservazione delle posizioni lavorative dei
dipendenti delle province da ricollocare, secondo il canone
interpretativo indicato dalla Sezione autonomie “deve
ritenersi che, per gli anni 2015 e 2016, agli enti locali è
consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate
esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di
area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del
personale soprannumerario destinatario dei processi di
mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di
mobilità volontaria”.
Tale soluzione ermeneutica, peraltro, può
ritenersi, nella sostanza, in linea con gli indirizzi
espressi con la circolare del Ministero della funzione
pubblica n. 1/2015, richiamata nella richiesta di parere.
---------------
Con nota n. 1979 del 24.02.2015, il Sindaco del Comune di
Mezzojuso (PA) ha chiesto un parere “circa l’ambito di
applicazione del divieto di nuove assunzioni previsto dalla
recente legge di stabilità (legge 23.12.2014, n. 190, art.
1, comma 424)”.
Al riguardo, ritenendo che la disposizione menzionata e le
altre contenute nello stesso testo normativo non abbiano
efficacia ostativa rispetto alla immissione nella dotazione
organica dell’Ente di personale in mobilità volontaria, ha
chiesto se ”l’art. 1, comma 424, della legge n. 190/2014,
debba essere interpretato nel senso secondo cui sono
consentiti ancora, alla vigente data, i processi di mobilità
volontaria fra Enti locali, ai sensi e per gli effetti
stabiliti dal decreto legislativo n. 165/2001,
subordinatamente all’infruttuoso espletamento delle
procedure di mobilità obbligatoria previste decreto
legislativo n. 165/2001”.
...
La questione concernente l’interpretazione dell’art. 1,
comma 424, della legge 23.12.2014, n.190, (legge di
stabilità 2015), che testualmente recita: “Le regioni e
gli enti locali, per gli anni 2015 e 2016, destinano le
risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle
percentuali stabilite dalla normativa vigente,
all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico
collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla
data di entrata in vigore della presente legge e alla
ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie
destinatarie dei processi di mobilità. Esclusivamente per le
finalità di ricollocazione del personale in mobilità le
regioni e gli enti locali destinano, altresì, la restante
percentuale della spesa relativa al personale cessato negli
anni 2014 e 2015, salva la completa ricollocazione del
personale soprannumerario. Fermi restando i vincoli del
patto di stabilità interno e la sostenibilità finanziaria e
di bilancio dell’ente, le spese per il personale ricollocato
secondo il presente comma, non si calcolano al fine del
rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1
della legge 27.12.2006, n. 296.
Il numero delle unità di personale ricollocato o
ricollocabile è comunicato al Ministero per gli affari
regionali e le autonomie, al Ministero per la
semplificazione e la pubblica amministrazione e al Ministero
dell’economia e delle finanze nell’ambito delle procedure di
cui all’accordo previsto dall’art. 1, comma 91, della legge
07.04.2014, n. 56. Le assunzioni effettuate in violazione
del presente comma sono nulle”.
La disposizione ha introdotto una disciplina particolare per
le assunzioni a tempo indeterminato, derogatoria, per gli
anni 2015 e 2016, di quella generale.
Il quesito formulato dal Comune di Mezzojuso verte
sull’ambito di applicazione dell’art. 1, comma 424, della
legge n. 190 del 2014, e in particolare, sulla esperibilità,
o meno, dell’ordinaria mobilità volontaria, prevista
dall’art. 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001, in
presenza del nuovo vincolo.
Al riguardo, nel formulare la richiesta di parere, il Comune
di Mezzojuso ritiene che il vincolo introdotto dal
menzionato comma 424 non abbia, comunque, efficacia ostativa
rispetto all’immissione nella dotazione organica dell’Ente
di personale in mobilità volontaria, considerato che,
secondo i principi affermati dalla giurisprudenza contabile,
questa procedura non costituisce ipotesi di nuova
assunzione, bensì di semplice cessione di contratto, neutra,
come tale, ai fini del calcolo della spesa complessiva del
pubblico impiego.
In merito alla corretta applicazione del comma 424 dell’art.
1 della legge n. 190 del 2014, si è espressa la Sezione
delle autonomie con la
deliberazione 16.06.2015 n. 19 e
deliberazione 28.07.2015 n. 26, rese nelle
adunanze rispettivamente del 04.06.2015 e del 20.07.2015.
La Sezione autonomie,
risolvendo alcune questioni di massima sollevate in merito
all’interpretazione del menzionato comma,
ha affermato, tra
l’altro, il principio
-a cui questo Collegio è tenuto ad adeguarsi ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174-,
della priorità della ricollocazione del personale
soprannumerario degli enti di vasta area.
In altri termini, al fine di assicurare la
conservazione delle posizioni lavorative dei dipendenti
delle province da ricollocare, secondo il canone
interpretativo indicato dalla Sezione autonomie “deve
ritenersi che, per gli anni 2015 e 2016, agli enti locali è
consentito indire bandi di procedure di mobilità riservate
esclusivamente al personale soprannumerario degli enti di
area vasta. A conclusione del processo di ricollocazione del
personale soprannumerario destinatario dei processi di
mobilità, è ammissibile indire le ordinarie procedure di
mobilità volontaria”
(delib. n. 16/SEZAUT/2015/QMIG).
Tale soluzione ermeneutica, peraltro, può
ritenersi, nella sostanza, in linea con gli indirizzi
espressi con la circolare del Ministero della funzione
pubblica n. 1/2015, richiamata nella richiesta di parere
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 24.11.2015 n. 323). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Le
disposizioni di legge che escludono l'applicabilità degli
incentivi per la progettazione al personale con qualifica
dirigenziale non possono essere derogate in via
interpretativa e, segnatamente, non può configurarsi un
difforme trattamento per le ipotesi in cui l'attività del
dirigente è prestata a favore di enti esterni.
----------------
Con la nota in epigrafe, l’Assessore regionale delle
Infrastrutture e della Mobilità premette:
- che con circolare del 17.12.2014 ha fornito indicazioni
sulle modalità di corresponsione degli incentivi per la
progettazione in relazione alle disposizioni recate
dall’art. 93, commi da 7-bis a 7-quinquies, del D.lgs.
12.04.2006, n. 123 (Codice dei contratti pubblici), come
introdotti dall’art. 13 della legge 11.08.2014 n. 114;
- che con nota del 04.05.2015 (n. 30337/DRT) ha chiesto
parere all’Ufficio Legislativo e Legale della Regione in
ordine alla possibilità di interpretare la norma di cui
all’ultimo periodo del comma 7-ter dell’art. 93 prima
riferito, nel senso che l’esclusione si applichi soltanto ai
dirigenti che rivestono incarichi apicali di strutture di
massima dimensione o equiparati;
- che il Dipartimento Regionale Tecnico dell’Assessorato in
epigrafe è chiamato ai sensi dell’art. 90, comma 1, lett. c)
del Codice dei contratti a svolgere prestazioni tecniche di
progettazione, direzione lavori e collaudo per conto di
altre stazioni appaltanti, prevalentemente Enti locali o
comunque enti o amministrazioni diverse da quella regionale,
anche a seguito di stipula di apposite convenzioni;
- che reputa che detta fattispecie, a differenza
dell’attività tecnica svolta per conto dell’amministrazione
regionale, debba sottrarsi all’applicazione della
disposizione di cui al comma 7-ter, ultimo periodo,
dell’art. 93 del Codice dei contratti per i seguenti motivi:
- la normativa si riferisce al solo personale interno alla
stazione appaltante;
- l’attività svolta per conto di amministrazione diversa da
quella di appartenenza non sembra configurarsi come compito
istituzionale d’ufficio;
- l’attività svolta gratuitamente dal dirigente potrebbe
configurarsi come indebito arricchimento da parte delle
amministrazioni avvalenti.
Ciò premesso chiede di conoscere se è possibile sottrarre
dalla limitazione di cui all’ultimo periodo del comma 7-ter
dell’art. 93 (che esclude la possibilità per il personale
con qualifica dirigenziale di partecipare alla
corresponsione/ripartizione degli incentivi per le attività
tecnica) il personale con qualifica dirigenziale che svolga
attività tecnica per conto di altre stazioni appaltanti.
...
2. Merito. Nel merito la risposta al quesito è nei termini
che seguono.
2.1. Preliminarmente occorre richiamare il quadro normativo.
La disciplina della “progettazione interna ed esterna
alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori
pubblici” è recata dall’art. 90 del Codice dei contratti
pubblici; il successivo art. 93 contiene al proprio interno
le norme che regolamentano i livelli della progettazione
(commi da 1 a 6, oltre ai commi 8 e 9), gli oneri per le
attività tecniche (comma 7), nonché una disciplina ad hoc
(commi da 7-bis a 7-quinquies) e di massima (quella di
dettaglio è demandata ad apposito regolamento interno, cfr.
comma 7-ter) riguardante i c.d. incentivi spettanti al
responsabile del procedimento e ai dipendenti incaricati
della varie attività di progettazione, redazione del piano
di sicurezza, direzione lavori e collaudo nonché ai loro
collaboratori.
2.1.2. La riferita disciplina si applica nella Regione
siciliana in ragione del recepimento operato dalla legge
regionale 12.07.2011, n. 12. Occorre, al contempo, rilevare
che la materia dei c.d. compensi incentivanti è stata
ritenuta dalla Corte costituzionale una materia di
ordinamento civile (sentenze n. 341/2009 e n. 401/2007),
come tale rimessa all’ordinamento statale (art. 117, secondo
comma) quanto meno per la determinazione dei suoi
presupposti applicativi.
Conseguentemente, occorre sin d’ora rilevare che la
previsione di compensi incentivanti al di là delle ipotesi
espressamente consentite dalla disciplina statale porrebbe
non pochi problemi di coordinamento con i principi
costituzionali (Corte dei conti, Sez. di controllo per la
Regione Sardegna,
parere 20.12.2013 n. 85 e
parere 30.01.2015 n. 11); a fortiori ciò
non sarebbe consentito per via regolamentare o
amministrativa.
2.1.3. Passando al dettaglio della disciplina, l’art. 90
(Progettazione interna ed esterna alle amministrazioni
aggiudicatrici in materia di lavori pubblici) del D.lgs. n.
163/2006 (recante il Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE) dispone che “Le prestazioni
relative alla progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli
incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività
del responsabile del procedimento e del dirigente competente
alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici
sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
b) dagli uffici consortili di progettazione e di direzione
dei lavori che i comuni, i rispettivi consorzi e unioni, le
comunità montane, le aziende unità sanitarie locali, i
consorzi, gli enti di industrializzazione e gli enti di
bonifica possono costituire con le modalità di cui agli
articoli 30, 31 e 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267;
c) dagli organismi di altre pubbliche amministrazioni di cui
le singole stazioni appaltanti possono avvalersi per legge;
d) da liberi professionisti singoli od associati nelle forme
di cui alla legge 23.11.1939, n. 1815, e successive
modificazioni, ivi compresi, con riferimento agli interventi
inerenti al restauro e alla manutenzione di beni mobili e
delle superfici decorate di beni architettonici, i soggetti
con qualifica di restauratore di beni culturali ai sensi
della vigente normativa;
e) dalle società di professionisti;
f) dalle società di ingegneria;
f-bis) da prestatori di servizi di ingegneria ed
architettura di cui alla categoria 12 dell'allegato II A
stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente
alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi;
g) da raggruppamenti temporanei costituiti dai soggetti di
cui alle lettere d), e), f), f-bis) e h) ai quali si
applicano le disposizioni di cui all'articolo 37 in quanto
compatibili;
h) da consorzi stabili di società di professionisti e di
società di ingegneria, anche in forma mista, formati da non
meno di tre consorziati che abbiano operato nel settore dei
servizi di ingegneria e architettura, per un periodo di
tempo non inferiore a cinque anni, e che abbiano deciso di
operare in modo congiunto secondo le previsioni del comma 1
dell'articolo 36. […]".
2.1.4. L’art. 13-bis, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90,
convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114,
ha introdotto all’interno dell’art. 93 del Codice dei
contratti pubblici i commi da 7-bis a 7-quinquies. Per
effetto di tale novella il tenore dell’articolo 93, comma 7
e ss., è ora il seguente: "7. Gli oneri inerenti alla
progettazione, alla direzione dei lavori, alla vigilanza e
ai collaudi, nonché agli studi e alle ricerche connessi,
gli oneri relativi alla progettazione dei piani di sicurezza
e di coordinamento e dei piani generali di sicurezza quando
previsti ai sensi del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494
(ora d.lgs. n. 81 del 2008), gli oneri relativi alle
prestazioni professionali e specialistiche atte a definire
gli elementi necessari a fornire il progetto esecutivo
completo in ogni dettaglio, ivi compresi i rilievi e i costi
riguardanti prove, sondaggi, analisi, collaudo di strutture
e di impianti per gli edifici esistenti, fanno carico agli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti. 7-bis. A valere sugli
stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche
destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
degli importi posti a base di gara di un’opera o di un
lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un
regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità
e alla complessità dell’opera da realizzare.
7-ter. L’80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-
bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie
connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali
incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto
dell’articolo 16 del regolamento di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del
ribasso d’asta offerto. Ai fini dell’applicazione del terzo
periodo del presente comma, non sono computati nel termine
di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni
per accadimenti elencati all’articolo 132, comma 1, lettere
a), b), c) e d). La corresponsione dell’incentivo è
disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell’anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l’importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all’organico dell’amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie. Il presente comma non si applica al
personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie
del fondo per la progettazione e l’innovazione è destinato
all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e
tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di
implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa per centri di costo
nonché all’ammodernamento e all’accrescimento
dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti
di cui all’articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono
adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli
di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente
articolo.".
Senza pretesa di esaustività in ordine alla riferita
disciplina ed al previgente quadro normativo,
si deve, tuttavia, porre l’accento su alcune
significative innovazioni, immediatamente percepibili dalla
lettura della novella, per meglio comprenderne la portata e
la ratio:
a) talune attività sono espressamente escluse
dall’incentivazione;
b) si è disposta l’introduzione di criteri volti a ridurre
la percentuale dell’incentivo nella ricorrenza di alcune
circostanze (aumento dei tempi o dei costi di realizzazione
dell’opera o del lavoro);
c) una percentuale del fondo pari al 20% è destinata alle
finalità indicate dal comma 7-quater;
d) è stato rimodulato il limite massimo individuale della
retribuzione incentivante percepibile;
e) è venuto meno ogni riferimento all’incentivazione delle
attività di pianificazione;
f) è espressamente esclusa l’applicazione degli incentivi
per la progettazione al personale con qualifica
dirigenziale.
Tali profili di novità della disciplina statale, aventi
certamente portata limitativa della misura del compenso
erogabile ai dipendenti rispetto al passato, ed implicanti
il riconoscimento di peculiari modalità ai fini della sua
liquidazione, si innestano in un insieme di previsioni di
carattere generale (percentuale del 2%, necessità di
ripartire le risorse in considerazione della relativa
ripartizione di responsabilità, novero dei soggetti
titolati alla percezione degli incentivi, necessità di
apposita regolamentazione interna dell’amministrazione) che
la nuova normativa ha mantenuto ferme rispetto al passato.
2.2. Richiamato il quadro normativo in oggetto
appare evidente che l’esclusione dell’applicazione
degli incentivi per la progettazione al personale con
qualifica dirigenziale non possa essere derogabile né nei
termini prospettati dall’amministrazione richiedente né in
altra accezione.
E ciò, innanzitutto, per la necessità di
attenersi al principio cardine di interpretazione letterale
e teleologica delle norme contenuto nell’art. 12 delle
Disposizioni sulla legge in generale del Codice civile.
D’altra parte, gli argomenti invocati dall’amministrazione
richiedente per suffragare una difforme conclusione ed in
premessa riferiti (disciplina destinata al solo personale
interno, attività svolta a favore di amministrazione esterna
da reputarsi non istituzionale, esigenza di evitare
un’indebita locupletazione da parte di quest’ultima) non
solo si scontrano con il chiaro tenore del testo legislativo
ma risultano anche poco fondati.
Ed invero, ai sensi dell’art. 90, lett. c), del Codice dei
contratti pubblici, espressamente richiamato
dall’Assessorato richiedente per individuare la fattispecie
sottoposta a quesito, la stazione appaltante per
l’espletamento delle attività di progettazione può
rivolgersi ad un “organismo di altra p.a.” (nel caso
di specie il Dipartimento regionale che possiede le
competenze necessarie) e non già direttamente al “dirigente”
o “dipendente” dell’amministrazione esterna.
Diversamente opinando, in disparte le violazioni in cui
incorrerebbe il dipendente pubblico ove non autorizzato,
costui opererebbe direttamente come una sorta di libero
professionista incaricato da un ente pubblico, costituendosi
un rapporto di lavoro autonomo o di collaborazione ulteriore
rispetto al rapporto di lavoro subordinato intercorrente con
la propria amministrazione, ciò che è possibile solo nei
casi espressamente previsti per legge e con le limitazioni,
anche in relazione alla percezione di compensi, previsti da
quella disciplina che eccezionalmente autorizza
l’instaurazione di tali peculiari rapporti.
D’altra parte, l’amministrazione che ha richiesto il parere
è ben consapevole che la fattispecie è disciplinata da
apposite “convenzioni” tra due pubbliche
amministrazioni (il Dipartimento e le amministrazioni
esterne che se ne avvalgono, secondo quanto riferito dalla
stessa) e non tra il dipendente e la stazione appaltante
esterna.
2.2.1. Poste tali precisazioni, è opportuno rammentare, sia
pure incidentalmente, che, con riferimento ai rapporti tra
l’amministrazione che opera quale “stazione appaltante”
(avvalente) e l’“organismo” pubblico che presta le
proprie attività progettuali, occorre ispirarsi al più
generale principio di collaborazione istituzionale: il
modello collaborativo suggerito dal legislatore corrisponde,
infatti, a un principio immanente nell’ordinamento ossia
quello di favorire la collaborazione tra p.a.; gli organismi
dotati di competenze tecniche particolari, quali possono
essere i dipartimenti tecnici, sono istituzionalmente
destinati ad espletare le attività progettuali e mettere a
sistema tali peculiarità non solo a favore
dell’amministrazione regionale ma anche di quelle che, prive
di tali competenze specialistiche, ne facciano richiesta.
Al riguardo, si rammenta che l’impronta collaborativa
dell’istituto esclude che l’amministrazione c.d. avvalsa
possa chiedere oltre al ristoro delle spese sostenute anche
un vero e proprio pagamento del corrispettivo per l’attività
espletata a favore di altra pubblica amministrazione (cfr.
determinazione ANAC n. 7/2010). Di talché non può assumere
rilevanza neppure l’argomento sollevato dall’istante circa
un’indebita locupletazione dell’amministrazione avvalente.
Più nello specifico, poi, l'istituto dell'avvalimento
corrisponde ad un rapporto tra due o più amministrazioni in
cui, in base ad una previsione legislativa o regolamentare
(ad es., l'art. 90, D.Lgs. n. 163/2006; l'art. 19, comma 3,
l. n. 109/1994; l'art. 5, comma 9, DPCM 06.05.2013), una
amministrazione od un ente ha il potere (simile ad un
diritto potestativo sostanziale) di utilizzare le strutture
di una seconda amministrazione, sulla quale incombe il
dovere specifico di fornirle, senza potersi rifiutare (Corte
dei Conti, Sez. contr., 12.06.1996, n. 87).
La materia oggetto di avvalimento, quindi, rientra tra i
compiti di istituto della seconda amministrazione, posto che
il dovere specifico di fornire le proprie strutture, ai
sensi dell'art. 90, D.Lgs. n. 163/2006, deve essere previsto
dalla legge o da un regolamento e posto che il regolamento o
la legge individuano le funzioni, i compiti, i doveri delle
varie amministrazioni e dei vari enti pubblici, in ossequio
al principio di legalità ex art. 97 Cost.
2.2.2. In definitiva, nei casi in questione il rapporto
intercorre tra le due amministrazioni mentre il dipendente
che in concreto effettua l’attività di progettazione
all’interno dell’organismo di cui si avvale l’altra
amministrazione appaltante resta, per l’appunto, un soggetto
legato alla propria amministrazione di appartenenza secondo
il contratto di lavoro. Ciò ne determina l’assoggettamento
allo statuto giuridico che lo lega alla stessa e, più in
generale, alla pubblica amministrazione.
Ebbene, proprio tale statuto giuridico si
ispira al principio generale di onnicomprensività della
retribuzione (come meglio si dirà oltre) e, nel caso in cui
si tratti di figura dirigenziale, come nell’ipotesi
esaminata, esclude espressamente la corresponsione del
corrispettivo incentivante di cui all’art. 93 del Codice dei
contratti pubblici, ferma restando la più generale
valutazione dell’operato del medesimo, in termini
quantitativi e qualitativi, ai fini del conseguimento del
trattamento accessorio spettante secondo la struttura
retributiva vigente. Si badi che la disposizione non
distingue tra dirigenti apicali e non apicali né prende in
considerazione criteri discretivi che prescindano dalla mera
“qualifica di dirigente”.
2.3. È pure evidente come la suddetta soluzione, in linea
con la disciplina legislativa recata dall’ultimo periodo di
cui al comma 7-ter, corrisponda bensì alla ratio
della disposizione normativa ed ai principi propri
dell’ordinamento dei dipendenti pubblici e, segnatamente,
della dirigenza. Viene, infatti, direttamente in rilievo,
come anticipato, il principio di onnnicomprensività (che,
non a caso, era espressamente richiamato dal D.L.
24.06.2014, n. 90, all’art. 13, comma 1, nella formulazione
anteriore alla legge di conversione, che poi abrogò la norma
riscrivendo l’art. 93: «All'articolo 92 del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, dopo il comma 6 è aggiunto
il seguente: "6-bis. In ragione della onnicomprensività del
relativo trattamento economico, al personale con qualifica
dirigenziale non possono essere corrisposte somme in base
alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6."»).
Il principio immanente di onnicomprensività del trattamento
economico, come si può anche desumere dal decreto
legislativo n. 165/2001 che detta le norme in materia di
pubblico impiego: il suddetto testo legislativo, nel
razionalizzare il sistema retributivo dei dipendenti
pubblici, ha previsto che al trattamento economico
principale si affianchi un trattamento accessorio correlato,
per quello che concerne i dirigenti, alle funzioni
attribuite ed alle connesse responsabilità (art. 24) e per
ciò che riguarda il personale non dirigente, alla
produttività individuale ed a quella collettiva (art. 45).
Per i dirigenti, inoltre, è puntualizzato che il
trattamento economico remunera tutte le funzioni e compiti
attribuiti in base a quanto previsto dal decreto legislativo
n. 165/2001, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in
ragione del loro ufficio o comunque conferito
dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su
designazione della stessa (cfr. nei medesimi termini l’art.
13 della legge regionale 15.05.2000, n. 10).
Il successivo art. 54 del testo unico sul pubblico impiego,
nel porre il divieto per le Amministrazioni di conferire ai
dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri
d’ufficio, che non siano espressamente previsti e
disciplinati dalla legge o altre fonti normative, o che non
siano espressamente autorizzati, costituisce, argomentando a
contrario, ulteriore espressione del divieto di
corrispondere compensi per lo svolgimento di attività
istituzionali, il cui esercizio trovi il suo presupposto
necessario nella qualifica attribuita e nell’ufficio
ricoperto dal soggetto o, comunque, nelle finalità
istituzionali dell’Ente di appartenenza.
È poi altrettanto pacifico che i compiti ed i doveri di
ufficio di un soggetto vanno valutati non con riferimento
all’ufficio nel quale è momentaneamente incardinato, bensì
alla qualifica da lui posseduta ed alle mansioni che
l’ordinamento individua in capo a quest’ultima, in funzione
dell’appartenenza e delle esigenze operative di una
particolare P.A., esigenze che ben possono essere, di volta
in volta, quelle di rendere la propria attività a favore
dell’ente avvalente.
In tale contesto ordinamentale è noto come proprio la
disposizione recata dagli articoli 17 e 18 della legge
11.02.1994 n. 109, che ha disciplinato la corresponsione
dell’incentivo ai dipendenti pubblici in materia di
progettazione di opere pubbliche, abbia introdotto
un’eccezione, in senso proprio, alla regola della
onnicomprensività della retribuzione, non suscettibile di
alcuna interpretazione analogica.
Ed allora, l’attuale disciplina, laddove
espressamente esclude i dirigenti dalla corresponsione degli
incentivi, non rappresenta tanto una deroga o un’eccezione
bensì il riespandersi del richiamato principio generale di
onnicomprensività. La stessa formulazione letterale è una
chiara conferma della volontà legislativa di non rendere
derogabile il principio di onnicomprensività del trattamento
retributivo per il personale che possiede “qualifica
dirigenziale” ed appare, anzi, proprio finalizzata ad
evitare di estendere la deroga al personale dirigenziale,
per il quale la portata del principio generale è affermata
in termini precettivi assai rigorosi.
2.3. Ulteriore argomento a discapito della tesi sostenuta
dall’amministrazione richiedente si ricava dalla disparità
di trattamento che, accedendo a detta tesi, si verrebbe a
creare tra due dirigenti del Dipartimento che si ipotizzi
impegnati nella redazione di attività tecnica di
progettazione, il primo a favore della Regione, il secondo a
favore di una stazione appaltante esterna: ebbene, per il
medesimo lavoro, il primo riceverebbe l’ordinaria
retribuzione spettante al personale dirigenziale sulla base
del principio di onnicomprensività mentre il secondo
conseguirebbe anche un ulteriore incentivo.
2.4. In definitiva, non solo non può
ritenersi legittima in via interpretativa una diversa
conclusione, come quella prospettata dall’ente, ma è
evidente che neppure sarebbe possibile introdurre una deroga
(contra legem) all’ultimo periodo dell’art. 7-ter
attraverso la fonte amministrativa (regolamento ex art. 93,
comma 7) o pattizia (convenzione)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 24.11.2015 n. 319). |
URBANISTICA: Rilevano,
ai fini del rispetto del Patto di stabilità, le somme
derivanti dall’escussione di polizze fideiussorie stipulate
in attuazione di convenzioni urbanistiche.
L’ente infatti, escutendo la fideiussione, subentra ai
privati nel completamento delle opere di urbanizzazione “in
proprio” e, così facendo, imprime una connotazione
pubblicistica alle somme a tal fine utilizzate, che peraltro
entrano nel bilancio dell’ente e conseguentemente restano
assoggettate alla relativa disciplina, anche in termini di
rispetto degli specifici obiettivi vigenti in riferimento al
patto di stabilità.
Si deve pertanto escludere,
contrariamente a quanto sostenuto nella richiesta di parere,
che la realizzazione delle opere di
urbanizzazione da parte del Comune per inerzia del privato
possa considerarsi un’attività compiuta in “conto terzi” che
giustifichi la contabilizzazione delle spese nei relativi
capitoli di bilancio.
---------------
Con l’assumere direttamente la
realizzazione delle opere sia pure inizialmente affidate
all’iniziativa privata, il Comune, lungi dal divenire il
mero esecutore di una determinazione altrui, mantiene la
totale discrezionalità e l’autonomia decisionale che
escludono le relative transazioni dal novero dei servizi
conto terzi.
---------------
La tassatività delle voci di entrata e di
spesa escludibili dal saldo finanziario valido ai fini della
verifica del rispetto del patto, porta a ritenere che
debbano essere contabilizzate nei pertinenti titoli di
bilancio anche le spese sostenute a seguito di interventi
sostitutivi del comune richiesti con Ordinanza sindacale o
dirigenziale, in materia di igiene, sicurezza o abusivismo
edilizio, originariamente richiesti al privato.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del comune di Masate
(MI) dopo aver riferito che il mancato adempimento degli
obblighi derivanti da una convenzione urbanista comporta per
il comune la necessità di escutere la garanzia rilasciata
dal privato e di sostituirsi allo stesso nella realizzazione
delle opere di urbanizzazione richieste, formula i
seguenti quesiti:
1. se, in generale, le spese sostenute dal Comune che
agisca in sostituzione del privato per la realizzazione
delle opere di urbanizzazione con l’impiego di somme
derivanti dall’escussione della polizza fideiussoria possano
essere contabilizzate tra le partite di giro in modo da non
incidere sul rispetto del Patto di stabilità interno;
2. se, più in particolare, le stesse spese possano essere
escluse da quelle rilevanti ai fini del Patto di stabilità
nel caso in cui si tratti di interventi richiesti con
Ordinanza sindacale o dirigenziale, in materia di igiene,
sicurezza o abusivismo edilizio.
...
L’esame del merito dei quesiti proposti richiede di
stabilire la corretta contabilizzazione, agli effetti del
rispetto del Patto di stabilità interno, delle spese
sostenute dall’ente mediante l’impiego di somme derivanti
dall’escussione di una polizza fideiussoria, in attuazione
di una convenzione urbanistica, a garanzia della corretta
realizzazione di opere di urbanizzazione.
La questione è già stata affrontata da questa Sezione con il
parere reso con il
parere 30.03.2015 n. 143 che si richiama di
seguito.
Si deve ribadire, in primo luogo, la natura cogente delle
disposizioni costituenti il patto di stabilità interno. Gli
articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183 (legge
di stabilità per il 2012), come più volte modificati e
integrati, da ultimo, per quanto di rilievo, dall’art. 1,
comma 489, della legge n. 190 del 2014, disciplinano la
materia, fra l’altro, per l’anno 2015 (per approfondimenti
si rinvia alla Circolare MEF-RGS n. 6 del 18.02.2014,
relativa al triennio 2014-2016).
Con riferimento alle voci di entrata e di spesa escludibili
dal saldo finanziario valido ai fini della verifica del
rispetto del patto, l’art. 31, commi 7 ss., della citata
legge n. 183 del 2011, come successivamente modificato, ha
confermato, nelle sue linee portanti, il previgente sistema
di deroghe, con alcune variazioni. Importanza fondamentale
assume in materia il comma 17, che abroga le disposizioni
che individuano esclusioni di entrata o di spesa non
previste espressamente dalla stessa legge di stabilità per
il 2012.
Pertanto, per l’esercizio finanziario in corso, non sono
consentite esclusioni di entrate o di spese diverse da
quelle previste dalla legge.
Il predetto principio di tassatività è stato più volte
oggetto di attenzione da parte di questa Corte, che ha
sempre confermato la natura imperativa ed inderogabile delle
relative disposizioni legislative (v. la deliberazione delle
Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 6 del 25.01.2011;
le deliberazioni di questa Sezione n. 1026/2010/PAR, n.
54/2012/PAR, n. 375/2014/PAR).
Quanto esposto è confermato, da ultimo, dalla citata
Circolare MEF-RGS n. 6 del 2014, che, per il triennio
2014-2016, riporta una dettagliata esplicitazione delle
ipotesi di entrate e spese escludibili in forza delle
vigenti disposizioni di legge.
Al riguardo, si deve altresì rilevare che i
precedenti del giudice contabile hanno evidenziato, in
applicazione dei predetti principi, la rilevanza, ai fini
del rispetto del Patto di stabilità, delle somme derivanti
dall’escussione di polizze fideiussorie stipulate in
attuazione di convenzioni urbanistiche. L’ente infatti,
escutendo la fideiussione, subentra ai privati nel
completamento delle opere di urbanizzazione “in proprio”
e, così facendo, imprime una connotazione pubblicistica alle
somme a tal fine utilizzate, che peraltro entrano nel
bilancio dell’ente e conseguentemente restano assoggettate
alla relativa disciplina, anche in termini di rispetto degli
specifici obiettivi vigenti in riferimento al patto di
stabilità (v.
Sezione regionale di controllo per il Veneto,
parere 15.05.2013 n. 128;
cfr. altresì questa Sezione,
parere 19.11.2009 n. 1044).
Si deve pertanto escludere,
contrariamente a quanto sostenuto nella richiesta di parere,
che la realizzazione delle opere di urbanizzazione
da parte del Comune per inerzia del privato possa
considerarsi un’attività compiuta in “conto terzi”
che giustifichi la contabilizzazione delle spese nei
relativi capitoli di bilancio.
L’art. 168 del TUEL nel testo introdotto dal decreto
legislativo 23.06.2011, n. 118 come modificato dal decreto
legislativo 10.08.2014, n. 126 stabilisce che “le entrate
e le spese relative ai servizi per conto di terzi e le
partite di giro, che costituiscono al tempo stesso un debito
ed un credito per l'ente, comprendono le transazioni poste
in essere per conto di altri soggetti, in assenza di
qualsiasi discrezionalità come individuate dal principio
applicato della contabilità finanziaria di cui all'allegato
n. 4/2 del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, e
successive modificazioni”.
Il richiamato principio contabile, al punto 7, dopo avere
ribadito che le transazioni per conto terzi, non comportando
discrezionalità ed autonomia decisionale, non hanno natura
autorizzatoria, precisa che la predetta autonomia
decisionale sussiste quando l’ente concorre alla definizione
di almeno uno dei seguenti elementi della transazione:
ammontare, tempi e destinatari della spesa.
Con l’assumere direttamente la
realizzazione delle opere sia pure inizialmente affidate
all’iniziativa privata, il Comune, lungi dal divenire il
mero esecutore di una determinazione altrui, mantiene la
totale discrezionalità e l’autonomia decisionale che
escludono le relative transazioni dal novero dei servizi
conto terzi.
La tassatività delle voci di entrata e di
spesa escludibili dal saldo finanziario valido ai fini della
verifica del rispetto del patto, nel senso sopra descritto,
porta a ritenere che debbano essere contabilizzate nei
pertinenti titoli di bilancio anche le spese sostenute a
seguito di interventi sostitutivi del comune richiesti con
Ordinanza sindacale o dirigenziale, in materia di igiene,
sicurezza o abusivismo edilizio, originariamente richiesti
al privato.
Si ricorda al riguardo che, ai sensi dell’art. 31, comma 7,
della citata legge n. 183 2011, possono essere escluse dal
saldo le entrate derivanti dallo Stato, le relative spese di
parte corrente e in conto capitale sostenute dalle province
e dai comuni per l'attuazione delle ordinanze emanate dal
Presidente del Consiglio dei ministri a seguito di
dichiarazione dello stato di emergenza
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 17.11.2015 n. 430). |
ENTI LOCALI:
Non paghi? Non puoi assumere.
Debiti p.a..
Divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo e con
qualsivoglia tipologia contrattuale, per le amministrazioni
pubbliche che registrano un indice dei tempi medi di
pagamento superiore a 90 giorni nel 2014 e a 60 giorni a
decorrere dal 2015.
Questo è il principio di diritto affermato dalla Corte dei
conti, Sez. Umbria (parere
12.11.2015 n. 148), in
risposta al parere del comune di Terni.
Quest'ultimo infatti
chiedeva alla Corte se ai fini dell'assunzione, tramite
concorso, di personale non amministrativo dei servizi
scolastici ed educativi, tra le «limitazioni assunzionali
vigenti» rientrava anche quella prevista dall'articolo 41, 2°
comma, del dl 66/2014 (mancato rispetto per l'anno 2014
dell'indicatore dei tempi medi nei pagamenti).
Ricordano i
giudici che la ratio del legislatore, quale traspare dalla
formulazione letterale della norma citata («nel rispetto
delle limitazioni assunzionali e finanziarie vigenti»),
deve essere intesa nel senso che la facoltà di «indire le
procedure concorsuali per il reclutamento a tempo
indeterminato di personale in possesso di titoli di studio
specifici abilitanti o in possesso di abilitazioni
professionali necessarie per lo svolgimento delle funzioni
fondamentali relative all'organizzazione e gestione dei
servizi educativi e scolastici, con esclusione del personale
amministrativo, oltre alle condizioni espressamente
richiamate nella richiesta di parere, ossia: l'esaurimento
delle graduatorie vigenti, l'assenza di figure professionali
idonee tra le unità soprannumerarie «destinatarie dei
processi di mobilità», debba svolgersi nel rispetto di
tutte le limitazioni (anche di natura finanziaria) previste
dalla normativa vigente in materia di assunzione di
personale.
Tra dette limitazioni non può ritenersi esclusa quella
prevista dall'art. 41, comma 2, del dl 66/2014, come
modificato dalla legge di conversione 23.06.2014, n. 89, che
sanziona con il divieto di procedere ad assunzioni a
qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale,
nell'anno successivo a quello di riferimento, le p.a. che
non rispettano i tempi di pagamento
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
scambiabili. Anche negli enti soggetti a divieto di
assunzioni. La Corte conti
dell'Umbria consente di attivare le procedure di mobilità.
Mobilità per interscambio possibile anche per gli enti che
incorrano nel divieto di assunzioni.
Il
parere 12.11.2015 n. 147
della Corte dei conti, sezione regionale di controllo
dell'Umbria, fornisce un
chiarimento utilissimo per le amministrazioni locali e non
solo, perché apre margini di flessibilizzazione nella
gestione del personale.
La sezione Umbria consente espressamente di attivare la
mobilità per interscambio anche ad un ente che incappi nel
divieto assoluto di effettuare assunzioni, per violazione
dell'articolo 41, comma 2, del dl 66/2014 come convertito
dalla legge 89/2014 e, cioè, per aver sforato i tempi di
pagamento ivi previsti.
Quanto specifica la sezione è estremamente importante,
perché chiarisce la differenza esistente tra la mobilità
volontaria e quella per interscambio.
Come indica il parere, la mobilità volontaria disciplinata
dall'articolo 30 del dlgs 165/2001 (attualmente
inapplicabile per effetto dell'articolo 1, commi 424 e 425,
della legge 190/2014) ha lo scopo di coprire posti vacanti
della dotazione organica.
Per quanto tale mobilità sia da considerare neutra sul piano
finanziario se posta in essere tra enti entrambi soggetti a
vincoli alle assunzioni, dal momento che non accresce gli
oneri complessivi della finanza pubblica, tuttavia implica
comunque per l'ente di destinazione un incremento della
spesa di personale.
Ciò impedisce radicalmente, spiega la sezione Umbria, di
utilizzare la mobilità volontaria come strumento di
reclutamento, pendente il divieto in capo all'ente,
cagionato dalla violazione dei tempi medi di pagamento.
Fattispecie diversa è la mobilità per interscambio. Essa, a
differenza della mobilità volontaria, non ha lo scopo di
coprire un posto vacante della dotazione organica, ma di
permettere a due enti di scambiare tra loro due dipendenti
che, dunque, cambiano sede, senza modifiche di alcun genera
all'assetto organizzativo degli enti e alla spesa.
La sezione Umbria ritiene applicabile l'articolo 5 del dpcm
05.08.1988, n. 325, ai sensi del quale «è consentita in
ogni momento, nell'ambito delle dotazioni organiche di cui
all'art. 3, la mobilità dei singoli dipendenti presso la
stessa od altre amministrazioni, anche di diverso comparto,
nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri
dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo
nulla osta dell'amministrazione di provenienza e di quella
di destinazione».
In particolare, secondo il parere, la mobilità per
interscambio, poiché è «improduttiva di variazioni
dell'organico e di nuove ed ulteriori spese per le
amministrazioni coinvolte» non rientra nell'ambito di
applicazione dell'articolo 41, comma 2, del dl 66/2014
perché si limita a permettere a due dipendenti di profilo
professionale corrispondente, di «scambiare»
l'amministrazione di appartenenza, previo nulla osta degli
enti coinvolti.
Quanto espresso dalla sezione Umbria va a completare le
indicazioni a suo tempo formulate sul tema della mobilità
per intere scambio dalla sezione Veneto, col parere
06.03.2013, che aveva ritenuto possibile la mobilità per
interscambio nonostante l'abolizione dell'articolo 6, comma
20, del dpr 268/1987, norma a suo tempo espressamente dedicata
a regolare tale istituto nel comparto regioni enti locali.
La sezione Veneto individuò nei principi generali delle
leggi sul reclutamento la possibilità di attivare
l'interscambio, senza riferirsi all'articolo 7 del dpcm
05.08.1988, n. 325 che, invece, a giudizio della sezione
Umbria, come visto, costituisce fonte vigente per applicare
l'istituto
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Manutenzioni, incentivi vietati ai tecnici della p.a..
Delibera della Corte dei conti sulle nuove modifiche.
Sono illegittimi gli incentivi ai tecnici della pubblica
amministrazione se relativi a servizi manutentivi e non alla
progettazione di lavori.
E quanto ha affermato la Corte dei
conti con il
parere 28.10.2015 n. 490 della
sezione regionale di controllo per la Toscana che ha risolto
due problematiche riguardanti le modifiche introdotte, in
materia di incentivi alla progettazione, a opera degli
articoli 13 e 13-bis del dl 24.06.2014, n. 90,
convertito dalla legge 114/2014.
La prima verteva sull'esistenza o meno dell'obbligo di
esclusione dell'incentivo per le attività manutentive, sia
ordinarie sia straordinarie; la seconda concerneva le
modalità di calcolo della annualità cui riferirsi per la
verifica del limite massimo per la corresponsione degli
incentivi (pari al 50% del trattamento economico complessivo
annuo lordo), cioè se si dovesse fare riferimento al momento
della liquidazione oppure alla fase del pagamento dei
corrispettivi.
Sul primo argomento va innanzitutto precisato come la
materia sia oggetto di profonda revisione da parte del
disegno di legge delega sugli appalti pubblici che, in un
apposito criterio di delega, prevede lo spostamento
dell'incentivo ai tecnici della pubbliche amministrazione
sulle fasi di programmazione e controllo, con divieto di
applicazione alle attività di progettazione. In prospettiva
quindi, almeno su questo primo aspetto, questioni
particolari non dovrebbero più esserci, laddove il testo
della norma all'esame della camera verrà confermato.
Nel merito della norma attualmente vigente la corte dei
conti riassume una serie di punti fondamentali partendo
dalla considerazione che la «possibilità di corrispondere
l'incentivo è limitata all'area degli appalti pubblici di
lavori, e non si estende agli appalti di servizi
manutentivi». La ragione di ciò è da rinvenirsi nella
«natura eccezionale della deroga» che porta a dichiarare che
l'incentivo «non può riconoscersi per qualunque intervento
di manutenzione straordinaria-ordinaria, ma solo per lavori
finalizzati alla realizzazione di un'opera pubblica, e
sempre che alla base sussista una necessaria attività
progettuale».
In realtà la delibera chiarisce anche che l'incentivo
potrebbe essere anche riconosciuto anche se non relativo a
tutte e tre le fasi della progettazione (preliminare,
definitiva ed esecutiva).
Inoltre, la magistratura contabile esclude che si possa
applicare l'incentivo per tutti i lavori di manutenzione per
il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di
una gara (com'è il caso per i lavori di manutenzione
eseguiti in economia). Su questo punto la delibera conclude
comunque che «le ipotesi di riconoscibilità dell'incentivo
ad attività di manutenzione ordinaria, anche laddove
astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini
molto limitati, spettando comunque all'ente di valutare
quale sia la soglia minima di complessità tecnica e
progettuale che ne giustifichi la corresponsione».
Per quel che concerne poi il calcolo dell'annualità si deve
avere riguardo al momento della corresponsione e, quindi,
alla fase del pagamento, cioè alla materiale erogazione del
«riconoscimento incentivante»
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Corte
dei conti. Dipendente demansionato, risponde solo il
dirigente.
La responsabilità erariale determinata dal risarcimento dei
danni determinati dal demansionamento di un dipendente
matura solo in capo al dirigente responsabile e gli
amministratori non sono responsabili, neppure per i maggiori
oneri causati dalla proposizione dell’appello.
Sono questi i
principi affermati dalla
sentenza 23.09.2015 n. 139 della sezione
giurisdizionale della Corte dei Conti del Veneto.
Il suo contenuto sembra “anticipare” l’attuazione del
principio affermato dalla legge Madia, la n. 124/2015, che
rimette al decreto delegato sulla dirigenza pubblica –da
adottare entro il prossimo mese di agosto- la «ridefinizione
del rapporto tra responsabilità dirigenziale e
responsabilità amministrativo-contabile, con particolare
riferimento alla esclusiva imputabilità ai dirigenti della
responsabilità per l’attività gestionale». Ma dà
attuazione a quanto previsto per gli enti locali dal testo
unico delle leggi sull’ordinamento locale.
Nel caso oggetto della sentenza, una dipendente a tempo
indeterminato utilizzata nell’ufficio di staff di un
sindaco, a seguito dell’insediamento di una nuova
amministrazione, era stata progressivamente “esautorata”,
non le erano stati assegnati incarichi corrispondenti e anzi
era stata costretta «per un lungo periodo alla quasi
totale inoperosità». Elementi accertati da una sentenza
del giudice del lavoro, che ha condannato il Comune a un
elevato risarcimento del danno conseguente al
demansionamento. Di questo danno è stato ritenuto
responsabile esclusivamente il segretario comunale, che
svolgeva anche il compito di dirigente del settore
personale.
La sentenza stabilisce con molta nettezza due principi. In
primo luogo, la condanna inflitta dal giudice del lavoro
determina la maturazione di responsabilità amministrativa.
In secondo luogo, la condotta del segretario-responsabile
del personale «è connotata da colpa grave, in
considerazione dell’apicalità e molteplicità dei ruoli
rivestiti che avrebbero consentito un’immediata ed efficace
soluzione della situazione insorta con la dipendente, nonché
in considerazione del lungo protrarsi nel tempo dei
comportamenti inadeguati».
La sentenza assolve inoltre gli amministratori
dall’imputazione di aver determinato ulteriori danni con la
proposizione dell’appello, in quanto questa scelta era
basata su una «ragionevole motivazione», costituita
dal fatto che la proposta di delibera era corredata dal
parere tecnico favorevole.
Questa sentenza è basata sui principi affermati dalla
legislazione vigente: basta fare riferimento alle previsioni
contenute nell’articolo 107, comma 6, del Dlgs 267/2000,
secondo il quale «i dirigenti sono direttamente
responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi
dell’ente, della correttezza amministrativa, della
efficienza e dei risultati della gestione». Di
conseguenza, appare evidente che quanto previsto dalla legge
n. 124/2015 determinerà concretamente solo l’estensione a
tutte le amministrazioni pubbliche delle regole in vigore
per gli enti locali.
Anche se non si può mancare di sottolineare il rilievo che
comunque assume la nuova disposizione in termini di annuncio
e, di conseguenza, l’inevitabile rafforzamento delle
disposizioni già esistenti che sostanzialmente limitano la
maturazione della responsabilità contabile degli
amministratori ai soli casi in cui essi hanno dato con dolo
o colpa grave l’input a decisioni illegittime da cui sono
scaturiti danni erariali.
Dal decreto attuativo della legge n. 124/2014 ci si deve
attendere la riscrittura delle disposizioni sulla
maturazione di responsabilità dirigenziale, cioè di
risultato, nel caso di scelte illegittime e che apportano un
danno all’ente (articolo Il Sole 24 Ore del
30.11.2015). |
URBANISTICA:
Il pagamento dei lavori effettuati mediante l’impiego delle
somme derivanti dall’escussione di una polizza fideiussoria,
stipulata in attuazione di convenzione urbanistica, a
garanzia della corretta esecuzione delle opere di
urbanizzazione (primaria e secondaria), non possono essere
contabilizzate “nell’ambito delle partite di giro”, quali
spese per “opere che dovevano inizialmente essere eseguite
da privati” e, come tali, escluse dal patto di stabilità.
Sono “partite di giro” le entrate e le
spese che costituiscono, nel contempo, un credito ed un
debito per l’ente.
La fattispecie dedotta dal Comune non pare assolutamente
sussumibile nelle c.d. partite di giro ossia nei servizi per
conto terzi, di cui all’art. 168 del TUEL.
Il completamento delle opere di urbanizzazione, se pure
inizialmente di competenza di altri, infatti, è stato
assunto non per conto di terzi bensì “in proprio” dall’ente,
che innegabilmente si è “accollato” il rischio, operativo e
patrimoniale, dell’intervento.
A tal fine, il comune ha dovuto porre in
essere tutta una serie di adempimenti preliminari (primo fra
tutti, l’inserimento delle opere nel programma triennale e,
a seguire, l’approvazione del relativo progetto e
l’espletamento delle procedure di affidamento dell’appalto),
che hanno consentito la riconduzione, all’interno delle
competenze comunali, delle opere in questione, a riprova del
fatto che non si tratta più di un’attività di terzi.
Si nutrono, inoltre, dubbi che,
nella specie, possa realizzarsi quel perfetto equilibrio,
sia in sede preventiva che consuntiva, tra le entrate e le
spese e tra le riscossioni ed i pagamenti, che caratterizza
le partite di giro (ciò anche in considerazione
dell’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica).
Poiché la connotazione, in termini di neutralità ed
irrilevanza per il bilancio dell’ente (e, del pari, ai fini
della determinazione del saldo del Patto di stabilità), dei
c.d. servizi per conto terzi è subordinata alla piena ed
assoluta corrispondenza dell’operazione finanziaria
sottostante alla rigida classificazione contenuta nel già
richiamato D.P.R. n. 194/1996, qualsivoglia “forzatura” o
errore nella allocazione delle relative poste costituisce
grave irregolarità contabile.
La non corretta contabilizzazione di importi da collocare in
altri Titoli dell’entrata e della spesa, infatti,
concretizza non solo una violazione del Principio contabile
dianzi richiamato, vincolante per l’ente locale, ma anche
delle disposizioni del TUEL che disciplinano i servizi per
conto terzi (o partite di giro), con effetti anche sul piano
del rispetto, sostanziale ed effettivo, del Patto di
stabilità.
---------------
Il sindaco del Comune di Grisignano di Zocco (VI),
con la suindicata richiesta di parere, presentata ai sensi
dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131,
precisando che, solo da quest’anno, l’Ente è soggetto alle
regole del patto di stabilità, chiede se il pagamento dei
lavori effettuati mediante l’impiego delle somme derivanti
dall’escussione di una polizza fideiussoria, stipulata in
attuazione di convenzione urbanistica, a garanzia della
corretta esecuzione delle opere di urbanizzazione (primaria
e secondaria), già impegnate nel 2011, possano essere
contabilizzate “nell’ambito delle partite di giro”,
quali spese per “opere che dovevano inizialmente essere
eseguite da privati” e, come tali, escluse dal patto di
stabilità.
...
Nel merito, come si è evidenziato, il Comune di Grisignano
di Zocco chiede se possa ritenersi escluso dal patto di
stabilità il pagamento dei lavori di completamento delle
opere di urbanizzazione connesse all’attuazione di una
convenzione urbanistica, da effettuarsi utilizzando le somme
rinvenienti dalla escussione di una polizza fideiussoria
stipulata a garanzia dell’obbligo di eseguire dette opere
(solo parzialmente adempiuto), già impegnate, a tal fine,
nell’esercizio 2011.
L’esclusione troverebbe fondamento nella collocazione della
relativa spesa tra le c.d. “partite di giro”, in
ragione del fatto che si tratterebbe di “opere che dovevano
inizialmente essere eseguite da privati”.
La risposta al suesposto quesito necessita della preliminare
individuazione di quelle che, secondo l’ordinamento
contabile, costituiscono “partite di giro”, sì da
verificare se la fattispecie posta all’esame della Sezione
possa o meno trovare collocazione in tale ambito ed essere,
quindi, esclusa dal saldo finanziario contemplato dall’art.
31.
Secondo l’intendimento comune, sono “partite
di giro” le entrate e le spese che costituiscono, nel
contempo, un credito ed un debito per l’ente.
Tali entrate e spese non sono effettive (non producono,
cioè, alcun effetto sul risultato economico della gestione),
ma vengono annotate in bilancio solo “per memoria”.
L’art. 2, comma 8, del D.P.R. 31.01.1996, n. 194, ne
contiene una elencazione, che comprende: le ritenute
previdenziali e assistenziali, le ritenute erariali, altri
tipi di ritenute, i depositi cauzionali, i depositi per
spese contrattuali, le gestione dei fondi economali ed i
c.d. servizi per conto terzi.
L’art. 168 del TUEL, al comma 1, ne prescrive la
collocazione in appositi capitoli, in modo da palesarne in
via immediata la natura figurativa e neutrale per il
bilancio dell’ente, enunciando, al comma 2, il principio
dell’equivalenza -ulteriormente esplicitato nel punto 25 del
Principio contabile n. 2, applicabile al sistema di
contabilità degli enti locali– in base al quale “la
misura dell’accertamento deve garantire l’equivalenza con
l’impegno sul correlato capitolo delle spese” (in
sostanza, il pareggio tra le entrate e le uscite).
In via di eccezione al carattere autorizzatorio del
bilancio, il comma 2 dell’art. 164 del T.U.E.L. consente
l’assunzione di impegni di spesa oltre gli stanziamenti
previsti, mentre il successivo art. 175, per evitare
commistioni con la ordinaria gestione di bilancio, al comma
7, esclude variazioni di dotazione finanziaria dei relativi
capitoli con altre sezioni del bilancio stesso.
Sempre secondo il Principio contabile n. 2, punto 25 –e
secondo l’orientamento, pressoché costante, della Corte dei
conti– le voci ascrivibili alle “partite di giro”
sono soltanto quelle “tipizzate” nell’elencazione
contenuta nel citato D.P.R. 194/1996, ciò evincendosi, tra
l’altro, dal divieto, sancito dall’art. 165, comma 12, del
T.U.E.L., di inclusione tra i “servizi per conto terzi”
delle funzioni delegate dalle Regioni.
Da siffatta disposizione, peraltro, si desume, altresì, che
i suddetti servizi, sono tali e, dunque, costituiscono
partite di giro, solo quando si tratti di attività estranee
alle competenze (anche delegate) dell’ente, ovvero quando
siano realizzate nel preminente interesse di soggetti terzi
e rispetto ad esse l’ente medesimo non assuma alcun rischio,
né operativo né patrimoniale, qualificandosi, in definitiva,
come mero esecutore materiale di determinazioni altrui.
Alla luce di quanto puntualizzato, la
fattispecie dedotta dal Comune di Grisignano di Zocco non
pare assolutamente sussumibile nelle c.d. partite di giro
ossia nei servizi per conto terzi, di cui all’art. 168 del
TUEL.
Il completamento delle opere di urbanizzazione, se pure
inizialmente di competenza di altri, infatti, è stato
assunto non per conto di terzi bensì “in proprio”
dall’ente, che innegabilmente si è “accollato” il
rischio, operativo e patrimoniale, dell’intervento.
A tal fine, il comune ha dovuto porre in
essere tutta una serie di adempimenti preliminari (primo fra
tutti, l’inserimento delle opere nel programma triennale e,
a seguire, l’approvazione del relativo progetto e
l’espletamento delle procedure di affidamento dell’appalto),
che hanno consentito la riconduzione, all’interno delle
competenze comunali, delle opere in questione, a riprova del
fatto che non si tratta più di un’attività di terzi.
Si nutrono, inoltre, dubbi che, nella
specie, possa realizzarsi quel perfetto equilibrio, sia in
sede preventiva che consuntiva, tra le entrate e le spese e
tra le riscossioni ed i pagamenti, che caratterizza le
partite di giro (ciò anche in considerazione
dell’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica).
Poiché la connotazione, in termini di neutralità ed
irrilevanza per il bilancio dell’ente (e, del pari, ai fini
della determinazione del saldo del Patto di stabilità), dei
c.d. servizi per conto terzi è subordinata alla piena ed
assoluta corrispondenza dell’operazione finanziaria
sottostante alla rigida classificazione contenuta nel già
richiamato D.P.R. n. 194/1996, qualsivoglia “forzatura”
o errore nella allocazione delle relative poste costituisce
grave irregolarità contabile.
La non corretta contabilizzazione di importi da collocare in
altri Titoli dell’entrata e della spesa, infatti,
concretizza non solo una violazione del Principio contabile
dianzi richiamato, vincolante per l’ente locale, ma anche
delle disposizioni del TUEL che disciplinano i servizi per
conto terzi (o partite di giro), con effetti anche sul piano
del rispetto, sostanziale ed effettivo, del Patto di
stabilità.
Non è un caso che l’art. 1, comma 111-ter, della Legge
13.12.2013, n. 220, così come modificato dall’art. 20, comma
12, della Legge n. 111/2011, codifichi, sia pure in via solo
esemplificativa, tra le condotte elusive, proprio l’errata
iscrizione di spese nei servizi per conto terzi.
All’evidenza, la sottrazione di poste che avrebbero dovuto
concorrere alla quantificazione dell’obiettivo finanziario
del saldo del Patto, attraverso una allocazione difforme
dalla reale natura delle stesse, può comportare l’inesatta
determinazione di tale obiettivo e la conseguente “elusione”
del Patto, alla quale, se accertata, seguirà l’irrogazione
di sanzioni a all’ente ed agli amministratori (Corte dei
Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 15.05.2013 n. 128). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Il codice identificativo di gara.
DOMANDA:
In riferimento all'art. 3 della legge 136/2010 e alla
Determinazione ex AVCP 4/2011 (utilizzo di c/c dedicato -
attribuzione di codice CIG), si chiede parere in ordine
all'obbligo di attribuzione del codice identificativo gara e
al rispetto degli obblighi in materia di tracciabilità per
le seguenti fattispecie di spesa:
1) spedizione di atti giudiziari tramite Poste Italiane Spa,
pagamento mensile (€ 5.000,00 circa) a presentazione di
fattura elettronica;
2) spese di custodia veicoli rimossi ai sensi del CdS
giacenti presso le depositerie autorizzate, importo del
corrispettivo disposto dalla Prefettura (legge di stabilità
2014 che ha previsto procedura straordinaria per
l'alienazione dei veicoli giacenti presso le depositerie
autorizzate ai sensi del DPR 571/1982), da pagare alla
depositeria a presentazione di fattura elettronica;
3) rimborso spese ad Associazioni di volontariato che
collaborano con la Polizia Municipale in servizi di tutela
ZTL, supporto in occasione di manifestazioni, presidio
davanti alle scuole negli orari di entrata uscita alunni.
RISPOSTA:
1) L’art. 4 del d.lgs. 261/1999, nel testo risultante a
seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 del d.lgs.
58/2011, prevede che i servizi inerenti le notificazioni di
atti a mezzo posta connesse con la notificazione di atti
giudiziari di cui alla legge 20.11.1982, n. 890 nonché i
servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui
all’art. 201 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285
(violazioni in materia di codice della strada) sono affidati
in regime di esclusiva al fornitore designato del servizio
universale, Poste Italiane, per finalità di ordine pubblico.
Ciò significa che -a differenza di altri servizi postali-
quello di invio di atti giudiziari non deve essere affidato
tramite procedura ad evidenza pubblica, che richiederebbe
l'adempimento degli obblighi in materia di tracciabilità
(cfr. Linee guida per l’affidamento degli appalti pubblici
di servizi postali emanate dall'Anac con Deliberazione n. 3
del 09.12.2014).
2) Il Ministero delle Finanze - Dipartimento del Territorio,
con circolare n. 73620 del 30.06.1998, ha elencato i
requisiti soggettivi ed oggettivi che debbono essere
posseduti dai depositari custodi di beni demaniali e dalle
relative depositerie, ai fini dell‘individuazione delle
stesse da parte del Prefetto ai sensi dell'art. 8 del DPR.
29.07.1982 n. 571, che prevede una ricognizione annuale dei
soggetti, pubblici e privati, abilitati a svolgere il
servizio in parola.
Anche successivamente all'introduzione dell'art. 214-bis del
Codice della Strada, i Prefetti devono continuare a
predisporre annualmente, ai sensi dell‘art. 8 del DPR.
571/1982, l'elenco delle depositerie autorizzate alla
custodia dei veicoli sequestrati (cfr. circolare n. 50/06
Ministero dell'Interno - Dipartimento per gli Affari Interni
e Territoriali del 13.12.2006).
Il contratto per l'affidamento del servizio di recupero,
custodia e acquisto di veicoli oggetto dei provvedimenti di
sequestro amministrativo, fermo o confisca ai sensi
dell'art. 214-bis del d.lgs. 30/04/1992 n. 285, è stipulato
col soggetto risultato affidatario nell'ambito di una
procedura di gara ad evidenza pubblica, nell'ambito della
quale è richiesto l'adempimento degli obblighi in materia di
tracciabilità (utilizzo di c/c dedicato - attribuzione di
codice CIG).
3) Le convenzioni stipulate con associazioni di volontariato
rientrano nella disciplina di cui alla legge n. 136/2010
(obbligo di tracciabilità per consentire la trasparenza
delle operazioni finanziarie relative all’utilizzo del
corrispettivo dei contratti pubblici di appalto), nel caso
in cui rivestano carattere oneroso per l’amministrazione
procedente.
Le suddette convenzioni non rientrano nella disciplina di
cui alla legge n. 136/2010, nel caso in cui rivestano
carattere non oneroso per l’amministrazione procedente e
prevedano solo il riconoscimento di un rimborso spese non
forfettario (cfr. FAQ sulla Tracciabilità dei flussi
finanziari pubblicate dall'ANAC in data 21.05.2014) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Stemmi comunali tutelati. Un partito politico non può
appropriarsene. La disciplina del
simbolo dell'ente è demandata dal Tuel allo statuto.
È legittimo l'inserimento dell'immagine dello stemma
comunale nel simbolo di un movimento politico locale che lo
stesso utilizza per tutte le comunicazioni ufficiali, nei
manifesti e, in genere, negli interventi verso la
cittadinanza e verso le istituzioni?
Lo stemma comunale, che in origine era disciplinato dagli
artt. 31 e 66 del regio decreto 07.06.1943 n. 651, reso
esecutivo con regio decreto n. 652/1943 (norme ora abrogate,
la prima dall'art. 274, comma 1, del dlgs 18.08.2000, n.
267, la seconda dall'art. 24, dl 25.06.2008, n. 112), è
attualmente disciplinato dall'art. 6, comma 2, del Tuel n.
267/2000, che demanda all'autonomia dell'ente e, quindi, allo
statuto, la sua determinazione, con l'eventuale previsione
di una specifica disciplina regolamentare per le modalità di
utilizzazione dello stesso.
In particolare, lo stemma costituisce il segno distintivo
del comune, l'elemento grafico rappresentativo dell'identità
dell'ente e, pertanto, è proprietà del comune il quale può
agire, mediante la tutela riconducibile a quella del diritto
al nome di cui all'art. 7 del codice civile, contro chiunque
ne faccia un uso improprio o, comunque, non consentito.
Nella fattispecie in esame, lo statuto comunale descrive la
foggia dello stemma comunale e ne rinvia l'uso alla
disciplina di apposito regolamento che non è stato ancora
adottato.
In assenza di specifica regolamentazione, l'uso dello stemma
è comunque da considerare compatibile sia da parte dei
consiglieri singolarmente sia dai gruppi, in considerazione
del fatto che ciascuno costituisce una parte istituzionale
dell'ente locale del quale lo stemma rappresenta un elemento
unitario di identificazione.
Il suo utilizzo dovrebbe, quindi, essere limitato
all'esercizio del munus istituzionale di cui il gruppo è
investito e a tal fine sarebbe opportuno che sulla carta
intestata fosse prevista, insieme allo stemma comunale, la
contemporanea presenza della denominazione del gruppo o del
nominativo del consigliere, nonché del simbolo del gruppo
con la specifica indicazione «gruppo consiliare».
Nel caso specifico, tuttavia, l'uso è riferito a un
movimento politico al di fuori della sede istituzionale del
comune a cui appartengono i gruppi.
Il segretario generale ha riferito che l'inserimento dello
stemma comunale (con caratteristiche leggermente diverse da
quello ufficiale) nel simbolo del citato movimento politico,
è ritenuto legittimo dal predetto movimento in forza della
sentenza n. 16984/2004 con la quale la Corte di cassazione ha
affermato che «la legge n. 131 del 2003, art. 4 in
particolare, assegna agli statuti di disporre i principi del
funzionamento dell'ente, e tra questi non rientra il potere
di innovare nella disciplina dell'uso e del conflitto tra i
segni identificativi dei soggetti o tra i segni del
mercato».
Tale sentenza, invero, non appare contrastare con l'articolo
6 del Tuel n. 267/2000 il quale prevedendo l'adozione dello
statuto comunale, stabilisce espressamente che tale
strumento debba contenere, altresì, la disciplina dello
stemma comunale.
Infine si soggiunge, che l'Ufficio del cerimoniale di stato
e per le onorificenze presso la presidenza del consiglio dei
ministri, in risposta a taluni quesiti ha affermato che «lo
stemma è un bene immateriale dell'ente ed è salvaguardato
dalle leggi dello stato alla stregua del cognome delle
persone e di altri diritti immateriali»; e ancora, che «è
fatto divieto assoluto di appropriarsi dello stemma del
comune, ciò anche se le finalità sono umanitarie, senza
scopi di lucro, pur se approvate dal comune stesso»,
mentre per le manifestazioni culturali, può essere presente
nella locandina «lo stemma dell'ente patrocinante, ma ne
va richiesta comunque l'autorizzazione all'ente stesso»
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le fasce di reperibilità saltano se l'infortunio
è sul lavoro. Escluse anche se le patologie richiedono
terapie salvavita.
L'ESPERTO RISPONDE/Quando scatta la
richiesta di accertamento dello stato di malattia
Il quesito che pongo anche a nome di alcuni colleghi
collaboratori scolastici è il seguente: è vero, come
sostiene un delegato sindacale, che c'è una precisa norma
che disciplina l'obbligatorietà della richiesta di
accertamento dello stato di malattia del dipendente
scolastico e l'obbligo di rispettare le fasce di
reperibilità?
La norma a cui fa riferimento il delegato sindacale è,
presumibilmente per quanto attiene alle fasce di
reperibilità, l'articolo 2 del decreto della presidenza del
consiglio dei ministri del 18.12.2009, n. 206,
articolo che non ci risulta essere stato modificato o
abrogato.
Dispone detto articolo che sono esclusi dall'obbligo di
rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti per i quali
l'assenza è etiologicamente riconducibile ad una delle
seguenti circostanze: patologie gravi che richiedono terapie
salvavita, infortuni sul lavoro, malattie per le quali è
stata riconosciuta la causa di servizio, stati patologici
sottesi o connessi alla situazione di invalidità
riconosciuta.
Sono anche esclusi i dipendenti nei confronti dei quali è
stata già effettuata la visita fiscale per il periodo di
prognosi indicato nel certificato.
Quanto alla obbligatorietà della richiesta di visita
fiscale, tale obbligo non sussiste, stando a quanto si legge
nella nota del dipartimento della funzione pubblica n. 30536
datata 24.07.2012, qualora nella documentazione medica
risulti chiaramente il collegamento con una delle infermità
di cui al predetto articolo 2
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2015). |
TRIBUTI:
Le tipologie di interpello.
DOMANDA:
Il D.Lgs. n. 156/2015, modificando l'art. 11 dello Statuto dei
diritti del contribuente, individua cinque tipologie di
interpello: ordinario, qualificatorio, probatorio, anti
abuso e disapplicativo disponendo che gli enti locali devono
provvedere entro il 01.07.2016 ad adeguare i propri
regolamenti.
Si chiede cortesemente di sapere: a) se le
tipologie di interpello probatorio, anti abuso e disapplicativo riguardano anche i tributi comunali o solo i
tributi erariali; b) se il termine per l'adeguamento del
regolamento comunale per la disciplina delle entrate
(contenente anche la disciplina dell'interpello) è
effettivamente il 01.07.2016 oppure se si deve
provvedere entro il termine di approvazione del bilancio
comunale (termine, quest'ultimo, da rispettare per
l'adeguamento dei regolamenti tributari).
RISPOSTA:
Il nuovo articolo 11 dello Statuto del contribuente
razionalizza le tipologie di interpello esistenti,
sistematizzandole e raggruppandole in diverse categorie, di
cui sono definiti esplicitamente i presupposti applicativi:
• interpello “ordinario” e “qualificatorio” (articolo 11,
comma 1, lettera a)
• interpello “probatorio” (articolo 11,
comma 1, lettera b)
• interpello “anti abuso” (articolo 11,
comma 1, lettera c),
• interpello “disapplicativo” (articolo
11, comma 2).
L’interpello ordinario ricalca quello già
disciplinato dal vecchio testo dell’articolo 11, trattandosi
di una richiesta volta a ottenere un parere quando
sussistano obiettive condizioni di incertezza
sull’interpretazione delle disposizioni tributarie, in
relazione alla loro applicazione a casi concreti e
personali. A questo modello generale, il legislatore
delegato, sempre nel punto a), ha affiancato l’interpello
“qualificatorio” in cui l’istanza del contribuente riguarda
la corretta qualificazione della fattispecie quando,
comunque, sussistono obiettive condizioni di incertezza alla
luce delle disposizioni tributarie applicabili alle
medesime.
La seconda tipologia menzionata dal nuovo comma 1
dell’articolo 11 è definita dallo stesso legislatore
interpello probatorio e si sostanzia in una richiesta tesa a
ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o
sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal
contribuente ai fini dell’accesso a un determinato regime
fiscale, azionabile, tuttavia, solo nei casi espressamente
previsti (quelli, appunto, contenenti l’esplicito richiamo
all’interpello di cui alla lettera c) del comma 1
dell’articolo 11).
In verità, non si tratta di una forma di
interpello nuova, ma di una categoria ampia che ricomprende
e abbraccia, sotto il cappello della formula utilizzata,
tante figure già previste dal sistema, che vengono, in
questo modo, ricondotte a unità. In questa categoria sono
ricomprese ipotesi molto eterogenee, tra cui alcune a oggi
classificate tra gli interpelli obbligatori, degradati
perciò solo a facoltativi. Un’altra categoria di interpelli
facoltativi è l’interpello anti-abuso -destinato ad
assorbire le principali fattispecie ricomprese nel capo di
applicazione dell’interpello antielusivo di cui all’articolo
21 della legge 413/1991- che costituisce il nuovo strumento
attraverso il quale il contribuente può chiedere
all’amministrazione se le operazioni che intende realizzare
costituiscano fattispecie di abuso del diritto, ai sensi del
nuovo articolo 10-bis dello Statuto.
Il comma 2 dell’art. 11
prevede, altresì, l’interpello “disapplicativo”: mutuato
dall’art. 37-bis, co. 8, del DPR n. 600/1973, consente al
contribuente di richiedere un parere all’Amministrazione in
ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimano la
disapplicazione di norme tributarie che limitano deduzioni,
detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive
del soggetto passivo.
In questo caso, laddove l’Agenzia
fornisca una risposta negativa all’istanza, il contribuente
può fornire la dimostrazione della spettanza della
disapplicazione delle norme anche nelle successive fasi
dell’accertamento e del contenzioso. In conclusione, ad un
primo esame, sembrano applicabili ai tributi locali
esclusivamente gli interpelli ordinari e qualificatori; le
altre tipologie sembrano applicabili soltanto ai tributi
erariali.
In merito, si attende comunque una circolare
dell’Agenzia delle Entrate. L’adeguamento dei regolamenti
comunali relativamente agli interpelli potrà essere
effettuato entro il 01.07.2016; la data di approvazione
del bilancio, infatti, riguarda soltanto quelle modifiche
suscettibili di incidere sul bilancio stesso e, pertanto,
tale limitazione non si applica al caso in esame
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI:
La centrale unica di committenza per i comuni associati.
DOMANDA:
Con la presente per formulare il seguente quesito:
- tre comuni hanno costituito il 01.10.2014 la gestione
associata dell’ufficio tecnico “Val D.”
- L’ufficio tecnico associato non è evidentemente un
soggetto giuridico autonomo, non avendo pertanto partita
iva…
- L’Anac non ha accettato l’accreditamento della Centrale
Unica “Val D.” per mancanza di requisiti (per le ragioni
sopra indicate - l’ut associato non è un soggetto giuridico
autonomo)
Domanda:
1. Come può fare l’ut associato a bandire una gara
d’appalto?
2. Può accedere al mercato elettronico (Sintel o Consip) e
ritenere così di aver adempiuto ai disposti normativi?
RISPOSTA:
Ai fini di adempiere agli obblighi di centralizzazione
previsti dal comma 3-bis dell’art. 33 del codice dei
contratti pubblici occorre, nell’ipotesi che si sia optato
per l’”accordo consortile” che i comuni interessati abbiano
stabilito in via convenzionale (ex art. 30 D.lgs. n. 267/2000)
di costituire tra di loro una apposita “centrale unica di
committenza” e non già un mero “ufficio tecnico”
che svolge in modo associato le proprie funzioni.
Potranno quindi o
stabilire convenzionalmente di istituire un ufficio comune
operante come centrale unica di committenza per i comuni
associati oppure designare uno di essi come ente capofila
per la gestione associata delle acquisizioni di lavori,
servizi e beni in base a quanto previsto dal cit. comma 3-bis.
Nel primo caso l’ufficio comune rappresenta una mera
articolazione organizzativa costituita presso uno degli enti
associati e funge quindi da CUC mentre nell’altra ipotesi è
lo stesso ente capofila che assumerà tale ruolo; Trattandosi
di “ufficio comune” operante come centrale unica di
committenza si ritiene che iscrivibile alla Anagrafe unica
delle stazioni appaltanti presso l’ANAC sia il Comune presso
cui l’ufficio comune è istituito, mentre nell’altro caso sia
lo stesso ente capofila che funge da CUC.
In ogni caso la
struttura organizzativa comune non ha soggettività giuridica
autonoma e pertanto ai fini dello svolgimento delle
procedure occorre far riferimento a tutti gli elementi
identificativi del Comune di riferimento, fermo restando che
i singoli comuni aderenti risultano ad ogni effetto stazioni
appaltanti e mantengono tale definizione ai fini degli
obblighi di iscrizione e comunicazione all’AUSA
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
I permessi brevi.
DOMANDA:
L'art. 20 del CCNL 06.07.1995 prevede e disciplina i
"permessi brevi", quantificati nella misura massima di 36
ore annue.
Si chiede:
- l'espressione "il dipendente, a domanda, può assentarsi
dal lavoro ..." deve essere intesa che il permesso breve
può essere usato soltanto per interrompere/assentarsi dal
lavoro e quindi non per giustificare una entrata in servizio
oltre l'orario previsto/consentito?
- Per la fruizione, deve sempre esserci una domanda (del
dipendente) ed una autorizzazione (del dirigente) oppure il
tutto può essere/rimanere a livello verbale e in questo caso
l'Ufficio Personale sulla base di cosa giustifica d'ufficio
l'assenza?
- L'espressione "36 ore annue" significa che la
fruizione deve avvenire solamente ad ore intere o è
possibile fruire tali permessi anche frazionati a minuti
purché sia rispettato il limite annuo di 36 ore?
- L'espressione "secondo modalità individuate dal
dirigente" significa che lo stesso programma il recupero
tenendo conto esclusivamente delle esigenze del servizio
senza dover quindi mediare con le esigenze/disponibilità del
dipendente?
- L'espressione "in caso di mancato recupero, si
determina la proporzionale decurtazione della retribuzione"
significa che in tale ipotesi deve necessariamente
effettuarsi la decurtazione stipendiale e pertanto non è
possibile attingere ad eventuale "plus orario" ordinario o
ad eventuali prestazioni straordinarie per compensare il
mancato recupero?
RISPOSTA:
I permessi brevi di cui all'art. 20 del CCNL 06.07.1995 non
possono in nessun caso essere superiori alla metà
dell'orario di lavoro giornaliero, purché quest'ultimo sia
di almeno 4 ore consecutive. Sulla base dell’ampia e
generica formulazione della disciplina contrattuale,
l’utilizzo dei permessi di cui si tratta è possibile anche,
eventualmente, per periodi di tempo inferiori all’ora. Essi
possono essere utilizzati anche per posticipare l’orario di
entrata al lavoro, così come definito dall’Ente e, quindi,
eventualmente per giustificare un possibile ritardo del
dipendente. Tuttavia, anche in questo caso, è necessario il
rispetto integrale delle regole stabilite nell’art. 20 del
CCNL del 06.07.1995.
Pertanto, la fruizione del permesso deve essere sempre
preventivamente autorizzata dal dirigente dell’unità
organizzativa presso cui presta servizio il dipendente, che
ne deve fare richiesta in via preventiva. Ciò serve ad
escludere che i permessi in oggetto possano essere
utilizzati direttamente ed automaticamente dal dipendente
per giustificare eventuali ritardi eccedenti la normale
flessibilità in entrata al lavoro come determinata
dall’ente.
Il dipendente per avvalersi del beneficio deve presentare
una specifica richiesta al dirigente dell'ufficio di
appartenenza. Non essendo prevista alcuna specifica esigenza
o ragione giustificativa per la concessione del beneficio,
la valutazione del dirigente, ai fini della concessione del
permesso, non si focalizza sui motivi addotti dal
dipendente, ma in via assolutamente prioritaria sulla
compatibilità dell’assenza con le esigenze organizzative e
funzionali dell’ufficio. Il dipendente non ha alcun
“diritto” alla concessione dei permessi brevi, in quanto
spetta sempre al datore di lavoro pubblico valutare se
concedere o meno il permesso. "In caso di mancato
recupero, si determina la proporzionale decurtazione della
retribuzione".
La contrattazione non prevede la possibilità di attingere ad
eventuale "plus orario" ordinario o ad eventuali
prestazioni straordinarie. Il mancato rispetto dell’obbligo
di recupero dei permessi, anche sotto il profilo delle
modalità a tal fine stabilite dal dirigente, può comportare
oltre alla decurtazione del trattamento economico, anche
l’eventuale applicazione di sanzioni disciplinari connesse
all’inosservanza delle disposizioni di servizio e di quelle
connesse al rispetto dell’orario di lavoro.
Tuttavia, trattandosi di regole finalizzate prevalentemente
alla tutela di un interesse organizzativo ed economico del
datore di lavoro pubblico, si ritiene (in questo senso anche
l'Aran) che l'amministrazione potrebbe anche ammettere,
assumendosi ogni responsabilità in proposito, che il
dipendente, in casi eccezionali, possa recuperare le ore di
permesso breve fruite anche al di là del termine stabilito,
come regola generale (mese successivo) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
TRIBUTI:
La pubblicità abusiva.
DOMANDA:
E' vero che se rileviamo un cartello o un'insegna abusiva
(in assenza di autorizzazione, ovvero scaduta) e spesso
anche non in regola con il tributo, non dovremmo emettere
avvisi di accertamento, in quanto sono i vigili ad elevare
contravvenzione ai sensi del Codice della Strada?
La motivazione sarebbe che una volta pagato il tributo, se
si dovesse andare davanti al Giudice, si perderebbe la
causa. La domanda è: ma allora non può mai esistere una
avviso di accertamento per mancata dichiarazione di inizio
pubblicità?
E tutto il tempo, magari anni, di esposizione abusiva viene
risolto solo con la contravvenzione dei vigili?
RISPOSTA:
Quanto riportato nel quesito, senza alcun riferimento
normativo o giurisprudenziale è incomprensibile.
L’applicazione della normativa tributaria è completamente
autonoma nei confronti dell’applicazione delle norme di
legge e di regolamento riguardo la mancanza di
autorizzazione all’installazione dell’impianto pubblicitario
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
TRIBUTI:
D.Lgs. 30.12.1992, n. 504, art. 9. Spettanza di agevolazioni
ICI a coadiuvanti agricoli.
Come rilevato dalla giurisprudenza, in
tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i
terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è
condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica
di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo
principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del
D.Lgs. 446/1997) e della conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione all'INPS (gestione ex
SCAU) è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei
primi due requisiti, il terzo requisito, relativo alla
conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma.
Il Comune chiede un parere con riferimento al riconoscimento
delle agevolazioni ICI di cui all'art. 9 del decreto
legislativo 30.12.1992, n. 504 [1],
anche a coadiuvanti agricoli. Specifica l'Ente che il
soggetto interessato è iscritto all'INPS in capo al nucleo
del coltivatore diretto, che lo stesso non conduce
direttamente i terreni (che sono condotti dal coltivatore) e
che non dichiara redditi agrari ma solo dominicali.
Atteso che non rientra nella competenza di questo Servizio
l'interpretazione di normativa statale in materia
tributaria, si suggerisce all'Ente di rivolgersi
direttamente all'Agenzia delle entrate competente per
territorio al fine di acquisire i necessari chiarimenti.
Peraltro, in via meramente collaborativa, si formulano
alcune osservazioni con riferimento alla fattispecie
prospettata.
L'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 stabilisce una riduzione
dell'imposta comunale sugli immobili (ICI) per i terreni
agricoli condotti direttamente, e a tal fine individua sia
la franchigia che le percentuali di riduzione in base al
valore dei terreni. Tale riduzione è riconosciuta a
condizione che i terreni siano posseduti e condotti da
coltivatori diretti o da imprenditori agricoli che esplicano
la loro attività a titolo principale.
La norma è stata integrata dall'art. 58, comma 2, del
decreto legislativo 15.12.1997, n. 446 [2],
il quale ha chiarito che, ai fini della riduzione in
argomento, 'si considerano coltivatori diretti o
imprenditori agricoli a titolo principale le persone fisiche
iscritte negli appositi elenchi comunali previsti
dall'articolo 11 della legge 09.01.1963, n. 9, e soggette al
corrispondente obbligo dell'assicurazione per invalidità,
vecchiaia e malattia (...).'
Pertanto, come rilevato dalla giurisprudenza
[3], in
tema di imposta comunale sugli immobili, la riduzione per i
terreni agricoli disposta dall'art. 9 del D.Lgs. 504/1992 è
condizionata dalla ricorrenza dei requisiti della qualifica
di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo
principale (così come definiti dall'art. 58, comma 2, del
D.Lgs. 446/1997) e dalla conduzione diretta dei terreni.
Ne consegue che, mentre l'iscrizione agli elenchi comunali
di cui alla L. 9/1963 [4]
è idonea a provare, al contempo, la sussistenza dei primi
due requisiti (atteso che chi viene iscritto in quell'elenco
svolge normalmente a titolo principale quell'attività legata
all'agricoltura), il terzo requisito, relativo alla
conduzione diretta dei terreni, va provato in via autonoma 'potendo
ben accadere che un soggetto iscritto nel detto elenco poi
non conduca direttamente il fondo per il quale chiede
l'agevolazione, la quale, pertanto, non compete'.
[5]
Stando alle informazioni fornite dall'Ente instante, il
coadiuvante agricolo de quo non conduce direttamente i
terreni.
Parrebbe quindi potersi ritenere che allo stesso, carente
del presupposto essenziale della conduzione diretta, non
spetti la riduzione ex art. 9, anche a prescindere dalla
verifica della sussistenza degli altri requisiti stabiliti
dalla norma.
---------------
[1] 'Riordino della finanza degli enti territoriali, a
norma dell'articolo 4 della legge 23.10.1992, n. 421.'
[2] 'Istituzione dell'imposta regionale sulle attività
produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e
delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una addizionale
regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina
dei tributi locali.'
[3] Cassazione civile, sez. trib., Sentenze n. 15551 del
30.06.2010, n. 9143 del 16.04.2010, n. 214 del 07.01.2005.
[4] La compilazione degli elenchi comunali avveniva, fino al
30.06.1995, ad opera del Servizio per i contributi agricoli
unificati (SCAU). A far data dal 01.07.1995 il Servizio SCAU
è stato soppresso e le sue funzioni trasferite all'INPS, per
effetto dell'art. 19 della legge 23.12.1994, n. 724.
Inoltre, si osserva che l'iscrizione alla assicurazione
generale obbligatoria da parte del coltivatore diretto può
essere estesa da questi al proprio nucleo familiare,
comprendendo parenti e affini fino al 4° grado, sulla base
di requisiti oggettivi e soggettivi determinati dalla
normativa vigente.
[5] Cassazione civile, Sent. 1551/2015 cit. (17.11.2015
-
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Istanza di accesso, formulata da parte di un comitato,
rispetto agli atti di un procedimento di autorizzazione per
l'installazione di una antenna radio.
Essendo il comitato soggetto giuridico,
titolare, ex lege, di un autonomo diritto di accesso agli
atti, la circostanza che i singoli cittadini abbiano già
esercitato e ottenuto soddisfazione del relativo diritto non
impedisce che quest'ultimo sia autonomamente rivendicato
anche dal comitato dai primi composto.
Ed, invero, si rammenta che la l. 241/1990, con la
disposizione di cui all'art. 22, c. 1, lett. b), richiede
che, in capo al soggetto instante, sussista un interesse
diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
rispetto al quale è chiesto l'accesso. Il fatto che i cives
siano, individualmente, già in possesso della
documentazione, richiesta poi anche dal comitato, non
esclude l'esistenza di un interesse diretto, concreto e
attuale in capo a quest'ultimo.
Si esclude, inoltre, che l'esercizio del diritto di accesso
dia luogo ad un'ipotesi di controllo generalizzato
sull'operato della pubblica amministrazione se l'istanza di
ostensione ha per oggetto uno specifico procedimento
amministrativo di autorizzazione, non già tutti gli atti
autorizzativi rilasciati dal Comune.
Un Comune presenta una richiesta di parere in merito ad
un'istanza di accesso, formulata da parte di un comitato,
rispetto agli atti di un procedimento autorizzativo per
l'installazione di un'antenna radio, segnalando, in
particolare:
- di aver rilasciato un'autorizzazione per la realizzazione
di un'antenna per telefonia mobile, contestata da alcuni
cittadini residenti nelle vicinanze del luogo ove è prevista
l'allocazione della stessa;
- questi ultimi, a titolo personale o cumulativo, in più
tempi, secondo il progredire della pratica autorizzativa o
della realizzazione delle opere, hanno presentato domanda di
accesso agli atti, del tutto soddisfatta, non essendo state
opposte dall'ente pubblico condizioni o limitazioni rispetto
all'esercizio del diritto di accesso;
- successivamente, le stesse persone si sono costituite in
comitato, che ha incaricato un professionista per verificare
la correttezza di quella specifica pratica e delle relative
azioni amministrative;
- il tecnico incaricato ha, quindi, chiesto di prendere
visione ed estrarre copia degli atti relativi
all'installazione di un'antenna radio, alta trenta metri, la
cui realizzazione è prevista presso una frazione del
territorio comunale;
- a giustificazione dell'interesse, connesso all'oggetto
della richiesta, è precisata la necessità di verificare la
procedura autorizzativa per l'installazione dell'antenna per
telefonia mobile presso la frazione del Comune anche ai
sensi della legge 01.07.1997, n. 189 [1].
L'ente locale, rammentando che l'istanza di accesso non deve
essere preordinata ad una verifica generalizzata nei
confronti dell'esercizio del potere pubblico, domanda se,
nella descritta fattispecie, sia ammissibile, da parte di un
comitato spontaneo, chiedere copia di atti detenuti dalla
pubblica amministrazione e già in possesso delle persone che
compongono il comitato stesso, non escludendo che la
richiesta di ostensione dei documenti sia da considerarsi
strumentale e suscettibile di costituire intralcio
all'operatività amministrativa, atteso che i singoli
cittadini non hanno mai sollevato dubbi o riserve sulla
completezza degli atti loro rilasciati.
Nel quesito sottoposto allo scrivente, il principale nodo da
risolvere è, quindi, costituito dalla seguente situazione:
coloro che, successivamente, hanno dato vita al comitato,
hanno già formulato delle autonome istanze di accesso e
queste sono state ampiamente soddisfatte da parte dell'ente
locale, con la consegna di tutti i documenti richiesti. Il
problema da affrontare è, allora, quello di verificare se la
summenzionata condizione -avvenuto esercizio del diritto di
accesso da parte dei singoli soggetti privati- sia di
ostacolo alla presentazione dell'istanza di ostensione da
parte del comitato costituito da quegli stessi cittadini,
considerato che il Comune appalesa il timore che l'accesso,
da parte dell'ente esponenziale, potrebbe apparire
strumentale ed ostacolare l'operato della pubblica
amministrazione.
A fronte dell'illustrato dubbio interpretativo, anticipando,
fin d'ora, la risposta all'odierno quesito, allo scrivente
parrebbe di poter affermare che, essendo -come si
verificherà nel prosieguo del testo- il comitato soggetto
giuridico, titolare ex lege di un autonomo diritto di
accesso agli atti, la circostanza che i singoli cittadini
abbiano già esercitato e ottenuto soddisfazione del relativo
diritto non impedisce che quest'ultimo sia autonomamente
rivendicato anche dal comitato dai primi composto.
Ed, invero, si rammenta che la legge 07.08.1990, n. 241, con
la disposizione di cui all'articolo 22, comma 1, lettera b),
richiede che, in capo al soggetto instante, sussista un
interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad
una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento rispetto al quale è chiesto l'accesso. La
circostanza che i singoli cittadini siano già in possesso
della documentazione, richiesta poi anche dal comitato, non
esclude l'esistenza di un interesse diretto, concreto e
attuale in capo a quest'ultimo.
In relazione alla fattispecie descritta dall'ente locale, è
possibile ipotizzare che gli abitanti della frazione abbiano
ritenuto di costituire un soggetto terzo -il comitato- con
il compito di tutela di alcuni valori 'costituzionalmente
forti', quali la salute individuale e collettiva e
l'ambiente, garantiti dagli articoli 9, comma 2 e 32, comma
1, Cost. Il fatto che i residenti nella frazione abbiano già
ottenuto gli atti non esclude che il comitato possa
esercitare, autonomamente e indipendentemente da questi, un
proprio diritto di accesso, anche se rispetto alla stessa
documentazione di cui i cives sono individualmente
ormai in possesso.
Si deve inoltre considerare che, nel caso in esame,
l'accesso è esercitato in un settore rientrante nella
materia dell'ambiente, dove, ai sensi del decreto
legislativo 19.08.2005, n. 195 - Attuazione della direttiva
2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione
ambientale, il diritto di ottenere l'ostensione dei
documenti è riconosciuto in modo notevolmente ampio
[2].
Al fine di fornire risposta all'illustrato quesito, è
necessario premettere alcune considerazioni sull'istituto
del diritto di accesso ai documenti amministrativi ed, in
particolare, in merito all'esercizio del summenzionato
diritto da parte dei cosiddetti soggetti portatori di
interessi pubblici o diffusi.
Ai sensi dell'articolo 22, comma 2, legge 241/1990,
l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa, con
l'obiettivo di favorire la piena partecipazione dei soggetti
dell'ordinamento giuridico nei confronti di quest'ultima e
di assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'azione
amministrativa.
Indagando l'aspetto della legittimazione attiva all'accesso
e, quindi, dei soggetti abilitati ad esercitare il relativo
diritto, si evidenzia che la legge 241/1990, all'articolo
22, comma 1, lettera b), definisce 'per interessati,
tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di
interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso'.
Dalla definizione riportata, emerge che il legislatore ha
esteso la qualifica di 'interessati' anche ai
soggetti privati 'portatori di interessi diffusi',
prevedendo che, per 'interessati' all'accesso, si devono
intendere i soggetti singoli o associati, come quelli
portatori di interessi pubblici o diffusi
[3]. Il diritto di
accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche agli
enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove
avvalorati dalla rappresentatività dell'associazione,
comitato o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini
statutari rispetto all'oggetto dell'istanza
[4].
La titolarità del diritto di accesso è, dunque, riconosciuta
e attribuita non solo ai singoli privati, ma anche alle
associazioni (ad esempio associazioni di consumatori e altre
associazioni riconosciute) e ai comitati portatori di
interessi pubblici o diffusi (si pensi ai comitati di
quartiere che si legittimano mediante una semplice raccolta
di firme [5]).
Non solo il singolo ha titolo all'accesso ma anche i
soggetti portatori di 'interessi generali', quali le
associazioni e/o i comitati, soggetti esponenziali degli
interessi diffusi degli utenti di un servizio o dei
destinatari di atti autoritativi da parte della pubblica
amministrazione [6]:
astrattamente tutti i portatori di 'interessi generali'
hanno titolo a richiedere l'accesso agli atti relativi
all'esercizio di una determinata attività o in presenza
dell'adozione di atti amministrativi che incidano la sfera
giuridica di una molteplicità di cittadini (erga omnes)
[7].
Da quanto sopra, discende l'esigenza di appurare un
collegamento diretto tra il richiedente e il documento: la
posizione legittimante l'accesso è costituita da una
situazione giuridicamente rilevante comprensiva anche degli
interessi diffusi e dal collegamento tra questa posizione
qualificata e la specifica documentazione della quale si
chiede l'esibizione [8].
Anche per le figure in esame (enti esponenziali di interessi
pubblici o diffusi), è necessario verificare un effettivo,
attuale e concreto 'interesse' alla conoscenza di
atti che incidono in via diretta e immediata (non già in via
meramente ipotetica e riflessa) sugli interessi collettivi
degli associati [9],
in quanto collegati alla prestazione o alla funzione svolta
dall'ente stesso [10].
Poiché l''interesse' rappresenta il fulcro attorno al
quale ruota tutta la disciplina del diritto di accesso agli
atti, con riferimento al medesimo atto, l'istanza di accesso
rivolta all'amministrazione da soggetti diversi (ad esempio,
un comune cittadino, un sindacato, un comitato) potrebbe
portare a risultati differenti (di accoglimento in certi
casi, di diniego in altri), proprio perché è possibile
configurare un diverso 'interesse' a seconda del soggetto
che formula la domanda di ostensione del documento detenuto
dalla pubblica amministrazione (e delle diverse ragioni che
sono dal medesimo addotte) [11].
È indispensabile motivare -in sede di richiesta- l'esatta
rappresentazione dell'interesse all'accesso, dimostrando la
presenza, tra i fini statutari o dell'attività svolta, del
perseguimento di quel determinato interesse posto alla base
dell'istanza di accesso, acclarando una differenziata
posizione di interesse concreto, diretto ed attuale, che
legittima a chiedere copia di documenti; documenti che una
volta acquisiti possono costituire indubbio supporto e mezzo
per il miglior perseguimento degli scopi statutari, sociali
o dell'attività svolta (si pensi ad un comitato in difesa
dell'ambiente o a tutela dei beni culturali)
[12].
Nel concludere l'analisi di tali aspetti, si ribadisce che
il diritto di accesso può essere esercitato anche da parte
di associazioni e/o comitati, costituendo questi ultimi
un'organizzazione funzionalizzata alla protezione degli
interessi di una categoria di soggetti e in grado di
motivare le richieste di accesso perché legittimati alla
cura di un interesse qualificato dell'intera stabile
organizzazione [13].
Nel caso in esame, a giustificazione dell'interesse
all'accesso, il tecnico incaricato dal comitato fa
riferimento alla necessità di verificare quella specifica
procedura autorizzativa prodromica all'installazione
dell'antenna per telefonia mobile presso una frazione
comunale. Orbene, questa appare una motivazione sufficiente
ai sensi della legge 241/1990, se corredata dalla
dimostrazione che la documentazione richiesta rappresenta
uno strumento per il conseguimento di quello che potrebbe
essere uno scopo statutariamente eletto: la difesa della
salute degli individui residenti in un determinata zona e la
tutela della salubrità dell'ambiente.
Deve, ora, affrontarsi l'ulteriore problematica sollevata
dall'ente locale: la possibilità che l'accesso sia
utilizzato, impropriamente, come uno strumento di controllo
sull'operato generale della pubblica amministrazione.
Ed, invero, nella fattispecie in attenzione, l'istanza di
accesso formulata dal comitato provoca alcune perplessità al
Comune sulla base della considerazione che, in ossequio al
dettato normativo di cui all'articolo 24, comma 3, legge
241/1990, la domanda di ostensione dei documenti
amministrativi non deve essere preordinata ad una verifica
generalizzata nei confronti dell'esercizio del potere
pubblico.
In generale, è necessario osservare che l'ampiezza dello
scopo sociale e la sua riferibilità alla tutela di interessi
diffusi o collettivi non può trasformare l'esercizio del
diritto di accesso in un'inammissibile azione popolare,
espressione di un controllo universale ed indistinto sulla
pubblica amministrazione. Non si può, invero, ritenere che
la rappresentatività facente capo ad un ente esponenziale
conferisca per ciò solo all'associazione o al comitato un
generico e indifferenziato titolo per il diritto d'accesso
nei confronti degli atti della pubblica amministrazione: dal
momento che il diritto di accesso non corrisponde ad
un'azione popolare, il suo esercizio non può che essere
collegato alla sussistenza (e alla puntuale
rappresentazione) di un interesse differenziato, concreto e
attuale all'accesso ai documenti. La pretesa titolarità (o
la pretesa rappresentatività) di interessi collettivi o
diffusi non vale a costituire un potere -comunque privato e
perciò estraneo ai circuiti pubblici di rappresentatività e
responsabilità- di ispezione generalizzata sulla pubblica
amministrazione.
Il diritto di accesso impone pur sempre un accertamento
concreto dell'esistenza di un bisogno differenziato di
conoscenza in capo a chi richiede i documenti, perché non è
orientato ad un controllo generalizzato ed indiscriminato di
chiunque sull'azione amministrativa (che è anzi
espressamente vietato a norma dell'articolo 24, comma 3,
della legge 241/1990), ma solo alla conoscenza, da parte dei
singoli titolari, di atti effettivamente, o anche solo
potenzialmente, incidenti sui loro interessi particolari.
Al riguardo, si rammenta che, mediante il diritto di
accesso, si esercita, legittimamente, un controllo quando
questo è indirizzato verso il singolo atto amministrativo
nei confronti del quale l'interessato vanta un interesse
concreto e differenziato rispetto alla collettività, non già
quando il controllo è riferito all'attività amministrativa
nel suo complesso.
Ed, invero, come evidenziato dalla giustizia amministrativa,
la disciplina sull'accesso tutela solo l'interesse alla
conoscenza degli atti amministrativi e non l'interesse ad
effettuare un controllo preventivo sull'amministrazione,
allo scopo di verificare eventuali e non ancora definite
forme di lesione della sfera dei privati
[14]. E, così,
dapprima la giurisprudenza, poi il legislatore hanno
stabilito di dover negare l'accesso tutte le volte in cui
l'istanza è finalizzata a svolgere un controllo sull'operato
della pubblica amministrazione, controllo puro e semplice
avulso da un interesse specifico del richiedente.
L'interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi è,
poi, destinato alla comparazione con altri rilevanti
interessi, fra i quali quello dell'amministrazione pubblica
a non subire eccessivi intralci nella propria attività
gestoria, tutelata anche a livello costituzionale ex
articolo 97 Cost. [15].
In ogni caso, nella fattispecie in esame, si ritiene di
escludere che l'esercizio del diritto di accesso da parte
del comitato dia luogo ad un'ipotesi di controllo
generalizzato sull'operato della pubblica amministrazione:
ed, invero, l'istanza di ostensione ha per oggetto quello
specifico procedimento amministrativo di autorizzazione
all'installazione di un'antenna presso una frazione
comunale, non già tutti gli atti autorizzativi rilasciati
dal Comune.
---------------
[1] È necessario precisare che la legge 189/1997
-Conversione urgente, con modificazioni, del decreto legge
01.05.1997, n. 115, recante disposizioni urgenti per il
recepimento della direttiva 96/2/CE sulle comunicazioni
mobili e personali- è stata abrogata dall'articolo 218 del
decreto legislativo 01.08.2003, n. 259 - Codice delle
comunicazioni elettroniche.
[2] Si veda Consiglio di Stato, sez. III, sentenza del
30.09.2015, n. 4577, in tema di ambiente, elettrosmog,
stazioni radio base per telefonia mobile, installazione di
impianti radioelettrici, ove si afferma che 'la disciplina
generale della localizzazione degli impianti di telefonia
mobile ... è riservata allo Stato ... in quanto concernente
la salvaguardia dell'ambiente e dell'ecosistema (ai sensi
dell'art. 117, comma 2, lett. 's', della Costituzione)'.
[3] Il legislatore, con la riforma ad opera della legge
11.02.2005, n. 15 -Modifiche ed integrazioni alla legge
07.08.1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione
amministrativa- ha recepito le pronunce giurisprudenziali
adottate in tal senso nel corso degli anni precedenti.
[4] In tal senso, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza del
14.03.2011, n. 2260.
La giurisprudenza ha stabilito che, in presenza di istanze
di accesso prodotte da enti esponenziali (ad esempio,
associazioni sindacali, associazioni dei consumatori,
associazioni a difesa dell'ambiente, eccetera), la pubblica
amministrazione deve accertare la sussistenza di un nesso
tra l'oggetto dell'accesso ed i fini contenuti nello statuto
dell'ente, mentre ha ritenuto di non dovere dare riscontro
positivo alla richiesta di accesso qualora questa produca
una conoscenza, a favore dell'istante, di elementi
informativi non in linea con la mission dell'associazione.
Così, G. Modesti, 'L'esercizio del diritto di accesso agli
atti della Pubblica Amministrazione alla luce della legge
15/2005', in www.dirittosuweb.com
[5] Così S. Biancardi, 'Il procedimento amministrativo e il
diritto di accesso agli atti', Maggioli, 2011, 145.
[6] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 5481/2011.
[7] M. Lucca, 'Diritto di accesso dei comitati e delle
associazioni (portatori di interessi diffusi)', in
www.mauriziolucca.com e www.segretarientilocali.it
[8] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 16.01.2004 n.
127, riportata da M. Lucca, 'Diritto di accesso dei comitati
...', cit.
[9] In merito all'interesse che i soggetti legittimati
devono avere, secondo le previsioni del legislatore di cui
all'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge 241/1990,
esso deve essere diretto, concreto e attuale. L''attualità'
è valutata in base al momento in cui è formulata la
richiesta di accesso ad un determinato documento; la
'concretezza' presuppone un collegamento tra il soggetto ed
un bene della vita coinvolto dal documento.
Il Consiglio di Stato ha stabilito che l'interesse,
imputabile al soggetto, deve rientrare in una delle seguenti
categorie: diritti soggettivi, interessi legittimi,
'interesse solo strumentale alla tutela di essi'. La
scriminante è data, pertanto, dal trovarsi l'instante in una
posizione differenziata rispetto agli altri soggetti
dell'ordinamento giuridico.
[10] cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 09.02.2009, n.737;
25.09.2006, n. 5636; 10.02.2006, n. 555.
[11] In tal senso, S. Biancardi, 'Il procedimento
amministrativo ...', cit., 145.
[12] Si veda ancora M. Lucca, 'Diritto di accesso dei
comitati ...', cit.
[13] Così Tar Lazio-Roma, sez. III, sentenza del 16.01.2008,
n. 249, riportata da M. Lucca, 'Diritto di accesso dei
comitati ...', cit.
[14] In tal senso, si veda Consiglio di Stato, sez. IV,
sentenza del 15.11.2004, n. 7412, riportata da S. Biancardi,
'Il procedimento amministrativo ...', cit., 270.
[15] S. Biancardi, 'Il procedimento amministrativo ...',
cit., 169 (13.11.2015 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Vicesindaco dalla giunta.
Va scelto tra gli assessori non tra i consiglieri.
Lo statuto non può derogare la legge in materia di organi di
governo.
È legittima la delibera con la quale il consiglio comunale
ha approvato la modifica di un articolo dello statuto
comunale prevedendo la facoltà, da parte del sindaco, di
nominare il vicesindaco oltre che tra gli assessori anche
tra i consiglieri comunali?
Nella fattispecie in esame, la modifica statutaria che,
ferma restando la previsione che consente la nomina di
assessori esterni, prevede tale facoltà sarebbe motivata
dall'esigenza di affidare le funzioni vicarie della
presidenza del consiglio ad un componente dello stesso
organo e di superare le eventuali problematiche che
potrebbero scaturire nell'esercizio delle funzioni statali
del sindaco di cui agli artt. 12 e 54 del Tuel.
L'ente,
infatti, sostiene che dopo la modifica del Titolo V della
Costituzione lo «statuto, nell'ambito della gerarchia delle
fonti, è norma prevalente rispetto alla legge statale» e che
il vicesindaco, non essendo un organo del comune, non
rientra nella riserva di disciplina statale di cui
all'articolo 117, lett. p), della Costituzione; tant'è che
la legge n. 148/2011, nell'azzerare la giunta nei comuni con
popolazione inferiore ai mille abitanti, nulla disponeva per
la figura del vicesindaco che doveva essere ricoperta
necessariamente da un consigliere comunale.
In merito, proprio per le esigenze di armonizzazione
complessiva del sistema ordinamentale e di salvaguardia del
funzionamento dell'ente locale, il ministero dell'interno,
con circolare n. 2379 del 16.02.2012, fornendo
chiarimenti in ordine all'applicazione dell'articolo 16,
comma 17, del dl 138/2011, ha specificato che, in assenza della
giunta, nei comuni con popolazione inferiore ai mille
abitanti, la figura del vicesindaco per l'esercizio delle
indefettibili funzioni sostitutive «deve essere nominata tra
i consiglieri eletti».
Una volta intervenuta una nuova modifica normativa che ha
ripristinato l'organo giuntale, l'ente, come specificato con
la circolare ministeriale n. 6508 del 24.04.2014, con la
quale sono stati approfonditi alcuni aspetti applicativi
della legge 07.04.2014, n. 56, è, tuttavia, obbligato a
individuare il vice sindaco tra i nuovi assessori.
In ogni caso, la nomina di assessori esterni al consiglio,
nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, fa
parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi
dell'art. 47, comma 4, del dlgs n. 267/2000; l'art. 64, comma
3, del Tuel, dispone, inoltre, che negli stessi comuni non
vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale
ed assessore nella rispettiva giunta.
Circa le funzioni di presidente del consiglio comunale, che
spettano al sindaco nei comuni sino a 15 mila abitanti
(salvo che l'ente si sia avvalso della facoltà di prevedere
nello statuto la figura del presidente del consiglio),
l'articolo 39 dello stesso decreto legislativo n. 267/2000, al
comma 1, prevede che «quando lo statuto non dispone
diversamente, le funzioni vicarie del presidente del
consiglio sono esercitate dal consigliere anziano».
Pertanto, è la stessa legge che, anche in carenza di
specifiche disposizioni normative dell'ente, individua il
vicario del presidente del consiglio senza alcuna necessità
che questi coincida con il vicesindaco.
Peraltro, non appare evidente alcuna problematica in ordine
all'eventuale espletamento, da parte dell'assessore esterno
vicesindaco, delle funzioni di cui all'articolo 54 del
citato Testo unico (in sostituzione del sindaco), visto che
il vicesindaco esercita funzioni surrogatorie permanenti e
temporanee del sindaco, ai sensi dell'articolo 53, commi 1 e
2.
Riguardo alla gerarchia delle fonti, poi, l'art. 114, comma
2, della Costituzione dispone che i comuni, le province, le
città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con
propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati
dalla Costituzione. Lo stato ha competenza esclusiva, ex
art. 117, comma 2, lett. p), in ordine alla potestà
legislativa in materia di disciplina elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città
metropolitane.
Il vicesindaco, facendo parte della giunta, è compreso a
pieno titolo negli organi di governo individuati
dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 267/2000, senza
considerare la qualità di organo proprio che riveste nel
momento in cui svolge le funzioni vicarie del sindaco.
La legge n. 131/2003, all'art. 4, comma 2, prescrive che lo
statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi
generali in materia di organizzazione pubblica, stabilisce i
principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le
forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie
delle minoranze e le forme di partecipazione popolare, nel
rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in
attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p),
della Costituzione, mentre al comma 4 statuisce che la
disciplina dell'organizzazione dei comuni è riservata
all'ente «nell'ambito della legislazione dello stato o della
regione».
Il Consiglio di stato, con sentenza n. 832, del 03.03.2005, alla luce proprio degli artt. 114 e 117 della
Costituzione, ha ribadito la competenza esclusiva dello
stato in materia di organi di governo e connesse sfere di
competenza che, è evidente, non può essere autonomamente
disciplinata dal comune, neppure in sede statutaria, in
mancanza di una norma legislativa statale che ne delimiti
l'intervento integrativo.
Pertanto, come già sostenuto dal Tar Calabria, sez. II con
le decisioni n. 492 e 493 (dell'08.02.2008 e del 07.03.2008)
«lo statuto comunale,... anche a seguito della riforma
del Titolo V della Costituzione, è da qualificarsi come atto
normativo secondario, capace, entro certi limiti, di
innovare l'ordinamento e che, nell'ambito della gerarchia
delle fonti, può essere considerato come fonte sub primaria,
incapace di derogare o di modificare una legge, collocata
appena al di sopra delle fonti regolamentari»
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Trattamento economico del
dipendente trasferito ai sensi dell'art. 47 della l. n.
428/1990 (trasferimento d'azienda).
Nell'ipotesi di applicazione dell'art.
31 del d.lgs. 165/2001, detta norma, in relazione al
fenomeno traslativo ivi contemplato, dispone direttamente la
continuità di tutti i rapporti di lavoro coinvolti in capo
al soggetto che subentra nell'attività e la conservazione,
da parte dei lavoratori, di tutti i diritti che ne derivano,
in forza del richiamo all'applicazione dell'art. 2112 c.c.,
senza limitazioni o condizioni (fatte salve solo
'disposizioni speciali', ove esistenti).
Il Comune ha chiesto un parere in ordine al trasferimento
del personale dipendente attualmente occupato nella casa di
riposo gestita dall'Ente medesimo, a seguito della
costituzione di un'Azienda Pubblica di Servizi alla Persona
(ASP), cui affidare detta gestione.
L'Amministrazione precisa che intende procedere a detto
trasferimento seguendo le modalità e procedure previste
all'art. 47 della l. 428/1990, nonché ai sensi di quanto
disposto dall'art. 2112 del codice civile e specifica che l'ASP
applicherà ai dipendenti interessati il CCNL del comparto
Regioni-Autonomie locali.
Il Comune istante si è, pertanto, posto la questione
relativa al corretto inquadramento retributivo del personale
trasferito, alla luce delle indicazioni fornite in materia
dall'ARAN, e ritiene inoltre che, nel caso di specie, non
rilevi l'intervenuta abrogazione dell'art. 202 del d.p.r.
3/1957, ad opera dell'art. 1, comma 458, della l. 147/2013,
che ha fatto venir meno il divieto della c.d. 'reformatio
in peius'.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione
e relazioni sindacali della Direzione generale, si osserva
quanto segue.
L'art. 31 del d.lgs. 165/2001 prevede che, fatte salve le
disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o
conferimento di attività, svolte da pubbliche
amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture,
ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che
passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano
l'articolo 2112 del codice civile e si osservano le
procedure di informazione e di consultazione di cui
all'articolo 47, commi da 1 a 4, della l. 428/1990
[1].
L'art. 2112, comma 1, c. c., dispone che 'in caso di
trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con
il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che
ne derivano'.
La Corte costituzionale ha affermato che l'art. 31 in
commento dispone esplicitamente l'applicazione dell'art.
2112 c.c. nell'ambito del lavoro pubblico, riferendosi al
transito di funzioni e dipendenti da enti pubblici ad altri
soggetti (pubblici o privati) [2].
Si rinvia preliminarmente, in linea generale, alle
considerazioni espresse, in ordine al trasferimento di
attività, dallo scrivente Servizio con parere n. prot. 13418
del 09.05.2014 [3],
ove si è operata l'illustrazione dei diversi orientamenti
circa l'applicazione dell'art. 31 del d.lgs. 165/2001, nel
senso del passaggio automatico o meno dei lavoratori al
cessionario.
Qualora nel caso specifico si verifichi il passaggio dei
dipendenti all'ASP ai sensi dell'art. 31 del d.lgs.
165/2001, si osserva che detta norma regolamenta il fenomeno
traslativo disponendo direttamente la continuità di tutti i
rapporti di lavoro coinvolti [4]
in capo al soggetto che subentra nell'attività e la
conservazione, da parte dei lavoratori, di tutti i diritti
che ne derivano, in forza dell'applicazione dell'art. 2112,
c.c., ivi richiamato senza limitazioni o condizioni (fatte
salve solo, 'disposizioni speciali'
[5], ove
esistenti) [6].
Premesso un tanto, per quanto concerne l'inquadramento
retributivo del personale trasferito nella fattispecie
rappresentata, l'ipotesi prospettata dall'Amministrazione
istante (sub 1.) sembra in linea con quanto stabilito
dall'art. 28 del CCNL del comparto Regioni-Autonomie locali,
stipulato in data 05.10.2001 che, pur riferendosi a
personale trasferito dallo Stato, può rappresentare un utile
criterio generale di riferimento anche in sede di
inquadramento di personale trasferito da pubbliche
amministrazioni anche di diverso comparto
[7].
Emerge, dalla prospettazione illustrata dall'Ente, anche
l'applicazione delle direttive fornite a sua volta dall'ARAN
[8] in
ordine alle modalità di inquadramento economico presso un
ente del comparto Regioni-Autonomie locali di dipendenti
provenienti da comparti di contrattazione diversi. In
particolare, la predetta Agenzia ha rimarcato, in linea
generale, che gli enti procedono all'inquadramento nel
sistema di classificazione dei rispettivi comparti, tenendo
conto della categoria e del profilo professionale posseduto
dal personale presso l'ente di provenienza.
Inoltre, si è precisato che, ai fini dell'inquadramento
economico, l'ente procede alla determinazione del
trattamento complessivo annuo effettivamente in godimento
presso l'ente di appartenenza, attraverso la sommatoria di
determinati emolumenti computati su base annua (retribuzione
tabellare, eventuale RIA in godimento, eventuale
progressione economica in godimento). Una volta definito il
trattamento economico annuo spettante al dipendente a
seguito dell'inquadramento presso la nuova amministrazione,
qualora risulti che il medesimo godeva di un maggiore
trattamento economico annuo presso l'ente di provenienza,
l'importo corrispondente alla differenza tra i due valori
complessivi viene conservato a titolo di retribuzione
individuale di anzianità.
Si osserva inoltre che recentemente il D.P.C.M. del
26.06.2015 (pubblicato sul sito della Funzione pubblica), ha
definito le tabelle di equiparazione fra i livelli di
inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai
diversi comparti di contrattazione nazionale, al fine di
favorire i processi di mobilità fra i comparti di
contrattazione del personale delle pubbliche
amministrazioni.
L'art. 2, comma 3, del citato decreto stabilisce che 'la
corrispondenza tra i livelli economici relativi ai diversi
comparti di contrattazione è individuata anche sulla base
del criterio della prossimità degli importi del trattamento
tabellare del comparto di provenienza'.
Pur individuando il predetto decreto la corrispondenza fra i
livelli economici di inquadramento previsti dai contratti
collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione
nazionale, si ritiene che il principio sopra affermato
costituisca un utile riferimento anche per i processi di
trasferimento di personale da/verso il comparto unico del
pubblico impiego regionale e locale della Regione Friuli
Venezia Giulia, considerato che l'art. 5 del medesimo
decreto precisa che le disposizioni in esso contenute si
applicano anche ai processi di mobilità che coinvolgono, ove
previsti, gli specifici comparti delle regioni a statuto
speciale e delle province autonome, compatibilmente con le
norme dei rispettivi statuti e le relative norme di
attuazione.
Resta fermo che determinate disposizioni di legge o
contrattuali, a livello regionale, possono dettare regole
specifiche, sia per il trasferimento di personale
all'interno del comparto unico, sia per il trasferimento di
personale da o verso enti di comparti diversi.
Ciò posto, per quanto riguarda infine la normativa che ha
abrogato il divieto di reformatio in peius si
evidenzia che la fattispecie di cui all'art. 2112 riveste
una propria peculiarità in quanto garantisce al lavoratore
la continuità del rapporto di lavoro alle dipendenze del
cessionario, rafforzando la tutela dei crediti che il
lavoratore aveva al momento del trasferimento dell'azienda.
---------------
[1] E' prevista una particolare procedura di
informazione, consultazione ed esame congiunto con le
rappresentanze sindacali, qualora si intenda effettuare un
trasferimento d'azienda.
[2] Corte costituzionale, 23.07.2013, n. 227.
[3] Consultabile sul sito: http://autonomielocali.regione.fvg.it/aall.
[4] Cass. civ., sez. lav., 11.07.2012, n. 11660.
[5] Naturalmente di rango primario, considerata la natura
della fonte da derogare (cfr. Cass. civ., sez. lav. udienza
del 25.01.2005).
[6] Cass. civ., sez. lav., n. 16376/2012, cit.. Conforme,
Cass. civ., sez. lav., n. 11660/2012, cit..
[7] E' quanto emerge infatti dalla dichiarazione congiunta
n. 24, apposta in calce al CCNL comparto Regioni-Autonomie
locali del 22.01.2004.
[8] Cfr. RAL_1649_Orientamenti Applicativi (11.11.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendenti comunali: il rimborso dell'iscrizione all'Albo
non si estende a tutti i professionisti.
Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti con deliberazione
n. 1/2011 e successivamente la Corte dei Conti Toscana con
deliberazione 162/2015, chiamate a pronunciarsi sulla
questione concernente l'individuazione del soggetto
(professionista dipendente di amministrazione locale o
amministrazione locale) sul quale dovessero gravare le spese
per l'iscrizione all'albo (nel caso specifico degli
avvocati) ha emesso pronuncia di inammissibilità oggettiva
perché la questione presuppone la risoluzione di una
questione di stretta interpretazione normativa e solo
indirettamente potrebbe ricondursi alla materia della
contabilità pubblica.
La Cassazione Civ. Sez. lavoro con
sentenza 16.04.2015 n. 7776 ha stabilito che le spese sostenute da lavoratore
nell'esclusivo interesse del datore di lavoro devono essere
rimborsate al dipendente.
Ciò premesso il Comune pone su questo argomento diversi
quesiti:
●
Il dipendente di un ente locale, che è stato assunto nel
profilo professionale di architetto o ingegnere e che è
impiegato nel settore delle opere pubbliche è obbligato ad
essere iscritto all'albo?
●
Ed il dipendente inquadrato nel medesimo profilo e che si
occupa di urbanistica nell'ente locale è obbligato
all'iscrizione all'albo?
●
Nel caso in cui non sussista l'obbligo di iscrizione
all'albo, ma nel bando di concorso espletato dall'ente per
ricoprire il posto era stata richiesta tra i requisiti per
l'ammissione alla selezione anche l'iscrizione all'albo, è
legittimo da parte dell'Ente locale comunicare al lavoratore
che ai fini della legittima sussistenza del rapporto di
lavoro il requisito dell'iscrizione all'albo non è più
necessario e quindi che l'obbligo di iscrizione è venuto
meno?
●
Nel caso in cui sussista l'obbligo d'iscrizione all'albo,
l'onere è a carico dell'Ente e da quando?
In risposta a tali interrogativi la redazione ANCI Risponde
ricorda che la questione per la quale la pubblica
amministrazione (compresi gli enti locali) sia tenuta o
meno, a rimborsare al proprio dipendente la tassa
d'iscrizione al rispettivo Albo professionale, è destinata a
riproporsi ogni qualvolta nella materia di nostro interesse,
sopraggiunge una autorevole pronuncia giurisprudenziale che
sembra schiudere alla possibilità di un nuovo orientamento
interpretativo sul delicato tema.
E' questo il caso della recente
sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Corte di
Cassazione –Sezione lavoro- che rigetta il ricorso proposto
dal I.N.P.S. avverso la sentenza della Corte di Appello di
Napoli n. 4864/2011 depositata il 08/07/2011.
La citata sentenza è formulata in senso favorevole al
dipendente pubblico, avvocato, disponendo che a favore di
questo ultimo fossero rimborsate tutte le tasse versate da
quando era impiegato all'ufficio legale del INPS.
Come è facile notare, lo specifico caso sottoposto al vaglio
del Giudice di Cassazione, riguardava un avvocato dipendente
dell'INPS, con inserimento nel ruolo legale, regolarmente
iscritto nell'elenco speciale annesso all'Albo di
appartenenza e riguardante gli avvocati degli enti pubblici.
Nel caso di specie il professionista interessato aveva
invano richiesto all'Istituto, proprio datore di lavoro, il
rimborso di quanto versato al Consiglio dell'Ordine degli
avvocati di Napoli, come tassa di iscrizione per numerosi
anni pregressi (dal 1989 al 2002).
Il provvedimento della Cassazione, fonda essenzialmente il
suo assunto sulla constatazione che il rapporto
avvocato/pubblica amministrazione va considerato alla
stregua del contratto di mandato così come previsto
dall'articolo 1719 del vigente codice civile. La citata
norma civilistica prevede espressamente che il mandante (in
questo caso l'ente pubblico), sia tenuto a mantenere indenne
il mandatario (il legale), da ogni diminuzione patrimoniale
che questi abbia subito in conseguenza dell'incarico,
fornendogli i mezzi patrimoniali necessari per espletare la
professione.
All'indomani della pronuncia giudiziaria, sono stati in
molti a ritenere che i principi giuridici contenuti nella
sentenza, si presentino estensibili in maniera
indiscriminata anche alle altre categorie professionali di
pubblici dipendenti potenzialmente destinatarie (ingegneri,
architetti, sanitari, assistenti sociali, ecc.), distinte da
quella forense.
In proposito non si può non fare osservare che il dictum
giudiziale di nostro interesse è, da una parte, per sua
intrinseca natura, destinato a fare stato soltanto tra i
soggetti che sono stati parte nella causa, ma soprattutto
che esso riguarda espressamente la professione forense e le
peculiari modalità che regolano lo status
dell'avvocato pubblico dipendente (iscrizione nell'elenco
speciale annesso all'Albo di appartenenza).
Nel merito la sentenza della Cassazione in disamina,
ricollegandosi al
parere 15.03.2011 n. 1081 del Consiglio di Stato (reso nell'affare n. 678/2010), ha affermato (rectius:
ribadito), che quando sussista il vincolo di esclusività,
l'iscrizione all'Albo è funzionale allo svolgimento di
un'attività professionale svolta nell'ambito di una
prestazione di lavoro dipendente, pertanto la relativa tassa
rientra tra i costi per lo svolgimento di detta attività,
che dovrebbero, in via normale, al di fuori dei casi in cui
è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare
sull'Ente che beneficia in via esclusiva dei risultati di
detta attività.
Il principio per come è formulato, si attaglia
perfettamente, ma anche in maniera del tutto peculiare, al
dipendente pubblico professionista-avvocato, attesa la
sussistenza del vincolo di esclusività e della funzionalità
dell'iscrizione allo svolgimento dell'attività
professionale, nell'ambito della propria prestazione di
lavoro dipendente e, l'oggettiva circostanza, per la quale
l'ente locale datore di lavoro, rappresenta l'unico
beneficiario dell'attività professionale svolta dal proprio
dipendente, diventando perciò il soggetto obbligato a
sostenere gli oneri della tassa di iscrizione.
L'iscrizione nell'elenco speciale, infatti, fa si che
l'avvocato dipendente pubblico potrà svolgere solo ed
esclusivamente la professione legale in nome, per conto e
nell'interesse dell'ente di appartenenza.
Analoga cosa non si può affermare per tutti
gli altri professionisti dipendenti pubblici, i quali con
l'iscrizione al proprio Albo professionale, non vengono
confinati in alcuna sezione speciale, potendo teoricamente,
se pure nel rispetto delle norme concernenti la esclusività
del rapporto di pubblico impiego, godere di specifiche
disposizioni normative derogatorie del vincolo (collaudi di
opere pubbliche, direzione lavori, attività professionali
rese a favore di terzi a titolo gratuito etc.), salvo il
rispetto della vigente disciplina locale in materia di
autorizzazioni ad incarichi extraistituzionali (ex art. 53
del D.Lgs. 165/2001 e s.m.i.).
Senza contare che con l'entrata in vigore del D.P.R.
07.08.2012, n. 137 -Regolamento recante riforma degli
ordinamenti professionali, a norma dell'articolo 3, comma 5,
del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– il divieto di
iscrizione per il pubblico dipendente è praticamente caduto,
anche se deve essere chiaro che a seguito dell'eventuale
iscrizione non si costituisce un diritto incondizionato
all'esercizio della libera professione.
Per gli stessi dipendenti comunali ingegneri ed architetti,
infine, sembra opportuno evidenziare che
per poter idoneamente svolgere il proprio rapporto di lavoro
con l'ente datore, è sufficiente la sola abilitazione,
legata all'accertamento dei requisiti tecnico-professionali
(l'art. 90 del Codice dei Contratti precisa che nelle
amministrazioni pubbliche i progetti sono firmati da
dipendenti abilitati all'esercizio della professione e
quindi non è richiesta per tali figure alcuna iscrizione
all'albo.
Anche per quanto riguarda l'attività di collaudo, a termini
dell'art. 120 del codice non è richiesta alcuna iscrizione).
In conseguenza di quanto argomentato, dal
momento che per tali categorie professionali, l'iscrizione
al proprio ordine professionale non costituisce un requisito
professionale necessario per svolgere il rapporto di lavoro
con l'ente di appartenenza, ad essi non spetta alcun
rimborso della quota di iscrizione annuale.
Le risposte alle singole questioni generali poste dal
quesito sono rilevabili dal contenuto dei chiarimenti sopra
svolti. Si segnala in proposito anche la recente
nota 19.10.2015 n. 79309 di prot.
del MEF.
Per quanto attiene al secondo specifico punto del quesito,
parrebbe utile che l'ente locale che -in sede di
bando di concorso avesse espressamente richiesto, tra i
requisiti di ammissione anche l'iscrizione al rispettivo
Ordine professionale– comunicasse ai lavoratori in questione
che il proprio rinnovo della iscrizione all'Albo, resta una
formalità riconducibile esclusivamente all'interesse
professionale personale di ciascuno di loro
(10.11.2015 - link a
www.centrodocumentazionecomuni.it). |
URBANISTICA: Parere in merito agli effetti della mancata realizzazione di
un programma di riqualificazione urbana approvato con
accordo di programma in variante urbanistica - Comune di
Sora (Regione Lazio,
parere
09.11.2015 n.
121960 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un amministratore locale che riveste la
carica di Presidente di una società cooperativa a
responsabilità limitata.
Si ritiene non sussista alcuna causa di
incompatibilità per un amministratore locale che riveste,
altresì, la carica di Presidente di una società cooperativa,
che non riceve sovvenzioni dal Comune e nella quale l'Ente
possiede una partecipazione minoritaria, qualora
l'amministrazione comunale non eserciti alcuna influenza,
controllo o vigilanza sulla società in riferimento né
partecipi in alcun modo alla scelta dei componenti degli
organi di amministrazione.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito
all'esistenza di una qualche causa di incompatibilità per un
amministratore locale che riveste, altresì, la carica di
Presidente di una società cooperativa nella quale l'Ente
possiede una partecipazione minoritaria. Precisa, altresì,
l'amministrazione comunale, per le vie brevi, che la stessa
'non esercita alcuna influenza, controllo o vigilanza
sulla società in riferimento né partecipa in alcun modo
nella scelta dei componenti degli organi di amministrazione'.
Alla luce delle indicazioni fornite dal Comune pare non
venga in rilievo, nella fattispecie in esame, alcuna causa
di incompatibilità disciplinata dalla legge.
In particolare, pare manchino i presupposti per
l'applicabilità sia delle disposizioni previste
dall'articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
(TUEL), rubricato 'Incompatibilità', sia di quelle
contenute nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
[1]
In via generale, si ricorda come un esame delle eventuali
cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono
investire gli amministratori locali deve essere effettuato
in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da
qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso
che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo
incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo,
alla luce della riserva di legge in materia posta
dall'articolo 51 della Costituzione.
Atteso un tanto, pare manchino i presupposti per
l'applicazione del disposto di cui all'articolo 63, comma 1,
num. 1), TUEL laddove prevede che non possa ricoprire la
carica di consigliere comunale l'amministratore di ente,
istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno
il 20 per cento di partecipazione da parte del comune o che
dallo stesso riceva, in via continuativa, una sovvenzione,
in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa
superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate
dell'ente.
Nel caso di specie, infatti, mancano sia i presupposti per
l'applicabilità della prima parte della disposizione sopra
citata, non sussistendo alcun rapporto di vigilanza tra
l'ente e la società e non avendo il Comune una
partecipazione rilevante ai fini di legge nella cooperativa,
sia quelli di cui alla seconda parte della disposizione
citata atteso che la società non riceve alcuna sovvenzione
da parte del Comune.
Non assume rilievo il disposto di cui all'articolo 63, comma
1, num. 2), TUEL, atteso che lo stesso non si applica 'a
coloro che hanno parte in cooperative o consorzi di
cooperative, iscritte regolarmente nei registri pubblici',
ai sensi del comma 2 del medesimo articolo.
Quanto alle cause di incompatibilità previste dal D.Lgs.
39/2013 si rileva che l'articolo 1, comma 2, lett. c), del
medesimo annovera tra gli enti di diritto privato in
controllo pubblico 'le società e gli altri enti di
diritto privato che esercitano funzioni amministrative,
attività di produzione di beni e servizi a favore delle
amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici,
sottoposti a controllo ai sensi dell'articolo 2359 c.c.
[2]
da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei
quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni,
anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di
nomina dei vertici o dei componenti degli organi'.
Al fine di escludere che la società cooperativa in
riferimento debba essere annoverata tra gli 'enti di
diritto privato in controllo pubblico', risulta
necessario valutare in concreto le modalità di nomina dei
componenti degli organi di amministrazione della società
stessa. In ogni caso, da una analisi delle cause di
inconferibilità e incompatibilità disciplinate dal D.Lgs.
39/2013 parrebbero, comunque, mancare i requisiti richiesti
dalla legge per l'insorgenza delle fattispecie dalla stessa
disciplinate.
In particolare, tanto l'articolo 7, comma 2,
[3] quanto
l'articolo 13, comma 3, [4]
del D.Lgs. 39/2013, richiedono, tra gli altri, l'elemento
della soglia demografica minima comunale che deve essere
superiore ai 15.000 abitanti: tale requisito risulta
difettare nel caso del Comune che ha posto l'odierno
quesito.
---------------
[1] Recante 'Disposizioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le pubbliche
amministrazioni e presso gli enti privati in controllo
pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della
legge 06.11.2012, n. 190'.
[2] Recita l'articolo 2359 c.c.: 'Sono considerate società
controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della
maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti
sufficienti per esercitare un'influenza dominante
nell'assemblea ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra
società in virtù di particolari vincoli contrattuali con
essa.
Ai fini dell'applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma
si computano anche i voti spettanti a società controllate, a
società fiduciarie e a persona interposta: non si computano
i voti spettanti per conto di terzi.
Sono considerate collegate le società sulle quali un'altra
società esercita un'influenza notevole. L'influenza si
presume quando nell'assemblea ordinaria può essere
esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la
società ha azioni quotate in mercati regolamentati'.
[3] Recita l'articolo 7, comma 2, del D.Lgs. 39/2013: 'A
coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti
della giunta o del consiglio della provincia, del comune o
della forma associativa tra comuni che conferisce
l'incarico, ovvero a coloro che nell'anno precedente abbiano
fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia,
di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o
di una forma associativa tra comuni avente la medesima
popolazione, nella stessa regione dell'amministrazione
locale che conferisce l'incarico, nonché a coloro che siano
stati presidente o amministratore delegato di enti di
diritto privato in controllo pubblico da parte di province,
comuni e loro forme associative della stessa regione, non
possono essere conferiti:
a) OMISSIS;
b) OMISSIS;
c) OMISSIS;
d) gli incarichi di amministratore di ente di diritto
privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di
un comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti o di
una forma associativa tra comuni avente la medesima
popolazione'.
[4] Recita l'articolo 13, comma 3, del D.Lgs. 39/2013: 'Gli
incarichi di presidente e amministratore delegato di ente di
diritto privato in controllo pubblico di livello locale sono
incompatibili con l'assunzione, nel corso dell'incarico,
della carica di componente della giunta o del consiglio di
una provincia o di un comune con popolazione superiore ai
15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente
la medesima popolazione della medesima regione' (05.11.2015
-
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
La pubblicità temporanea.
DOMANDA:
Si può rinnovare una pubblicità temporanea trimestrale? La
normativa parla di temporanea mensile/bimestrale/trimestrale
dopodiché diventa permanente annuale.
RISPOSTA:
Le norme relative alle modalità di rilascio delle
autorizzazioni alle diverse esposizioni pubblicitarie sono
previste nel regolamento comunale e nel piano generale degli
impianti ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. 507/1993. Pertanto
è in riferimento a questi due strumenti regolamentari che
vanno valutate le richieste di installazione e di eventuale
rinnovo delle pubblicità temporanee.
La norma sulla tariffa per la pubblicità temporanea (art. 12
del D.Lgs. 507/1993) riguarda appunto la tariffa da
applicare e non i provvedimenti autorizzatori.
Nel caso in cui una pubblicità si protragga oltre i tre
mesi, anche in conseguenza di una proroga dovrà pagare
l’importo della pubblicità annuale per intero. Cioè una
pubblicità che dura quattro mesi deve comunque pagare
l’intera pubblicità annuale (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lo sportello unico per le attività produttive.
DOMANDA:
Si premette che: lo Sportello unico attività produttive (Suap)
del nostro Comune è gestito attualmente dall'ufficio tecnico
comunale; il Servizio Commercio–Polizia Amministrativa è
inserito in un Settore Amministrativo distinto e separato
dallo Sportello unico attività produttive; non è stato
ancora approvato il Regolamento per la disciplina dello
stesso Suap.
Considerato quanto sopra, si chiede, alla luce della vigente
normativa in materia, stante l'attuale organizzazione del
Comune in premessa descritta, al fine di evitare l'emissione
di provvedimenti illegittimi, quale sia il Settore
competente, se il Suap o l'Ufficio Commercio–Polizia
Amministrativa:
1) al rilascio delle autorizzazioni ai sensi della L.R.
Marche 27/2009, "Testo unico sul Commercio", e
all'emissione dei provvedimenti di sospensione, decadenza e
revoca delle suddette autorizzazioni;
2) all'avvio del procedimento per i provvedimenti sopra
citati di sospensione, decadenza e revoca delle suddette
autorizzazioni 2) al rilascio delle autorizzazioni di cui al
Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza e delle
normative regionali in materia di strutture ricettive;
3) all'adozione dei motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione delle attività sopra citate e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi delle stesse, di cui
all'art. 19 della L. 241/1990.
RISPOSTA:
L’art. 4 del D.P.R. n. 160/2010, recante il regolamento per
la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo
sportello unico per le attività produttive, dispone che le
comunicazioni al richiedente sono trasmesse esclusivamente
dal SUAP; gli altri uffici comunali e le amministrazioni
pubbliche diverse dal comune, che sono interessati al
procedimento, non possono trasmettere al richiedente atti
autorizzatori, nulla osta, pareri o atti di consenso, anche
a contenuto negativo, comunque denominati e sono tenute a
trasmettere immediatamente al SUAP tutte le denunce, le
domande, gli atti e la documentazione ad esse eventualmente
presentati, dandone comunicazione al richiedente.
E’ solo il SUAP che deve adottare il provvedimento
conclusivo entro trenta giorni, mentre presso ciascun
Settore/Servizio dell’Amministrazione Comunale dovrebbe
essere individuato un Referente SUAP che, generalmente,
coincide con il Responsabile del Settore/Servizio, salvo
delega ad altro personale individuato dal Responsabile
stesso, in qualità di responsabile delle fasi
endoprocedimentali di competenza di ciascun Ufficio o
Servizio ovvero di una o più materie collegate allo
Sportello Unico.
Questi referenti interni dovrebbero presidiare le funzioni
autorizzative/abilitative dei Settori che intervengono negli
endoprocedimenti del procedimento unico di competenza del
SUAP e dovrebbero far pervenire le autorizzazioni, pareri o
quant’altro di loro competenza, con relativi atti
presupposti al responsabile del SUAP nei termini previsti.
I provvedimenti di sospensione, di decadenza ecc. sono di
competenza del dirigente/funzionario che adotta anche i
titoli autorizzativi e quindi questo può essere determinato
solo nel regolamento del comune che disciplina l’attività
del SUAP e le competenze assegnate al SUAP e ai
dirigenti/funzionari di ciascun Settore/Servizio
dell’Amministrazione Comunale che interviene nel
procedimento (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Modena - regolamento comunale del Sito Unesco di
Modena: Cattedrale, Torre Civica Ghirlandina e Piazza Grande
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 03.11.2015 n. 26403 di prot.).
---------------
La Direzione generale Belle Arti e Paesaggio, con nota
del 29.08.2015, nel trasmettere la bozza del regolamento
comunale del sito Unesco di Modena, su istanza della
Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di
Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara, chiede il parere
di questo Ufficio sulla previsione di cui al punto 8.2 del
suddetto Regolamento, che consente di derogare all'obbligo
di acquisire l'autorizzazione ministeriale, prevista
dall'art. 21 del codice di settore, in caso di interventi
conformi al regolamento medesimo.
Tale "procedura in deroga" poggerebbe sull'Accordo di
programma ... |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: NAPOLI — Rione Duca D'Aosta in via Giacomo
Leopardi 110 - Trasferimento di immobili facenti parte di
fabbricato con vincolo gravante solo su un particolare
architettonico - art. 60 decreto legislativo 22.01.2004 n. 42, "Codice dei beni culturali e del paesaggio" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 02.10.2015 n. 23142 di prot.).
---------------
Codesta Direzione, con nota prot. 21245 del 09.09.2015,
chiede chiarimenti circa la legittimità della procedura
prevista dall'art. 60 del codice di settore (acquisto in via
di prelazione) in caso di alienazione di bene sottoposto a
vincolo gravante unicamente sulla facciata.
Nella fattispecie considerata, il procedimento risulta
caratterizzato dalla natura pubblica dell'ente proprietario
del complesso immobiliare, soggetto al procedimento di
verifica di interesse culturale ... |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Applicabilità della disciplina della L.R. n. 15
del 2013 sulla proroga a interventi edilizi avviati, con il
rilascio del titolo edilizio, in vigenza della L.R. n. 31
del 2002 (Regione Emilia Romagna,
parere 23.09.2015 n. 689858 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: CAPRI (Napoli) - demolizione di manufatti
abusivi - art. 27, comma 2, decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380 "Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia" - art. 167, decreto legislativo 22.01.2004 n. 42
"Codice dei beni culturali e del paesaggio" (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 23.09.2015 n. 22200 di prot.).
---------------
La Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il comune e
la provincia di Napoli, con nota prot. 11941 del 30.07.2015,
chiede chiarimenti circa le competenze del Soprintendente in
merito all'esecuzione delle opere per il ripristino dello
stato dei luoghi che, ricadenti in ambito territoriale
tutelato ai fini paesaggistici, risultano essere stati
modificati o alterati per effetto di interventi abusivi non
sanati.
Espone in fatto l'avvenuta esecuzione di opere abusive ...
|
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Collegio San Carlo S.r.l. con sede a Milano,
corso Magenta 71 - alienazione di beni chiesastici (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 02.09.2015 n. 20330 di prot.).
---------------
Con nota prot. 265/1-1 del 07.07.2015 codesto Comando, in
relazione alla vendita di numerosi oggetti chiesastici
provenienti dalla sede del Collegio San Carlo S.r.l. della
Diocesi di Milano, chiede di sapere se tale ente,
costituitosi in forma di società per azioni nel 1913, e
trasformatosi in società a responsabilità limitata nel 1988,
sia assimilabile agli enti ecclesiastici che ne
costituiscono l'assetto societario (opera Diocesana per la
prevenzione e diffusione della fede al 99% e Vicenziana al
1%), se detta società sia sottoposta agli obblighi imposti
dall'art. 12 del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e se i
beni chiesastici provenienti ... |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Composizione Commissioni regionali ex art. 137
del codice dei beni culturali e del paesaggio. Segretariati
regionali dei beni e delle attività culturali e del turismo
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota 21.07.2015 n. 17462 di prot.).
---------------
Si fa riferimento al quesito posto da codesto
Segretariato regionale, con nota prot. n. 1979 del
29.06.2015, con il quale si chiede se il Segretario
regionale dei beni e delle attività culturali e del turismo
possa subentrare al Direttore regionale per i beni culturali
e paesaggistici nella composizione delle Commissioni
regionali del paesaggio.
Al riguardo, si osserva che la composizione delle
Commissioni suddette è stabilita ... |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Che cos'è la presupposizione.
La presupposizione costituisce
un’ipotesi di scioglimento del contratto di creazione
dottrinale e giurisprudenziale.
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa
menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura)
viene considerata come presupposto determinante ai fini
della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte
della dottrina definisce la presupposizione una "condizione
inespressa".
------------------
La presupposizione costituisce un’ipotesi di scioglimento
del contratto di creazione dottrinale e giurisprudenziale.
Come si può leggere sul Torrente, "talora accade che le
parti abbiano dettato il regolamento negoziale fondando le
loro valutazioni su determinati presupposti che in seguito
possono essere venuti meno o che, nonostante le attese, non
si sono verificati".
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa
menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura)
viene considerata come presupposto determinante ai fini
della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte
della dottrina definisce la presupposizione una "condizione
inespressa".
La definizione più efficace di tale istituto viene fornita
dalla sentenza della Cassazione, n. 633 del 24/03/2006, che
statuisce quanto segue: “La cosiddetta presupposizione
deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un
lato, ad una particolare forma di condizione, da
considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa
nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa causa
del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e
concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo
rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della
volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione
ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime
stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la
presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del
contratto, si evinca che una situazione di fatto,
considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in
sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto
imprescindibile della volontà negoziale, venga
successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non
imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che
costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a
trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza
della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così
da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi
dell'articolo 1467 cod. civ.”.
Un esempio: acquistare un terreno per costruire una casa;
entrambi i contraenti "presupponevano"
l'edificabilità del suolo di cui viene successivamente
constatata l'inedificabilità (17.02.2015 - link a
http://www.studiodostuni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Comune di TORINO (TO) - Riscontro a nota comunale prot.
n. 2040 del 18.04.2014: "Attestazioni di agibillità ai
sensi dell’art. 25, comma 5-bis, del DPR n. 380/2001 -
attuazlone modalità di effettuazione dei controlli”
(Regione Piemonte,
parere
16.05.2014
n. 13265 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Comune di CHIERI (TO) - Riscontro a nota comunale prot. n.
35182 del 23.10.2013: “Quesito in merito
all’applicabilità delle tempistiche previste per i
procedimenti SUAP in casi di interventi in deroga agli
strumenti urbanistici ai sensi della L. 106/2011”
(Regione Piemonte,
parere
12.02.2014
n. 4028 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comune di NARZOLE (CN) - "Richiesta di parere
per intervento edilizio proposto come ristrutturazione
edilizia consistente nella demolizione e successiva
ricostruzione di fabbricato residenziale, alla luce delle
recenti novità introdotte dal D.L. n. 69 del 21.06.2013
convertito nella legge n. 69 del 09.08.2013"
(Regione Piemonte,
parere
30.01.2014
n. 2766 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Comune di PONTI (AL) - “Serra mobile stagionale per il
ricovero della fienagione costituita da tunnel”.
Richiesta parere sulla procedura autorizzativa
(Regione Piemonte,
parere
15.11.2013
n. 31150 di prot.). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI:
Rilascio polizze fideiussorie false nell’ambito dei
contratti pubblici - Notizie acquisite dall’Istituto per la
Vigilanza sulle Assicurazioni (comunicato
del Presidente 17.11.2015 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Attività della Società ASMEL. Sospensiva del provvedimento
dell’Anac n. 32/2015.
Con
riferimento alla delibera dell’Autorità n. 32/2015, si porta
a conoscenza delle Amministrazioni interessate che con
ordinanza 04.11.2015, n. 5042, emessa ai sensi dell’art.
112, comma 5, c.p.a., il Consiglio di Stato, VI sezione, ha
affermato che la sospensione dell’efficacia del
provvedimento impugnato dell’Autorità ha ad oggetto “esclusivamente
la sua incidenza sulle procedure di gara in corso e non
anche sulla futura attività amministrativa di Asmel, che
rimane regolata dal suddetto provvedimento nelle more della
decisione nel merito della controversia”.
È stata chiarita, in questo modo, l’esatta portata della
precedente ordinanza n. 4016 del 09.09.2015.
Delibera n. 32 del 30.04.2015
Ordinanza 04.11.2015 n. 5042
Ordinanza 09.09.2015 n. 4016
(09.11.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Criticità della normativa contenuta nel d.lgs.
18.08.2000, n. 267 (“Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali”), in tema di esimenti
alle cause di incompatibilità e di conflitto di interessi
(atto
di segnalazione 04.11.2015 n. 7 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Anac contro le proroghe, distorcono la concorrenza.
Denunciato l'utilizzo improprio. Rischi di danno erariale.
Rischio di responsabilità per danno erariale per le proroghe
e i rinnovi contrattuali illegittimi e che, per ragioni di
natura «tecnica», arrivano a 6 anni oltre la scadenza
originaria del contratto, con picchi fino a tre volte la
durata del contratto originario.
È quanto messo in evidenza
dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il
comunicato del Presidente 04.11.2015 che dà conto dei risultati dell'indagine condotta
dall'Autorità su un campione di 39 stazioni appaltanti e che
fa emerge un utilizzo improprio degli istituti del rinnovo e
della proroga al punto da fare prefigurare a Raffaele
Cantone «profili di illegittimità e di danno erariale
allorquando le amministrazioni interessate non dimostrino di
aver attivato tutti quegli strumenti organizzativi-amministrativi necessari a evitare il generale
e tassativo divieto di proroga dei contratti in corso e le
correlate distorsioni del mercato».
Oggetto di esame sono stati oltre 78 contratti, più volte
prorogati. La durata media delle proroghe è di 36 mesi (da 9
a 72 mesi); solo 35 contratti prevedevano opzioni,
mediamente di circa 30 mesi (da 9 a 48) pari all'85% della
durata media dei contratti originari.
Nel complesso, per i 78 contratti presi in esame si è
arrivati a 5.694 mesi di proroghe pari al 203% delle durate
originarie (2.804 mesi). È invece ritenuto dalla stessa
Autorità «sorprendente» il dato medio di 73 mesi di proroghe
«tecniche» (6 anni), con un caso limite in cui un contratto
di 3 anni è stato prorogato di altri 9 e un altro in cui
l'anno di durata si è concluso quasi dopo 10 anni.
La maggior parte delle proroghe è stata motivata dal fatto
che si trattava di proroghe concesse prima del divieto
esplicito di rinnovo dei contratti previsto dall'articolo
23, comma 2, della legge n. 62/2005.
Per quel che riguarda le proroghe «tecniche» le
amministrazioni hanno, invece, spesso fatto riferimento alla
redazione degli atti di gara (per l'Anac il 70% delle
stazioni appaltanti hanno «difficoltà a predisporre gli atti
di gara e a svolgere le gare»), o alla modifica degli atti
di gara a causa di nuove normative o a ritardi derivanti dal
contenzioso che non ha permesso l'aggiudicazione definitiva.
Viene notato come la dilatazione dei tempi sia strettamente
connessa alla incompletezza e alla scarsa qualità della
definizione delle prestazioni che, a seguito di richieste di
chiarimento da parte dei concorrenti, determinano lo
spostamento dei termini delle offerte.
Nell'8% dei casi la proroga tecnica è imputabile ad una
«sorta di cortocircuito determinato dalla regolazione
regionale che impedisce nuove gare agli enti, ma al contempo
le centrali di acquisto avviano e completano con forti
ritardi le gare di loro competenza».
Nell'analisi, l'Autorità ha ribadito che la proroga rimane
sempre un istituto eccezionale perché deroga ai principi di
libera concorrenza, parità di trattamento, non
discriminazione e trasparenza, e deve essere molto limitata
nel tempo e finalizzato al passaggio da un regime
contrattuale a un altro, con gara pubblica.
Viene poi individuato nella scarsa programmazione delle
acquisizioni di beni e servizi e delle attività di gara,
l'elemento di maggiore criticità, al quale si affianca anche
il «continuo rimescolamento dei modelli organizzativi
degli enti appaltanti»
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Un appalto di 12 mesi può durare 13 volte il
previsto. L'Anac: troppi e troppo
lunghi i rinvii. Lesivi dei principi di concorrenza.
Troppe e troppo lunghe le proroghe dei contratti di appalto
della pubblica amministrazione.
Il presidente dell'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) è intervenuto con il
comunicato del Presidente 04.11.2015 a stigmatizzare un comportamento
molto diffuso, lesivo dei principi di concorrenza e buon
andamento.
Il comunicato è frutto di un'indagine dell'Anac riguardo le
motivazioni che hanno spinto un campione ti 39 stazioni
appaltanti facenti parte di vari servizi sanitari regionali,
riguardante in particolare i contratti dei servizi di
lavanolo, pulizie e ristorazione.
Sotto la lente dell'Anac sono finiti 78 contratti oggetto di
ripetute proroghe pari a complessivi 5694 mesi, e cioè il
203% delle durate originarie limitate a 2.804 mesi, nonché
il 149% delle durate originarie incrementate dalle opzioni
previste nei contratti (3.827 mesi).
In sostanza, l'indagine ha rilevato il dato medio di 73 mesi
di proroghe «tecniche», pari a poco più di 6, con picchi di
proroghe pari a al 300% della durata iniziale e di un
contratto inizialmente di 12 mesi, prolungato a 158, oltre
13 volte la durata originaria.
L'Anac ha analizzato anche le cause principali del ricorso
alle proroghe, riscontrando che circa nel 70% dei casi è la
difficoltà nel predisporre gli atti di gara (in particolare
capitolati e progetti) a indurre le stazioni appaltanti a
rinviare sine die le nuove gare, prolungando la durata dei
contratti già in corso. Non mancano casi di proroghe
«tecniche» dovute a modifiche normative nazionali o,
soprattutto, regionali. Molto più contenuto (l'1% del
totale) è il caso di proroghe dovute a contenziosi.
Un utilizzo così esteso dell'istituto della proroga, spiega
l'Anac, costituisce un vulnus evidente al sistema degli
appalti. Infatti, spiega l'autorità, la proroga non può che
avere carattere temporaneo e non eccedere di certo, nella
sua durata, quella iniziale, trattandosi di un strumento che
dovrebbe finalizzarsi esclusivamente «ad assicurare il
passaggio da un regime contrattuale a un altro».
La regola
normale impone che le amministrazioni pongano in essere una
nuova gara per l'affidamento delle prestazioni, quando un
contratto sia scaduto. Le proroghe sono un sistema per
eludere l'ordinario modo di procedere, violando i principi
di apertura del mercato e della concorrenza.
L'indagine dimostra anche lo scarso e inefficiente utilizzo
del sistema della programmazione, come strumento per
assicurare tempestivamente l'avvicendamento degli operatori
economici affidatari dei vari appalti. Il che porta al
paradosso della concessione di proroghe «tecniche» al
contratto già in essere, in vista di nuove procedure di gara
che in realtà non vedono mai la luce, anche per difficoltà
operative nella redazione di progetti e capitolati e,
ancora, la diffusissima tendenza degli enti oggetto
dell'indagine a sconvolgere molto di frequente gli assetti
organizzativi.
Così, le procedure passano con eccessiva rapidità di mano in
mano, senza memoria storica, perdendo efficienza nella
gestione
(articolo ItaliaOggi del 20.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Indagine sugli affidamenti in deroga alle convenzioni
Consip di energia elettrica, gas, carburanti, combustibili
per riscaldamento, telefonia mobile (comunicato
del Presidente 04.11.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Oggetto: art. 11, comma 13, d.lgs. 163/2006 - stipula dei
contratti d'appalto “in forma elettronica” (comunicato
del Presidente 04.11.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
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L’Autorità, in data 13.02.2013, ha adottato la
Determinazione n. 1, recante “Indicazioni interpretative
concernenti la forma dei contratti pubblici ai sensi
dell’art. 11, comma 13, del Codice”.
In considerazione della sopravvenienza normativa di cui
all’art. 6, comma 6, del D.L. 23.12.2013, n. 145, c.d.
“Destinazione Italia”, convertito nella legge 21.02.2014, n.
9, ad integrazione e modifica del contenuto della
Determinazione n. 1/2013, si forniscono alle stazioni
appaltanti le seguenti indicazioni.
Il legislatore, prevedendo un differimento dei termini
relativi all'entrata in vigore delle disposizioni dell'art.
11, comma 13, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163, applicabili a
fare data dal 30.06.2014 per i contratti d’appalto pubblico
stipulati in forma pubblica amministrativa e a far data dal
01.01.2015 per quelli stipulati mediante scrittura privata,
ha manifestato la volontà di comminare la sanzione della
nullità a tutti i casi di mancato utilizzo della “modalità
elettronica”, la quale deve ritenersi obbligatoria sia per
la forma pubblica amministrativa del contratto sia per la
scrittura privata.
Pertanto, anche la scrittura privata conclusa tramite
scambio di lettere, ai sensi dell’art. 334, comma 2, del
d.p.r. n. 207/2010, e relativa al cottimo fiduciario nei
servizi e nelle forniture, dovrà essere redatta in modalità
elettronica. |
APPALTI:
Appalti, l’analisi dei rischi dal bando alla
verifica finale. Anticorruzione. L’aggiornamento del piano
nazionale Anac.
Gli appalti sono uno degli ambiti più a rischio per i
fenomeni corruttivi e per queste ragioni le misure di
prevenzione devono essere strutturate in modo puntuale,
sulla base di un’accurata valutazione.
La
determinazione
28.10.2015 n. 12
ANAC sull’aggiornamento del piano
nazionale anticorruzione contiene un’ampia analisi dell’area
di rischio dei contratti pubblici, focalizzando l’attenzione
su tutte le fasi del percorso di acquisizione di lavori,
servizi e forniture, e individuando per ciascuna rischi
potenziali e possibili misure preventive.
Il presupposto per l’impostazione di misure efficaci è la
completa mappatura dei processi, associata però a
un’autoanalisi organizzativa, che deve “fotografare” la
situazione, permettendo di individuare criticità e punti di
forza. I processi devono essere presi in esame per ciascuna
delle macro-fasi che compongono la sequenza per la
realizzazione di un appalto, rilevando i possibili eventi
rischiosi e le anomalie significative, e componendo un
sistema di indicatori di rischio e definendo misure
specifiche.
L’Anac sollecita le amministrazioni ad analizzare le
problematiche della programmazione, che, soprattutto per i
beni e i servizi, è trascurata dalle stazioni appaltanti e,
per i lavori, se non ben impostata lascia spazio
all’intervento “spontaneo” del privato con strumenti spesso
impropri. In questa fase, tra gli eventi rischiosi
l’Autorità rileva la possibilità che siano inserite nel
programma triennale opere volte a premiare interessi
particolari, destinate ad essere realizzate da determinati
operatori economici.
Anche la progettazione ha molteplici rischi, tra i quali la
nomina di un responsabile unico del procedimento in
situazione di contiguità con l’esecutore uscente o la fuga
di notizie rispetto alla predisposizione della gara, tale da
anticipare solo ad alcuni operatori la volontà di bandire la
gara o il contenuto dei documenti regolatori della
procedura.
Nella fase di selezione del contraente l’Anac configura come
elementi rischiosi le possibili manipolazioni della gara al
fine di pilotarne l’aggiudicazione,come l’applicazione
distorta dei criteri di valutazione per favorire un certo
operatore o la nomina di componenti delle commissioni
giudicatrici in conflitto di interesse.
Le anomalie significative sono molte e possono sostanziarsi
nell’assenza di pubblicità della procedura o nella mancanza
di criteri motivazionali sufficienti a rendere trasparente
l’iter seguito per la valutazione delle offerte. In questa
fase l’Anac individua più volte tra le misure utilizzabili
il ricorso all’audit interno su singole sub-fasi.
Anche la verifica dell’aggiudicazione e la stipula del
contratto presentano rischi importanti, primo tra tutti
l’alterazione o l’omissione dei controlli sui requisiti.
Rispetto alla fase dell’esecuzione del contratto, invece, l’Anac
rafforza una posizione più volte espressa, che individua
come situazione di forte rischio la carenza di controlli
sull’effettivo stato di avanzamento dell’appalto. A questa
si associa la nota criticità dell’utilizzo improprio delle
varianti, il cui numero nell’ambito dell’appalto potrebbe
essere rapportato a un indicatore specifico.
L’Anac evidenzia infine la necessità di analizzare i
potenziali rischi anche per la fase relativa alla
rendicontazione dei contratti, ad esempio per evitare che
alcuni pagamenti sfuggano alla tracciabilità dei flussi
finanziari (articolo Il Sole 24 Ore del 16.11.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Gare, le fasi a rischio corruzione. Un antidoto è
la programmazione delle amministrazioni. Determina dell'Anac
per prevenire le anomalie nella gestione degli appalti
pubblici.
Insufficiente programmazione, nomina di responsabili del
procedimento in rapporto di contiguità con le imprese
esecutrici; mancata comunicazione delle varianti, frequente
ricorso alle procedure negoziate o in deroga.
Sono queste alcune delle principali anomalie che l'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) ha individuato per il
settore degli appalti pubblici con la
determinazione
28.10.2015 n. 12 e per le quali ha fornito indicazioni ai
fini della predisposizione e gestione delle misure di
prevenzione della corruzione (aggiornamento 2015 del piano
nazionale anticorruzione).
L'Anac ha evidenziato un elenco esemplificativo di aree di
rischio, prevalentemente attinenti alla definizione
dell'oggetto dell'affidamento, alla individuazione dello
strumento e istituto per l'affidamento, ai requisiti di
qualificazione e di aggiudicazione, alla valutazione e
verifica dell'anomalia delle offerte, alla gestione delle
procedure negoziate e di affidamento diretto, alla revoca
del bando, alla redazione del cronoprogramma, all'adozione
di varianti, al subappalto e all'utilizzo di rimedi di
risoluzione delle controversie alternativi a quelli
giurisdizionali durante la fase di esecuzione del contratto.
L'Anac ha sottolineato in primo luogo come l'insufficiente
attenzione alla fase di programmazione o l'utilizzo
improprio degli strumenti di intervento dei privati nella
programmazione costituiscano una delle principali cause
dell'uso distorto delle procedure che può condurre a
fenomeni corruttivi.
In questa fase quindi le amministrazioni dovrebbero prestare
particolare attenzione ai processi di analisi e definizione
dei fabbisogni, alla redazione e all'aggiornamento del
programma triennale per gli appalti di lavori e a tutti i
processi che prevedono la partecipazione di privati alla
fase di programmazione.
Uno dei punti fondamentali messi in evidenza dalla determina
è quello della trasparenza in ogni fase del procedimento di
approvvigionamento, ivi inclusa la fase di esecuzione dei
contratti.
Le anomalie più significative da evitare riguardano comunque
il ritardo o la mancata approvazione degli strumenti di
programmazione, l'eccessivo ricorso a procedure di urgenza o
a proroghe contrattuali, la reiterazione di piccoli
affidamenti aventi il medesimo oggetto ovvero la
reiterazione dell'inserimento di specifici interventi, negli
atti di programmazione, che non approdano alla fase di
affidamento ed esecuzione, la presenza di gare aggiudicate
con frequenza agli stessi soggetti o di gare con unica
offerta valida costituiscono tutti elementi rivelatori di
una programmazione carente e, in ultima analisi, segnali di
un uso distorto o improprio della discrezionalità.
Fra i possibili eventi rischiosi viene poi indicata la
nomina di responsabili del procedimento in rapporto di
contiguità con imprese concorrenti (soprattutto esecutori
uscenti) o privi dei requisiti idonei e adeguati ad
assicurarne la terzietà e l'indipendenza.
Problemi sono stati individuati anche nella fase delle
varianti, con casi di abusivo ricorso alle varianti al fine
di favorire l'appaltatore per recuperare i ribassi d'asta.
Così come è molto frequente l'approvazione di modifiche
sostanziali degli elementi del contratto definiti nel bando
di gara o nel capitolato d'oneri che, se previsti fin
dall'inizio, avrebbero consentito un confronto
concorrenziale più ampio.
In fase di controllo dell'appalto rappresenta infine un
elemento di elevato rischio quello legato all'affidamento
dell'incarico di collaudo a soggetti compiacenti per
ottenere il certificato di collaudo pur in assenza dei
requisiti
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2015). |
APPALTI:
Gare, basta cauzioni col rating.
È illegittimo chiedere cauzioni con il rating per la
partecipazione ad appalti pubblici; si violano i principi di
concorrenza e si penalizzano le piccole e medie imprese.
È quanto afferma il
parere
di precontenzioso
21.10.2015 n. 171
Anac (l'Autorità nazionale
anticorruzione) con riguardo a una
gara di appalto per l'affidamento del servizio di taglio del
manto erboso e servizi accessori, il cui disciplinare di
gara aveva previsto che per la produzione della cauzione
provvisoria i concorrenti dovessero fare riferimento a
compagnie assicurative che rilasciano le garanzie
fideiussorie dotate di rating, rilasciato da una delle
principali società di rating, non inferiore al
corrispondente punteggio BBB rilasciato da Standard & Poor's.
In base alla normativa vigente la cauzione provvisoria può
essere costituita anche sotto forma di fideiussione bancaria
o assicurativa o rilasciata da intermediari finanziari
purché questi siano iscritti nell'albo di cui all'articolo
106 del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, che
svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio
di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da
parte di una società di revisione iscritta nell'albo
previsto dall'articolo 161 del decreto legislativo 24.02.1998, n. 58.
L'Autorità presieduta da Raffaele
Cantone ha nella sostanza, sia pure in estrema sintesi,
ripreso i contenuti della propria determinazione n. 1 del 29.07.2014 che si era espressa nel senso che la richiesta
di rating, pari o superiore ad un determinato minimo,
attribuito dalle società di certificazione internazionale si
ponesse «in violazione dei principi di cui all'art. 2, dlgs
163/2006 in quanto introduce restrizioni non previste dal
Codice che non appaiono neppure correlate e proporzionate
con gli obiettivi che si intende perseguire, potendo
introdurre ostacoli elevati alla partecipazione alle gare
soprattutto per le piccole e medie imprese».
Nel
provvedimento di oltre un anno fa si ponevano diversi
aspetti di illegittimità: la mancata accettazione di
garanzie da parte degli intermediari finanziari; la
richiesta di un contratto autonomo di garanzia e, infine, il
problema del rating che, con questo parere di precontenzioso
viene di nuovo bocciato, nonostante sia molto spesso
richiesto
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2015). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Concorsi di progettazione, incarichi indicati nel
bando. Delibera n. 12 dell'Autorità presieduta da Raffaele
Cantone.
Deve essere prevista nel bando di concorso la facoltà di
affidare al vincitore del concorso di progettazione gli
sviluppi progettuali.
Lo ha affermato l'Anac (autorità anticorruzione presieduta
da Raffaele Cantone) nella
delibera
21.10.2015 n. 105.
La vicenda riguardava un professionista che aveva vinto un
concorso di progettazione (e ricevuto un premio di 8 mila
euro) e successivamente aveva ricevuto incarichi di
progettazione in forma frazionata (per 460 mila euro di
compensi) non relativi al completamento dell'intero progetto
del concorso.
Trattandosi di affidamenti successivi che
superavano l'importo di applicazione della soglia Ue, si
poneva il problema della loro legittimità attraverso il
ricorso allo strumento del concorso di progettazione, nel
caso specifico in cui il bando non aveva espressamente
specificato se sarebbe stato affidato o meno l'incarico di
progettazione al vincitore del concorso. L'amministrazione,
infatti, si era riservata di effettuare tale scelta in un
momento successivo.
Per affrontare tale profilo l'Anac premette alcune
considerazioni generali sulla finalità del concorso che è
quello di «acquisire un prodotto di ingegno, giudicato
migliore da un'apposita commissione, in luogo del ricorso a
un appalto di servizi di progettazione nel quale l'oggetto
del contratto è una prestazione professionale tesa a uno
specifico risultato, per cui lo scopo della procedura è
individuare un progettista e implica, quest'ultima
procedura, la richiesta di requisiti ed esperienze
specifiche che non appaiono stringenti nel caso di un
concorso di progettazione».
Ciò detto, però va tenuto
presente che, se nel bando si ammette l'affidamento di
sviluppi progettuali al vincitore del concorso vanno sempre
indicati i requisiti necessari a svolgere tali prestazioni
(come prevede l'articolo 99, comma 5 del codice dei
contratti pubblici).
Date queste differenze fra concorso e gara di progettazione
l'Autorità richiama la determinazione n. 5/2010 nel
passaggio in cui considera a facoltà di affidare al
vincitore i servizi di ingegneria, per ribadire che la
necessità che tale facoltà sia sempre esercitata nel bando
di gara. Sul punto la stessa determina 5 rinviava a un altro
atto dell'Avcp (delibera 307/2002 dove si specificava che
l'amministrazione deve indicare nel bando la facoltà di
affidare al vincitore l'incarico della progettazione «ma non
può discrezionalmente riservarsi la facoltà di affidare o
meno l'incarico di progettazione definitiva ed esecutiva al
vincitore del concorso di progettazione».
Per l'Anac la normativa vigente non offre interpretazioni
diverse per cui la possibilità di affidare l'incarico «non
può essere intesa come riserva dell'amministrazione di
affidare a suo insindacabile giudizio». La norma, ha
chiarito l'Anac, ha lo scopo di rendere palese a tutti i
partecipanti se verranno affidati o meno servizi di
ingegneria collegati con il concorso così da valutare
l'eventuale partecipazione al concorso stesso.
Ma si tratta, ha detto l'Authority, di garantire anche la
libera concorrenza e trasparenza quindi non si può affidare
«alla discrezionalità della stazione appaltante la scelta
in un secondo momento se affidare o meno al vincitore i
servizi di ingegneria»
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2015
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Oggetto: Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli
operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati
a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste
dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113
del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni
(comunicato
del Presidente 21.10.2015 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).
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Integrazione del Comunicato del
Presidente del 01.07.2015
Ad integrazione del Comunicato del Presidente del 01.07.2015
relativo a «Indicazioni alle stazioni appaltanti e agli
operatori economici in ordine agli intermediari autorizzati
a rilasciare le garanzie a corredo dell’offerta previste
dall’art. 75 e le garanzie definitive di cui all’art. 113
del d.lgs. 163/2006 costituite sotto forma di fideiussioni»
si rappresenta che la Banca d’Italia, con nota del
30.09.2015, ha informato l’Autorità sulle modifiche
recentemente introdotte nel proprio sito internet nella
parte relativa alle finanziarie per tener conto del mutato
quadro normativo di riferimento.
L’Autorità, condividendo con la Banca d’Italia l’obiettivo
di contrasto all’abusivismo nel rilascio di garanzie, nel
richiamare le stazioni appaltanti sui rischi derivanti da
garanzie fideiussorie emesse da soggetti non autorizzati,
invita le stesse, in caso di dubbi sulla natura
dell’intermediario finanziario che presta la garanzia, a
consultare le seguenti pagine del sito della Banca d’Italia:
vigilanza/intermediari/index.html
vigilanza/avvisi-pub/garanzie-finanziarie/
vigilanza/avvisi-pub/soggetti-non-legittimati/Intermediari_non_abilitati.pdf
Inoltre, accertata anche la diffusione del fenomeno del
rilascio di polizze fideiussorie da parte di imprese di
assicurazioni non autorizzate, si invitano le stazioni
appaltanti e gli operatori economici a consultare gli
Elenchi delle imprese italiane ed estere ammesse ad operare
in Italia (in cui sono riportati anche i rami autorizzati),
il Registro unico degli intermediari assicurativi e l’Elenco
degli intermediari dell’Unione Europea e gli avvisi relativi
a “Casi di contraffazione o società non autorizzate”,
accessibili sul sito internet dell’IVASS nella pagina
denominata “per il consumatore”:
ivass.it/ivass/imprese_jsp/HomePage.jsp |
LAVORI PUBBLICI:
Project financing, la durata delle concessioni va
limitata nel tempo.
Con la
determinazione 23.09.2015 n. 10,
l'Autorità nazionale anticorruzione ha emanato le nuove
linee guida per l'affidamento delle concessioni di lavori
pubblici e di servizi ai sensi dell'articolo 153 - «Finanza
di progetto» - del dlgs 163/2006 (cosiddetto «Codice degli
Appalti»).
L'Autorità ha proceduto, quindi, alla revisione e
aggiornamento delle determinazioni n. 1 del 14.01.2009
(Linee Guida sulla finanza di progetto dopo l'entrata in
vigore del «terzo correttivo») e n. 2 dell'11.03.2010
(Problematiche relative alla disciplina applicabile
all'esecuzione del contratto di concessione di lavori
pubblici), al fine di effettuare una ricognizione delle
problematiche presenti in materia di finanza di progetto,
anche alla luce dei recenti interventi normativi, ivi
compresa la Direttiva europea n. 23 del 2014.
Proprio in relazione a quest'ultima, dal tenore delle Linee
guida si evince come, secondo l'Autorità, sia indispensabile
anticiparne i contenuti, ancor prima del recepimento nel
nostro ordinamento entro il 16.04.2016, relativamente a
tre tematiche principali: 1) l'effettivo trasferimento del
rischio al concessionario privato; 2) le modalità di calcolo
del valore del contratto; 3) la durata della concessione.
I primi due punti sono affrontati nel capitolo terzo del
documento. Per quanto riguarda il primo, l'articolo 5 della
Direttiva specifica con chiarezza che il contenuto
necessario del contratto di concessione, sia essa di lavori
o di servizi, è il trasferimento del rischio operativo
legato alla gestione al concessionario privato: si è, quindi
in presenza di tale fattispecie quando al concessionario non
è garantito, in condizioni operative normali, il recupero
degli investimenti effettuati e dei costi sostenuti per
l'operazione. Qualora tali requisiti vengano meno, non si
configura un contratto di concessione, ma di appalto.
Tale
differenza rileva anche sotto il profilo del bilancio
dell'amministrazione coinvolta: mentre le opere realizzate
in Partenariato pubblico privato (Ppp) non incidono,
infatti, sui bilanci delle amministrazioni, potendo essere
contabilizzate off balance, ciò non vale per quanto riguarda
i contratti di appalto, per i quali i relativi costi debbono
essere integralmente contabilizzati nei bilanci della
stazione appaltante.
Venendo, poi, al secondo punto, la determina richiama la
novità contenuta nell'articolo 8 della Direttiva in merito
al calcolo del valore dei contratti: il valore di una
concessione è costituito, infatti, dal fatturato totale del
concessionario generato per tutta la durata del contratto,
al netto dell'Iva, stimato dall'amministrazione
aggiudicatrice quale corrispettivo dei lavori e dei servizi
oggetto della concessione, nonché per le forniture
accessorie.
L'Autorità chiarisce espressamente nel testo del
documento la necessità, per le amministrazioni
aggiudicatrici, di conformarsi fin da subito alle
indicazioni contenute nella Direttiva. Tale indicazione ha
come obiettivi, da un lato quello di arginare il fenomeno
delle concessioni sottostimate al fine di aggirare le gare
europee, e dall'altro quello di perseguire, attraverso la
corretta determinazione del valore stimato delle
concessioni, i principi di concorrenza tra i competitors per
la partecipazione alle gare.
Il tema della durata della concessione è affrontato nel
Capitolo sesto delle Linee Guida, nel quale viene richiamato
l'articolo 18 della Direttiva: oltre a confermare il
principio secondo cui la durata della concessione è limitata
nel tempo e deve essere stabilita in funzione dei lavori o
servizi richiesti al concessionario, la Direttiva specifica
che, nelle concessioni ultraquinquennali, la durata massima
della concessione non debba superare il periodo di tempo in
cui è possibile prevedere ragionevolmente che il
concessionario recuperi gli investimenti effettuati e
ottenga un adeguato ritorno del capitale investito.
Accanto alle suddette indicazioni dal tenore tassativo
dettate nelle Linee guida, l'Autorità si propone di fornire
alle amministrazioni una sorta di guida operativa sulla
finanza di progetto. Sotto questo profilo, sono vari i
contenuti toccati nel documento, a seconda delle varie fasi
di un'operazione in finanza di progetto. Dapprima, l'Anac
insiste sull'utilità di costituire uno «Special Purpose
Vehicle» nelle operazioni di finanza di progetto, al fine di
garantire indipendenza finanziaria al progetto e fornire
all'amministrazione maggiori garanzie circa l'esecuzione del
progetto stesso.
In merito alla fase di programmazione, le Linee guida
dedicano attenzione alla necessità di informare, tramite una
sorta di débat public, il mercato e il territorio prima
dell'elaborazione e della messa a gara dello studio di
fattibilità, al fine di contenere il rischio politico di
contestazioni e opposizioni che possano determinare ritardi
nella fase di esecuzione dei lavori e, di conseguenza,
incremento dei costi (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI:
Accesso alla p.a. semplificato. Pin unico per
tasse, conti correnti, previdenza, fisco. Entro dicembre i
primi cittadini e le imprese otterranno l'identità digitale
unica Spid.
Un solo Pin per tasse, conto corrente online e fisco.
Parliamo di Spid, la password che permetterà a cittadini e
imprese di accedere ai servizi online della pubblica
amministrazione. Entro dicembre i primi cittadini e le
imprese avranno gratis una identità digitale unica, con cui
accedere a molti servizi online (il pagamento delle tasse
comunali, l'Inps e così via). Per l'uso dell'identità Spid
non è obbligatorio l'uso di alcun lettore di carte, ma potrà
essere utilizzata in diverse modalità (es. Pc, smartphone,
tablet, etc.). Il cittadino e l'impresa saranno liberi di
scegliere la soluzione che offre il mercato e cambiarla
quando vorranno.
È con la
determinazione 28.07.2015 n. 44 dell'Agenzia per
l'Italia digitale che sono stati emanati i quattro
regolamenti previsti dall'articolo 4, commi 2, 3 e 4, del
Dpcm 24.10.2014.
Il regolamento che norma le modalità di accreditamento è
entrato in vigore il 15.09.2015, data dalla quale i soggetti
interessati possono presentare domanda di accreditamento
all'Agenzia. L'Agid, dal 15 settembre, ha 180 giorni di
tempo massimo, quindi marzo 2016, per analizzare le
richieste che arriveranno. Spid è la nuova «infrastruttura
paese» che permetterà a cittadini e imprese di accedere
con un'unica identità digitale ai servizi online della p.a.
e dei privati che aderiranno.
Dopo l'iscrizione al registro Spid del primo soggetto
accreditato, le p.a. avranno 24 mesi di tempo per
abbandonare gli attuali sistemi d'identificazione degli
utenti dei servizi online e consentire l'accesso tramite
Spid.
Tre saranno i servizi di sicurezza in base ai servizi alla
tipologia di servizi a cui si vorrà accedere. Agenzia delle
entrate, Inail, Inps, regione Piemonte, Friuli Venezia e
Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Marche
permetteranno già l'accesso ai propri servizi tramite Spid.
Richiesta Spid.
Per richiedere lo Spid si dovrà contattare un identity
provider di quelli accreditati presso l'Agenzia. Diverse le
modalità per contattarli. Di persona, presso uno sportello
fisico. Con una procedura via web cam, in cui mostreranno i
documenti in video a un addetto. Con l'invio di un modulo di
richiesta online (allegando i documenti).
Domanda accreditamento.
La domanda di accreditamento redatta in lingua italiana, è
predisposta in formato elettronico, sottoscritta con firma
digitale o firma elettronica qualificata dal legale
rappresentante del richiedente, ed è inviata alla casella di
posta elettronica certificata dell'agenzia.
La domanda di accreditamento si considera accolta qualora
non venga comunicato al richiedente il provvedimento di
diniego entro centottanta giorni dalla data di presentazione
della stessa. L'Agenzia avrà la facoltà di svolgere
verifiche presso le strutture dedicate allo svolgimento
delle attività di gestore di identità. Il gestore
dell'identità digitale accreditato, ottenuta l'iscrizione
nell'apposito registro, potrà qualificarsi come tale nei
rapporti commerciali e con le pubbliche amministrazioni.
Protezione.
Spid protegge i dati personali più di una smart-card. Con le
carte elettroniche i dati personali utili a verificare
l'identità in rete saranno tutti disponibili al service
provider. Con Spid, sebbene l'utente sarà sempre autenticato
con assoluta certezza, saranno forniti al service provider,
previa autorizzazione dell'utente, solo i dati strettamente
necessari per la specifica transazione.
Per esempio, per i servizi che necessitano solo di
verificare la maggiore età del soggetto o di conoscere un
indirizzo email, l'identity provider fornirà al service
provider solo le informazioni strettamente necessarie.
---------------
Verifica secondo diverse modalità.
Le identità digitali sono rilasciate, a domanda
dell'interessato, dal gestore dell'identità digitale, previa
verifica dell'identità del soggetto richiedente e mediante
consegna in modalità sicura delle credenziali di accesso.
Nell'ambito della propria struttura organizzativa, i gestori
delle identità digitali individuano il responsabile delle
attività di verifica dell'identità del soggetto richiedente.
La verifica dell'identità del soggetto richiedente e la
richiesta di adesione avvengono in uno dei seguenti modi:
- identificazione del soggetto richiedente che sottoscrive
il modulo di adesione allo Spid, tramite esibizione a vista
di un valido documento d'identità e, nel caso di persone
giuridiche, della procura attestante i poteri di
rappresentanza;
- identificazione informatica tramite documenti digitali di
identità, validi ai sensi di legge, che prevedono il
riconoscimento a vista del richiedente all'atto
dell'attivazione, fra cui la tessera sanitaria-carta
nazionale dei servizi o carte a essa conformi;
- identificazione informatica tramite altra identità
digitale Spid di livello di sicurezza pari o superiore a
quella oggetto della richiesta;
- acquisizione del modulo di adesione allo Spid sottoscritto
con firma elettronica qualificata o con firma digitale;
- identificazione informatica fornita da sistemi informatici
preesistenti all'introduzione dello Spid che risultino aver
adottato, a seguito di apposita istruttoria dell'agenzia,
regole di identificazione informatica caratterizzate da vari
livelli di sicurezza.
Al ricevimento della richiesta, il gestore dell'identità
digitale procede all'identificazione del soggetto
richiedente, che consiste nell'accertamento delle
informazioni sufficienti a identificare il soggetto
richiedente sulla base di documenti forniti dallo stesso.
Tale processo è effettuato da personale qualificato e
opportunamente formato. Il gestore dell'identità digitale,
per una corretta e sicura attuazione del processo fornisce
l'informativa sul trattamento dei dati, si assicura che il
richiedente sia consapevole dei termini e delle condizioni
associati all'utilizzo del servizio di identità digitale, si
assicura che il richiedente sia consapevole delle
raccomandazioni e delle precauzioni da adottare per l'uso
delle identità digitale e acquisisce i dati necessari alla
dimostrazione di identità.
Nel caso di identificazione informatica tramite documenti
digitali di identità, si procede con l'acquisizione del
modulo di richiesta di adesione in formato digitale, messo a
disposizione in rete dal gestore dell'identità digitale,
compilato e sottoscritto elettronicamente. Questa modalità
di identificazione si basa su una presunzione di correttezza
relativa al processo di identificazione espletato dal
gestore che ha precedentemente rilasciato un documento
digitale di identità (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.11.2015). |
PATRIMONIO-VARI:
Notariato. Vincoli destinazione No a tributi.
Il Notariato piccona la giurisprudenza in tema di
imposizione indiretta sui vincoli di destinazione. Tre
ordinanze della Cassazione (3735/3737/3886 del 04/02/2015)
hanno ritenuto configurabile un'autonoma imposta,
nell'ambito del tributo successorio e donativo, gravante
sulla costituzione del vincolo.
Una simile interpretazione, secondo lo
studio
01-02.10.2015 n. 132-2015/T
del Consiglio nazionale del notariato, determinerebbe però
l'applicazione del tributo ad ogni fattispecie di vincolo di
destinazione, anche di natura non traslativa ed
indipendentemente dal carattere oneroso o liberale,
comportando un notevole aggravio di tassazione nel settore
delle imposte indirette. Inoltre l'impostazione
giurisprudenziale risulterebbe contraria ai prevalenti
orientamenti interpretativi, elaborati da dottrina,
giurisprudenza e prassi.
Nei casi oggetto di giudizio da
parte della Cassazione (tutti relativi a ipotesi di trust,
rispettivamente, auto dichiarato avente funzione di
garanzia, auto dichiarato con funzione di fondo patrimoniale
e di scopo), l'Agenzia delle entrate aveva applicato
l'imposta sulle successioni e donazioni al momento della
costituzione del vincolo con aliquota dell'8%.
La Corte ha
dunque cassato con rinvio le sentenze delle diverse
commissioni tributarie, che avevano invece accolto, con
motivazioni differenti in relazione a ciascuna fattispecie,
le ragioni dei contribuenti, nel senso della sola
imposizione fissa di registro sulla costituzione del
vincolo, e ha ritenuto applicabile l'imposizione in misura
proporzionale dell'8%. L'interpretazione della Corte si
fonda sulla tesi che, con il dl 262/2006, si sia realizzata
l'introduzione di una «imposta nuova», ossia l'«imposta
sulla costituzione di vincolo di destinazione».
Il contenuto
economico della destinazione patrimoniale sarebbe dunque
sufficiente a manifestare la capacità contributiva di cui
all'art. 53 Cost., essendo irrilevante l'eventuale
trasferimento patrimoniale connesso al vincolo destinatorio.
Il Cnn ritiene invece la tesi della Consulta censurabile,
auspicando un revirement interpretativo
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
All'azienda il Suap costa uguale.
Paga il comune.
Diritti di istruttoria e procedimenti Suap: nessun aggravio
per le imprese dai procedimenti informatizzati. Il dpr
160/2010 consente all'ente locale la facoltà di individuare
eventuali oneri connessi all'attività svolta dal Suap; ma a
condizione che l'onere complessivo da sostenere non risulti
maggiore rispetto a quello che avrebbe sostenuto nel caso di
gestione non informatizzata del procedimento.
È quanto ha comunicato all'Anesv Agis, l'associazione alla
quale aderiscono gli operatori dello spettacolo viaggiante,
il Ministero dello sviluppo economico, divisione IV
promozione della concorrenza e semplificazioni per le
imprese, con la
nota 17.11.2015 n. 243917 di prot. e diretta
per conoscenza anche all'Anci.
L'opportunità di coinvolgere l'associazione dei comuni
deriva dal fatto che il Mise, per sua stessa ammissione, non
ha alcun potere di intervento in ordine a decisioni
amministrative riguardanti enti locali, e la questione non è
di poco conto in relazione al fatto che i diritti di
segreteria che alcuni comuni (per esempio, quello di
Venezia) hanno previsto per l'istanza di concessione di
suolo pubblico sono particolarmente onerosi.
E ciò, senza
trascurare, lamenta l'Anesv, che l'attività delle imprese
dello spettacolo viaggiante comporta l'istruzione di un
numero considerevole di procedimenti che, quindi,
determinano un esborso considerevole a carico delle imprese
del settore.
Sta di fatto che, in base al vigente ordinamento, non esiste
alcuna fonte normativa la quale stabilisca la possibilità
per i comuni di individuare autonomamente diritti di
istruttoria, se non per procedimenti connessi all'edilizia
ed urbanistica. Ma in quest'ultimo caso la fonte è contenuta
nell'articolo 10, comma 10, del dl 18.01.1993, n. 8 (conv.
legge 68/1993).
Complessa, peraltro, l'evoluzione normativa,
connessa all'istituzione del Suap. Se, infatti, il dpr
447/1998, all'articolo 10, comma 4, lasciava ai comuni la
possibilità di prevedere, in relazione all'attività propria
della struttura responsabile del procedimento, la
riscossione di diritti di istruttoria, nella misura
stabilita con delibera del consiglio comunale, tale
disposizione è stata nel frattempo abrogata (articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Vigili stagionali, assunzioni facili.
I cinque mesi nell'anno solare entro il quale i comuni
possono assumere agenti di polizia municipale «stagionali»
decorrono dalla data della loro effettiva assunzione nel
corso del 2015 e non dal primo gennaio 2015.
L'Anci, sollecitata da molte amministrazioni locali, ha
elaborato la
nota
26.11.2015 di lettura di quanto dispone l'articolo 5
del decreto legge 78/2015, convertito con modificazioni
nella legge 125/2015, e in particolare del comma 6. Tale
norma contiene due distinte previsioni. Una è la sanatoria
per i contratti a tempo determinato stipulati
successivamente all'entrata in vigore del decreto legge, che
conteneva un divieto totale ed assoluto di effettuare
assunzioni di agenti di polizia municipale anche stagionale.
L'altra disposizione invece dà facoltà ai comuni di
effettuare assunzioni per funzioni di polizia locale
«esclusivamente per esigenze di carattere strettamente
stagionale e comunque per periodi non superiori a cinque
mesi nell'anno solare, non prorogabili».
La formulazione della norma, come troppo spesso avviene, non
è felicissima e pone il problema di chiarire se i cinque
mesi nell'anno solare nel 2015 vadano computati a partire
dall'entrata in vigore del decreto (20.06.2015), oppure
se si debbano considerare anche i mesi di lavoro già svolti
a partire dal primo gennaio 2015.
Una prima chiave di lettura potrebbe consistere nel ritenere
che l'articolo 5, comma 6, del dl 78/2015, convertito in
legge 125/2015, si sia riferito alla nozione di «anno
civile». In questo caso, allora, l'anno decorre dal 1°
gennaio al 31 dicembre: pertanto, i 5 mesi sarebbero
comprensivi di mensilità lavorative poste in essere anche
prima dell'entrata in vigore del decreto.
La seconda, opposta, interpretazione induce a ritenere
l'espressione «anno solare» come periodo di 365 giorni
decorrenti dalla data della stipula del contratto a tempo
determinato, successivo comunque alla data di entrata in
vigore del decreto legge n. 78/2015.
L'Anci ritiene di rigettare la prima ipotesi e che sia più
corretto riferirsi all'accezione di anno solare come
sequenza di 365 giorni.
Solo questa lettura, secondo l'Anci, è rispettosa del tenore
letterale dell'articolo 5, comma 6, del «decreto enti
locali», poiché essa fa chiaro riferimento alle assunzioni
di personale di polizia locale per esigenze strettamente
stagionali successive alla propria entrata in vigore (anche
se antecedenti alla legge di conversione).
In questo modo si evita di «bruciare» mensilità
lavorative realizzate quando il decreto enti locali, ed il
connesso divieto di effettuare assunzioni a qualsiasi titolo
comprese quelle a tempo determinato, non era vigente e,
dunque, gli enti locali non potevano essere in grado di
programmare le assunzioni necessarie alla funzionalità delle
attività di polizia locale
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
APPALTI:
Opere, il comune può spendere. Libertà di evitare
il Mepa per acquisti sotto i mille euro.
Deroga al patto di stabilità per gli investimenti
in conto capitale degli enti locali.
Deroga al patto di stabilità per investimenti in conto
capitale degli enti locali; utilizzo del fondo di coesione
2007-2013 per finanziare interventi di prevenzione del
rischio idrico nelle città; allentamento dei vincoli di
ricorso alle centrali di committenza per gli enti locali con
popolazione fino a 10 mila abitanti; libertà di evitare il
Mepa fino a mille euro di spesa.
Sono queste alcune delle misure previste dalla legge di
stabilità 2016, approvata al senato, per il rilancio della
spesa in investimenti.
In primo luogo un intervento atteso da molto tempo è quello
legato alla possibilità di deroga al patto di stabilità per
gli enti locali. Il meccanismo prevede che le regioni
autorizzino gli enti locali del proprio territorio a
peggiorare il saldo (che di regola non deve essere negativo,
in termini di competenza, tra le entrate finali e le spese
finali) per consentire esclusivamente un aumento degli
impegni di spesa in conto capitale, purché sia garantito
l'obiettivo complessivo a livello regionale mediante un
contestuale miglioramento, di pari importo, del saldo dei
restanti enti locali della regione e della regione stessa.
Saranno poi le regioni e le province autonome a definire
criteri di virtuosità e modalità operative e gli enti
locali, da aprile prossimo, dovranno indicare gli spazi
finanziari di cui necessitano per effettuare esclusivamente
impegni in conto capitale, ovvero gli spazi finanziari che
sono disposti a cedere.
La legge di stabilità prevede anche come ci si debba
regolare per gli enti locali che cedono spazi finanziari e,
in questo caso, la «regia» spetta al ministero dell'economia
e delle finanze. Sulla stessa linea, dal punto di vista
degli obiettivi, si pone anche la norma che stabilisce la
non applicazione dei vincoli derivanti dal patto di
stabilità per la quota di cofinanziamento utilizzata dagli
enti locali relativamente ai mutui nell'edilizia scolastica
erogati dalla Bei.
Importante, sempre sul fronte degli investimenti, è poi la
norma che riguarda gli interventi per la prevenzione sui
territori a rischio di esondazione dei corsi d'acqua
nell'ambito delle città metropolitane (si pensi a Genova):
si prevede che le regioni utilizzino il Fondo sviluppo e
coesione 2007-2013 per finanziare i progetti, con
possibilità di arrivare all'approvazione di eventuali
varianti urbanistiche fino a dicembre 2016, data entro la
quale si dovranno assumere «obbligazioni giuridiche
vincolanti».
Un'altra misura che agevolerà gli enti locali è quella che
prevede di utilizzare le risorse ottenute ma non ancora
erogate tramite mutui con la Cassa depositi e prestiti
(finalizzati all'edilizia giudiziaria) per la realizzazione
di opere di ricostruzione, ristrutturazione,
sopraelevazione, ampliamento, restauro o
rifunzionalizzazione di edifici pubblici da destinare a
finalità anche differenti dall'edilizia giudiziaria. Se
invece il mutuo è stato estinto l'immobile potrà essere
destinato dall'amministrazione interessata a finalità
diverse dall'edilizia giudiziaria.
La legge di stabilità conferma poi nel testo finale la
deroga per i comuni con popolazione inferiore ai 10 mila
abitanti per la stipula dei contratti di importo fino a 40
mila euro che quindi potranno essere affidati direttamente
senza ricorso a soggetti aggregatori della domanda (centrali
di committenza variamente organizzate e denominate).
Rimane invece fermo l'obbligo di effettuare acquisti di beni
e servizi mediante il prioritario ricorso agli strumenti
elettronici quali ad esempio il Mepa.
Il legislatore ha però introdotto anche una deroga per i gli
acquisti di modesta entità, di importo inferiore a mille
euro, per i quali si potrà evitare il ricorso a strumenti
elettronici
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Case da demolire sotto torchio.
Atti di cessione nel mirino dell'agenzia delle entrate.
Continua l'attività accertativa del fisco riguardo gli atti
di cessione dei c.d. fabbricati da demolire. Sia ai fini
delle dirette, che ai fini dell'imposta di registro. Con
l'Agenzia delle Entrate supportata anche dalle segnalazioni
che pervengono dai comuni.
Sulla base della ormai nota risoluzione ministeriale n.
395/E/2008, in presenza di alcune circostanze che
caratterizzano il trasferimento, l'amministrazione fa
“scattare” la riqualificazione di tali atti in cessioni di
terreni fabbricabili. Con l'effetto di far emergere in capo
ai privati venditori, in ogni caso e indipendentemente dal
periodo di possesso, plusvalenze tassabili come redditi
diversi ex art. 67, comma 1, lettera b), dpr 917/1986.
Le
specifiche circostanze prese in considerazione dagli uffici
per riqualificare il contratto e presumere la effettiva
volontà delle parti di cedere un'area edificabile anziché un
fabbricato, superando quindi la qualificazione catastale,
riguardano tutta una serie di situazioni, quali lo stato del
fabbricato (in abbandono, fatiscente, di scarso valore
economico o comunque non più utilizzabile), l'esistenza in
Comune di atti amministrativi (permessi, denunce o
comunicazioni), le caratteristiche dell'acquirente
(tipicamente una impresa operante nel settore delle
costruzioni), l'attività predisposta subito dopo il rogito
(demolizione e costruzione di nuovi fabbricati, ecc.), le
potenzialità edificatorie dell'area superiori a quelle
espresse dal fabbricato (es. possibilità del piano casa).
Ai
fini delle imposte dirette, la giurisprudenza della
Cassazione (4150/2014; 15629/2014; 15631/2014) ha stabilito che
non costituiscono redditi diversi le plusvalenze realizzate
a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni su cui
insiste un fabbricato, in quanto da ritenersi terreni già
edificati e, quindi, non rientranti nel novero dei terreni
suscettibili di utilizzazione edificatoria (da edificare).
Ciò che rileva è l'oggetto dichiarato della vendita, quale
risulta dalla natura oggettiva del bene trasferito e dalla
volontà delle parti manifestata nell'atto pubblico. Nello
stesso senso, anche la recente giurisprudenza di merito (Ctp
Bergamo 455/2015; Ctr Emilia Romagna 933/2015; Ctr Liguria
91/2014; Ctr Bari 2161/2014; Ctp Milano 271/2013).
In alcuni
casi la Cassazione ha riconosciuto la riqualificazione
dell'oggetto dell'atto di cessione (da fabbricato in area
fabbricabile), ma occorre precisare che nelle fattispecie
prese in esame l'oggetto dell'atto era un “area di terreno
con in parte sovrastante fabbricato” (Cass. 16983/2015; Cass.
12294/2015) o un'”area con insistente fabbricato uso deposito
in procinto di demolizione” (Cass. 7613/2014).
Per quanto riguarda le imposte indirette, la questione in
passato non sembrava prestarsi a controversie in quanto
secondo l'Amministrazione finanziaria l'atto oggetto di
valutazione rimane l'atto di cessione del fabbricato (rm
2/E/2009; cm 28/E/2011).
In particolare, ai fini Iva,
occorre avere esclusivo riferimento alla natura giuridica
del bene oggetto della cessione e non la destinazione del
bene che sarà data dall'acquirente. Lo stesso per l'imposta
di registro, imposta d'atto per la quale l'oggetto della
compravendita deve essere valutato nel momento in cui gli
effetti traslativi si verificano e quindi la sua
destinazione catastale al momento del rogito.
Tuttavia, ai
fini dell'imposta di registro, la Cassazione con la sentenza
24799/2014, sulla base della circostanza che il fabbricato
venduto era obsolescente, che immediatamente dopo la
cessione era stata presentata domanda di concessione
edilizia per la demolizione del fabbricato e la
realizzazione di uno nuovo ed, infine, che l'acquirente era
un'impresa di costruzioni, ha ritenuto che lo scopo
effettivo della cessione fosse quello di trasferire le
potenzialità edificatorie del terreno sottostante e, quindi,
sulla base dell'art. 20 del dpr 131/1986, ha stabilito
legittima la riqualificazione dell'atto compiuta dal Fisco
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2015). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Nella nota prestazioni dettagliate.
Ingegneri-ctu.
Ctu tenuti ad elencare i dettagli della prestazione per la
liquidazione del compenso. Per la compilazione della nota
devono essere indicati sia gli articoli del dm 30.05.2002 a cui si riferisce la prestazione, sia verificata la
presenza di condizioni di eccezionale importanza o
particolare complessità, sia elencate le spese sostenute per
svolgere l'incarico e, infine, precisato l'importo richiesto
al netto dell'Iva e del contributo previdenziale.
Queste le indicazioni contenute nella
circolare
20.11.2015 n. 630
del Consiglio nazionale degli ingegneri in tema di onorari,
indennità e spese dei periti e dei Ctu.
Con il dm 30.05.2002 è stata regolamentata la tipologia delle prestazioni e
i relativi compensi dovuti ai Ctu . Si tratta però di tetti
minimi e massimi o di percentuali sul valore della causa,
che hanno finora lasciato ampia discrezionalità ai giudici e
creato dubbi interpretativi sulla corretta applicazione
della normativa.
Per determinare i compensi in modo univoco
e trasparente, il consiglio nazionale degli ingegneri
propone quindi l'adozione di un protocollo con indicazioni
di esempi tipici di prestazioni di eccezionale importanza,
complessità e difficoltà. Il protocollo dovrebbe prevedere
anche il versamento anticipato delle somme necessarie per
indagini strumentali alla prestazione previa autorizzazione
e presentazione del preventivo. Il protocollo, sostiene il Cni, dovrebbe anche fare chiarezza nei metodi per la
determinazione del compenso.
Attualmente sono tre i metodi
utilizzati. Il primo prevede onorari variabili da un minimo
a un massimo e presuppone quindi valutazioni sulla
difficoltà, la completezza e il pregio della prestazione,
che dovrebbero essere svolte secondo parametri comuni. Il
secondo metodo prevede onorari a percentuale, che vanno
calcolati sul valore della causa.
In questo caso il Cni
ritiene che il giudice debba sempre accertare il valore
della causa anche utilizzando gli accertamenti del Ctu. Il
terzo metodo prevede onorai a tempo, da utilizzare solo se
il ricorso agli altri due metodi risulta impossibile e
basandosi sul sistema delle vacazioni
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2015). |
LAVORI PUBBLICI: Via alla convenzione-tipo per ridurre i rischi della Pa.
Infrastrutture. Presentato lo schema di concessione di
costruzione e gestione.
Il ragioniere
generale dello Stato, Daniele Franco, auspica che possa
diventare «punto di riferimento» per tutte le operazioni
future di partenariato pubblico-privato, per svolgere
un’allocazione ottimale dei rischi e «minimizzare il rischio
di revisione di progetti da off a on balance».
Al tempo
stesso, la convenzione-standard per operazioni di
concessione di costruzione e gestione a canone pagato
direttamente dalla Pa, presentata ieri al Mef (e anticipata
dal Sole 24 Ore l’11 novembre scorso), va considerata «un
documento aperto alle proposte di correzione che arriveranno
dalla consultazione che avvieremo subito sul sito del Mef».
Senza trascurare l’inevitabile impatto che arriverà sulla
proposta dal «momento di transizione che attraversiamo per
il recepimento delle direttive europee e del nuovo quadro
regolativo».
L'obiettivo della convenzione-tipo redatta da un gruppo di
lavoro interistituzionale coordinato da Grazia Sgarra (Rgs)
è quello di creare uno standard che aiuti le amministrazioni
pubbliche a strutturare operazioni di Ppp su “opere fredde”,
allocando i rischi in modo corretto sul concessionario e
minimizzando il rischio di revisione del piano
economico-finanziario.
Per ridurre i rischi, tre “consigli”
fondamentali alle Pa: costituire la società di progetto,
mettere a gara il progetto definitivo, circoscrivere i casi
in cui è ammessa la revisione del Pef. Tra gli obiettivi
della Ragioneria c’è, ovviamente, anche quello di ridurre le
ripercussioni sui conti pubblici di operazioni che partono
come “private”, ma dal Mef arriva soprattutto un segnale
(anche politico) di grande attenzione a uno strumento che,
se usato con rigore e correttezza, può non solo sopperire al
minore impegno della finanza pubblica sul fronte
infrastrutturale, ma anche dare efficienza alla spesa della
Pa. Il documento contiene, per altro, una «matrice dei
rischi che -ha detto Sgarra- dovrebbe essere sempre
lavorata e sempre allegata a una convenzione di questo
tipo».
Apprezzamento per la convenzione-standard anche da Ida
Angela Nicotra, consigliere dell’Autorità nazionale
anticorruzione, che ha confermato la collaborazione dell’Anac
(presente informalmente e solo nella fase finale al gruppo
di lavoro durato due anni). Alla fine del percorso non è
escluso che la convenzione-tipo possa rientrare in quella
soft regulation che la legge delega sugli appalti
attribuisce all'Anac.
Nicotra si è anche detta d'accordo con Alessandra Dal Verme,
ispettore capo per gli affari economici alla Rgs, che aveva
proposto una estensione alla concessione e un più generale
rafforzamento del “dialogo competitivo”. Dal Verme ha messo
in guardia «dalla sfera di alea e incertezza» che può
derivare dall’interpretazione di due norme: l'articolo 5
della direttiva Ue 2014/23 che, prevedendo l'allocazione del
rischio operativo sul concessionario, sembra tuttavia
limitarne la portata alla presenza di «normali condizioni di
mercato»; l'articolo 143 del codice appalti (comma 8-bis) là
dove prevede una revisione del piano economico-finanziario
per variazioni «non imputabili al concessionario». L'elenco
tassativo dei casi non basterebbe a ridurre i rischi di
revisione del piano, bisognerebbe anche definire limiti
quantitativi.
Dal canto suo, Gabriele Pasquini (Dipe-Presidenza del
Consiglio) ha detto che la Pa deve fare un salto culturale -la convenzione-tipo può aiutare- soprattutto nell’uso degli
indicatori economico-finanziari che devono caratterizzare
qualunque operazione di partenariato pubblico-privato. Con
riferimento al lavoro Dipe su dati Cresme (si veda Il Sole
24 del 9 settembre scorso), Pasquini ha ricordato come «su
un campione selezionato di 961 operazioni, ben 752 non
presentano alcun indicatore economico-finanziario mentre
solo 30 presentano un paniere sufficiente di indicatori e
solo sei presentano tutti gli indicatori».
Ance (costruttori) e Abi (banche) hanno apprezzato
l'iniziativa ma hanno chiesto un tavolo in cui poter
esprimere osservazioni e proposte. L’obiezione che
implicitamente viene mossa alla convenzione-tipo è di
tutelare eccessivamente l’amministrazione concedente a
scapito del partner privato, creando uno squilibrio che
conduce a scarso realismo, per esempio quando viene allocato
per intero sul concessionario il rischio amministrativo e,
nello specifico, il rischio legato all'attività di
esproprio.
Claudio Lucidi (Anci) è tornato a porre la
questione della sottovalutazione dell'attività di gestione
rispetto a quella di costruzione, invitando a ricercare
«strumenti che oggi non abbiamo e che ci consentano» di
approfondire questo tema (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un altro anno senza assumere. Chance alla
ricollocazione dei dipendenti provinciali.
LEGGE DI STABILITA' 2016/ Lo scenario per la p.a.
delineato dall'intreccio di norme.
Un altro anno di assunzioni sostanzialmente bloccate si
prefigura per le amministrazioni, anche se il contingente
del personale in sovrannumero delle province si è
drasticamente (almeno sulla carta) ridotto a poco meno di 2
mila dipendenti.
La legge di Stabilità per il 2016 come approdata alla camera
non pare allineata in maniera adeguata alla sofferta
evoluzione del processo di ricollocazione dei dipendenti
soprannumerari di province e città metropolitane. Infatti,
non prevede alcun allentamento della morsa alle nuove
assunzioni ed, anzi, in particolare a partire dal 2017,
torna a stringere in maniera molto forte le maglie dei
vincoli.
Infatti, il comma 126 del maxiemendamento abbassa
drasticamente il tetto al turnover, portato per tutti gli
anni 2016, 2017 e 2018 al solo 25% della spesa del personale
non avente qualifica dirigenziale (le assunzioni dei
dirigenti sono sostanzialmente bloccate dal maxiemendamento)
cessato l'anno precedente.
Tuttavia, il medesimo comma conferma la vigenza del regime
di sostanziale blocco delle assunzioni stabilito
dall'articolo 1, comma 424, della legge 190/2014,
finalizzato alla ricollocazione del personale provinciale in
sovrannumero, contestualmente precisando che nel 2016,
ultimo anno di applicazione del regime straordinario di cui
al citato articolo 1, comma 424, resta ferma la percentuale
dell'80% della spesa del personale cessato l'anno
precedente.
In realtà, tuttavia, tale percentuale può salire
al 100%, proprio perché il comma 424, non intaccato dalla
legge di Stabilità 2016, continua a disporre che
«esclusivamente per le finalità di ricollocazione del
personale in mobilità le regioni e gli enti locali
destinano, altresì, la restante percentuale della spesa
relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e
2015, salva la completa ricollocazione del personale
soprannumerario». Quindi, nel 2016 in realtà, nonostante la
«stretta» prevista dalla legge di Stabilità, le
amministrazioni potranno continuare a destinare alla
ricollocazione dei dipendenti provinciali il 100% delle
risorse del turnover, relative all'anno 2015.
Oggettivamente, il comma 126 non brilla per chiarezza e
sistematicità e sarà fonte probabile di intoppi operativi ed
interpretativi. Soprattutto, mantiene, come detto, un regime
di blocco delle assunzioni che appare sproporzionato al
numero di lavoratori in sovrannumero. Tanto più in regioni
come il Veneto, dove i dipendenti provinciali sono stati
tutti assorbiti dalla regione, ad eccezione degli addetti ai
servizi per il lavoro (in via transitoria rimasti per il
2016 alle dipendenze delle province, ma con costi a carico
di regione e stato per effetto dell'accordo della Conferenza
stato regioni del 30.07.2015) e degli addetti alla
polizia provinciale, che resteranno definitivamente negli
organici provinciali.
Sta di fatto che fino a quando non si sarà concluso il
processo di ricollocazione dei poco meno di 2 mila
dipendenti provinciali ancora in sovrannumero (secondo la
recente rilevazione di Palazzo Vidoni), nel 2016 gli enti
locali avranno ancora in sostanza la possibilità di
destinare a tali ricollocazioni il 100 della spesa delle
cessazioni avvenute nel 2016, detratte (se vi sono) le spese
per assunzioni di vincitori di concorsi appartenenti a
graduatorie vigenti o approvate alla data dell'01/01/2015.
Invece, le assunzioni non riferite al personale delle
province in sovrannumero potranno essere finanziate con le
risorse del triennio 2012-2014 ancora disponibili (ma, in
realtà le risorse del 2014 dovrebbero essere state erose
dalle esigenze di ricollocazione del personale provinciale
del 2015). Oppure, con il 25% della spesa del personale
cessato, l'anno precedente che finanzia nella sostanza le
assunzioni ammesse dal combinato disposto della
deliberazione della Sezione Autonomie della Corte dei conti
19/2015 e dell'articolo 4 del dl 78/2015: di fatto, le
figure da adibire ai servizi sociali e dell'istruzione,
caratterizzati da profili infungibili o titoli di studio del
tutto peculiari (educatori asili nido e assistenti sociali).
Se nel 2016 si chiuderà definitivamente la vicenda della
ricollocazione, allora si ripristineranno le vecchie regole:
niente più congelamento delle assunzioni, ma il limite sarà
quello del 25% della spesa del personale cessato nel 2015.
Occorre ricordare che il comma 126 disapplica ma per i soli
anni 2017 e 2018, il «bonus» concesso agli enti virtuosi
dall'articolo 3, comma 5-quater, del dl 90/2014, a mente del
quale agli enti locali la cui incidenza delle spese di
personale sulla spesa corrente è pari o inferiore al 25%, è
consentito effettuare assunzioni a tempo indeterminato entro
il 100% del turnover. Tale incentivo dovrebbe, dunque,
considerarsi utilizzabile nello scorcio del 2016
eventualmente utile, laddove la ricollocazione del personale
provinciale si chiuda entro la fine dell'anno
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Ex
dipendenti, e-mail chiusa. Tocca al datore di lavoro
informare i soggetti terzi.
Provvedimento del Garante privacy boccia la condotta tenuta
da una piccola azienda.
La email dell'ex dipendente va chiusa. Per evitare di
perdere comunicazioni aziendali, il datore di lavoro dovrà
informare i terzi della avvenuta chiusura dell'indirizzo,
segnalando un account aziendale utile. Il codice privacy
vieta, invece, di tenere aperto l'account con il nome del
lavoratore cessato, e di disporre l'inoltro automatico dei
messaggi alla casella di un altro dipendente in servizio.
Lo precisa il garante privacy con il
provvedimento
30.07.2015 n. 456.
Alcuni ex dipendenti di una società hanno proposto reclamo
al garante, contestando il fatto che il proprio ex datore di
lavoro avesse tenuto in piedi gli indirizzi di posta
elettronica loro assegnati e avesse inserito la funzione di
reindirizzo dei medesimi presso un utente dell'azienda. Gli
ex dipendenti hanno anche contestato l'uso dei messaggi in
transito sugli account dei lavoratori cessati.
La società si è difesa sostenendo che dopo le dimissioni dei
lavoratori ha tenuto aperti gli account aziendali degli ex
dipendenti e ha trattato le e-mail in arrivo per scopi di
tutela del patrimonio aziendale (anche se, invero, raccolti
per il diverso scopo di assicurare la continuità e
l'efficienza dei sistemi aziendali). Nel corso degli
accertamenti d'ufficio, il garante ha appurato che la
società ha raccolto e successivamente prodotto in giudizio
copia di e-mail scambiate su account di posta elettronica,
individualizzati con nome e cognome dei dipendenti.
In particolare, la società ha acquisito copia di
comunicazioni elettroniche recanti l'indicazione sia di dati
esterni (nominativi di mittenti e destinatari; indirizzi
e-mail aziendali e privati; data e ora delle comunicazioni)
che relativi al contenuto di e-mail inviate e ricevute anche
prima delle loro dimissioni e da terzi. La società non ha
adottato una policy interna sull'utilizzo della posta
elettronica aziendale.
Quanto agli account degli ex dipendenti la società ha loro
comunicato che sarebbero stati chiusi, ma senza farlo
effettivamente. Anzi, le comunicazioni ricevute sono state
inoltrate automaticamente a un altro indirizzo aziendale e
monitorate per un periodo significativo. Tutto ciò senza
informare gli ex dipendenti. Il garante ha bocciato
l'operato della società. È vero che il datore di lavoro ha
la facoltà di verificare l'esatto adempimento della
prestazione lavorativa ed il corretto utilizzo degli
strumenti di lavoro da parte dei dipendenti.
Tuttavia il datore di lavoro deve informare in modo chiaro e
dettagliato il lavoratore su come può utilizzare gli
strumenti aziendali e sui controlli che effettuerà. Senza la
policy aziendale, il lavoratore matura l'aspettativa di
confidenzialità rispetto ad alcune forme di comunicazione.
Inoltre dopo la cessazione del rapporto di lavoro, gli
account con il nome dell'ex dipendente devono essere rimossi
previa disattivazione degli stessi e contestuale adozione di
sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a fornire
a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all'attività
professionale del datore di lavoro.
Non è, invece, corretto reindirizzare automaticamente i
messaggi in transito sugli account riferiti a dipendenti, il
cui rapporto di lavoro sia cessato su indirizzi di posta
elettrica aziendale attribuiti ad altri dipendenti
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2015). |
ENTI LOCALI:
Taglio per 23 prefetture. Sforbiciata anche su
questure e vigili del fuoco. Uno
schema di dpr prevede la riduzione degli uffici da 103 a 80.
Verso il taglio di 23 prefetture, questure e strutture
periferiche dei vigili del fuoco - secondo un processo di
soppressione o accorpamento che dovrà avvenire entro il 31
dicembre 2016. Per un risparmio calcolato in un milione di
euro a prefettura. Si passerà dalle attuali 103 prefetture
ad 80.
È con la
bozza di decreto del presidente della repubblica
che vengono previsti i diversi tagli delle prefetture e
questure e anche la riorganizzazione del ministero
dell'interno.
Il dpr, deciso nell'ambito dei decreti
attuativi di prossima emanazione relativi alla riforma della
pubblica amministrazione (c.d. riforma Madia) prevede
l'accorpamento delle seguenti prefetture: Teramo (accorpata
a L'Aquila), Chieti (accorpata a Pescara), Vibo Valentia
(accorpata a Catanzaro), Benevento (Avellino), Piacenza
(Parma), Pordenone (Udine), Rieti (Viterbo), Savona
(Imperia), Sondrio (Bergamo), Lecco (Como), Cremona
(Mantova), Lodi (Pavia), Fermo (Ascoli Piceno), Isernia
(Campobasso), Asti (Alessandria), Verbano-Cusio-Ossola
(Novara), Biella (Vercelli), Oristano (Nuoro), Enna
(Caltanissetta), Massa-Carrara (Lucca), Prato (Pistoia),
Rovigo (Padova), Belluno (Treviso).
Il decreto mantiene i
cinque dipartimenti in cui è organizzato il ministero:
Affari interni e territoriali, Pubblica sicurezza, Libertà
civili e immigrazione, Vigili del fuoco, soccorso pubblico e
difesa civile, Amministrazione generale, politiche del
personale.
Dotazione complessiva.
Nello schema di dpr viene stabilita
la dotazione organica complessiva del personale
dell'amministrazione civile del ministero dell'interno: 116
prefetti, 700 viceprefetti, 572 viceprefetti aggiunti,
mentre saranno 200 i dirigenti di prima e seconda fascia e
20.549 quelli addetti alle aree funzionali. Sicuramente i
prefetti interessati ai tagli verranno destinati ad altro
incarico.
Nuova struttura del ministero dell'interno.
Presso il
ministero dell'interno nasceranno un «organismo indipendente
di valutazione della performance» sulle grandi opere e un
«comitato per il coordinamento dell'alta sorveglianza delle
grandi opere».
L'ufficio centrale interforze per la
sicurezza personale confluirà poi nell'ufficio per il
coordinamento e la pianificazione delle forze di polizia,
mentre continueranno a dipendere dal dipartimento della
pubblica sicurezza la Dia, direzione investigativa
antimafia, e la scuola superiore di polizia per la
formazione, la qualificazione e l'aggiornamento dei
funzionari, nonché la scuola di perfezionamento per l'alta
formazione e l'aggiornamento dei funzionari e degli
ufficiali.
La tempistica.
Il provvedimento detta infine le regole
applicative. «Nelle more del processo di riorganizzazione
delle pubbliche amministrazioni -stabiliscono le
disposizioni transitorie- delle forze di polizia e del
corpo nazionale dei vigili del fuoco, le prefetture, le
questure e le strutture periferiche del corpo nazionale dei
Vigili del fuoco, cessano di esercitare le loro funzioni
secondo un piano di gradualità definito con decreto del
ministro dell'Interno e comunque non oltre il 31.12.2016»
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2015). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI: Stop agli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa
corrente. Preventivi. Le novità da considerare nell’approvazione dei
nuovi conti.
La
programmazione finanziaria degli enti locali deve tenere
conto del blocco degli aumenti di tributi e addizionali
disposto dallo schema della Legge di stabilità 2016. Muta
inoltre l’assetto delle entrate correnti: l’esenzione della
tassazione immobiliare per i possessori di abitazione
principale comporterà infatti una riduzione del gettito Tasi
e Imu a fronte di maggiori importi a titolo di fondo di
solidarietà comunale.
Con la definitiva abrogazione dell’articolo 11 del Dlgs
23/2011 (giunta dopo vari rinvii) viene poi confermata la
presenza in bilancio della tassa per l’occupazione di spazi
ed aree pubbliche, del canone di occupazione di spazi ed
aree pubbliche, dell’imposta comunale sulla pubblicità e
diritti sulle pubbliche affissioni e del canone per
l’autorizzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari.
Sul fronte della spesa, le novità giungeranno dal terzo
decreto correttivo del Dlgs 118/11 in corso di emanazione.
Gli enti locali potranno dare copertura finanziaria agli
investimenti imputati agli esercizi successivi a quello in
corso utilizzando nuove leve finanziarie (come anticipato
sul Sole 24 Ore del 16 novembre). Sarà infatti possibile
utilizzare la quota consolidata del saldo positivo di parte
corrente, nuove o maggiori aliquote fiscali (che però
risultano bloccate da quanto detto sopra) e riduzioni
permanenti di spese correnti. Mentre le entrate da permessi
di costruire non potranno essere destinate al finanziamento
della parte corrente.
Altro capitolo variato è quello dei vincoli di finanza
pubblica. Al posto del Patto di stabilità interno, Regioni,
Comuni (compresi quelli con meno di mille abitanti che non
erano soggetti al Patto), Province e Città metropolitane
dovranno rispettare il pareggio di bilancio, basato sugli
equilibri finali di competenza.
Lo schema della legge di stabilità 2016 che è stato
approvato al Senato e inizia ora il proprio cammino alla
Camera declina infatti le nuove regole del pareggio di
bilancio come obbligo del conseguimento di un saldo non
negativo (zero o maggiore di zero), in termini di
competenza, fra le entrate finali (Titoli 1, 2, 3, 4 e 5 del
bilancio armonizzato) e le spese finali (Titoli 1, 2 e 3 del
medesimo schema di bilancio). Restano fuori quindi
accensione e rimborsi prestiti, anticipazioni di tesoreria e
partite di giro oltre che avanzo e disavanzo.
Inoltre le
previsioni di spesa per fondo crediti di dubbia esigibilità
e fondi spese non rileveranno ai fini del pareggio. Per il
solo 2016 nelle entrate e nelle spese finali è considerato
il fondo pluriennale vincolato, di entrata e di spesa, al
netto della quota rinveniente dal ricorso all’indebitamento.
Le nuove regole potranno consentire agli enti una più ampia
programmazione dei lavori pubblici grazie ai “margini”
generati dal rimborso prestiti e dagli accantonamenti.
Tutti gli enti dovranno redigere un bilancio di competenza
di durata triennale e di cassa per il primo esercizio. Nel
rispetto delle regole sui nuovi equilibri finanziari,
disciplinati dall’articolo 162, comma 6, del Tuel, il fondo
di cassa finale non potrà essere negativo e occorrerà
istituire il fondo di riserva di cassa, da allocare nella
missione “Fondi e Accantonamenti”, all’interno del
programma “Fondo di riserva”, per un importo non
inferiore allo 0,2 per cento delle spese finali (articolo Il Sole 24 Ore del 23.11.2015). |
SICUREZZA LAVORO: Delega
sicurezza, scelta duplice. L'atto deve essere accettato
perché è ammesso il rifiuto. Lo
ribadisce la commissione degli interpelli in merito
all'attribuzione delle funzioni.
La delega di funzioni sulla sicurezza del lavoro deve essere
accettata dal delegato, altrimenti non è valida.
Lo ribadisce la commissione degli interpelli sulla sicurezza
del lavoro, nell'interpello
02.11.2015 n. 7/2015, spiegando inoltre la
differenza con il conferimento d'incarico, il quale implica
invece l'impossibilità del rifiuto. Pertanto, aggiunge la
commissione, la delega presuppone una possibilità di non
accettazione da parte del destinatario.
La delega. Il T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008) disciplina la
delega stabilendo che essa, da parte del datore di lavoro,
ove non espressamente esclusa, è ammessa con i seguenti
limiti e condizioni:
a) che risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di
professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica
natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di
organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
Inoltre, il T.u. stabilisce:
• che alla delega deve essere data adeguata e tempestiva
pubblicità;
• che la delega di funzioni non esclude l'obbligo di
vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto
espletamento da parte del delegato delle funzioni
trasferite.
Infine, il T.u. ammette che il soggetto delegato possa, a
sua volta, previa intesa con il datore di lavoro, delegare
specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul
lavoro alle medesime condizioni previste dalla delega
principale (commi 1 e 2 dell'art. 16). Anche in questo
caso, la subdelega di funzioni non esclude l'obbligo di
vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto
espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale
sia stata conferita la subdelega non può, a sua volta,
delegare le funzioni delegate.
La delega di funzioni in tema di sicurezza sul lavoro
rientra nel fenomeno cosiddetto di ripartizione
organizzativa, al fine di attribuire autonomi poteri
decisionali a un soggetto che non ne sia titolare. In altre
parole, con la delega vengono trasferiti compiti
originariamente gravanti sul soggetto posto in posizione
apicale a soggetti materialmente e tecnicamente capaci di
adempierli, rendendo così il sistema più efficiente.
In ogni
caso, ai fini della sicurezza, la delega non può sortire
alcun effetto rispetto a quei compiti che la legge considera
non delegabili, dovendo essere assolti personalmente dal
titolare degli stessi. In tal senso, la delega conferita per
l'adempimento degli obblighi indelegabili (previsti
dall'art. 17 del T.u.) è da considerarsi nulla e quindi
improduttiva di effetti giuridici (al pari di quella priva
dei necessari presupposti di sostanza e di forma), laddove
tale nullità determina la riconduzione delle responsabilità
penali connesse agli obblighi che si volevano trasferire
alla sfera giuridica del datore di lavoro.
Si tratta, in
particolare, dei compiti di valutazione dei rischi ed
elaborazione del relativo documento, nonché di designazione
del responsabile servizio di prevenzione e protezione dai
rischi, che il T.u. pone a carico esclusivamente del datore
di lavoro.
I requisiti di validità. Il T.u. (articolo 16) individua i
requisiti essenziali della delega di funzioni. Sul piano
formale, è necessario che sussista:
• atto di delega scritto recante data certa;
• adeguata e tempestiva pubblicità della delega;
• accettazione per iscritto del delegato.
In relazione all'ultimo requisito, l'unione sindacale di
base vigili del fuoco ha chiesto di sapere «se esiste
l'obbligo di accettazione della delega da parte del soggetto
delegato individuato dal datore di lavoro e se il soggetto
delegato può rifiutare tale delegata».
Sul piano sostanziale, inoltre, occorre che la delega sia
effettuata nei seguenti termini:
• a soggetto in possesso di requisiti di professionalità ed
esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni
delegate;
• con attribuzione di tutti i poteri di organizzazione,
gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle
funzioni delegate;
• con attribuzione dell'autonomia di spesa necessaria allo
svolgimento delle funzioni delegate.
Atto scritto, con data certa. Quanto ai requisiti formali,
pur non essendo richiesto l'atto pubblico, la necessità che
la delega sia dotata di data certa comporta l'esigenza di
effettuare normalmente la sottoscrizione autenticata della
firma in calce alla delega e alla relativa accettazione.
Ciò
serve, evidentemente, a dare certezza circa l'efficacia
della delega, trattandosi di individuare con precisione i
soggetti responsabili sul piano penale in relazione al
momento di consumazione del reato. In questo modo, il T.u.
ha introdotto una forma specifica obbligatoria alla delega,
cioè ab substantiam, laddove invece, in precedenza quando
non c'era una disposizione in tal senso, la giurisprudenza
aveva ammesso, in alcuni limitati casi, che la delega
potesse essere provata anche per fatti concludenti
(Cassazione, sezione penale, sentenza n. 12360/1995) o per
testimoni (Cassazione, sezione penale, sentenza n.
3255/1999).
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Accettazione anche successiva.
L'accettazione può essere effettuata sia contestualmente, e
perciò in calce all'atto di delega, sia con atto successivo
con le forme richieste per la delega da comunicarsi al
delegante (atto recettizio).
Tale requisito appare conforme
alla natura della delega che è un atto recettizio. Del
resto, già prima del T.u. la giurisprudenza aveva stabilito
che colui al quale viene conferita dovesse accettare in modo
espresso (con firma) la delega, e che dovesse essere
consapevole di che cosa accettava (Cassazione sentenza n.
22326/2001).
La novità è dunque un'altra: mentre prima del
T.u. era richiesto che il delegato manifestasse il proprio
consenso, anche in forma tacita, alla delega stessa (tra le
tante, Cassazione, sezione penale, sentenza n. 3045/1997),
dopo il T.u. è inderogabilmente richiesta l'accettazione
esplicita in forma scritta.
In merito alla necessità dell'accettazione, l'unione
sindacale di base vigili del fuoco ha chiesto di sapere «se
esiste l'obbligo di accettazione della delega da parte del
soggetto delegato individuato dal datore di lavoro e se il
soggetto delegato può rifiutare tale delegata».
Prima di
tutto, il ministero spiega che la disposizione (citato art.
16 del T.u. sicurezza) prevede, per il datore di lavoro, la
possibilità di delegare i propri obblighi a eccezione della
valutazione dei rischi e relativo documento e la
designazione del responsabile del servizio prevenzione e
protezione (Rspp), ad altro soggetto dotato dei requisiti di
professionalità ed esperienze che sono richiesti dalla
specifica natura delle funzioni delegate.
Poi spiega che,
affinché la delega sia efficace, è necessario che abbia
«tutte» le caratteristiche previste dalla norma (art. 16),
quali la forma scritta, la certezza della data, il possesso
da parte del delegato di tutti gli elementi di
professionalità ed esperienza richiesti dalla natura
specifica delle funzioni delegate e, infine, la possibilità
da parte dello stesso delegato di disporre di tutti i poteri
di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla
specifica natura delle funzioni a lui delegate.
In
conclusione, a risposta del quesito, precisa che la delega
deve essere accettata dal delegato per iscritto. Infatti,
aggiunge, «tra le caratteristiche indicate nell'art. 16,
comma 1, il legislatore ha espressamente previsto, alla
lettera e) del decreto, che la delega “sia accettata dal
delegato per iscritto”, elemento che la distingue dal
conferimento di incarico, il che implica la possibilità di
una non accettazione della stessa».
- La pubblicità. Altro requisito formale della delega è la
pubblicità. Per esso va intesa la diffusione della delega in
ambito aziendale, in maniera tale che possano essere
immediatamente riconoscibili, per coloro che operano
all'interno dell'organizzazione e per i terzi che vengano a
contatto con la stessa, i soggetti preposti a determinate
funzioni.
- I requisiti sostanziali.
In merito ai requisiti di professionalità ed esperienza
richiesti in capo al soggetto delegato, il T.u. non
specifica quali debbano essere. Ciò dipende dalla
molteplicità di ambiti e funzioni in cui può operare la
delega: si tratta evidentemente di valutare i titoli e
l'esperienza del singolo in relazione all'attività svolta
dall'organizzazione aziendale nel suo complesso e allo
specifico settore affidato alla competenza del delegato.
Per quanto concerne il contenuto della delega, il T.u.
stabilisce che il delegato deve godere di ampi poteri
decisionali (oltre che di adeguati poteri di spesa)
commisurati al tipo di attività delegata e al tipo di
interventi che si possono rendere necessari. Infine, il
delegato deve avere la necessaria autonomia di spesa, deve
cioè essere messo nelle condizioni di gestire il settore o
servizio che gli è delegato anche sotto il profilo economico
della disponibilità dei mezzi
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Gestione rifiuti semplificata. Riorganizzate le
norme su tracciamento, Raee e scavi.
In arrivo da parlamento e governo snellimenti per alcuni
adempimenti ambientali.
Nuove regole semplificate per gestione di terre e rocce da
scavo, tracciamento dei rifiuti e ritiro dei Raee.
È quanto promettono tre provvedimenti in materia ambientale
in avanzato stato d'esame da parte del legislatore,
coincidenti rispettivamente con: lo schema di decreto
approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri il 06.11.2015 e destinato a riorganizzare la normativa sulla
gestione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti,
rifiuti e non rifiuti; il disegno di legge cosiddetto «Green
economy», licenziato dal senato il 04.11.2015 (e ora di
nuovo all'esame della camera) che alleggerisce tenuta di
registri di carico/scarico rifiuti, formulario di trasporto, Mud e Sistri a favore di determinati operatori; lo schema di
decreto Minambiente vidimato dal consiglio di stato in sede
consultiva il 06.10.2015 recante le «modalità
semplificate» per gestione dei piccoli tecno-rifiuti
ritirati dai distributori di nuove apparecchiature nella
formula «uno contro zero».
Gestione terre e rocce da scavo.
Il decreto in itinere integra la disciplina ex dlgs 152/2006
dettando una precisa definizione di «terre e rocce da scavo»
(quali «suolo e il sottosuolo, con eventuali presenze di
materiale di riporto conforme» e «derivanti da attività
finalizzate alla realizzazione di un'opera») declinando le
sottese nuove prescrizioni da osservare in base alla
grandezza degli operatori interessati, ossia: cantieri di
piccole dimensioni (in cui sono prodotte terre e rocce da
scavo in quantità non superiori a 6 mila metri cubi, anche
nel corso di attività o opere soggette a valutazione di
impatto ambientale o autorizzazione integrata ambientale,
cosiddette Via e Aia); cantieri di grandi dimensioni non
soggetti a Via/Aia (produzione superiore a 6 mila metri
cubi); cantieri di grandi dimensioni soggetti a Via/Aia (per
dimensioni come i precedenti, ma sottoposti alle particolari
autorizzazioni in vista delle opere da realizzare).
In
relazione alle terre qualificabili come sottoprodotti (e
dunque gestibili fuori dal regime dei rifiuti), il nuovo
provvedimento specifica i requisiti da osservare ex articolo
184-bis, comma 1, del dlgs 152/2006, sancendo in linea
generale: il riutilizzo in ossequio a un prodromico piano di
riutilizzo confermato da successiva dichiarazione di
avvenuto impiego (con semplificazioni burocratiche
progressive in base alla grandezza dei cantieri); il
rispetto di requisiti di qualità (specificando anche gli
eventuali e ammessi trattamenti di «normale pratica
industriale»); le modalità di «deposito intermedio» in
attesa di utilizzo (che deve avvenire presso i siti di
produzione, destinazione o altri della stessa classe d'uso,
nei limiti temporali previsti dal citato piano, in modo
separato, segnalato e autonomo rispetto ad altri rifiuti
come a eventuali terre e rocce da scavo oggetto di
differenti piani); la necessaria documentazione di corredo
al trasporto (per siti di grandi dimensioni sub Via/Aia,
rappresentato da apposita modulistica, per altro dal già
previsto documento di trasporto o copia del relativo
contratto).
Prescrizioni particolari anche per il «deposito
temporaneo» delle rocce da scavo qualificabili (invece) come
rifiuti ai sensi del dlgs 152/2006, in relazione alle quali
il decreto impone: limiti temporali (1 anno) e quantitativi
(massimo 4 mila metri cubi, 800 se pericolosi); accorgimenti
ad hoc per quelle contenenti «Cov» (composti organici
volatili); rispetto delle norme dettate per le sostanze
pericolose in caso di rifiuti ad alto rischio. Per le terre
escludibili ex articolo 185, dlgs 152/2006 dal regime dei
rifiuti (in quanto non contaminate e destinate a essere
utilizzate nel sito di produzione) è dal dpr in itinere
invece imposto un preventivo controllo qualora provenienti
da opere sottoposte a Via.
Per le terre prodotte in luoghi
oggetto di bonifica e non conformi alle «concentrazioni
soglia di contaminazione» ex dlgs 152/2006 ma comunque
inferiori a quelle «di rischio» è invece imposta come
condizione di riutilizzo la preventiva autorizzazione delle
autorità competenti, ai fini dell'esclusivo loro impiego
nella stessa area o sub-area e con rispetto di particolari
procedure di caratterizzazione.
Tracciamento semplificato rifiuti.
Il primo snellimento previsto dal ddl «Green economy»
riguarda la tenuta del formulario di trasporto rifiuti da
parte di imprenditori agricoli, delegabile alle cooperative
agricole di cui sono soci e che abbiano messo a loro
disposizione un sito di deposito temporaneo.
Ancora,
semplificazioni per i registri di carico/scarico dei rifiuti
prodotti nella manutenzione di impianti idrici, con la
possibilità per operatori del settore e gestori degli
impianti connessi di tenerli presso le sedi di coordinamento
organizzativo o equivalente centro previa comunicazione alle
autorità di controllo. Novità, infine, per il tracciamento
dei rifiuti a rischio infettivo da parte di specifici
operatori. L'ex «Collegato» conferma infatti la vigenza,
innovandole e allargandole alle imprese agricole, delle
disposizioni di favore previste («pre Sistri») dal dl
201/2011 per servizi dei saloni di barbiere e parrucchiere,
istituti di bellezza, attività di tatuaggio e piercing.
In
materia si sancisce infatti come i suddetti produttori di
rifiuti speciali (compresi quelli individuati da codice Cer
18.01.03) coincidenti con aghi, siringhe e oggetti taglienti
usati, possano: trasportarli in conto proprio fino a 30 kg
al giorno a impianti di smaltimento; adempiere agli obblighi
di tenuta dei registri carico/scarico, Mud e «controllo
della tracciabilità dei rifiuti» (ossia, Sistri) attraverso
la compilazione e conservazione dei formulari di trasporto
(presso la loro sede o tramite associazioni imprenditoriali
interessate o società di servizi di diretta emanazione,
mantenendo copia dei dati trasmessi).
Gestione semplificata Raee ritirati «one on
zero». Il
regolamento del Minambiente arriverà in attuazione
dell'articolo 11, comma 3, del dlgs 49/2014, introducendo le
«modalità semplificate» (ossia, parzialmente escluse dal
regime autorizzativo ex dlgs 152/2006) per ritiro, deposito
e trasporto da parte dei distributori di nuove Aee
(apparecchiature elettriche ed elettroniche) dei Raee (i
rifiuti derivanti da tali apparecchiature) conferiti dagli
utilizzatori nella formula «uno contro zero».
Il dlgs
49/2014 prevede infatti a monte l'obbligo di ritiro a titolo
gratuito di piccolissimi Raee (di dimensioni esterne
inferiori a 25 centimetri) provenienti da nuclei domestici
senza il contestuale acquisto di nuove Aee a carico di
distributori con superficie di vendita di Aee superiore ai
400 metri quadri. Per godere del regime semplificato (al
quale potranno accedere anche i distributori che adottano
volontariamente l'«uno contro zero»), i soggetti in
questione dovranno innanzitutto informare l'utenza sulla
gratuità del ritiro e promuovere campagne informative al
fine di incentivarlo.
Le modalità di ritiro dovranno essere
fondate sull'allestimento di idonei luoghi all'interno dei
locali dei punti vendita o in loro immediata prossimità, con
predisposizione di appositi contenitori a disposizione degli
utilizzatori, facilmente accessibili e individuabili,
riparati da agenti atmosferici, tali da tutelare salute e
sicurezza e impedire che soggetti terzi possano asportare
quanto conferito. Lo svuotamento dei contenitori dovrà
avvenire almeno ogni 6 mesi e comunque al raggiungimento dei
1.000 kg di Raee, al fine del loro successivo raggruppamento
nel luogo di «deposito preliminare».
Il citato deposito
preliminare alla raccolta dei Raee per il loro successivo
invio a impianti di trattamento dovrà invece essere condotto
nel rispetto di condizioni tecniche che consentano la
protezione dei Raee, il divieto di accesso a soggetti non
autorizzati, la separazione dei Raee «one on zero» dagli
altri flussi di tecno-rifiuti, il prelievo dei materiali
secondo la tempistica/quantità sopra menzionata.
Al fine di
alleggerire gli oneri per i distributori, lo schema di dm
prevede altresì la possibilità di effettuare detto deposito
sia nel luogo di raggruppamento sopra citato sia presso
l'analogo luogo previsto per i Raee ritirati nella formula «one
on one» (previo rispetto delle particolari regole per
quest'ultimo dettate dal dlgs 49/2014). Il trasporto agli
impianti di trattamento potrà essere effettuato dagli stessi
distributori come da soggetti terzi, in entrambi i casi
previa iscrizione all'Albo gestori ambientali (nella
speciale categoria semplificata «3-bis» o nelle ordinarie
«4» e «5»).
Gli obblighi relativi a registri di
carico/scarico e formulario di trasporto potranno infine
essere soddisfatti tramite la tenuta di una specifica e
semplificata modulistica, sulla falsariga di quanto già
previsto per la gestione dei Raee ritirati nella storica
formula «uno contro uno»
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un regolamento edilizio unico. Sarà cartaceo,
online e applicabile in tutta Italia. ItaliaOggi anticipa le
linee di un decreto del Mininfrastrutture, di concerto con
Anci e regioni.
Verso il regolamento edilizio-unico applicabile sull'intero
territorio nazionale. Con una modulistica standard per
presentare la domanda di titoli edilizi. Nel modello ci
saranno parti fisse uguali per tutto il territorio nazionale
e parti variabili, che necessariamente dovranno tenere conto
della legislazione regionale.
Il modello sarà cartaceo ma soprattutto online, dove a
seconda dei contenuti che dovranno essere indicati si
apriranno varie finestre da compilare.
Queste le novità in materia di regolamento edilizio unico di
cui ItaliaOggi è in grado di anticiparne le linee guida a
cui sta lavorando il ministero delle infrastrutture, in
concerto con le Regioni e l'Anci. Il decreto, contenente il
regolamento edilizio unico è attuativo del decreto-legge del
12.09.2014 n. 133 detto «sblocca Italia», coordinato
con la legge di conversione 11.11.2014 n. 164, recante
«Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del
Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive» (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell'11.11.2014 n. 262).
Differenti procedure edilizie.
L'elevata differenziazione
delle procedure edilizie tra un comune e l'altro è causata
anche dalle diverse normative tecniche contenute negli oltre
8 mila regolamenti edilizi esistenti. La nuova azione in
materia edilizia prevede, in coerenza con le previsioni
dello «Sblocca Italia» l'individuazione delle metodologie di
lavoro, di ricognizione della normativa vigente e delle
modalità di coinvolgimento delle amministrazioni e dei
soggetti interessati (associazioni di categoria, ordini
professionali ecc.) e la predisposizione di uno schema tipo
di regolamento edilizio che andrà a sostituire i regolamenti
edilizi ora in vigore, semplificando e uniformando le
procedure edilizie.
Modello standard.
Il modello standard sarà suddiviso in tre
diverse parti:
- individuazione del richiedente, qualificazione,
localizzazione e altri dati fondamentali dell'intervento e
onerosità delle opere;
- identificazione dei soggetti coinvolti nella realizzazione
dell'opera (titolari, progettisti, incaricati tecnici,
eventuali altre imprese esecutrici);
- asseverazione da parte del progettista, identificazione
delle superfici e dei volumi, della classificazione
urbanistica; dichiarazioni sul superamento delle barriere
architettoniche e in generale sulla sicurezza.
Riferimento per i Comuni.
Il decreto Sblocca Italia ha
previsto che il Governo, le Regioni e le autonomie locali
concludano in sede di conferenza unificata accordi o intese
per adottare uno schema di regolamento edilizio-tipo. Il
regolamento edilizio-tipo rappresenterà il riferimento a cui
i Comuni dovranno attenersi e dal quale non potranno
discostarsi significativamente nell'adozione della
regolamentazione di carattere locale.
Saranno però gli
accordi che deterranno i tempi di adeguamento. Il nuovo
regolamento unico richiederà ai comuni anche un'importante
attività di coinvolgimento rispetto alle previsioni,
terminologiche, contenute nei propri strumenti urbanistici.
Semplificazioni adottate.
Ricordiamo che ad oggi sono stati
adottati in conferenza unificata i modelli unici
semplificati per la comunicazione di inizio lavori e per la
comunicazione di inizio lavori asseverata per l'edilizia
libera. Attualmente tutte le regioni a statuto ordinario
hanno adottato la nuova modulistica.
Dal 16 marzo i
cittadini e le imprese hanno in ogni caso il diritto a
utilizzare la nuova modulistica. È stata raggiunta l'intesa
in Conferenza Unificata, il 16.07.2015, sul modello
unificato per la Dia alternativa al permesso di costruire
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sta finendo la truffa del massimo ribasso negli
appalti pubblici.
«Chi più spende, meno spende», dice il vecchio adagio.
Comprensibilmente non lo si è mai voluto applicare alle gare
d'appalto pubbliche, dove stato, enti locali e pubbliche
amministrazioni tentano di spendere il meno possibile per
acquistare beni e servizi attraverso, appunto, le procedure
competitive.
Ma per riuscirci, cos'hanno fatto finora, in
concreto? Hanno adottato diffusamente, nelle gare, il
criterio aberrante del «massimo ribasso» dei prezzi di gara.
Un modo per dire: noi appaltanti non vogliamo scegliere, non
utilizziamo alcuna discrezionalità, facciamo i notai, ci
limitiamo a constatare chi chiede meno e a lui diamo
l'appalto.
L'imminente riforma del Codice degli appalti pare intenda
sanare questo criterio. Forse, dalla primavera del 2016,
verrà cancellato dall'ordinamento. Sarebbe ora. E pare che
il merito di questa svolta sia da ascrivere soprattutto a
Raffaele Cantone, il magistrato voluto da Matteo Renzi al
vertice dell'Autorità anticorruzione (Anac). Il quale ha
messo il dito sulla piaga: se per offrire il prezzo più
basso, i fornitori concorrenti a una gara millantano
un'efficienza che non hanno, che cosa accade? Accade che, se
vincono l'appalto, per riuscire a espletarlo guadagnandoci,
o riducono la qualità dei servizi o dei prodotti offerti al
di sotto di quanto prescritto dal capitolato contando di
farla franca e abbattendo i costi; o, nel caso
dell'edilizia, una volta avviati i cantieri li fermano
chiedendo integrazioni di prezzo, con l'implicita minaccia
di lasciarli, se non accontentati, incompiuti per anni e di
non consegnare l'opera.
Insomma, una clausola introdotta perché fungesse da
salvaguardia dell'interesse pubblico si è spesso tradotta in
un varco per le peggiori truffe. E c'è di più: sul concetto
stesso di massimo ribasso si è incardinata una fitta e
maleodorante giurisprudenza sulle cosiddette «offerte
anomale», denunciate dai concorrenti sconfitti da questo
tipo di offerte.
Gente che, vedendosi battuta da prezzi
chiaramente impraticabili perché non remunerativi, ha
cercato di smascherare in giudizio le asseribili cattive
intenzioni dei vincitori. Anche per questo, secondo le
statistiche dell'Autorithy di controllo sui contratti con la
pubblica amministrazione, soppressa da Renzi, il contenzioso
sugli appalti pubblici negli ultimi anni ha raggiunto l'80%
del totale!
Insomma: non è per decreto che si può ottenere l'onestà di
chi gestisce potere in nome del popolo. C'è un solo modo per
ottenerla, si chiama controllo sociale, democrazia e
ricambio e lo si esercita attraverso le elezioni. Facile a
dirsi, meno a farsi. Ma è l'unica strada: altro che «massimi
ribassi»
(articolo ItaliaOggi del 20.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A Salerno incarichi a dirigenti in pensione per
esautorare gli esistenti.
I primi effetti negativi dell'ambigua normativa che consente
di attribuire incarichi ai dirigenti in pensione si sono
manifestati nel comune di Salerno.
La comandante del corpo dei vigili urbani, impegnata da
tempo in una vertenza sindacale avviata dagli agenti
componenti il corpo, si è dimessa, dopo essere stato di
fatto esautorata da un «mediatore» nominato dal comune, per
giungere al componimento della negoziazione sindacale.
Tale
«mediatore», figura del tutto inesistente nell'ordinamento
locale ma anche nel sistema giuridico amministrativo, è
stato scelto dal comune nella persona dell'ex dirigente, in
pensione, addetto alla gestione del personale.
È evidente che il comune si è avvalso della facoltà concessa
alle pubbliche amministrazioni di incaricare, attribuendo
incarichi dirigenziali o consulenze e collaborazioni,
dipendenti pensionati, prevista dall'articolo 5, comma 9,
del dl 95/2012, convertito in legge 135/2015, di recente
modificato dall'articolo 17, comma 3, della legge 124/2015.
Unica condizione è che detti incarichi siano a titolo
gratuito, come espressamente imposto dalla norma. Era facile
immaginare, tuttavia, che simili incarichi potessero
contribuire a creare una sorta di «apparato parallelo» a
quello operativo. Gli incarichi previsti dalla norma del
2012 sono visti e considerati sostanzialmente come fiduciari
e rientrano, dunque, nel novero dello spoil system
all'italiana.
Potenzialmente, il ricorso a consulenze di ex
dirigenti in pensione potrebbe determinare esattamente il
cortocircuito verificatosi a Salerno, cioè mettere un
dirigente di ruolo «sotto tutela», da parte di un dirigente
pensionato scelto fiduciariamente dall'amministrazione. Nel
caso di specie, il ruolo di «mediazione» affidato dal comune
all'ex dirigente in pensione appare assai particolare e poco
in linea con l'ordinamento.
Una «mediazione» contrattuale a
un soggetto esterno all'ente appare in evidente contrasto
con l'articolo 5, comma 2, del dlgs 165/2001 e l'articolo
107 del dlgs 267/2000 che attribuiscono ai dirigenti la
gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti assegnati
alle loro strutture in via esclusiva, dunque a esclusione
dell'ingerenza di organi di governo o di soggetti terzi.
Esiste, per altro, una giurisprudenza pacifica anche
ordinaria, secondo la quale le contrattazioni decentrate non
possono essere condotte in presenza di «consulenti»
esterni.
La sovrapposizione delle funzioni della dirigente di ruolo
operata con l'incarico al mediatore ha comportato la
conseguenza delle dimissioni dell'interessata. Ma,
contestualmente, mette a nudo i gravi problemi organizzativi
al fondo della disciplina che consente di incaricare
dirigenti pensionati, per altro in chiarissimo contrasto con
ogni velleità di introdurre nella p.a. staffette
generazionali di sorta
(articolo ItaliaOggi del 20.11.2015). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti,
l'obiettivo è zero varianti. Revisione del ruolo della p.a.:
programmazione e controllo. Punta su
progetto e qualificazione delle imprese la riforma dei
contratti pubblici approvata alla camera.
Centralità del progetto e innovazione della fase progettuale
per avere meno varianti e riserve; più programmazione e
controllo da parte delle amministrazioni pubbliche;
revisione del sistema di qualificazione delle imprese con
l'introduzione di criteri reputazionali sull'affidabilità in
fase di esecuzione dei contratti.
Sono questi alcuni dei
punti cardine intorno ai quali è stata immaginata la riforma
del sistema degli appalti pubblici approvata dalla camera
martedì sera, con il disegno di legge delega che dovrà
recepire le direttive del 2014 (si veda Italia Oggi del 18
novembre).
In particolare, il disegno di legge, che peraltro contiene
alcuni punti contraddittori da rivedere in sede di
coordinamento tecnico, punta con forza, come peraltro fece
la legge Merloni del 1994, sul rilancio della fase di
progettazione e sul miglioramento del sistema di
qualificazione delle imprese come elementi determinanti per
rendere più efficiente ed efficace l'iter di realizzazione
delle opere pubbliche.
Nel primo caso la valorizzazione della fase progettuale
affronta anche questioni di particolare valenza innovativa
come è il riferimento all'utilizzo della metodologia Bim
(Building information modelling), già adottata a livello
internazionale e nel settore privato. Ma, dal punto di vista
della riscrittura delle regole affidata al governo, si
richiama l'esigenza di promozione dell'uso dei concorsi di
progettazione, oggi strumento molto residuale nelle
procedure di affidamento di progettazione, per elevare il
livello qualitativo del progetto. Sulla stessa linea, ma
riferito alle gare di servizi di ingegneria, si colloca
l'indicazione di prevedere l'obbligo di affidamento
attraverso il criterio della offerta economicamente più
vantaggiosa, con l'espresso divieto di utilizzo del prezzo
più basso, in attuazione degli indirizzi contenuti nelle
direttive europee.
Strumentale alla centralità del progetto è anche
l'introduzione del débat public, i cui risultati dovranno
essere accolti nel progetto definitivo: anche in questo caso
l'obiettivo è quello di limitare al massimo la possibilità
di varianti, o meglio di ricondurre in quell'alveo
fisiologico che oggi rappresenta l'eccezione dal momento che
in più del 60% degli appalti si registrano varianti e
aumenti di costo. Si arriva anche a prevedere la possibilità
di rescissione del contratto oltre determinate soglie di
importo.
Il punto più rilevante riguarda la necessità di arrivare
all'affidamento dei lavori con progetti definiti e
dettagliati che diano poco spazio a riserve e a varianti; e
a tale proposito il testo approvato martedì prevede
espressamente il divieto di affidare appalti sulla base del
progetto preliminare.
Sulla stessa direzione si muove la scelta di limitare
l'appalto integrato (appalto di progettazione esecutiva e
costruzione) che non potrà più essere messo in gara sulla
base del progetto preliminare e che dovrà essere limitato
radicalmente «tenendo conto in particolare del contenuto
innovativo o tecnologico delle opere oggetto dell'appalto o
della concessione in rapporto al valore complessivo dei
lavori e prevedendo di norma la messa a gara del progetto
esecutivo».
Sul fronte dell'organizzazione della macchina amministrativa
la scelta di valorizzare la progettazione finisce per
incidere non poco: da un lato si prevede la revisione delle
funzioni del ruolo della pubblica amministrazione da
indirizzare verso la programmazione e il controllo
dell'appalto; dall'altro lato si rivede la disciplina
dell'incentivo del 2% dell'importo dei lavori di competenza
dei tecnici della p.a. che sarà indirizzato sulla
programmazione e sul controllo e non sulla progettazione.
Sulla qualificazione delle imprese il legislatore delegato
dovrà rivedere profondamente il sistema che, in un primo
momento, si pensava potesse non fare più affidamento sulle
Soa, invece confermate perno del sistema di attestazione
delle imprese di costruzioni. Nel testo è prevista la
stretta sulle norme che disciplinano la sospensione e la
decadenza delle attestazioni (delicata la materia dei
fallimenti e dei concordati), ma anche di quelli che sono
gli elementi sulla base dei quali dovranno essere attestate
le imprese.
In questo contesto va letto il riferimento ai
criteri reputazionali con i quali si dovrebbero misurare,
oltre che su dati quantitativi, l'affidabilità e la serietà
della impresa.
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L'Anac vigilerà sui requisiti di
partecipazione. Più aste telematiche. Sospeso il performance
bond.
Contro la corruzione verranno unificate le banche dati.
Semplificazione delle procedure, maggiore ricorso ai sistemi
elettronici di affidamento, unificazione delle banche dati,
più trasparenza nei «settori speciali», sospensione delle
norme sul performance bond, disciplina ad hoc per i beni
culturali e i contratti segretati, soccorso istruttorio
senza sanzioni per le irregolarità formali. Sono questi
alcuni dei punti significativi del disegno di legge delega
sugli appalti pubblici approvato martedì dalla camera.
Per l'accesso alle procedure di gara si punta molto sul
maggiore impiego delle aste telematiche e su norme che
tutelino la partecipazione delle pmi anche premiando chi
associa tali imprese in raggruppamento.
Viene prevista una più che logica unificazione delle banche
dati concernenti elementi per la verifica dei requisiti di
partecipazione alle procedure di gara che saranno
convogliate presso l'Anac (autorità anticorruzione), anche
se il sistema di verifica dei requisiti dell'Avcpass, che
dovrà essere semplificato e aggiornato, passerà al ministero
delle infrastrutture e dei trasporti. Importante è
l'indicazione sul soccorso istruttorio che dovrà essere
sempre possibile sulle irregolarità formali, ma senza
sanzioni.
Viene poi di fatto sospesa l'applicazione delle norme sul
performance bond a partire dall'approvazione della legge
delega e, per i contratti in corso, non si procederà allo
svincolo automatico delle cauzioni. Una particolare
attenzione, sotto il profilo della trasparenza e della piena
apertura e «contendibilità» dei mercati, viene mostrata alla
disciplina dei cosiddetti «settori speciali» (acqua, energia
e trasporti) per i quali occorrerà indicare puntualmente le
disposizioni applicabili.
La delega prevede che venga introdotta una specifica
disciplina per i contratti segretati o che esigono
particolari misure di sicurezza, sottoponendo tali
affidamenti al controllo della Corte dei conti e
individuando le circostanze che ne giustificano il ricorso
e, ove possibile, le modalità realizzative. Per questi
contratti dovrà essere assicurata nelle procedure di
affidamento la partecipazione di un numero minimo di
operatori economici, nonché prevedere l'adeguata motivazione
dell'affidamento.
Previsto anche il riordino delle norme sugli appalti
relativi a beni culturali, nel senso di garantire
trasparenza e pubblicità. Una chiara indicazione viene
fornita anche per le modalità di individuazione delle
offerte anomale con particolare riguardo agli appalti
sottosoglia (inferiori a 5 milioni), fascia di affidamenti
per i quali la delega prevede forme di garanzia di
trasparenza e concorrenza con l'obbligo di invito di almeno
cinque operatori economici e applicazione del principio di
rotazione
(articolo ItaliaOggi del 20.11.2015). |
APPALTI: Appalti, sì della Camera alla riforma. Più poteri
all’Anticorruzione, stretta su varianti e deroghe -
Semplificazione senza il regolamento generale.
Contratti pubblici. Il testo torna ora al Senato per
l’ultimo esame (senza modifiche) - Delrio: il nuovo codice
sarà operativo entro giugno.
A un anno
esatto dalla presentazione in Parlamento la riforma degli
appalti compie un passo decisivo alla Camera. Al termine di
100 votazioni, in molti casi appoggiate anche
dall'opposizione, con 343 si, 78 contrari e 25 astenuti
Montecitorio ha approvato il testo
(Atto
Camera n. 3194)
che consegna al governo
il compito di riformare gli appalti, sulla base di ben 75
criteri direttivi. Si tratta di un'approvazione praticamente
definitiva. I tempi stretti per il recepimento delle nuove
direttive europee (18.04.2016), non lasciano spazio per
ulteriori modifiche in terza lettura al Senato.
«È una buonissima notizia per il sistema dei lavori pubblici
italiani -ha commentato il ministro delle Infrastrutture
Graziano Delrio-. È una riforma che vuol dire trasparenza,
efficacia, buon utilizzo dei soldi pubblici e non più zone
opache». Per il ministro Delrio il nuovo codice sarà
operativo entro giugno. «Abbiamo introdotto diversi
miglioramenti rispetto al testo del Senato -segnala il
presidente della commissione Lavori pubblici Ermete Realacci-. Tra questi anche il rafforzamento del ruolo del
Parlamento nell’esercizio della delega da parte del
governo».
Il dialogo aperto tra maggioranza e opposizione ha garantito
un’approvazione rapida, nonostante l’Aula abbia apportato
più di 40 modifiche al testo uscito dalla commissione. Tra
queste, l’emendamento che lascia al governo due strade per
attuare la delega, attraverso la commissione di esperti
nominata dal ministro Delrio (presieduta dal capo
dipartimento di Palazzo Chigi Antonella Manzione ) al lavoro
già da alcune settimane.
Due le ipotesi. La prima è
un’attuazione sdoppiata. Con un primo decreto mirato a
recepire le direttive entro il 18.04.2016 e un secondo
decreto (da varare entro 31 luglio) per riformare l’intero
sistema sulla base dei principi contenuti nella delega. La
seconda opzione, forse più logica e al momento quella più
gettonata dal governo, è quella di approvare un unico
decreto che assolva ad entrambi gli obiettivi, mandando
subito in pensione il codice. Nessun passo indietro
sull'addio al vecchio (ed elefantiaco) regolamento appalti
sostituito da linee guida proposte dall'Anac e approvate con
un decreto delle Infrastrutture. «Così il nuovo codice sarà
il primo caso italiano di soft law», ha sottolineato Delrio.
Altra correzione rilevante riguarda il punto, molto
discusso, dei lavori gestiti in house dalle concessionarie
autostradali. Un emendamento votato in Aula raddoppia da 12
a 24 mesi i tempi entro i quali le concessionarie potranno
adeguarsi al nuovo obbligo di affidare con gara l'80%
(invece che il 60%) dei lavori.
Tra le modifiche dell'ultim'ora anche l'alleggerimento dei
vincoli sull'appalto integrato di progetto e lavori (salta
il paletto che ne limitava il ricorso agli appalti con
contenuto tecnologico superiore al 70%) e nuove misure per
il pagamento diretto delle Pmi coinvolte nei subappalti.
Arriva poi un'ulteriore stretta sui ricorsi al Tar. In
particolare il giudice dovrà tenere conto già nella fase
cautelare dei casi in cui l'annullamento dell'aggiudicazione
comporta l'inefficacia del contratto. Viene poi introdotto
un rito speciale per la risoluzione immediata del
contenzioso relativo alle esclusioni dalla gara per carenza
dei requisiti, rendendo impossibile contestare dopo i
provvedimenti della stazione appaltante relativi a questa
fase di gara.
L'ultima novità di giornata riguarda la
qualificazione delle imprese, con la previsione di una
disciplina specifica per la decadenza e la sospensione dei
certificati Soa che abilitano al mercato dei lavori
pubblici. Con la delega arriva poi la sospensione del
performance bond sulle grandi opere e l'ok alla clausola
sociale nei call center.
Il cuore della riforma resta comunque l'estensione e il
rafforzamento dei poteri affidati all'Anac di Cantone. Un
passaggio in cui non è difficile intravedere il riflesso
delle tante inchieste sulla corruzione che hanno
attraversato il mondo degli appalti negli ultimi mesi. L’Anac
viene dotata di poteri di intervento cautelari (possibilità
di bloccare in corsa gare irregolari). I suoi atti di
indirizzo (e i bandi-tipo) diventano vincolanti. Saranno poi
gestiti dall’Autorità il sistema di qualificazione delle
stazioni appaltanti, l’albo dei commissari di gara, le
banche dai di settore, i controlli sulle varianti.
Confermata la scelta di puntare sulla qualità dei progetti,
cancellando la possibilità di bandire le gare su elaborati
preliminari e vietando la possibilità di assegnare gli
incarichi al massimo ribasso. Con la preferenza per
l’offerta più vantaggiosa (rapporto costo/qualità) il prezzo
più basso diventa un criterio residuale anche per lavori
pubblici. Rimane la stretta sulle varianti, causa
dell’aumento dei costi di due grandi opere su tre e sulle
deroghe possibili solo per emergenze di protezione civile.
Inoltre le grandi opere dovranno essere capaci di
guadagnarsi il consenso sul campo («débat public»).
Molte
anche le misure destinate -in linea teorica- a favorire
l'accesso dei professionisti e delle Pmi al mondo degli
appalti. E a garantire trasparenza anche ai contratti di
importo inferiore alle soglie Ue (5,2 milioni per i lavori).
Una zona grigia dove si annida una corruzione diffusa, più
difficile da snidare rispetto a quella che fa da contorno
alle grandi opere. Indicazioni di principio che spetterà poi
al Governo tradurre in norme efficaci (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2015). |
APPALTI:
Gare, stop al massimo ribasso. Divieto di deroghe
negli appalti, se non per calamità. La Camera ha approvato
il ddl di riforma che ora torna al Senato per il sì
definitivo.
Stop alle gare con massimo ribasso: sarà premiata l'offerta
economicamente più vantaggiosa, anche sotto il profilo della
qualità. Divieto di norme in deroga negli appalti, se non
per eventi calamitosi. Rafforzamento del ruolo dell'Autorità
nazionale anti corruzione: i commissari di gara saranno
scelti a rotazione da un albo costituito proprio presso l'Anac.
Limitazioni all'appalto integrato. Valorizzazione della fase
progettuale. Eliminazione dell'incentivo per i progettisti
della pubblica amministrazione.
Sono queste alcune delle novità contenute nel disegno di
legge delega sugli appalti
(Atto
Camera n. 3194)
che è stato approvato ieri dalla
Camera con 348 voti favorevoli, 78 contrari e 25 astenuti e
che adesso dovrà tornare al Senato per l'approvazione
definitiva.
Novità che dovranno sostanziarsi in base agli
oltre 70 criteri direttivi per il recepimento delle
direttive su appalti e concessioni e la riforma del codice
degli appalti pubblici. L'approvazione di ieri porta
peraltro una importante novità: l'operazione di riforma
potrà essere effettuata con un decreto unico entro aprile
2016 (di recepimento e di contestuale riforma del codice), o
con due decreti delegati, uno per attuare le direttive entro
il 18.04.2016 e un altro (entro il 31.07.2016) per
riformare il codice dei contratti pubblici riordinando tutta
la materia; poi seguiranno le linee guida Anac che
sostituiranno il regolamento.
Nel merito dei numerosi criteri di delega, innanzitutto
verrà «superata» la disciplina della legge obiettivo e sarà
previsto il divieto, negli appalti in corso, di affidare il
compito di responsabile e direttore dei lavori allo stesso
contraente generale o a soggetti ad esso collegati.
Uno dei punti più delicati era anche quello degli appalti
dei concessionari, oggi obbligati ad affidare i lavori in
gara per almeno il 60% (e il 40% in house) e liberi al 100%
di utilizzare le società in house per le forniture e per i
servizi. La norma approvata ieri prevede che l'obbligo di
affidamento a terzi, senza ricorso a società in house salga,
entro due anni, all'80% (con il 20% di in house) e si
applichi a tutte le tipologie di attività, quindi non solo
ai lavori ma anche a servizi e forniture.
Un perno centrale del disegno di legge delega è
rappresentato dall'Autorità nazionale anticorruzione cui si
assegnano poteri di vigilanza e controllo con particolare
riguardo alla fase di esecuzione dei contratti, nonché il
compito di gestire l'albo dei commissari di gara e di
procedere alla redazione delle linee guida che sostituiranno
l'attuale regolamento del codice dei contratti pubblici.
Per arginare quanto avvenuto in passato, la delega impone al
Governo di definire una disciplina ad hoc per gli appalti
connessi alle situazioni di emergenza di protezione civile,
che coniughi le esigenze di tempestività con quelle tese ad
avere adeguati meccanismi di controllo e pubblicità
successiva. In questo ambito la delega prevede espressamente
il divieto di affidare contratti con procedure diverse da
quelle ordinarie, fatta eccezione per «singole fattispecie
connesse a particolari esigenze collegate a situazioni
emergenziali». Introdotte anche misure a tutela dei rapporto
di lavoro nei casi di successione di imprese nei contratti
di appalti, alle medesime condizioni economiche e normative
previste dalla contrattazione collettiva.
Una particolare attenzione, in diversi passi della delega
viene data al tema della sostenibilità energetica e
ambientale negli appalti, prendendo anche lo spunto dalle
novità introdotte dalle direttive del 2014 in cui è stato
introdotto il criterio dei costi sul ciclo di vita, da
utilizzare come parametro di aggiudicazione e come elemento
premiale. Per i comuni non capoluogo vi sarà l'obbligo di
ricorrere a centrali di committenza per gli appalti
superiori a 100 mila euro. Una importante novità riguarda
anche l'incentivo del 2% dell'importo dei lavori di
competenza dei tecnici della pubblica amministrazione, che
sarà indirizzato sulla programmazione e sul controllo e non
sulla progettazione, le funzioni che dovranno essere
prioritarie per la p.a..
Viene prevista anche una più che logica unificazione delle
banche dati concernenti elementi di interesse ai fini della
partecipazione a procedure di gara che saranno convogliate
presso l'Anac, anche se il sistema di verifica dei requisiti
dell'Avcpass, che dovrà essere semplificato e aggiornato,
passerà al ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Importante l'indicazione sul soccorso istruttorio che dovrà
essere sempre possibile sulle irregolarità formali, ma senza
sanzioni.
Prevista una limitazione dell'appalto integrato (appalto di
progettazione esecutiva e costruzione) che non sarà più
possibile sulla base del progetto preliminare e consentito
quando vi siano lavori di notevole contenuto innovativo o
tecnologico e in particolare per le opere puntuali
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Tutta la p.a. in un data base.
Archivio unico con i dati fiscali, amministrativi e sanitari.
Presentata l'Anagrafe nazionale della popolazione residente.
Orlandi: risparmi per i cittadini.
Un unico gigantesco archivio che contiene tutti i dati e
tutte le informazioni di ogni cittadino, da quelle fiscali a
quelle amministrative fino a quelle sanitarie.
Questo lo
scopo dell'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr),
che partirà a breve in via sperimentale in 27 comuni
italiani (tra cui Roma, Milano e Torino) e che secondo la
numero uno dell'Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi,
potrebbe essere già in funzione «in pochi mesi» in tutto il
Paese.
Il progetto, presentato ieri a Roma, punta a far convergere
in un unico archivio «monstre» le informazioni di tutte le
principali banche dati italiane, dagli oltre 8 mila comuni
all'Inps, dall'Inail alla Motorizzazione civile, per fare in
modo che alla fine del percorso ciascun cittadino con il
proprio Pin e la propria carta d'identità elettronica possa
avere accesso a tutte le posizioni che lo riguardano: da
quelle fiscali a quelle amministrative a quelle lavorative o
sanitarie.
L'Archivio nazionale prevede l'istituzione di una sorta di
«domicilio digitale», ossia un indirizzo di posta
elettronica certificata che ogni cittadino può indicare
come esclusivo mezzo di comunicazione con la pubblica
amministrazione, sulla falsariga di quanto accade a imprese
e professionisti che già ricevono le comunicazioni tramite
l'indirizzo Pec.
Capofila del progetto sarà il ministero dell'interno.
Sogei attuerà le procedure e Agid, l'Agenzia per l'Italia
digitale, coordinerà tutte le attività.
«Il Viminale dovrà diventare l'hub fondamentale a
disposizione di tutte le pubbliche amministrazioni», ha
dichiarato il ministro dell'interno Angelino Alfano. «La
vita privata dei cittadini deve viaggiare alla velocità
degli smartphone e della banda larga», ha aggiunto Alfano
«non può andare a velocità rallentata. Possedere i dati e'
un elemento di potere e metterli in condivisione significa
perdere un pezzetto di potere in favore di una sovranità
superiore. In questo ha prevalso lo spirito di
collaborazione tra amministrazioni».
«E' una rivoluzione cui stiamo lavorando da tempo», ha
commentato la numero uno dell'Agenzia delle entrate,
Rossella Orlandi, «perché significa realizzare un unico
data base che conterrà tutte le informazioni in un
identificativo certo. Teoricamente tutti gli atti della
pubblica amministrazione saranno sul personal computer di
casa, con un risparmio di tempo per il cittadino e un
risparmio consistente per la pubblica amministrazione».
«Grazie all'archivio unico», ha spiegato Orlandi, «una volta
che tutti i comuni saranno entrati nel sistema, le
informazioni anagrafiche saranno complete, standardizzate e
prive di duplicazioni» e «arriveranno all'Anagrafe
tributaria non più dalle singole anagrafi comunali, ma
direttamente da quella nazionale», per le comunicazioni
relative a nascita, decessi e variazioni di residenza.
Inoltre, con l'Agenzia nazionale «avremo a disposizione
anche i dati relativi alla famiglia anagrafica di
appartenenza di ciascun cittadino residente, raccolte in una
unica base dati, completa e aggiornata».
Con il completamento dell'Anpr, «l'Agenzia delle entrate e
il ministero dell'interno potranno realizzare, in
collaborazione, servizi integrati verso tutti gli enti e le
amministrazioni, per un sistema unitario di verifica e di
interrogazione di dati anagrafici e di codici fiscali.
Questo favorirà un'ottimizzazione degli scambi di dati e un
abbattimento di costi nella fruizione dei servizi per tutta
la pubblica amministrazione», ha concluso Orlandi.
L'operazione «ha certamente un costo», ha osservato
il sottosegretario all'economia, Pier Paolo Baretta, «e in un
periodo di difficoltà sappiamo che reperire risorse è un
problema. Ma questo e' un investimento che e' assolutamente
necessario fare, non si possono cercare alibi».
«L'anagrafe nazionale diventa la banca dati di riferimento
per tutte le altre», ha commentato il presidente e
amministratore delegato di Sogei, Cristiano Cannarsa. «Con
l'anagrafe nazionale della popolazione residente e il 730
precompilato, abbiamo un motivo in più per implementare la
banda larga»
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: A Campobasso un dirigente apicale al posto del segretario
comunale.
Al comune di Campobasso si anticipano gli effetti della
riforma Madia: si fa a meno del segretario comunale a
vantaggio di un dirigente «di vertice» di fiducia del
sindaco.
Non lo si può definire tecnicamente «direttore
generale», perché il comune di Campobasso ha meno di 100.000
abitanti, né «dirigente apicale» perché ancora la riforma
Madia non è vigente, ma la sostanza è che questo dirigente
di vertice ha di fatto esautorato il segretario comunale,
tanto che il titolare della sede di segreteria si è dimesso
lo scorso ottobre, visto che le funzioni di coordinamento
dell'attività comunale sono state svolte dal dirigente
fiduciario.
La vicenda dimostra che la legge 124/2015 a ben
vedere non ha tanto lo scopo di innovare l'ordinamento
modificando la disciplina della dirigenza pubblica, anche
attraverso l'abolizione dei segretari comunali, quanto
soprattutto di fornire un ombrello normativo alla tendenza
sempre più forte degli organi di governo di costruirsi una
dirigenza strettamente a sé affine, individuata per via
fiduciaria e senza concorsi, a svantaggio della dirigenza di
ruolo.
Quanto si è verificato a Campobasso trova origine già
alla fine del gennaio 2015, quando il sindaco ha conferito
l'incarico dirigenziale extra dotazione organica, ai sensi
dell'articolo 110, comma 2, del dlgs 267/2000 di direzione
dell'Area «indirizzo organizzazione e controllo» del comune.
Un incarico che pur non inquadrando il destinatario in
maniera esplicita come «direttore generale» nella sua stessa
sinterizzazione evidenzia che il contenuto sia esattamente
identico, posto che ai sensi dell'articolo 108 del dlgs
267/2000 il direttore generale attua gli indirizzi e gli
obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente,
secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente
della provincia, sovrintendendo alla gestione dell'ente,
perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza.
Che
si trattasse, in effetti, dell'assegnazione di funzioni di
dirigente di vertice, «dirigente apicale» si direbbe ai
sensi della legge delega 124/2015, lo hanno dimostrato i
fatti, che hanno portato il segretario a dimettersi. Il
comune, dunque, anticipando i tempi della riforma si
ritrova, adesso, senza segretario e con una sorta di
«dirigente apicale», assunto esattamente secondo le modalità
selettive solo in apparenza che delinea la riforma Madia.
Infatti, l'incaricato come «super manager» del comune è
stato scelto a seguito di una selezione pubblica,
nell'ambito della quale una commissione nominata dal sindaco
ha preselezionato 4 nominativi di candidati, qualificandoli
tutti come «idonei» a ottenere l'incarico. La commissione,
dunque, non ha redatto una graduatoria di merito e, quindi,
la scelta finale è stata compiuta dal sindaco sulla base di
proprie valutazioni dei curriculum dei quattro
preselezionati. Tra i quali c'era il destinatario, il quale
era stato in precedenza dal 2000 al 2009 direttore generale
del comune, quando il sindaco era espressione del centro
sinistra.
Dal 2009 al 2014, con maggioranza di
centro-destra, ha saltato un giro e il sistema di selezione
dei dirigenti a contratto, che la legge Madia
sostanzialmente estenderà ai fini dell'assegnazione degli
incarichi ai dirigenti di ruolo, ha consentito alla
maggioranza nuovamente di centro-sinistra del comune di
Campobasso di richiamare in forza l'ex direttore generale
sotto diversa veste e a dire addio, per ora, al segretario
comunale.
Un addio che potrebbe divenire, con la vigenza dei
decreti legislativi attuativi della legge 124/2015,
definitivo
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2015). |
APPALTI: Appalto, se è verde c'è lo sconto.
Cauzioni ridotte. Certificazione ambientale aiuta in
graduatoria.
Le novità del disegno di legge sulla green economy approvato
al senato. Obblighi per l'Anac.
Sconti sulle cauzioni e titoli preferenziali per gli
appaltatori in possesso di qualificazioni ambientali;
obbligo per le stazioni appaltanti di indicazione nel bando
di gara del metodo di misurazione dei costi del «ciclo di
vita» del progetto e dei criteri ambientali minimi che
dovranno essere previsti anche nei bandi-tipo dell'Anac;
offerta economicamente più vantaggiosa da valutare anche in
riferimento alla sostenibilità ambientale.
Sono queste alcune delle novità contenute nel disegno di
legge sulla green economy (Atto
Senato n. 1676) approvato la scorsa settimana al
senato e adesso all'esame della camera in terza lettura, che
prevede alcune norme innovative riguardanti la disciplina
degli appalti pubblici.
Un primo intervento del provvedimento approvato al senato
attiene alla disciplina delle garanzie a corredo
dell'offerta nei contratti pubblici, di cui si modificano
gli articoli 75 e 83 del Codice dei contratti pubblici.
Potrà essere concessa la riduzione dell'importo della
garanzia e del suo eventuale rinnovo agli operatori
economici in possesso di specifiche qualificazioni
ambientali.
Viene previsto che il bando, nel caso di previsione del
criterio relativo al «ciclo di vita», indichi, tra l'altro,
il metodo che l'amministrazione aggiudicatrice utilizza per
la valutazione dei relativi costi inclusa la fase di
smaltimento e recupero.
È poi stabilito che siano da considerarsi titolo
preferenziale nella formulazione delle graduatorie, oltre
alla registrazione al sistema comunitario di ecogestione e
audit (Emas), anche il possesso di altre certificazioni, in
via alternativa o aggiuntiva: la certificazione ambientale
ai sensi della norma Uni En Iso 14001; la certificazione Iso
5001, relativa a un sistema di gestione razionale
dell'energia; il possesso del marchio di qualità ecologica
Ecolabel Ue ai sensi del regolamento (Ce) n. 66/2010 per un
proprio prodotto o servizio da parte delle organizzazioni
pubbliche e private interessate.
Un'assoluta novità è l'introduzione nel codice dei contratti
pubblici (con il nuovo articolo 68-bis nel codice dei
contratti) dei «criteri ambientali minimi» (Cam) che
dovranno essere inseriti nei bandi di gara per gli appalti
pubblici di diverse forniture e di servizi (per esempio il
verde pubblico), nell'ambito delle categorie previste dal
piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi
nel settore della pubblica amministrazione (Pan-Gpp).
Molto
significativo è il fatto che siano integrati i criteri di
valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
richiamando espressamente i profili attinenti alle
caratteristiche ambientali e al contenimento dei consumi
energetici e delle risorse ambientali, e specificando che
tali criteri devono riferirsi anche al servizio, e non solo
al lavoro e al prodotto.
Il provvedimento assegna inoltre all'osservatorio dei
contratti pubblici il monitoraggio dell'applicazione dei
criteri ambientali minimi disciplinati nei relativi decreti
ministeriali e del raggiungimento degli obiettivi previsti
dal piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei
consumi nel settore della pubblica amministrazione (Pan Gpp).
Importanti indicazioni vengono previste anche per l'Autorità
nazionale anti corruzione (Anac) che ha il compito
(confermato anche dal ddl delega appalti pubblici) di
redigere i bandi-tipo, sulla base dei quali sono predisposti
i bandi di gara da parte delle stazioni appaltanti: nella
messa a punto di questi format l'Anac dovrà infatti inserire
indicazioni per l'integrazione dei criteri ambientali minimi
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Il fascicolo sanitario elettronico arriva
all’ultimo «passaggio». Salute. In
«Gazzetta» il regolamento.
Pronti,
partenza, via. Con la pubblicazione sulla «Gazzetta
Ufficiale» di ieri del Dpcm 178/2015, prende ufficialmente
il via l’utilizzo su tutto il territorio nazionale del
fascicolo sanitario elettronico (Fse).
Ogni cittadino
italiano dalla nascita e per tutto il corso della vita avrà
un fascicolo personale digitale che raccoglierà tutti i dati
e le informazioni sanitarie e socio-sanitarie che
costituiscono la storia clinica e di salute di tutti gli
italiani. Ogni prescrizione, ogni accertamento clinico-diagnostico, visita medica e ogni eventuale
ricovero, tutto, proprio tutto presto sarà tracciato e
finirà nel faldone digitale personale.
Un’evoluzione importante, perché garantirà vantaggi concreti
al sistema sanitario nazionale, al cittadino, ai medici e
alle strutture. La tracciabilità prevista dal Dpcm potrà far
ridurre sprechi e inefficienze attraverso le statistiche,
l’incrocio dei dati e una maggiore trasparenza degli stessi.
Il che, tradotto in pratica, significa ottenere
miglioramenti in termini di programmazione, controllo e
valutazione del sistema sanitario nel suo complesso, in un
contesto sia italiano che europeo. E innumerevoli saranno i
vantaggi per i cittadini, che nel rispetto delle regole
sulla privacy potranno tenere sott’occhio per tutta la vita
gli alti e i bassi della propria salute, migliorando anche
il «self empowerment» del proprio benessere.
Quando il percorso sarà completato i medici, dal canto loro,
potranno leggere i referti e ricostruire il percorso clinico
di ogni paziente che non sarà più un perfetto sconosciuto.
Nulla potrà sfuggire, ogni acciacco, ogni pillola assunta,
indipendentemente se il paziente sia nato a Cefalù o a
Pordenone, mentre il dottore lo sta visitando a Genova. E
anche la ricerca epidemiologica e statistica ne potranno
giovare perché avrebbero dati freschi su tutta la
popolazione, ovviamente nei limiti delle regole della
privacy, perché ogni utilizzo potrà avvenire soltanto per le
finalità indicate e potrà essere realizzato esclusivamente
con il consenso dell’assistito e sempre nel rispetto del
segreto professionale.
Ma ovviamente se tutto fosse così già da domani sarebbe
troppo bello. In realtà il regolamento in «Gazzetta»
contiene la cornice normativa, fissa le regole per tutte le
Regioni, ma non è, né può esserne ancora l’avvio concreto.
Bisognerà infatti aspettare il 31 dicembre quando tutte le
21 Regioni dovranno aver elaborato con l’Agenzia digitale (Agid)
un sistema unificato in grado di assicurare la piena e
concreta interoperabilità su tutto il territorio nazionale,
seguendo le schede tecniche che l’Agid ha pubblicato il 6
maggio scorso.
L’operazione Fse è già costata anni di lavoro. Inizialmente
sembrava pura utopia mettere in grado di funzionare 21
fascicoli digitali regionali con diversi sistemi di codifica
digitale. Poi sono arrivati i protocolli digitali e
step-by-step si sono andati a definire nel dettaglio la
struttura del messaggio, del framework e dei dataset dei
servizi base di ciascun sistema (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2015). |
VARI:
Fascicolo sanitario digitale al via dal 26
novembre.
Al via il Fascicolo sanitario elettronico, che rende più
semplice per i cittadini l'esercizio del diritto alla
salute. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 263 di ieri è stato
pubblicato il dpcm 178/2015 che entrerà in vigore il 26
novembre e che disciplina il Fascicolo inteso come l'insieme
di dati e documenti digitali di tipo sanitario e
socio-sanitario generati da eventi clinici presenti e
trascorsi, riguardanti l'assistito, che ha come scopo
principale quello di agevolare l'assistenza al paziente,
offrire un servizio che può facilitare l'integrazione delle
diverse competenze professionali, fornire una base
informativa consistente, contribuendo al miglioramento di
tutte le attività assistenziali e di cura.
Il Fascicolo (si veda ItaliaOggi del 4 settembre scorso)
consentirà non solo al paziente di poter disporre facilmente
di tutte le notizie relative al suo stato di salute ma
permetterà al medico di accrescere la qualità e tempestività
delle decisioni da adottare.
Il modello di Fascicolo punta inoltre di evitare, attraverso
i resoconti, l'incrocio dei dati e la trasparenza, a
migliorare la programmazione, il controllo e la valutazione
del sistema sanitario nel suo complesso, in un contesto sia
italiano che europeo
(articolo ItaliaOggi del 12.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fotovoltaico, un unico modello. La procedura si
completa sul sito del gestore di rete.
Dal 24 novembre in vigore il meccanismo studiato per
installare i pannelli sui tetti.
Dal 24 novembre per l'installazione del fotovoltaico sul
tetto basterà un modello unico. Con il nuovo modello unico
l'intero iter procedurale avviene attraverso il sito del
gestore di rete. Il modello potrà essere utilizzato per gli
impianti sotto ai 20 kW in bassa tensione, sul tetto e in
scambio sul posto.
È con il decreto del MiSe del 19.05.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27.05.2015) che è stato approvato il
modello unico
per il
fotovoltaico e stabilita al 24 novembre l'entrata in vigore
per l'utilizzo dello stesso.
Il modello conterrà
esclusivamente i dati anagrafici del proprietario (o di chi
ne abbia titolo a presentare la comunicazione), l'indirizzo
dell'immobile, la descrizione sommaria dell'intervento e la
dichiarazione del proprietario di essere in possesso della
documentazione di conformità dell'intervento alla regola
d'arte e alle normative di settore.
Due le parti del modello
unico proposto dal MiSe: la prima finalizzata alla
comunicazione preliminare alla realizzazione dell'impianto
fotovoltaico, alla richiesta di connessione, alla
comunicazione del codice Iban per all'addebito dei costi di
connessione e l'accredito dei proventi che deriveranno dallo
scambio sul posto, alle dichiarazioni di possedere tutti i
requisiti necessari per accedere alle procedure semplificate
e al conferimento (al gestore di rete) del mandato.
La seconda finalizzata alla comunicazione di fine lavori di
realizzazione dell'impianto di produzione, alla
dichiarazione di corretta esecuzione dei lavori e alla
dichiarazione di avvenuta presa visione del format del
regolamento d'esercizio
(articolo ItaliaOggi del 12.11.2015). |
APPALTI:
Comuni, Cantone ferma gli appalti non aggregati.
Spending. Nei municipi non capoluogo vietati i contratti in
proprio.
Niente manutenzione stradale o
acquisti di materiale d’ufficio in autonomia. L’entrata in
vigore dell’obbligo di aggregare gli appalti -in risposta
agli obiettivi della spending review- ora rischia di
inceppare davvero la macchina dei piccoli comuni, bloccando
la possibilità di ricorrere agli appalti per le città non
capoluogo.
L’Autorità Anticorruzione, presieduta da Raffaele Cantone,
ha sospeso il rilascio dei codici di identificazione delle
gare (Cig) necessari all’avvio delle procedure di
assegnazione dei contratti da parte degli enti locali che
non ricorrono a una delle formule di aggregazione degli
appalti (soggetti aggregatori, province, Consip, unioni o
consorzi di comuni) prevista dal codice.
Il rifiuto a
rilasciare i codici è un atto dovuto da parte dell’Anac,
dopo che il primo novembre è finalmente entrato in vigore
l’obbligo di aggregazione degli appalti dei comuni non
capoluogo, rinviato per ben sei volte consecutive a causa
dei ritardi accumulati nel processo di aggregazione delle
gare da parte delle amministrazioni (vedi l’anticipazione
sul «Sole 24 Ore» del 28 ottobre).
È questo uno dei capitoli della spending review che punta
all’aggregazione dei soggetti appaltanti. Un altro capitolo
che sta per decollare è quello che individua 35 «soggetti
aggregatori» della spesa pubblica cui è affidato il compito
di gestire tutte le gare per beni e servizi in specifiche
categorie individuate da un Dpcm che la Presidenza del
Consiglio sta per varare.
Nello schema di Dpcm messo a punto
dalla task force guidata da Yoram Gutgeld e da Palazzo Chigi
si individuano -oltre agli acquisti che riguardano il
settore sanitario- tre categorie di acquisti che dal 1°
gennaio dovranno passare per i «soggetti aggregatori»:
pulizie, assicurazioni e facility management. Anche su
questo fronte ha un ruolo importante l’Anac che ha
selezionato i 35 «soggetti aggregatori» e ora ne dovrà
verificare il mantenimento dei requisiti necessari per
restare iscritti al relativo albo.
Sugli appalti dei comuni non capoluogo un comunicato spiega
la decisione dell’Anac.
Per questi scatta la tagliola
prevista dal Governo Monti nel 2012 e poi sempre rinviata:
per risparmiare e permettere di controllare meglio la spesa
le gare vanno accorpate, mentre ai singoli comuni è vietato
di promuovere appalti in autonomia. Un principio, corretto
da ultimo con il decreto Irpef (Dl 66/2014), che vale per
beni e servizi, ma anche per i lavori pubblici. Nel Paese
degli 8mila campanili però finora poco o nulla si è mosso
sul fronte della centralizzazione degli appalti.
Da oggi (ma il comunicato fa riferimento al primo novembre)
il blocco riguarda due tipologie di appalti. Il codice
necessario ad avviare le procedure non sarà rilasciato ai
comuni non capoluogo che tenteranno di bandire gare in
autonomia per valori superiori a 40mila euro. Allo stesso
modo saranno rispedite al mittente le richieste di avviare
le procedure di affidamento sotto i 40mila euro da parte dei
comuni con meno di diecimila abitanti. Un blocco,
quest’ultimo, che resterà in vigore però solo due mesi,
visto che la legge di Stabilità cancella (a partire dal
primo gennaio 2016) il vincolo di centralizzare le gare
sotto i 40mila euro per i piccoli comuni.
Questo doppio binario, che rischia di mandare in tilt anche
l’attività ordinaria (per non dire spicciola) dei piccoli
enti, era alla base anche dell’ultima richiesta di proroga
sollecitata dai comuni per bocca del presidente dell’Anci
Piero Fassino. L’obiettivo: spostare al primo gennaio 2016
l’obbligo di aggregazione delle gare oltre 40mila euro per
allineare le due scadenze, senza rischiare di fermare per
due mesi i microcontratti dei comuni sotto i 10mila
abitanti. Il veicolo per inserire una proroga era stato
individuato nel decreto sulla Finanza locale varato venerdì
scorso dal Governo. Alla fine la proroga annunciata non è
passata. Ma non è detto che non rispunti nel corso
dell’esame parlamentare per convertire in legge il
provvedimento.
Non c’è nessuna possibilità di aggirare gli obblighi. In
ossequio alle norme anti-criminalità, il codice di gara deve
infatti essere inserito in ogni fattura per permettere la
tracciabilità dei pagamenti. E come ricorda lo stesso
presidente Anac nel comunicato «il mancato rilascio del
codice identificativo di gara, comporta quale sanzione
accessoria espressamente prevista dalla legge 136/2010 in
tema di lotta alla criminalità organizzata, la nullità
assoluta dei contratti stipulati per violazione della
disposizioni sulla tracciabilità dei flussi finanziari» (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Catasto, metri quadri al debutto. La superficie
entra nelle visure. Ma solo ai fini Tari.
L'Agenzia delle entrate ha annunciato la novità
in vigore da ieri per 57 milioni di immobili.
Nessun dubbio sulle superfici catastali degli immobili. La
grandezza in metri quadri di abitazioni, ville, uffici
pubblici e privati, scuole, ospedali, box, negozi,
magazzini, laboratori e cantine comparirà nelle visure
catastali. E non sarà più oggetto di discussione ai fini
della Tassa rifiuti (Tari), un terreno su cui spesso
insorgono controversie tra i comuni e i proprietari.
La novità, annunciata dall'Agenzia delle entrate, interessa
57 milioni di immobili appartenenti ai gruppi catastali A, B
e C, (su un totale di 61 milioni).
Per il fisco immobiliare
si tratta di una piccola rivoluzione, perché realizza, di
fatto, uno dei cardini della riforma del catasto
momentaneamente accantonata dal governo, ossia il passaggio
dai vani ai metri quadri. Anche se, per ora, potrà avere
effetti solo sulla Tassa rifiuti. Le rendite, che
costituiscono la base di calcolo degli altri tributi
immobiliari (Imu e Tasi) non cambieranno. Resteranno quelle
attuali, calcolate sui vani anziché sui metri quadri, fino a
quando non andrà in porto la riforma del catasto. E proprio
per portarsi avanti sulla revisione degli estimi, l'Agenzia
delle entrate ha provveduto a esaminare le planimetrie e
calcolare le superfici, arrivando a coprire più del 90% del
totale.
All'appello mancano ancora 4 milioni di immobili
oggetto di ulteriori verifiche perché l'Agenzia ha ravvisato
dati incompleti o «incoerenti». Fuori dalla mappatura delle
Entrate anche gli immobili non dotati di planimetria, in
quanto risalenti agli albori del catasto edilizio urbano
quando non era obbligatorio depositare in catasto una
piantina. Per questi immobili i proprietari potranno
presentare all'Agenzia una dichiarazione di aggiornamento
catastale con procedura Docfa, (quindi con l'ausilio di un
professionista abilitato) per l'inserimento in atti della
planimetria catastale.
Ma cosa si leggerà nelle nuove visure, effettuate a partire
da ieri? Oltre ai dati identificativi dell'immobile (comune,
sezione urbana, foglio, particella, subalterno) e ai dati
catastali (zona censuaria, categoria catastale, classe,
consistenza, rendita), compariranno altre due informazioni:
la superficie catastale, determinata ai sensi dell'allegato
C del dpr 138/1998 e quella ai fini Tari. Due grandezze
differenti da tenere ben distinte. La prima rappresenta,
infatti, la cosiddetta superficie lorda o commerciale che,
oltre ai muri, ricomprende anche balconi e terrazzi, ma
anche soffitte, cantine, scale, ascensori e rampe. La
seconda, invece, valevole solo per le unità abitative, tiene
conto solo della superficie netta e dei muri, ma non delle
aree scoperte di pertinenza.
Sarà quest'ultimo dato quello da prendere in considerazione
per il pagamento della Tari che oggi invece i comuni
calcolano sulla base della superficie autocertificata dai
proprietari. Se le due grandezze coincideranno, nessun
problema. In caso contrario, i proprietari potranno comunque
inviare le proprie osservazioni attraverso il sito
dell'Agenzia
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fotovoltaico con modello unico. Semplificazione
dal 24 novembre per gli impianti fino a 20 kW sui tetti
degli edifici.
Autorizzazioni. Procedura ridotta a due adempimenti verso il
gestore della rete elettrica: la comunicazione di inizio e
fine lavori.
Una procedura
semplificata, più snella e veloce. Per realizzare,
connettere e avviare i piccoli impianti fotovoltaici
aderenti o integrati sui tetti degli edifici. Dal 24
novembre si potrà utilizzare il
modello unico, approvato dal ministero dello Sviluppo
economico con il decreto del 19.05.2015.
Si tratta di una prima importante razionalizzazione
dell’iter, prevista dal Dlgs 91/2014 e dedicata agli impianti
installati presso clienti finali già dotati di punti di
prelievo in bassa tensione (dove non ci sia ulteriore
produzione fotovoltaica) e per i quali sia anche richiesto
l’accesso al regime di scambio sul posto. Gli impianti
devono avere potenza nominale fino a 20 kw e comunque non
superiore a quella già disponibile in prelievo.
Il modello è “unico” perché sostituisce tutti quelli
eventualmente adottati dai Comuni, dai gestori di rete e dal Gse, riducendo i diversi adempimenti finora previsti a due
soli passaggi (comunicazione preliminare e di fine lavori),
verso un’unica interfaccia: l’impresa distributrice sulla
cui rete insiste il punto di connessione esistente.
«Se
ricorrono tutti i requisiti previsti, l’utente dovrà ora
dialogare soltanto con il gestore di rete, ad esempio,
l’Enel -riassume Davide Valenzano, responsabile affari
regolatori del Gse (Gestore dei servizi energetici)- sarà
poi quest’ultimo a interagire con Comuni e Regioni per
quanto concerne l’iter autorizzativo, con Terna per la
registrazione anagrafica dell’impianto sul portale Gaudì, e
con il Gse per l’attivazione del servizio di scambio sul
posto».
La semplificazione riguarda gli impianti aderenti o
integrati nei tetti con la stessa inclinazione e lo stesso
orientamento della falda, per i quali l’installazione –si
legge nel decreto- «non è subordinata all’acquisizione di
atti amministrativi di assenso, comunque denominati, ivi
inclusa l’autorizzazione paesaggistica». «Sono gli impianti
realizzati con le modalità previste dall’articolo 7-bis,
comma 5, del Dlgs 28/2011 -specifica Valenzano- cioè con
interventi di edilizia libera o soggetti a denuncia di
inizio attività».
La procedura
Il modello si compone di due parti e va trasmesso online al
gestore di rete, che deve aggiornare il proprio portale
entro il 24 novembre. La prima parte, da inviare prima
dell’inizio dei lavori, contiene i dati catastali e
dell’impianto e i dati anagrafici del richiedente
(proprietario, titolare di altro diritto reale di godimento,
amministratore di condominio su mandato dell’assemblea, o
altro delegato).
Entro 20 giorni lavorativi dalla ricezione,
il gestore di rete verifica che la domanda sia compatibile
con le condizioni richieste e che per la connessione siano
previsti lavori semplici, limitati all’installazione del
gruppo di misura (contatore). L’esito positivo comporta
l’avvio automatico dell’iter. Il gestore informa a quel
punto il richiedente, che è tenuto a versare il
corrispettivo per la connessione: una quota fissa di 100
euro (delibera Autorità energia 400/2015/R/eel).
Al termine dei lavori va poi inviata la seconda parte del
documento, che comprende dati tecnici sull’impianto, la
dichiarazione di conformità dell’impianto alle disposizioni
normative di riferimento e la presa visione e accettazione
del regolamento di esercizio e del contratto di scambio sul
posto con il Gse. L’impresa distributrice attiva la
connessione entro 10 giorni lavorativi dalla ricezione.
«Oltre a semplificare e velocizzare la tempistica, il
modello unico può evitare al proprietario anche l’eventuale
extra-costo richiesto dall’installatore per il supporto
amministrativo», osserva Damiano Cavallaro, ricercatore
dell’Energy strategy group del Politecnico di Milano.
«Il
corrispettivo standard è inoltre contenuto. Tuttavia, nei
casi in cui per la connessione ci sia bisogno di lavori
complessi o lavori semplici non limitati al gruppo di
misura, pensiamo ad esempio a un collegamento alla rete non
diretto, il gestore informa il richiedente e predispone il
preventivo per la connessione. E si applicano tutte le
tempistiche e le modalità definite dall’Autorità in materia
di connessioni» (articolo Il Sole 24 Ore del 09.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Fondi decentrati tagliati dai recuperi.
Personale. Possibile l’uso dei risparmi da riorganizzazione.
Il recupero delle risorse
illegittimamente inserite nei fondi per la contrattazione
decentrata entro un numero di anni non superiore a quello in
cui il fenomeno si è verificato deve essere effettuato da
tutte le amministrazioni locali e regionali. Esso non è
subordinato al possesso di parametri di virtuosità.
Sull’applicazione di questa disposizione non vi sono dubbi
particolarmente significativi, che invece sussistono ancora
sulla sanatoria del recupero delle somme illegittimamente
erogate ai dipendenti fino alla fine del 2012.
La fissazione del tetto del recupero sulle somme
illegittimamente inserite nel fondo entro un numero di anni
non superiore a quello in cui questi errori sono stati
compiuti colma un vuoto della legislazione. Il Dlgs 150/2009
stabiliva infatti che il recupero dovesse essere fatto nella
sessione contrattuale successiva. Ma l’entrata in vigore di
questa disposizione era espressamente rinviata alla stipula
del nuovo contratto nazionale. Sulla base dei principi
generali questa disposizione non si applica ai recuperi già
avviati dalla singole amministrazioni prima della entrata in
vigore del Dl 16/2014.
Il recupero delle somme illegittimamente inserite nel fondo
è un obbligo e, nella sua effettuazione, non maturano
interessi. Gli enti non possono superare il numero di
esercizi in cui l’illegittimità è stata compiuta, ma non
hanno specifici obblighi di ripartizione nel corso di questi
esercizi. Spetta alle amministrazioni decidere la quantità
di risorse da prelevare annualmente: la scelta è oggetto di
informazione ai soggetti sindacali.
Il recupero può essere effettuato in tre modi. In primo
luogo, con la sottrazione di risorse dal fondo per le
risorse decentrate: queste risorse vanno considerate spese.
In secondo luogo, applicando le previsioni sul
prepensionamento previste dai Dl 95/2012 e 101/2013. Quindi
dichiarando in sovrannumero i dipendenti che avrebbero già
maturato o maturerebbero entro la fine del 2016 i requisiti
per il collocamento in quiescenza sulla base dei requisiti
precedenti alla legge cd Fornero. Il risparmio è pari alla
differenza di trattamento economico dei dipendenti tra il
momento del collocamento in quiescenza e la data in cui lo
sarebbero stati sulla base delle norme attualmente in
vigore. Il terzo strumento per effettuare il recupero è
limitato alle sole amministrazioni che hanno rispettato il
Patto: si consente di destinare a questo scopo tutti i
risparmi derivanti dai piani di razionalizzazione.
I principali errori che hanno determinato l’inserimento in
modo illegittimo di risorse nel fondo sono i seguenti:
utilizzazione errata dell’articolo 15, comma 5, del contratto
nazionale del 01.04.1999 e, per i dirigenti,
dell’articolo 26, comma 3, del contratto nazionale del 23.12.1999 (cioè delle integrazioni al fondo per
l’aumento del personale e/o per l’attivazione di nuovi
servizi); utilizzazione errata dell’articolo 15, comma 2,
del contratto nazionale del 01.04.1999 (che consentono
l’aumento del fondo fino allo 1,2% del monte salari 1997);
uso illegittimo delle norme che consentivano alle
amministrazioni virtuose di inserire risorse nel fondo;
calcolo errato del monte salari; mancata decurtazione del
trattamento economico accessorio in godimento da parte del
personale Ata; mancata decurtazione per il finanziamento del
reinquadramento dei vigili e dei dipendenti delle vecchi
prima e seconda qualifica.
Tra gli errori si deve segnalare
anche quello del mancato finanziamento del differenziale
delle progressioni, cioè degli aumenti disposti dai
contratti nazionali sulle singole posizioni, un errore che
priva il fondo di risorse che legittimamente andavano
inserite (articolo Il Sole 24 Ore del 09.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ecoreati, si valuta la condotta.
La Corte sugli illeciti ambientali: sulla bilancia
ravvedimento e intensità della colpa.
In materia di reati ambientali il ravvedimento
dell'imputato, così come la regolarità della sua pregressa
condotta e l'applicabilità al fatto commesso del minimo
edittale previsto, possono far scattare, sussistendo gli
altri requisiti di legge, l'«esclusione della punibilità per
la particolare tenuità del fatto» prevista dal nuovo
articolo 131-bis del codice penale.
Arrivano con la produzione giurisprudenziale della Corte di
cassazione dell'ultimo semestre i primi orientamenti
operativi sul nuovo istituto introdotto dal dlgs 28/2015 ed
in vigore dallo scorso 02.04. 2015.
Chiamata (in virtù del
principio del favor rei) a pronunciarsi sull'applicabilità
della nuova disciplina a diversi procedimenti in corso il
giudice di legittimità indica però anche gli elementi
ostativi al riconoscimento della «non punibilità», come la
commissione di reati della stessa indole e il profilo di
rilevanza dell'elemento psicologico del reato.
L'istituto.
Il meccanismo di non punibilità previsto
dall'articolo 131-bis, del codice penale è applicabile
concorrendo due condizioni, ossia:
- il reato è sanzionato con pena detentiva non superiore nel
massimo a cinque anni ovvero con pena pecuniaria, sola o
congiunta alla prima (dunque, sempre dentro il predetto
periodo temporale);
- sussistano congiuntamente i requisiti (da valutare ex
articolo 133, c.p.) della «particolare tenuità dell'offesa»
e della «non abitualità della condotta»; tali requisiti sono
poi dall'articolo 131-bis ulteriormente ristretti, laddove
la «particolare tenuità» deve considerarsi esclusa per gli
illeciti commessi con crudeltà, sevizie, commessi per motivi
abietti o futili, approfittando della minorata difesa della
vittima, o da cui siano derivate la morte o la lesione
gravissima di persone, e la «non abitualità» non
sussistente, invece, in presenza di autore dichiarato
delinquente abituale, professionale o per tendenza, in caso
di recidiva o di commissione di reati che abbiano ad oggetto
condotte plurime, abituali e reiterate.
Il requisito della «particolare tenuità dell'offesa».
Con
sentenza 19.10.2015 n. 41850 la Cassazione ha ritenuto
soddisfatto il requisito anche per l'aver il giudice di
merito applicato il minimo edittale previsto per il reato.
La fattispecie posta all'esame della Suprema corte verteva
sulla cessione a titolo gratuito da parte del titolare di
una autofficina di rifiuti pericolosi costituiti da
materiali ferrosi (tra cui parti di motore e marmitte di
veicoli fuori uso) a soggetto non autorizzato.
In linea con tale pronuncia, la precedente sentenza 08.06.2015 n. 24358 della stessa Corte ha invece rilevato non
sussistente lo stesso requisito poiché nel giudizio di
merito il fatto, sebbene ritenuto «modesto» con conseguente
applicazione delle sola pena pecuniaria (prevista in
alternativa a quella detentiva), era stato comunque punito
con un ammontare superiore al minimo edittale (dunque,
valutandolo di un certo rilievo).
La fattispecie verteva in questo caso sull'attività di
recupero di rifiuti svolta in violazione delle prescrizioni
dell'Ente competente, che imponevano sia il preventivo
controllo dei residui gestiti che la realizzazione di opere
infrastrutturali preliminari all'avvio delle attività.
È utile ricordare (benché relativa alla violazione di norme
sulla sicurezza sul lavoro) che con sentenza 27.05.2015
n. 22381 il giudice di legittimità ha altresì ritenuto non
sussistente il requisito in parola per l'esser l'elemento
psicologico del reato, sebbene coincidente con colpa non
gravissima (espressamente esclusa ex 131-bis dalla non
punibilità), comunque di obiettiva rilevanza, ostando dunque
alla configurabilità della particolare tenuità.
La fattispecie verteva sull'omessa fornitura da parte del
datore di lavoro dei necessari dispositivi di protezione
individuale al lavoratore rimasto poi infortunato durante lo
svolgimento della propria attività.
Condannato ex articolo 590 c.p., al datore di lavoro non è
stata riconosciuta l'applicazione del 131-bis c.p. essendo
le lesioni occorse al lavoratore a causa di colpa comunque
«grave» (punite altresì nel giudizio di merito, sebbene
tramite la sola pena pecuniaria, con il massimo edittale
della sanzione prevista).
La «non abitualità della condotta».
Con la stessa e citata
sentenza 41850/2015 in tema di gestione illecita di rifiuti,
la Cassazione ha ritenuto integrato il criterio sussistendo
favorevoli elementi (rilevati nel giudizio di merito) quali
la concessione delle attenuanti generiche, lo stato di incensuratezza del reo, la regolarità della sua pregressa
condotta individuale e sociale, l'essersi lo stesso soggetto
successivamente alla contestazione attivato per allineare la
propria condotta a quella di legge (avviando a corretto
smaltimento i residui intercettati e restituitigli dalle
forze dell'ordine).
Con precedente sentenza 30.06.2015 n. 27135 la
Cassazione ha invece ritenuto non integrato il requisito in
parola nel caso di condanna per due distinti reati della
«stessa indole» (ossia, a mente dell'articolo 101 del codice
penale, accomunati dai fatti che li costituiscono o motivi
che li determinano).
Ciò in relazione ad attività (poste in essere, secondo il
giudice del merito, anche con elevata rimproverabilità sotto
il profilo dell'elemento psicologico) di gestione senza
autorizzazione di rifiuti pericolosi (con concentrazioni di
arsenico superiori al consentito) e di miscelazione degli
stessi con altri rifiuti pericolosi e non pericolosi.
In particolare, erano stati rinvenuti nel sito (sprovvisto
di autorizzazione al trattamento) rifiuti in vetro artistico
e proveniente fa tubi catodici, accumulati insieme senza
alcuna precauzione per evitarne il mescolamento
(risultandone un depositato incontrollato) al fine di
avviarli successivamente a fonderie per creazione di materia
prima secondaria.
In tema è utile ricordare (sebbene non vertente in materia
ambientale) che con sentenza 13.07.2015 n. 29897 la
Cassazione ha altresì escluso la soddisfazione del requisito
in caso di reati uniti dal vincolo della «continuazione»
(ossia posti in essere con più azioni od omissioni parte di
un medesimo disegno criminoso, puniti con minor severità
dall'Ordinamento rispetto all'ordinario concorso materiale
di reati).
L'applicabilità ai reati ambientali.
Dal nuovo istituto
della «non punibilità per la particolare tenuità» ex
articolo 131-bis del codice penale restano ex lege esclusi,
poiché fuori dalla stretta cornice edittale delle sanzioni
più sopra precisata, i delitti di combustione illecita di
rifiuti pericolosi e di attività organizzata per il traffico
illecito dei rifiuti ex articoli 256-bis e 260 del dlgs
152/2006, così come i nuovi delitti dolosi di «inquinamento
ambientale» doloso «disastro ambientale», traffico o
abbandono materiale ad alta radioattività previsti dagli
articoli 452-bis e seguenti del codice penale.
Tecnicamente rientranti nel range sanzionatorio previsto
dall'istituto appaiono invece essere sia gli altri nuovi e
«minori» delitti ambientali ex codice penale, come
l'impedimento di controlli ambientali e l'omessa bonifica,
che le più generali fattispecie di «getto pericoloso di
cose» e «danneggiamento» dello stesso Testo.
Così come
appaiono astrattamente non punibili ex nuovo articolo
131-bis del codice penale gli altri reati ex codice
ambientale in materia di Aia, Via, tutela di suolo, acque e
aria, gestione illecita di rifiuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.11.2015). |
APPALTI: Appalti, stop a nuove gare Asmel.
Consiglio di Stato. La sospensiva della delibera Anac vale
solo per i vecchi procedimenti, in attesa della pronuncia
del Tar Lazio.
Appalti in
corso salvi, ma niente più gare per conto dei Comuni, fino
alla nuova pronuncia del Tar Lazio.
Dal Consiglio di Stato
arriva una rassicurazione insieme a una nuova tegola per l’Asmel,
rete cui aderiscono 2.017 enti locali, che offre anche
servizi di centrale appalti attraverso la piattaforma
Asmecomm.
Il ruolo di Asmel come centrale di committenza è al centro
di un braccio di ferro con l'autorità Anticorruzione guidata
da Raffaele Cantone che ha rifiutato la richiesta del
consorzio di far parte dei 35 soggetti aggregatori,
incaricati tra l’altro di raccogliere gli appalti dei comuni
non capoluogo (lavori, beni e servizi ai sensi dell'articolo
33, comma 3-bis, del codice appalti).
Il provvedimento di Cantone (delibera n. 32 del 30.04.2015) ha bocciato l’operato della società dichiarando «prive
del presupposto di legittimazione» tutte le gare promosse
per conto degli enti locali. Una decisione che mette a
rischio la validità delle oltre mille gare gestite da Asmel
per conto degli 882 comuni aderenti alla centrale di
committenza Asmecomm. Per questo la delibera è stata subito
impugnata da Asmel.
In prima battuta il Tar Lazio ha dato ragione all'Anac.
Mentre il Consiglio di Stato a settembre ha riaperto la
partita, sospendendo l’efficacia della bocciatura di Cantone
e chiedendo al Tar Lazio di pronunciarsi di nuovo nel merito
della questione, una volta scaduta la proroga che ha
congelato l'obbligo di servirsi delle centrali di appalto
per i Comuni non capoluogo (termine scaduto il 1° novembre).
Agli occhi dell’Anac la sentenza di Palazzo Spada lasciava
dei dubbi sull’ambito di applicazione della sospensiva del
provvedimento dell’Autorità che dichiara le gare
illegittime: è da considerare valida solo per le procedure
in corso o anche per le eventuali nuove gare? Di qui la
richiesta di chiarire nel dettaglio i termini della sentenza
(«ricorso per ottemperanza»).
La risposta è arrivata con l’ordinanza
04.11.2015 n. 5042 con
cui Palazzo Spada -Sez. VI- chiarisce che «la sospensione
dell’efficacia del provvedimento impugnato dell'Autorità ha
avuto ad oggetto esclusivamente la sua incidenza sulle
procedure di gara in corso e non anche sulla futura attività
amministrativa di Asmel, che rimane regolata dal suddetto
provvedimento nelle more della decisione nel merito della
controversia».
Un dispositivo che salva le vecchie gare del consorzio, ma
allo stesso tempo, blocca la possibilità di gestire nuove
procedure per conto dei Comuni fino alla nuova pronuncia del
Tar Lazio, fissata per il 2 dicembre. Dunque alt alle nuove
gare, come chiedeva Cantone. Uno stop accolto senza drammi
da Asmel che teneva innanzitutto al salvataggio delle gare
svolte finora e dunque «accoglie con grande soddisfazione
l’ordinanza del Consiglio di Stato e attende fiduciosa la
decisione nel merito da parte del Tar» (articolo Il Sole 24 Ore del
06.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamento degli assenteisti. È possibile
solamente se si cambia lo status dei dirigenti. Nella
pubblica amministrazione. La riforma Brunetta del 2009 lo
permette ma è inapplicata.
Sulla necessità di licenziare i dipendenti pubblici che
falsificano la timbratura dei cartellini affermata dal
ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, non si può
che concordare. Si tratta di una violazione gravissima dei
doveri d'ufficio, tanto più intollerabile perché posta in
essere da servitori dello Stato.
Appare, tuttavia, altrettanto indubbio che il medesimo
titolare di Palazzo Vidoni, con buona parte del Governo,
nell'affermare l'ovvia necessità di punire i dipendenti
pubblici imbroglioni stia soprattutto tentando di intestarsi
una campagna già vista e perseguita molto a fondo anni
addietro da Renato Brunetta.
Il messaggio che sta riempiendo i media da quando sono
emersi i fatti del comune di Sanremo, è che occorre
attendere l'attuazione della legge delega di riforma della
Pa, la legge 124/2015, per poter riuscire in modo celere ad
attivare procedimenti che consentano di licenziare i
dipendenti infedeli. In effetti, la legge delega contiene
l'indicazione al legislatore delegato di semplificare e
velocizzare i procedimenti disciplinari. Filtra dalle
indiscrezioni di stampa che sarebbe intenzione del Governo
prevedere una durata massima di 100 giorni per giungere
anche al licenziamento, nei casi previsti.
Quello che molti media non aggiungono è che già oggi e da
ormai il 2009, da quando è entrata in vigore la
riforma-Brunetta, nella Pa è possibile e doveroso licenziare
per un elenco molto fitto di comportamenti giudicati
infedeli, tra i quali è espressamente contemplato proprio
l'alterazione della presenza in servizio. Non solo: il
procedimento disciplinare, sempre per effetto della
riforma-Brunetta, può e deve essere portato avanti
indipendentemente dalla pendenza del processo penale e la
sua durata massima, nel caso del licenziamento, è di 120
giorni.
Senz'altro 100 giorni sono meno di 120, ma affermare che
oggi non sia possibile licenziare perché mancano le norme
che consentano alle amministrazioni di allontanare dal
servizio i dipendenti che non rispettino le regole minime
imposte a qualsiasi lavoratore, appare oggettivamente una
forzatura.
Ben venga se l'attuazione della legge delega per la riforma
della Pa sarà capace di rendere ancor più lineare il
percorso da seguire. I problemi, tuttavia, ai fini
dell'applicazione delle regole che già esistono o che
esisteranno sono legati al noto fattore della responsabilità
erariale. Laddove, infatti, un lavoratore licenziato
ottenesse dal giudice del lavoro l'annullamento del
licenziamento e il reintegro nel posto di lavoro, con
condanna al risarcimento degli stipendi arretrati e della
rivalutazione, il pagamento di queste somme sarebbe
considerato come danno erariale, da recuperare a carico
dell'autore del licenziamento.
Piuttosto che pensare solo alla continua modifica delle
regole di disciplina del procedimento disciplinare, sarebbe
invece necessario cercare di allineare davvero la figura del
dirigente al datore di lavoro privato. Il quale non sopporta
certo il rischio di una condanna da parte della Corte dei
conti.
Si dovrebbe aprire, quindi, un ragionamento serio
sull'applicabilità del Jobs Act, cioè delle regole
privatistiche del lavoro, anche al pubblico impiego, con
specifico riferimento alla riforma dell'articolo 18.
Ma, anche in questo caso si assiste a un paradosso. Il testo
unico del pubblico impiego, il d.lgs. 165/2001, all'articolo
51, comma 2, prevede espressamente che al lavoro pubblico si
estendano le norme dello Statuto dei lavoratori e ogni loro
modifica e integrazione. È il Governo, sin dai tempi della
riforma-Fornero, a considerare che l'articolo 18 dello
Statuto, più volte riformato dal 2012, non sia applicabile
alla Pa, nonostante la chiarissima e contraria previsione
legislativa.
Se non si risolvono, allora, i nodi della responsabilità
erariale e della definitiva e chiara armonizzazione della
disciplina del lavoro pubblico rispetto a quella privata,
resteranno comunque zone d'ombra che non faciliteranno
l'applicazione delle semplici regole di fedeltà imposte dal
contratto di lavoro subordinato, ma non per assenza di
procedure disciplinari, bensì per confusione del quadro
normativo nel suo complesso
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2015). |
VARI:
Decurtazione dei punti al Gdp.
Codice strada.
Tutti i provvedimenti sanzionatori previsti dal codice
stradale sono di competenza del giudice di pace. Anche la
decurtazione di punteggio e la conseguente revisione della
licenza per azzeramento del credito disponibile. Resta di
competenza del tribunale amministrativo solo la revisione
della patente disposta per motivi tecnici in caso di dubbi
sulle capacità del conducente.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
nota 28.10.2015 n. 24867 di prot..
La revisione della patente per esaurimento punti è un
provvedimento vincolato che viene adottato dalla
motorizzazione all'esito delle vicende sanzionatorie
stradali. A parere dei giudici del palazzaccio (che si sono
espressi a Sezioni unite con le ordinanze nn. 15689 e
15690/2015) la competenza in caso di ricorso contro questa
determinazione burocratica resta in capo al giudice
ordinario.
A differenza della revisione per evidenti dubbi
sulla permanenza dei requisiti tecnici o fisici prevista e
regolata dall'art. 128 del codice, infatti, la misura
sanzionatoria prevista dall'art. 126-bis cds è un atto
dovuto. Per ribadire le conseguenze di queste importanti
decisioni dei giudici del palazzaccio il ministero ha quindi
diramato istruzioni ad hoc agli uffici.
La mancata
conoscenza della decurtazione di punteggio viene spesso
utilizzata nei ricorsi dai destinatari dei provvedimenti,
specifica il ministero. Non è pertanto sufficiente produrre
in giudizio solo la stampa dell'estratto del ced per
dimostrare la decurtazione consapevole. Occorre allegare una
copia dei verbali muniti di regolare relata di notifica,
specifica la circolare.
Non basta neppure affermare che la decurtazione discende
dalla multa. Anche la contestazione circa il tardivo
inserimento delle decurtazioni da parte della polizia,
prosegue la nota, «viene meno a fronte della
dimostrazione della conoscenza della decurtazione tramite la
produzione in giudizio del verbale notificato».
Spetta dunque agli uffici della motorizzazione acquisire
copia delle multe presso gli organi di polizia stradale in
caso di ricorso con una provvedimento di revisione della
patente di guida per azzeramento dei bonus disponibili
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2015). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Utility, paletti al lavoro flessibile. P.a. senza
staff leasing. Precari per esigenze eccezionali.
Le società che gestiscono servizi locali sono
soggette ai limiti previsti per la controllante.
Con la recente riforma del lavoro è stata riscritta la
maggior parte delle norme che disciplinano le diverse
tipologie contrattuali, fra cui desta un certo interesse per
le società pubbliche quella relativa alla somministrazione
di lavoro. Le società che gestiscono servizi pubblici locali
a rilevanza economica sono infatti spesso soggette a picchi
stagionali di lavoro che rendono tale forma contrattuale
particolarmente utile. Basti pensare, per esempio, al
servizio di raccolta dei rifiuti svolto in territori a forte
vocazione turistica, in cui nel periodo estivo i rifiuti
urbani crescono esponenzialmente, obbligando i gestori del
servizio a dotarsi di maggiore forza lavoro.
Il contratto di somministrazione è attualmente disciplinato
dall'art. 30 del dlgs 81/2015, che lo definisce come il
contratto, a tempo determinato o indeterminato, con il quale
un'agenzia di somministrazione autorizzata mette a
disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi
dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione,
svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la
direzione e il controllo dell'utilizzatore.
Il dlgs 81/2015
ha confermato che si può ricorrere alla somministrazione di
lavoro a tempo determinato a prescindere dall'esistenza o
meno di una concreta esigenza di carattere transitorio in
capo all'utilizzatore (la cosiddetta «acausalità») e ha
esteso tale possibilità anche al contratto di
somministrazione a tempo indeterminato (il cosiddetto «staff
leasing»).
Inoltre, l'utilizzo della somministrazione a
tempo determinato incontra solo i limiti eventualmente
previsti dalla contrattazione collettiva, anche di secondo
livello, mentre si può ricorrere alla somministrazione a
tempo indeterminato solo nel limite del 20% del numero dei
lavoratori a tempo indeterminato in forza presso
l'utilizzatore al 1° gennaio dell'anno di stipula del
contratto. La contrattazione collettiva, anche decentrata,
può comunque prevedere limiti diversi.
L'utilizzo della somministrazione da parte delle società
pubbliche merita tuttavia qualche riflessione: infatti, in
base al vigente art. 18, comma 2-bis, del dl 112/2008, le
aziende speciali, le istituzioni e le società a
partecipazione pubblica locale totale o di controllo devono
rispettare il principio di riduzione dei costi del
personale, attraverso il contenimento degli oneri
contrattuali e delle assunzioni di personale.
Per garantire
ciò, l'amministrazione pubblica controllante è tenuta a
definire, con proprio atto d'indirizzo, i criteri e le
modalità con cui ogni organismo partecipato può raggiungere
tale obiettivo, tenuto conto del settore in cui ciascun
soggetto opera. Nel definire tali indirizzi
l'amministrazione pubblica controllante deve però tenere
conto «delle disposizioni che stabiliscono a suo carico
divieti o limitazioni alle assunzioni di personale»,
previsione che ci porta ragionevolmente a ritenere che sia
oggetto d'indirizzo anche il ricorso o meno alla
somministrazione di lavoro.
Infatti, come sostenuto anche
dalla Corte dei conti - sez. regionale di controllo per la
Puglia (delib. n. 1/2015), la previsione di cui al comma
2-bis dell'art. 18 è finalizzata al contenimento della spesa
pubblica per il personale e, pertanto, assumendo un
carattere generale, non può che ricomprendere tutte le forme
contrattuali riconducibili a tale tipologia di spesa.
È quindi necessario che l'amministrazione pubblica
controllante, in sede di formulazione degli indirizzi agli
organismi partecipati (attività che nella prassi può
avvenire anche attraverso l'approvazione di documenti di
programmazione nei quali sia esplicitata la politica del
personale che la società intende adottare nell'anno o nel
triennio successivo), tenga conto dei limiti previsti per la
p.a. al ricorso alle forme di lavoro flessibile, fra cui
possiamo ricordare:
1) l'impossibilità di ricorrere alla somministrazione a
tempo indeterminato (il cosiddetto «staff leasing»), in
quanto l'art. 31, comma 4, del dlgs 81/2015 impedisce alla
pubblica amministrazione tale possibilità;
2) il limite previsto all'art. 36, comma 2, del dlgs 165/2001,
secondo il quale le pubbliche amministrazioni possono
avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione
e di impiego del personale solo per rispondere a «esigenze
di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale»;
occorrerà quindi valutare caso per caso se sussistono tali
presupposti;
3) l'impossibilità di ricorrere alla somministrazione di
lavoro per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali;
4) il vincolo previsto all'art. 9, comma 28, del dl 78/2010
che prevede che, a decorrere dal 2011, gli enti locali
devono conformarsi alla previsione secondo cui il ricorso al
personale a tempo determinato o in convenzione o con
contratto di collaborazione coordinata e continuativa, è
consentito entro il limite del 50% della spesa sostenuta per
le stesse finalità nel 2009, salvo che l'ente non sia in
regola con l'obbligo di progressiva riduzione della spesa
del personale (art. 11, comma 4-bis, dl 90/2014).
Tale
vincolo, fra l'altro, viene esteso dal successivo comma 29
anche alle società non quotate inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione elaborato
annualmente dall'Istat, che siano controllate direttamente o
indirettamente dalle amministrazioni pubbliche. Circa il
perimetro di applicazione di quest'ultima previsione,
secondo alcune sezioni di controllo della Corte dei conti
non può essere data un'interpretazione esclusivamente
letterale alla norma, finendo così per ricomprendere nel suo
ambito soggettivo di applicazione tutte le società
pubbliche, ancorché non indicate nominativamente nell'elenco
Istat degli enti inseriti nel conto economico consolidato;
5) i vincoli tuttora esistenti per le autonomie regionali e
locali in materia di riduzione della spesa per il personale
e di contenimento della dinamica retributiva e occupazionale
(art. 1, comma 557, della legge 296/2006).
Una volta ricevuto l'atto d'indirizzo, la società pubblica
avrà cura di selezionare l'agenzia di somministrazione con
procedura a evidenza pubblica e di fare in modo che questa
selezioni il personale somministrato rispettando i princìpi
sanciti dai commi 1 e 2 del dl 112/2008 (articolo ItaliaOggi del 06.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il collegato ambientale passa in Senato.
Ambiente. Via libera al testo, che ora dovrà ritornare alla
Camera.
Dopo il via
libera di ieri da parte del Senato, il cosiddetto “Collegato
ambientale” (Atto
Senato n. 1676) approderà ora nuovamente alla Camera.
Il Ddl si compone di 79 articoli, è suddiviso in 11 capi e
si occupa di molti settori ambientali, fra cui: acque (sversamenti
di idrocarburi in mare, contratti di fiume); appalti e
acquisti verdi della Pa (spinta dell’obbligo del Gpp – Green
public procurement); contabilità ambientale (istituzione del
Comitato per il capitale naturale); danno ambientale e
bonifiche (ripristino ambientale nei siti di interesse
nazionale – Sin); energia (impianti ibridi alimentati da
rifiuti, impianti termici); imballaggi (shopper
biodegradabile intesi come ammendanti e modifiche della
gestione degli imballaggi nel “Codice ambientale”); rifiuti
(registri di carico e scarico per i piccoli produttori,
imprenditori agricoli e formulario, obiettivi di raccolta
differenziata, compostaggio aerobico).
Tra le numerose disposizioni alcune appaiono particolarmente
interessanti. In particolare:
-
in caso di incidenti in mare con sversamento di idrocarburi,
il proprietario del carico deve munirsi di apposita
assicurazione a copertura integrale dei rischi anche
potenziali;
-
è prevista la possibilità di istituire parchi marini o
riserve marine in Banchi Graham, Terribile, Pantelleria e
Avventura nel canale di Sicilia;
-
diventa obbligatorio il Gpp per gli “acquisti verdi” della
Pa per alcuni settori, mentre per altri l'obbligo si limita
al 50% delle forniture. La norma interviene anche sul
“Codice appalti” (Dlgs 163/2006);
-
per le bonifiche dei Sin, si aggiunge l’articolo 306bis al
Dlgs 152/2006, che reca nuove regole per la determinazione
delle misure per il risarcimento del danno ambientale e il
ripristino ambientale dei Sin con l’introduzione di una
proposta transattiva che il ministero dell’Ambiente
valuterà;
-
si introduce un credito d’imposta (50% delle spese
sostenute) per i titolari di reddito d’impresa che nel 2016
daranno luogo a bonifiche di amianto su beni e strutture
produttive in Italia con investimenti non inferiori a 20mila
euro;
-
in materia di dragaggio nei siti di bonifica la norma
precisa che tutte le casse, vasche e strutture in cui i
materiali possono essere refluiti vanno realizzate con
l’applicazione delle migliori tecniche disponibili (Mtd) e
in linea con i criteri di progettazione formulati da
accreditati standards tecnici internazionali;
-
l’Ispra dovrà approvare i criteri tecnici che consentano il
collocamento dei rifiuti in discarica senza preventivo
trattamento “discariche”;
-
è abrogato il divieto previsto dal Dlgs 36/2003 di conferire
in discarica rifiuti con Pci (potere calorifico inferiore)
superiore a 13mila kJ/kg, previsto sin dal 01.01.2007
ma sempre prorogato;
-
le miscelazioni di rifiuti non vietate ai sensi
dell’articolo 187 del “Codice ambientale” non devono essere
autorizzate e, anche se effettuate da soggetti autorizzati
ai sensi degli articoli 208, 209 e 211 «non possono essere
sottoposte a prescrizioni o limitazioni diverse od ulteriori
rispetto a quelle previste per legge» (articolo
Il Sole 24 Ore del 05.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Terra e rocce di scavo, pronto il Dpr.
Semplificazioni. Verso il Consiglio dei ministri.
La gestione
delle terre e rocce di scavo si avvia a profondi cambiamenti
e inaugura il percorso della consultazione pubblica per
l’approdo della legislazione tecnica in materia ambientale.
Già nel Consiglio dei ministri di domani potrebbero,
infatti, essere vagliati i 31 articoli e gli 8 allegati che
compongono lo
schema di Dpr, i quali dopo il via libera
governativo dovranno essere sottoposti alla consultazione
pubblica di 30 giorni prevista nell’articolo 8, comma 1-bis,
del Dl 133/2014 (legge 164/2014).
Nei successivi 30 giorni il Minambiente pubblicherà
eventuali controdeduzioni alle osservazioni pervenute. Lo
schema si avvia a ridisegnare la disciplina in materia di
terre e rocce di scavo ed è stato predisposto sulla base
della delega conferita dal Parlamento al Governo dal citato
articolo 8.
Nella relazione illustrativa si legge che il Dpr «si propone
di semplificare l’intera disciplina vigente in materia di
terre e rocce da scavo, riducendola ad un unico testo,
integrato, autosufficiente e internamente coerente».
Lo schema si presenta però come un provvedimento ricco di
ombre e con alcune luci. Fra le ombre si pone l’articolo 1
che amplia surrettiziamente il campo di applicazione della
disciplina sui rifiuti. Infatti, il riutilizzo nello stesso
sito di terre e rocce come previsto dalla normativa Ue e
dall’articolo 185, comma 1, lett. c), del Dlgs 152/2006,
configura l’ipotesi di materiali esclusi totalmente
dall’ambito dei rifiuti, indipendentemente dalla loro natura
e provenienza.
Ora lo schema, se provenienti da piccoli
cantieri li conduce tra i sottoprodotti; pertanto, dovranno
seguirne le prescrizioni; il che, invece, non è richiesto né
dal “Codice ambientale” né dalle norme Ue.
Inoltre, il testo evidenzia problematiche che in parte
ripropongono gli affanni pregressi e ne aggiungono altri. Si
pensa immediatamente ai materiali di riporto che ora sono
ridefiniti, ma senza alcuna citazione dell’articolo 3, del
Dl 2/2012 (norma di rango superiore al Dpr) che finora li ha
identificati.
Inoltre, il testo reintroduce il limite
massimo “del 20% in massa” dei materiali di origine
antropica: si tratta di un criterio di calcolo che non è
realizzabile, soprattutto se riferito ad uno scavo in banco
che ha caratteristiche di eterogeneità, dovute proprio alla
natura del suolo. L'articolo 21 non semplifica, inoltre, la
normativa attuale, ma la complica, poiché le comunicazioni
diventano dichiarazioni sostitutive di atto notorio; i
termini per la presentazione di modifiche al piano di
utilizzo sono ridotti da 30 a 15 giorni.
Tra le note positive, si segnala l'eliminazione dell’obbligo
di comunicazione preventiva all'autorità per ogni trasporto
di terre e rocce qualificate sottoprodotti (allegato VI, Dm
161/2012). Per le terre e rocce da scavo generate nei
cantieri di grandi dimensioni e qualificate sottoprodotti è
previsto che il proponente, dopo 90 giorni dalla
presentazione del piano di utilizzo possa gestirle nel
rispetto del piano purché rispetti alcuni requisiti
(articolo 9).
Si elimina così la preventiva approvazione del
piano modificato. Ora inizieranno a decorrere i termini (30
giorni per l'invio di comunicazione e di lì, i 30 giorni per
le eventuali controdeduzioni ministeriali alle osservazioni
pervenute (articolo Il Sole 24 Ore del
05.11.2015). |
APPALTI: Asmel, bocciate solo le gare in corso.
Consiglio di Stato.
La sospensione
della delibera Anac 32/2015 riguarda solo le gare in corso e
non anche quelle nuove bandite dall’Asmel.
Lo afferma il
Consiglio di Stato -Sez. VI- con l’ordinanza
04.11.2015 n. 5042
nella vicenda che ha coinvolto la società consortile Asmel,
nata per aggregare gli appalti dei Comuni, da mesi al centro
di una intricata controversia sulla sua legittimità.
Sono
882 i Comuni aderenti alla centrale di committenza, che ha
sviluppato un fatturato per quasi un miliardo di euro
(secondo la società). La vicenda nasce nel 2013 da numerosi
esposti.
Ad aprile scorso l’Anac (delibera 32/2015) boccia in pieno
il “sistema Asmel”: non ha i requisiti per essere un
soggetto aggregatore e quindi non può bandire le gare. A
giugno il Tar Lazio, con l’ordinanza 2544/2015, conferma il
provvedimento dell’Anac ma a settembre il Consiglio di Stato
inverte la rotta sospendendo l’efficacia della delibera Anac.
L’Autorità chiede ai giudici di chiarire l’ambito di
validità dell’ordinanza 4016 del 09.09.2015. Il
Consiglio ha precisato «l’incidenza sulle procedure di gara
in corso e non anche sulla futura attività amministrativa di Asmel, che rimane regolata dal suddetto provvedimento nelle
more della decisione nel merito».
Il Tar Lazio ha fissato
l’udienza di merito al 2 dicembre. La società consortile ha
escluso che nella compagine possano entrare soggetti privati (articolo Il Sole 24 Ore del
05.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI:
Fino a 150 euro di multa a chi getta in terra i
mozziconi. Via libera dal senato al
collegato ambientale che adesso passa alla camera in terza
lettura.
Proibito (e punito con multe da 30 a 150 euro) gettare in
strada «chewing gum», fazzolettini, mozziconi di sigaretta e
altri rifiuti di ridotte dimensioni: il nuovo divieto arriva
con il via libera, ieri al senato, a un disegno di legge, il
collegato ambientale (Atto
Senato n. 1676).
Il testo, che è passato all'esame dei deputati, contiene una
serie di novità che vanno dalla mobilità alla cosiddetta
«green economy», e apre anche alla possibilità che un
incidente occorso a un lavoratore in bicicletta possa essere
ritenuto «infortunio in itinere», con conseguente chance di
ottenere un risarcimento da parte dell'Inail; il via libera
è arrivato con 156 voti favorevoli, 85 contrari e 14
astenuti.
La seconda lettura a palazzo Madama del
provvedimento, che era nato sotto il governo di Enrico Letta
come collegato alla manovra economica, ha impresso alcune
virate particolarmente significative; fra le norme (alcune
di grande impatto sociale) introdotte, quella che impone il
divieto di tagliare l'acqua agli utenti morosi e di
effettuare il pignoramento degli animali domestici.
Ampio (e variegato) il capitolo del ddl relativo ai rifiuti,
nel quale spicca l'introduzione in via sperimentale (per un
anno, e su base volontaria del singolo esercente) del
sistema del «vuoto a rendere» su cauzione per gli imballaggi
contenenti birra, o acqua minerale serviti al pubblico da
alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e
altri punti di consumo; l'opportunità di riutilizzo verrà
disciplinata attraverso un decreto del ministro
dell'ambiente «entro 90 giorni dalla data di entrata in
vigore» del testo, in cui non soltanto verranno fissate le
modalità dell'iniziativa, ma saranno anche messe nero su
bianco delle forme di incentivazione per indurre il maggior
numero possibile di negozianti a aderirvi.
Al termine della
fase sperimentale si valuterà, sulla base degli esiti dello
speciale test e sentite le categorie interessate, se
confermare e se estendere il sistema del «vuoto a rendere»
ad altri tipi di prodotto, nonché ad altre tipologie di
consumo.
Come già sottolineato, il testo sancisce pure la nascita
dell'altolà all'abbandono di materiali di piccole dimensioni
«sul suolo, nelle acque, nelle caditoie e negli scarichi»:
se, però, per uno scontrino accartocciato e buttato
sull'asfalto il legislatore ha individuato pene che vanno da
30 a 150 euro di multa per i responsabili di simili gesti, i
fumatori che lasceranno in giro le «cicche» di sigaretta
rischieranno sanzioni «aumentate del doppio» rispetto a
quelle cifre.
La norma, inoltre, stabilisce che il 50% delle
risorse frutto del pagamento delle multe venga utilizzato
per «apposite campagne di informazione da parte degli stessi
comuni, volte a sensibilizzare i consumatori sulle
conseguenze nocive per l'ambiente derivanti dall'abbandono
dei mozziconi dei prodotti da fumo», ma parte dei fondi sarà
destinata alla «pulizia del sistema fognario urbano»,
laddove spesso finiscono tali piccoli rifiuti.
Con l'intenzione di dare una spinta «green»
all'economia e alla società, come spiegato dal ministro
dell'ambiente Gianluca Galletti, il collegato «interviene
con determinazione nel contrasto al dissesto idrogeologico
col fondo per la progettazione, e con oltre 10 milioni di
euro ai comuni che vogliono abbattere edifici abusivi in
zone a rischio».
Inoltre, una dotazione di 35 milioni andrà alla mobilità
sostenibile, mentre si affronta «il tema degli appalti
verdi, con i criteri ambientali minimi cui le pubbliche
amministrazioni devono attenersi per gli acquisti» di beni e
servizi
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stessa modulistica in tutti i Suap. Semplificato
l'avvio attività, tutor per imprese e servizi. Dal ministero dello sviluppo economico la riforma
degli sportelli unici per le attività produttive.
Modulistica Suap unica e semplificata a livello nazionale
per l'avvio di attività produttive e delle specifiche
tecniche per l'interoperabilità dei sistemi. Adeguamento,
dove necessario, della modulistica unificata alle
specificità regionali e alle tipologie di attività di
impresa. Predisposizione di linee guida condivise, allegate
alla modulistica, che agevolino le imprese nella
presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni al
Suap.
Questo è il perimetro in cui si muove la
riforma dello
sportello unico delle attività produttive a cui sta
lavorando il ministero dello Sviluppo economico di cui ItaliaOggi anticipa i contenuti. L'art. è attuativo
dell'articolo 24 del decreto legge n. 90 del 2014, che
prevede l'adozione previa intesa in conferenza unificata dei
moduli unici per la presentazione di istanze, segnalazioni e
altre dichiarazioni.
La standardizzazione e semplificazione
dei modelli utilizzati per l'avvio dell'attività d'impresa è
indispensabile per agevolare l'informatizzazione delle
procedure e la trasparenza nei confronti di cittadini e
imprese.
Punto d'accesso unico. Il Suap costituisce l'unico punto di
accesso per il richiedente in relazione ai procedimenti che
abbiano ad oggetto l'esercizio di attività produttive e di
prestazione di servizi, e quelli relativi alle azioni di
localizzazione, realizzazione, trasformazione,
ristrutturazione o riconversione, ampliamento o
trasferimento nonché cessazione o riattivazione delle
suddette attività.
Il Suap fornisce una risposta telematica
unica e tempestiva in luogo degli altri uffici comunali e di
tutte le pubbliche amministrazioni coinvolte nel
procedimento medesimo, ivi comprese quelle preposte alla
tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e
della pubblica incolumità. I comuni possono esercitare le
funzioni inerenti al Suap in forma singola o associata tra
loro, o in convenzione con le camere di commercio.
Esclusioni. Sono esclusi dall'ambito di applicazione del Suap gli impianti e le infrastrutture energetiche, le
attività connesse all'impiego di sorgenti di radiazioni
ionizzanti e di materie radioattive, gli impianti nucleari e
di smaltimento di rifiuti radioattivi, le attività di
prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, nonché
le infrastrutture strategiche e gli insediamenti produttivi.
Assistenza e tutoraggio alle imprese e ai prestatori di
servizi. L'assistenza alle imprese e ai prestatori di
servizi è fornita dal Suap, dall'agenzia per le imprese.
Essa consiste nella raccolta e diffusione, anche in via
telematica, delle informazioni concernenti l'insediamento e
lo svolgimento delle attività produttive, l'avvio e lo
svolgimento delle attività di servizi nel territorio
regionale, l'impiego delle procedure telematiche per la
presentazione delle istanze, le normative applicabili, gli
strumenti agevolativi e l'attività del Suap, nonché le
informazioni concernenti gli strumenti di agevolazione
contributiva e fiscale a favore dell'occupazione dei
lavoratori dipendenti e del lavoro autonomo, i requisiti
applicabili ai prestatori, in particolare quelli relativi
alle procedure e alle formalità da espletare per accedere
alle attività di servizi ed esercitarle, i dati necessari
per entrare direttamente in contatto con le autorità
competenti, compresi quelli delle autorità competenti in
materia di esercizio delle attività di servizi e i mezzi e
le condizioni di accesso alle banche dati e ai registri
pubblici relativi ai prestatori e ai servizi
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2015). |
GIURISPRUDENZA |
LAVORI PUBBLICI:
Sul procedimento sanzionatorio ai sensi dell'art.
40, co. 9-quater, del d.lgs. 163/2006.
E' illegittimo il procedimento sanzionatorio ai sensi
dell'art. 40, co. 9-quater, del d.lgs. 163/2006 e s.m.i. nei
confronti dell'operatore economico atteso che le verifiche
in ordine alla veridicità della documentazione spetta in
capo agli organismi di attestazione.
Gli eventuali errori in ordine alle modalità con le quali i
controlli vengono svolti, non possono ricadere in danno
degli operatori economici che hanno confidato nel diligente
operato dei soggetti responsabili: le società organismo di
attestazione e l'Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC).
La colpa "grave", quale elemento soggettivo
dell'illecito deve incentrarsi in concreto sul comportamento
specifico dell'agente.
L'art. 40, c. 9-quater, del d.lgs. n. 163/2006 chiarisce,
infatti, che l'ANAC deve svolgere un'indagine, nel
riscontrare dolo o colpa grave, che deve essere fondata
sulla rilevanza o gravità dei fatti oggetto della falsa
dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione.
Sono dunque i "fatti" specifici ad essere oggetto
dell'indagine non l'astratta configurabilità di un mancato
controllo, sia pure nell'ambito dei requisiti professionali
che connotano l'esercizio dell'impresa, sui dati delle
certificazioni in sé considerabili, altrimenti dovendosi
configurare sempre e comunque, in presenza di mancata
corrispondenza tra documentazione e certificazione,
un'ipotesi di gravità della colpa, con esclusione quindi di
ogni graduazione e di ogni approfondimento istruttorio
specifico che la norma su riportata non sembra prevedere,
lasciando invece un margine di discrezionalità all'Autorità
di settore che però deve essere reso esplicito sulla base
degli specifici fatti alla sua attenzione.
Sebbene in tema di qualificazione delle imprese valgano
comunque i principi generali di responsabilità e di
diligenza degli operatori economici deve comunque
ragionevolmente ritenersi che tali principi operino in
massimo grado soltanto in relazione ai fatti e alle
circostanze che siano nella diretta conoscenza e
disponibilità dell'impresa.
Al contrario, nelle ipotesi in cui tali fatti e circostanze
risultino solo indiretti e de relato, può certamente
considerarsi conforme ai canoni della diligenza in concreto
esigibile in capo all'operatore economico il fatto che
quest'ultimo abbia fatto affidamento sulla correttezza ed
attendibilità dell'operato di un soggetto particolarmente
qualificato come la SOA. Del resto, l'art. 70, c. 1, lett.
f), del d.P.R. 207/2010 impone alle SOA di "verificare la
veridicità e la sostanza delle dichiarazioni, delle
certificazioni e delle documentazioni, di cui agli articoli
78 e 79, presentate dai soggetti cui rilasciare l'attestato,
nonché il permanere del possesso dei requisiti di cui
all'articolo 78".
In altri termini laddove sussiste un'attestazione rilasciata
da un organismo specificamente preposto non può, in linea
generale e in assenza di specifici elementi sintomatici o di
allarme, pretendersi che l'azienda interessata svolga
un'ulteriore verifica della documentazione che ha consentito
il rilascio delle medesime attestazioni.
Pertanto, nel caso di specie, l'impresa ricorrente poteva
ben ritenere che i titoli specifici in base ai quali aveva
ottenuto le precedenti attestazioni fossero stati
correttamente valutati dal soggetto a ciò deputato, quale la
società di attestazione SOA (TAR Lazio-Roma, Sez. III,
sentenza 02.12.2015 n. 13653 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Tutte le imprese che partecipano alle gare di
appalto devono possedere, a pena di esclusione, i requisiti
generali soggettivi di affidabilità morale e professionale,
rendendo obbligatoriamente le pertinenti dichiarazioni.
In base all'ordinamento di settore (artt. 38 e 46 del d.lgs.
n. 163 del 2006, codice dei contratti pubblici nel testo
ratione temporis vigente), tutte le imprese che
partecipano alle gare di appalto, incluse quelle raggruppate
in a.t.i. o indicate quali ausiliarie in sede di avvalimento,
devono possedere, a pena di esclusione, i requisiti generali
soggettivi di affidabilità morale e professionale, rendendo
obbligatoriamente le pertinenti dichiarazioni.
La formulazione letterale del menzionato art. 46, co. 1-bis,
impone di applicare la sanzione dell'esclusione alla
violazione dell'art. 38, co. 2, cit., relativo alla
presentazione delle dichiarazioni attestanti l'assenza delle
relative condizioni ostative (quand'anche queste fossero in
concreto inesistenti) e giustifica l'applicazione della
sanzione espulsiva sia nelle ipotesi in cui la lex
specialis di gara la preveda come conseguenza della sola
assenza oggettiva dei requisiti di moralità (e non anche
della loro mancata attestazione), sia quando (come
verificatosi nel caso di specie) la stazione appaltante
determini in modo puntuale le modalità dell'obbligo
dichiarativo, scegliendo fra la dichiarazione "diretta"
di cui all'art. 47, c. 1, t.u. n. 445 del 2000 e quella "indiretta"
per conto terzi, prevista dal comma 2 del medesimo articolo.
In presenza di dichiarazioni richieste a pena di esclusione
e radicalmente mancanti, resta precluso all'amministrazione
l'esercizio del potere sul "soccorso istruttorio"
(che si risolverebbe in una lesione del principio della par
condicio): invero, la mancata allegazione di un documento o
di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può
essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile,
in applicazione del cd. "dovere di soccorso" di cui
al più volte menzionato art. 46 e non ne è permessa
l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non
trattandosi di rimediare a vizi puramente formali.
Tale principio a maggior ragione si applica quando non
sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di
clausole della legge di gara, potendosi al più ammettere in
tale contesto l'integrazione solo quando i vizi sono
chiaramente imputabili ad errore materiale, ma sempre che
riguardino dichiarazioni o documenti non richiesti a pena di
esclusione, non essendo, in quest'ultima ipotesi, consentita
la sanatoria o l'integrazione postuma, che si tradurrebbe in
una violazione dei termini massimi di presentazione
dell'offerta e, in definitiva, in una violazione del
principio di parità delle parti, che deve presiedere ogni
procedura ad evidenza pubblica (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.12.2015 n. 5458 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, la Cassazione chiarisce quando un reato
urbanistico è penale.
La consistenza dell'intervento abusivo è solo uno dei
parametri.
La consistenza dell'intervento abusivo
-tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche
costruttive- costituisce solo uno dei parametri di
valutazione ai fini dell'applicazione dell'articolo 131-bis
del Codice penale per le violazioni urbanistiche e
paesaggistiche.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con
la
sentenza 27.11.2015 n. 47039.
GLI ALTRI ELEMENTI DA CONSIDERARE.
“Riguardo agli aspetti urbanistici –sottolinea la
Cassazione- assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad
esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento”.
Per la suprema Corte “Indice sintomatico della non
particolare tenuità del fatto è, inoltre, (...) la
contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate,
mediante la realizzazione dell'opera, anche altre
disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi
(si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone
sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del
paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione
delle aree demaniali)” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
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RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Asti, con sentenza del 13/04/2015 ha
dichiarato non doversi procedere nei confronti di Al.DE. per
essere il reato a lui ascritto non punibile per particolare
tenuità.
Il predetto era chiamato a rispondere del reato di cui agli
artt. 181 d.lgs. 42/2004 e 44, lett. c), d.P.R. 380/2001,
per aver eseguito, in assenza del permesso di costruire e
dell'autorizzazione paesaggistica, su terreno di proprietà
comunale, una tettoia poggiante su un immobile di proprietà
di Pi.LA. ed oggetto di ordine di demolizione e su tre
pilastri in legno di cm. 20x20 imbullonati nella
pavimentazione, con copertura di onduline, con occupazione
di circa m. 5,15 per 6,00, con altezza di intradosso
centrale di m. 3,50 circa e di intradosso laterale di m.
2,83 circa, nonché di una tettoia poggiante sull'immobile e
cinque pilastri in legno di cm. 10x10 imbullonati, con
occupazione di m. 4,50x6,00 circa, altezza di intradosso
interno m. 2,45, altezza di intradosso esterno m. 2,05 circa
(in Carmagnola, nel febbraio 2013, accertamento in sede di
sopralluogo il 25/07/2013).
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti,
deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, ai sensi
dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un unico motivo di ricorso lamenta l'inosservanza e
l'erronea applicazione della legge penale ed il vizio di
motivazione, rilevando, in primo luogo, che il giudice del
merito avrebbe pronunciato sentenza ai sensi dell'art. 469
cod. proc. pen. nonostante la motivata opposizione del
Pubblico Ministero, ritenendo erroneamente non riferibile al
comma 1-bis della menzionata disposizione codicistica la
previsione di cui al primo comma, che subordina la pronuncia
della sentenza predibattimentale alla non opposizione delle
parti.
Per tali ragioni, rileva, emettendo sentenza
predibattimentale nonostante l'opposizione di una delle
parti, il Tribunale sarebbe incorso in una nullità di cui
all'art. 178 cod. proc. pen..
Rileva, poi, che la sentenza sarebbe caratterizzata da una
non corretta valutazione dei presupposti di applicabilità
dell'art. 131-bis cod. pen., che sarebbero mancanti in
considerazione della natura e consistenza dell'opera
realizzata e della abitualità del comportamento desumibile
dalla permanenza della condotta posta in essere.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
19. Per ciò che concerne, in particolare,
le violazioni urbanistiche e paesaggistiche,
che qui interessano, deve ritenersi che la
consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di
intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive)
costituisce solo uno dei parametri di valutazione.
Riguardo agli aspetti urbanistici, in
particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali,
ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Indice sintomatico della non particolare
tenuità del fatto è, inoltre,
come si è accennato in precedenza, la
contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano violate,
mediante la realizzazione dell'opera, anche altre
disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi
(si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone
sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del
paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione
delle aree demaniali).
20. Date tali premesse, deve rilevarsi come la valutazione
operata dal giudice del merito nel riconoscere la
particolare tenuità del fatto risulta limitata e parziale,
in quanto si sofferma, come rilevato anche in ricorso,
esclusivamente sulle caratteristiche costruttive e
dimensionali delle opere e sulla loro destinazione. La
verifica effettuata, inoltre, tralascia completamente di
considerare alcuni dati fattuali individuabili dalla mera
lettura dell'imputazione, la cui sussistenza non viene posta
in discussione e rispetto ai quali la motivazione della
sentenza impugnata si pone palesemente in contraddizione.
21. Sebbene assuma aspetto decisivo, ai fini del giudizio di
particolare tenuità della condotta, per le ragioni dianzi
dette, la contestuale violazione della disciplina
urbanistica e paesaggistica, per il fatto che la
contestazione dell'art. 181 d.lgs. 42/2004 sia stata del
tutto ignorata, va anche rilevato che, a fronte della
positiva valutazione sulla non particolare modificazione del
territorio e sulla destinazione dell'intervento, nulla si
dice sul fatto che, nell'imputazione, viene precisato che le
opere sono state eseguite su area di proprietà comunale, né
si considera che l'imputazione medesima specifica che le
tettoie sono state realizzate in adiacenza di immobile (di
proprietà di altro soggetto) oggetto di ordine di
demolizione e, pertanto, verosimilmente abusivo.
Si tratta, anche in questo caso, di un dato non
indifferente, che avrebbe dovuto essere oggetto di specifica
valutazione, atteso che, secondo la
consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve, in
generale, ritenersi preclusa ogni possibilità di intervento
su immobili abusivi non condonati o sanati, perché essi,
anche quando siano riconducibili, nella loro oggettività,
alle categorie della manutenzione straordinaria, del
restauro e/o risanamento conservativo, della
ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche, ripetono le caratteristiche di
illegittimità dall'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente
(Sez. 3, n. 51427 del 16/10/2014, Rossignoli e altri, Rv.
261330; Sez. 3, n. 26367 del 25/03/2014, Stewart e altro, Rv.
259665; Sez. 3, n. 1810 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.M. in
proc. Cardito, Rv. 242269; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006,
Rossi, Rv. 235382; Sez. 3, n. 21490 del 19/04/2006, Pagano,
Rv. 234472). Una simile condotta, pertanto,
si risolverebbe in un ulteriore aggravamento di un abuso
preesistente.
22. In ricorso viene, infine, correttamente censurata anche
la errata qualificazione delle opere realizzate come
precarie, come evidenzia il riferimento del giudice del
merito alla loro «provvisorietà», dedotta sulla base
delle caratteristiche costruttive, essendo tali, invece,
quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e
temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità (cfr. art. 6 d.P.R. 380/2001), ciò in quanto
tale precarietà risulta esclusa dalla stabile destinazione
alle esigenze abitative
riconosciuta dal Tribunale e stigmatizzata dal ricorrente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.11.2015 n. 47039). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Pari competenze tecniche, contributi dovuti.
Sentenza della corte di cassazione respinge
il ricorso di un geometra.
La Cassa previdenziale incassa i contributi anche sui
redditi prodotti in seguito ad attività che, seppur non
professionalmente tipiche, richiedono le stesse competenze
tecniche.
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con
sentenza 27.11.2015 n. 24303, ha respinto il ricorso di un
geometra al quale l'ente aveva chiesto il pagamento dei
contributi sui redditi prodotti come perito assicurativo.
L'uomo aveva impugnato la cartella notificata dalla Cassa
obiettando che nulla avrebbe dovuto in relazione a quanto
guadagnato nella veste di consulente. La tesi non aveva
fatto breccia presso il tribunale e la Corte d'appello di
Roma. Ora i supremi giudici hanno reso definitiva la
decisione.
Sul punto in sentenza si legge che il concetto di
esercizio della professione, rilevante ai fini di stabilire
se i redditi prodotti da un libero professionista siano
qualificabili come redditi professionali soggetti come tali,
alla contribuzione dovuta alla Cassa previdenziale di
categoria, deve intendersi, alla luce della lettura adeguatrice
data dalla Consulta con la sentenza 402/1991, comprensivo
oltre che dell'espletamento delle prestazioni tipicamente
professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti
negli appositi albi) anche l'esercizio di attività che, pur
non professionalmente tipiche, presentino, tuttavia, un
nesso con l'attività professionale strettamente intesa, in
quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il
professionista ordinariamente si avvale nell'esercizio
dell'attività professionale e nel cui svolgimento, quindi,
mette a frutto anche la specifica cultura che gli deriva
dalla formazione tipo logicamente propria della sua
professione, derivandone, di conseguenza, che il parametro
dell'assoggettamento alla contribuzione è la connessione fra
l'attività da cui il reddito deriva e le conoscenze
professionali, ossia la base culturale su cui l'attività
stessa si fonda, connessione che trova esclusivamente il
limite dell'estraneità dell'attività stessa alla
professione.
Anche la procura generale del Palazzaccio aveva sollecitato
al collegio di legittimità di respingere il ricorso del
professionista
(articolo ItaliaOggi del 28.11.2015). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Contratti
pubblici: "no" del Consiglio di Stato all'automatica
revisione periodica del prezzo.
L'iter procedimentale bifasico per il compenso revisionale
nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa
relativi a servizi o forniture.
Per tutti i contratti ad esecuzione
periodica o continuativa relativi a servizi o forniture è
prevista l’obbligatoria inserzione di una clausola di
revisione periodica del prezzo da operare sulla base di
un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici
dell’amministrazione.
In particolare, sia l'abrogato art. 6, comma 4, della legge
23.12.1993 n. 537 (come modificato dall'art. 44 della legge
24.12.1994 n. 724), che il vigente art. 115 del d.lgs. n.
163/2006, prevedono per la revisione prezzi un’istruttoria
da parte dei dirigenti responsabili della acquisizione di
beni e servizi, sulla base in primo luogo dei dati forniti
dalla sezione centrale dell'Osservatorio dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture e
dall'ISTAT.
Conseguentemente sono nulle le clausole contrattuali che
escludono la revisione del canone, ma questo principio non
comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del
corrispettivo contrattuale, ma soltanto che
l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori
normativamente sanciti.
È questo il principio sancito dalla V Sez. del Consiglio di
Stato nella
sentenza 27.11.2015 n. 5375
sulla cui base il Collegio ha affermato che l’iter
procedimentale in subiecta materia è bisafico, cioè
caratterizzato da due distinte fasi di diversa natura.
La giurisprudenza è, infatti, pacifica, nel rilevare che a
fronte dell'interesse legittimo dell'appaltatore a
richiedere di effettuare la revisione in base ai risultati
dell’istruttoria, c'è la correlata facoltà discrezionale
riconosciuta alla stazione appaltante che deve effettuare un
bilanciamento tra l'interesse dell'appaltatore alla
revisione e l'interesse pubblico connesso al risparmio di
spesa da un lato, ed alla regolare esecuzione del contratto
aggiudicato.
I risultati del procedimento di revisione prezzi sono quindi
espressione di facoltà discrezionale, che sfocia in un
provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato
nel termine decadenziale di legge.
La posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto
soggettivo solo dopo che l'Amministrazione, in base alle
risultanze istruttorie, abbia riconosciuto la sua pretesa,
vertendosi solo allora in tema di “quantum” del
compenso revisionale.
Da quanto sopra consegue che la mancata impugnazione del
provvedimento di rigetto dell’istanza di revisione rende
l’appello inammissibile non potendo la relativa azione
essere azionata nel termine decennale di prescrizione con la
richiesta della declaratoria del relativo diritto (commento
tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
----------------
MASSIMA
6.2- Passando alla disamina delle censure dedotte dalle
appellanti, il Collegio rileva che la prospettazione di
parte appellante si fonda sulla asserita titolarità di un
diritto soggettivo alla revisione periodica in virtù del
contratto stipulato tra Co.gei ed il Comune di Frascati in
data 26.01.1994.
Il Comune non disporrebbe di alcun potere autoritativo con
la conseguenza che la controparte contrattuale potrebbe
agire in giudizio entro il termine di prescrizione
decennale, in quanto il suddetto art. 6, comma 4, della l.
n. 537/1993 sancirebbe il diritto al compenso revisionale.
Tale assunto non può essere condiviso, in quanto il
provvedimento dell’amministrazione comunale di Frascati non
può essere qualificato atto paritetico e come tale
impugnabile entro il termine prescrizionale a tutela
dell’asserito diritto vantato degli appellanti.
Parte appellante omette di considerare che
l’iter procedimentale in subiecta materia è bisafico,
cioè caratterizzato da due distinte fasi di diversa natura.
In proposito si osserva che l’art. 44, 4°
comma, della L. n. 724/1994, di cui parte appellante deduce
la violazione prevede, per tutti i contratti ad esecuzione
periodica o continuativa relativi a servizi o forniture,
l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione
periodica del prezzo da operare sulla base di un’istruttoria
condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione.
Conseguentemente sono nulle le clausole contrattuali che
escludono la revisione del canone e si verifica l'eterointegrazione
della disciplina di gara ai sensi degli artt. 1339 e 1419
cc., ma questo principio non comporta anche il diritto
all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale,
ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti
istruttori normativamente sanciti.
In tal senso si è ripetutamente pronunciata la
giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, sentt. 22.12.2014, n.
6275 e 24.01.2013 n. 465, TAR sez. III Milano n. 222/2015,
TAR Campania-Napoli, Sez. I, 21.10.2010, n. 20632),
rilevando che la posizione dell'appaltatore
è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di
effettuare la revisione in base ai risultati
dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà
discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante
(Cass. SS.UU. 31.10.2008 n. 26298), che
deve effettuare un bilanciamento tra l'interesse
dell'appaltatore alla revisione e l'interesse pubblico
connesso al risparmio di spesa da un lato, ed alla regolare
esecuzione del contratto aggiudicato.
I risultati del procedimento di revisione
prezzi sono quindi espressione di facoltà discrezionale, che
sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve
essere impugnato nel termine decadenziale di legge.
La posizione dell'appaltatore assume carattere di diritto
soggettivo solo dopo che l'Amministrazione, in base alle
risultanze istruttorie, abbia riconosciuto la sua pretesa,
vertendosi solo allora in tema di “quantum” del
compenso revisionale.
Sia l'abrogato art. 6, comma 4, della legge 23.12.1993 n.
537 (come modificato dall'art. 44 della legge 24.12.1994 n.
724), che il vigente art. 115 del d.lgs. n. 163/2006
prevedono per la revisione prezzi un’istruttoria da parte
dei dirigenti responsabili della acquisizione di beni e
servizi, sulla base in primo luogo dei dati forniti dalla
sezione centrale dell'Osservatorio dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture e dall'ISTAT (art. 7,
comma 4, lett. c), e comma 5, del d.lgs. n. 163/2006).
In base alle suesposte considerazioni non è
configurabile alcuna contraddizione nelle pronunce del
giudice amministrativo, che sanciscono, sotto un primo
profilo, la sussistenza dell'obbligo di inserzione della
clausola e quindi del corrispondente diritto della parte
contraente (problematica esulante però dalla vicenda di cui
è causa, in quanto la revisione era contrattualmente
prevista) e, sotto un distinto e cronologicamente successivo
profilo, ritengono che la situazione soggettiva
dell'appaltatore in relazione alle modalità ed ai risultati
della revisione sia di interesse legittimo in ragione della
discrezionalità dell'Amministrazione sull'an debeatur
(Cons. Stato, Sez. V, 24.01.2013, n. 465).
Tali considerazioni portano a disattendere entrambe le
censure prospettate dagli appellanti, in quanto la mancata
impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza di
revisione rende l’appello inammissibile, non potendo la
relativa azione essere azionata nel termine decennale di
prescrizione con la richiesta della declaratoria del
relativo diritto.
Infatti parte appellante ha impugnato la nota
dell’08.11.1999 dell’Ufficio Tecnico Ambiente, avente
carattere di atto interno ed infraprocedimentale senza alcun
valore dispositivo, contenente un semplice parere del
funzionario in base ai risultati dell’indagine conoscitiva
effettuata in ordine alla sussistenza dei presupposti
richiesti dalla normativa per la concessione della revisione
del canone originariamente previsto in sede contrattuale per
l’espletamento del servizio di raccolta di rifiuti solidi
urbani, ma non ha invece proceduto all’impugnazione del
formale provvedimento di diniego del Dirigente del IV
Settore n. 25875 dell’11.11.1999, mai ritualmente impugnato.
7.- L’appello va pertanto respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.11.2015 n. 5375 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Cassazione: anche per i dipendenti pubblici si
applica l’art. 18.
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 26.11.2015 n. 24157, ha dichiarato che
l’art. 18, così come modificato, è applicabile anche
per i dipendenti pubblici.
I Giudici rilevano infatti che l’inequivocabile tenore
dell’art. 51 cpv d.lgs. 165/2001 prevede l’applicazione
anche al pubblico impiego cd. contrattualizzato della L.
300/1970 e “successive modificazioni ed integrazioni”
indipendentemente dal numero dei dipendenti.
Pertanto, sulla base di tale assunto, per i Giudici di
Palazzo Spada, è innegabile che il nuovo testo dell’art. 18
della legge n. 300/1970, come novellato dall’art. 1 legge n.
92/2012, trovi applicazione ratione temporis al
licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere dalle
iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge
c.d. Fornero.
Il caso riguardava il licenziamento disciplinare di un
dirigente di un consorzio pubblico siciliano, il ricorrente
poneva la questione dell’estensione dell’art. 18 al pubblico
impiego, chiedendo, in caso di risposta negativa, di
promuovere la questione di legittimità costituzionale del
suddetto articolo.
La Corte di Cassazione, affermando l’applicabilità del nuovo
testo dell’art. 18 al pubblico impiego, non ha nemmeno
ritenuto necessario porre la questione di legittimità
costituzionale richiesta dal ricorrente.
In merito alla questione dell’applicabilità o meno della
tutela reintegratoria di cui all’art. 18, la Corte quindi
rileva l’applicabile della suddetta tutela in caso di
licenziamento intimato al pubblico impiegato in violazione
di norme imperative, quali l’art. 55-bis, comma 4, del
d.lgs. n. 165 del 2001, trattandosi di nullità prevista
dalla legge (commento tratto da www.giurdanella.it).
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MASSIMA
5- Il terzo motivo è infondato, sebbene correggendosi ex
art. 384 ult. co. c.p.c. nei sensi che seguono la
motivazione sul punto adottata dalla Corte territoriale.
È pur vero che l'inequivocabile tenore dell'art. 51 cpv.
d.lgs. n. 165/2001 prevede l'applicazione anche al pubblico
impiego cd. contrattualizzato della legge n. 300/1970 "e
successive modificazioni ed integrazioni", a prescindere
dal numero di dipendenti.
Dunque, è innegabile che il nuovo testo
dell'art. 18 legge n. 300/1970, come novellato dall'art. 1
legge n. 92/2012, trovi applicazione ratione temporis
al licenziamento per cui è processo e ciò a prescindere
dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla
legge cd. Fornero di cui parla l'impugnata sentenza.
Ma proprio il nuovo testo dell'art. 18, co.
1°, Stat., come modificato dalla legge n. 92/2012, ricollega
espressamente (oltre alle ulteriori ipotesi in esso
previste) la sanzione della reintegra (e non quella
meramente indennitaria) anche ad altri casi di nullità
previsti dalla legge.
Ed è indubbio che fra le nullità previste dalla legge vi sia
anche quella per contrarietà a norme imperative (v., ancora,
art. 1418, co. 1°, c.c.) e in tale novero rientra, come s'è
detto, il cit. art. 55-bis, co. 4°, d.lgs. n. 165/2001.
La tutela meramente indennitaria è invece prevista, sempre
dal nuovo testo dell'art. 18 Stat., in ipotesi differenti da
quelle verificatasi nel caso in oggetto (ad esempio, in
quella in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per
violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2,
comma 2, della legge 15.07.1966, n. 604, e successive
modificazioni, della procedura di cui all'art. 7 della legge
n. 300/1970 o della procedura di cui all'art. 7 della legge
15.07.1966, n. 604, e successive modificazioni).
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commento
Procedimento disciplinare e contenzioso – Applicabilità art.
18 Statuto dei Lavoratori al pubblico impiego – Riforma
Madia.
“Per il pubblico impiego la riforma
dell'articolo 18 non vale, perché c'è una differenza
sostanziale rispetto al privato, rappresentata dal tipo di
datore di lavoro: il datore privato ragiona con risorse sue,
quello pubblico ragiona con risorse della collettività. Nel
Testo unico sul pubblico impiego chiariremo anche questo
aspetto in modo esplicito”.
Questo quanto affermato dal Ministro della Pubblica
amministrazione, Marianna Madia, intervenendo sul dibattito
aperto dalla Cassazione che, con la sentenza n. 24157/2015,
si è pronunciata per l'estensione automatica dell'articolo
18 agli uffici pubblici, in quanto prevista dal testo unico
sul pubblico impiego (articolo 51 del d.lgs. 165/2011).
Tornano, dunque, alla ribalta le posizioni contrastanti già
sorte in sede di approvazione dei decreti attuativi del Jobs
Act, quando già, anche diversi esponenti del Governo,
avevano sottolineato come nel quadro normativo vigente non
sia possibile sostenere l'inapplicabilità della riforma al
pubblico impiego.
Del resto, come ampiamente illustrato da Pietro Ichino,
giuslavorista e senatore del Pd, “Le riforme
dell'articolo 18 si applicano anche al pubblico impiego
perché una norma speciale di esclusione non c'è. Certo, il
governo può sempre ripensarci, anche se non se ne vede la
ragione dal momento che le tutele crescenti sarebbero la
soluzione ideale per la stabilizzazione dei molti precari
che hanno maturato anni di servizio nelle Pa. In ogni caso
non può farlo nei decreti attuativi della riforma della Pa,
perché la delega non ha una riga sulla disciplina del
recesso. Quello che va fatto, e che la delega consente, è
definire le opportune procedure interne del licenziamento
disciplinare e di quello per motivo oggettivo, che ne
assicurino la dovuta ponderazione imparziale, ma al tempo
stesso lo rendano effettivamente praticabile”.
E’ facile, dunque, prevedere ulteriori sviluppi sul tema,
presumibilmente da parte del Governo con un intervento
normativo specifico, come annunciato dal Ministro.
In ogni caso, nell’attesa di scoprire in che modo evolverà
la vicenda, ad oggi non può farsi altro che prendere atto
dell’unico dato certo, rappresentato dal principio fissato
dalla giurisprudenza della Cassazione (link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 del D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i nuovi edifici,
ricadenti, come quello di che trattasi, in zone diverse
dalla zona A, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra
pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
condizione indispensabile per potersi applicare il regime
garantistico della distanza minima dei dieci metri, è
l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui
almeno una finestrata.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre,
precisato, che la regola del rispetto della distanza dei
dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si
riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere.
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una
veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto
non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n.
1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie.
---------------
Col primo motivo si deduce che erroneamente il
giudice di prime cure avrebbe escluso la sussistenza della
denunciata violazione dell’art. 9 del D.M. 02/04/1968 n.
1444.
Si afferma, infatti, che il progetto dei sig.ri D’Al. e Ca.
prevede la realizzazione, al primo piano dell’immobile, di
un corpo di fabbrica, caratterizzato da uno sporto di metri
1,30 (destinato secondo le tavole progettuali a “letto”
e “bagno”), la cui parete laterale dista solo 3 metri
dalla porta-finestra dell’appellante.
La doglianza è infondata.
L’art. 9 del citato D.M. n. 1444/1968, prescrive, per i
nuovi edifici, ricadenti, come quello di che trattasi, in
zone diverse dalla zona A, “la distanza minima assoluta
di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti”.
In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
condizione indispensabile per potersi applicare il regime
garantistico della distanza minima dei dieci metri, è
l’esistenza di due pareti che si contrappongono di cui
almeno una finestrata (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 31/03/2015
n. 1670, sulle modalità di calcolo delle distanze, si veda
Cons. Stato, IV Sez., 11/06/2015 n. 2861).
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha, inoltre,
precisato, che la regola del rispetto della distanza dei
dieci metri, di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968, si
riferisce esclusivamente a pareti munite di finestre
qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su
cui si aprono finestre cosiddette lucifere (Cons. Stato,
Sez. IV, 04/09/2013 n. 4451 e 22/01/2013 n. 844; Cass. Civ.,
Sez. II, 30/04/2012 n. 6604).
Poiché la porta finestra dell’appellante non costituisce una
veduta, come ha accertato l’impugnata sentenza, sul punto
non fatta oggetto di censura, l’invocato art. 9 del D.M. n.
1444/1968 non risulta applicabile al caso di specie
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.11.2015 n. 5365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Messi sotto torchio. Le ricerche? In tutto il
comune. Per la Cassazione notifica ko se la scusa è
generica.
Senza prova del previo espletamento delle ricerche del
destinatario dell'atto, non solo al suo indirizzo ma
nell'ambito dell'intero comune, da parte del messo
notificatore, la pretesa fiscale è da considerarsi nulla.
La Corte di Cassazione con
ordinanza 25.11.2015 n.
24082, torna sulle vessata questione dell'onere probatorio
in capo al messo notificatore in ipotesi di irreperibilità
del destinatario affermando la necessità di non utilizzare
in sede di relata di notifica, frasi generiche non idonee ad
attestare le effettive infruttuose ricerche effettuate. La
ricorrente eccepiva la violazione dell'art. 148 c.p.c. e
dell'art. 60, lett. e), del dpr n. 600/1973 nella parte in
cui la Commissione tributaria regionale ritenendo legittimo
il ricorso alla procedura notificatoria di cui all'art. 60
predetto, riteneva lecita la redazione della relata di
notifica all'indirizzo di residenza anagrafica del
destinatario, nonostante quest'ultimo sarebbe stato
qualificato come «sconosciuto in loco».
Ebbene, secondo la ricorrente, tale annotazione non sarebbe
idonea a dare atto del compimento delle doverose ricerche da
parte dell'agente notificatore, e rappresenterebbe una
formula generica, non atta a soddisfare i requisiti
richiesti dall'art. 148 c.p.c. e non suscettibile di
contestazione mediante una querela di falso.
La Corte, con riguardo alla previa acquisizione di notizie
e/o al previo espletamento delle ricerche, rileva che
nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente
essere a tal fine compiute, né quali espressioni verbali e
in quale contesto documentale deve essere espresso il
risultato di tali ricerche.
Ma dalla mera attestazione «sconosciuto ai microfoni» e
«sconosciuto in loco» non emerge, se il messo notificatore
abbia effettuato ricerche di sorta per pervenire alla
conclusione che il destinatario della notifica fosse
«sconosciuto in loco».
La Corte concludendo per l'accoglimento del ricorso, rileva
che le ricerche devono avere ad oggetto la presenza del
destinatario non solo nell'indirizzo ove è richiesta la
notifica, ma nell'intero comune (Cass. 1440/2013 e Cass.
4925/2007)
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ricerca nell’intero Comune per la notifica della cartella.
Cassazione/2. Solo la verifica della presenza del
destinatario nel territorio di residenza «salva» l’atto.
Il
notificatore deve sempre verificare la presenza del
destinatario sia all’indirizzo dove è stata richiesta la
notifica sia nell’intero Comune. Infatti egli deve sempre
verificare quanto già risulta dai registri pubblici. Poi non
è sufficiente attestare sulla relata «sconosciuto sui
citofoni» per fare presumere lo svolgimento di ricerche in
grado di individuare il destinatario come «sconosciuto in
loco». Infine la relata di notifica non ha valore di fede
privilegiata per i meri giudizi formulati senza indicare i
fatti su cui si fondano.
Così la Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 25.11.2015 n.
24082 (Pres. Cicala, Rel. Cosentino).
Grazie alla notifica di un’intimazione di pagamento, un uomo
apprende dell’avvenuta notifica di una cartella effettuata
tempo prima dal concessionario. Egli contesta in Ctp il
debito tributario in quanto non gli è mai stata
precedentemente notificata la cartella.
Nello specifico la relata lo indica come soggetto
sconosciuto presso la sua residenza anagrafica, senza che
questa annotazione provi l’effettivo svolgimento di ricerche
idonee per individuare la sua effettiva residenza che in
quel momento era stata appena trasferita.
Ma per il concessionario la relata compilata in base al
tentativo di notifica basta per attestare validamente la sua
irreperibilità assoluta, in quanto non risulta il suo
nominativo sul citofono presso l’indirizzo ancora indicato
sul registro anagrafico.
Il giudice di primo grado accoglie la tesi del contribuente
e il concessionario si rivolge così in appello, dove il
giudice, in riforma della sentenza opposta, sancisce invece
la validità della notifica. Ma la Cassazione accoglie per
contro il ricorso dell’uomo per i seguenti motivi: il
tentativo di notifica presso la residenza anagrafica per
attestare l’irreperibilità assoluta del destinatario ai
sensi dell’articolo 60, lett. e), Dpr 600/1973, non basta,
perché anche se è ignoto il nuovo indirizzo del destinatario
è compito del notificante verificare la presenza del
destinatario sia all’indirizzo dove è stata richiesta la
notifica che nell’intero comune; la relata «sconosciuto sui
citofoni» non basta per fare presumere l’effettuazione di
ricerche al fine di indicare il destinatario come
«sconosciuto in loco», perché l’acquisizione di notizie e/o
effettuazione di ricerche, pur non essendo regolata da
alcuna norma, deve essere compiuta per giustificare il
percorso logico inteso a ricondurre correttamente il
tentativo di notifica; infine, la fede privilegiata
attribuita alla relata di notifica fino a querela di falso,
riguarda le sole attestazioni positive dell’ufficiale
giudiziario e non anche le attestazioni negative formulate
senza dare conto dei fatti su cui vengono basati i giudizi
indicati (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
L’antenna dei cellulari paga Ici e Imu.
Cassazione/1. I giudici di legittimità riconoscono
l’accatastamento degli impianti in categoria «D».
Le antenne di telefonia mobile sono
da accatastare in categoria D e quindi sono soggette a Ici e
a Imu.
È questa
l’importante conclusione cui è pervenuta la Corte di
Cassazione -Sez. V civile- con la
sentenza 25.11.2015 n. 24026 che ha visto vincere il
comune ricorrente assistito dall’Anutel.
La sentenza è importante perché, da un lato, conferma
l’applicazione di principi già utilizzati in casi similari,
quali gli impianti eolici, e, dall’altro lato, interviene a
ridosso di pronunce di merito che non sembrano far tesoro
della funzione nomifilattica della Corte. È emblematico che
per un caso identico, relativo a un’antenna telefonica
posseduta dallo stesso contribuente oggetto della sentenza
di Cassazione, la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza
09.11.2015 n.
425 abbia ritenuto che
l’antenna vada accatastata in categoria E.
La Cassazione conferma l’operato del catasto, che già con
circolare 16.05.2006, n. 4 si era occupata in modo
dettagliato dell’accatastamento delle antenne della
telefonia mobile, distinguendo il caso delle antenne
istallate su edifici esistenti da quello su aree di terreno
all’uopo destinate.
Nel primo caso si tratta di antenne ancorate ai muri o
sostenute da piccoli tralicci e dai relativi impianti
elettrici ed elettronici. Se le apparecchiature elettroniche
sono custodite nell’ambito di locali già esistenti, allora,
ad avviso dell’Agenzia, non si configura un obbligo di
accatastamento. Se, invece, le apparecchiature elettroniche
vengono ospitate in specifiche aree e locali, preesistenti o
di nuova costruzione, i manufatti devono essere dichiarati
in catasto o in forma autonoma o come variazione della
preesistente unità immobiliare.
Nel caso invece, come quello analizzato dalla Cassazione, di
antenne collocate in un’area di terreno, di solito
recintata, all’interno della quale è installato su platea di
calcestruzzo un traliccio cui sono fissate le antenne,
sussiste l’obbligo di procedere all’accatastamento.
Le indicazioni dell’agenzia del Territorio non sono state
però integralmente recepite da parte della giurisprudenza di
merito che ha continuato a ritenere corretto
l’accatastamento in categoria E in ragione di una supposta
preordinazione a un’esigenza pubblica svolta dalle antenne.
Motivazioni queste che erano state già escluse con
riferimento agli impianti eolici (Cassazione n. 4030/2012;
n. 4498/2012; n. 1979/2015), in quanto ininfluenti ai fini
di un corretto accatastamento, anche alla luce di quanto
previsto dall’art. 2, comma 4, del Dl n. 262/2006, il quale
prevede che nella categoria catastale E non possono essere
compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso
commerciale, industriale. Ad avviso della Corte, la norma
stabilisce una sorta di intrinseca incompatibilità tra la
destinazione ad uso commerciale o industriale di un immobile
e la possibile classificabilità in categoria E.
Peraltro, la Corte aveva già scrutinato la natura
dell’antenna di telefonia nella sentenza n. 25837/2008,
osservando che «il traliccio in questione ed annessa cabina,
alla stregua dall’art. 873 c.c. e della consolidata
giurisprudenza di questa Corte,
7285/2005-12045/2002-2228/2001, debbano considerarsi a tutti
gli effetti costruzioni: ossia opere aventi caratteri di
solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo» (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015).
---------------
MASSIMA
Con i motivi dal quinto al decimo, è posto in
discussione, sotto vari aspetti -talvolta inammissibilmente
trattandosi di censure fondate sull'errato presupposto che
non si applichi nella specie la novella relativa all'art.
360, c. 5, cod. proc. civ.- quanto affermato dalla sentenza
impugnata circa l'esistenza del presupposto impositivo e la
pretesa classificazione in E/9 delle antenne di telefonia
mobile in questione.
Sul punto la sentenza impugnata stabilisce in modo limpido
(non adeguatamente censurato) che «i
ripetitori di telefonia mobile devono essere classificati
nella categoria "D", in quanto trattasi di struttura
stabilmente infissa al suolo, recintata, all'interno della
quale è stato installato, su platea di calcestruzzo, un
traliccio cui sono state fissate le antenne. Tale tipo di
struttura, deve essere accatastata così come previsto
dall'art. 4 del r.d.l. n. 652/1939. Tant'è che l'immobile
oggetto del gravame in data 10.12.2008 veniva accatastata
dall'Agenzia del territorio di Foggia in categoria "D7", con
una rendita catastale di Euro 818,900, notificata in data
25/02/2009. La classificazione catastale nella categoria "D"
è, inoltre, prevista dalla circolare dell'Agenzia del
Territorio n. 4/2006, riferita alle centrali eoliche, che
può essere applicata per analogia anche alle stazioni della
telefonia mobile, così come previsto dall'art. 2 D.M.
02.01.1998, n. 28».
Quest'ultima osservazione non è del tutto esatta in quanto
la circolare 4/2006 non si limita a considerare le centrali
eoliche, ma fa uno specifico riferimento anche ai "ripetitori
e impianti similari".
La circolare osserva: «Rilevante
importanza hanno assunto nel tempo anche le costruzioni tese
ad ospitare impianti industriali mirati alla trasmissione o
all'amplificazione dei segnali destinati alla trasmissione
(via cavo o etere) ... la categoria da attribuire agli
immobili che le ospitano è da individuare nel gruppo D. ...
Tra le diverse tipologie dei manufatti in esame ha
registrato negli ultimi anni una significativa diffusione
sul territorio quella destinata ad ospitare gli impianti per
la diffusione della telefonia mobile ...».
Peraltro, ad ulteriore conferma, può osservarsi che questa
tipologia di manufatti non compare nella descrizione che la
circolare n. 4/2007 detta per la identificazione delle
costruzioni classificabili in categoria E. Salvo la
surriferita marginale inesattezza circa la limitazione del
riferimento operato dalla circolare n. 4/2006 alle sole
centrali coliche, la sentenza qui in esame centra il
problema: la richiamata classificazione
catastale è espressamente prevista come quella spettante per
i "ripetitori" del tipo di quello oggetto del
giudizio e la
classificazione in concreto attribuita all'immobile in
discussione non è stata impugnata.
Né risulta che lo sia stata nei confronti del solo soggetto
legittimato sotto il profilo passivo, ossia l'Agenzia del
territorio, né che quest'ultima sia stata evocata nel
presente giudizio. Sicché l'imposizione ai fini ICI adottata
dal Comune si palesa del tutto legittima. |
APPALTI:
Sull'efficacia delle direttive europee
nell'ordinamento interno, prima del loro recepimento e, in
ogni caso, prima della scadenza del termine a quel fine
assegnato agli Stati membri (inapplicabilità alla
fattispecie dell'art. 63 della dir. n. 2014/24).
L'art. 63 della direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici
là dove impone la sostituzione del soggetto sulla cui
capacità ha fatto affidamento l'operatore economico (nelle
ipotesi in cui sussistano, per il primo, motivi obbligatori
di esclusione) e, quindi, impedisce, in tale situazione,
l'automatica estromissione dalla procedura dell'impresa
concorrente (che si è avvalsa dei requisiti di un'impresa
ausiliaria, che, tuttavia, non li possiede), non è
immediatamente applicabile nell'ordinamento nazionale prima
della sua trasposizione nell'ordinamento interno e in
pendenza del termine per il suo recepimento.
Prima della scadenza del termine per il recepimento delle
direttive resta inconfigurabile qualsiasi efficacia diretta
nell'ordinamento interno e, in particolare, nei c.d.
rapporti verticali delle direttive europee (che, quindi, non
possono essere qualificate, in tale situazione, come
self-executing), per quanto dettagliate e complete, e
che, nondimeno, le stesse conservano un'efficacia giuridica,
ancorché limitata, che vincola sia i legislatori sia i
giudici nazionali ad assicurare, nell'esercizio delle
rispettive funzioni, il conseguimento del risultato voluto
dalla direttiva.
Quanto ai contenuti di tale ridotta efficacia, si è, in
particolare, chiarito che, in pendenza del termine per il
recepimento, il rispetto del principio di leale
collaborazione sancito all'art. 4, par. 3, del Trattato UE
impedisce, per un verso, al legislatore nazionale
l'approvazione di qualsiasi disposizione che ostacoli il
raggiungimento dell'obiettivo al quale risulta preordinata
la direttiva e impone, per un altro, ai giudici nazionali di
preferire l'opzione ermeneutica del diritto interno
maggiormente conforme alle norme eurounitarie da recepire,
di guisa che non venga pregiudicato il conseguimento del
risultato voluto dall'atto normativo europeo. Non solo, ma è
stato anche escluso che possa riconoscersi qualsivoglia
efficacia alle direttive non ancora recepite, che
introducono nell'ordinamento un istituto nuovo, che, come
tale, esige una compiuta disciplina normativa interna,
necessariamente riservata in tutti i suoi aspetti al
legislatore nazionale.
Ovviamente, perché possa utilmente invocarsi il limitato
effetto della c.d. interpretazione giuridica conforme, nei
termini sopra precisati, risulta necessario che la direttiva
che viene invocata come vincolante criterio ermeneutico sia
stata pubblicata sulla G.U.U.E. prima dell'adozione
dell'atto impugnato, posto che, in ogni caso, il giudizio
della legittimità di quest'ultimo dev'essere comunque
formulato alla stregua della normativa vigente al momento
della sua assunzione.
La regola dell'interpretazione giuridica conforme risulta
del tutto inconfigurabile nei riguardi di previsioni della
direttiva finalizzate ad introdurre negli ordinamenti
nazionali istituti del tutto innovativi, che, come tali,
esigono la coerente declinazione dei loro elementi
costituivi e dei pertinenti presupposti di applicabilità.
Anche a fronte di una disciplina europea sufficientemente
dettagliata ed esauriente, risultano, infatti, necessarie la
previsione di disposizioni (nazionali) di coordinamento con
la normativa vigente e, soprattutto, l'adozione di un regime
intertemporale, che chiarisca i tempi di operatività della
nuova disciplina, rispetto (ad esempio) alle gare già
bandite al momento del recepimento della direttiva
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 25.11.2015 n. 5359 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Le prescrizioni di un piano urbanistico attuativo
(tale è il piano di lottizzazione) finalizzato alla
disciplina in maniera dettagliata di una porzione del
territorio sono vincolanti e devono essere rispettate da
tutti i lottizzanti e loro aventi causa, rilevando a tempo
indeterminato, fino all’intervento di un nuovo piano
urbanistico essendo, peraltro, del tutto irrilevante che sia
decorso il termine decennale previsto dall’art. 28 della
legge Urbanistica n. 1150 del 1942, atteso che detto termine
riguarda gli interventi edilizi autorizzati dal piano di
lottizzazione ma non riguarda la disciplina del territorio e
la destinazione delle aree, che rimane inalterata fino
all’intervento di un nuovo atto di pianificazione.
---------------
Osserva il Collegio, a riguardo che, il Consiglio di Stato
ha affermato il principio secondo cui le prescrizioni di un
piano urbanistico attuativo (tale è il piano di
lottizzazione) finalizzato alla disciplina in maniera
dettagliata di una porzione del territorio sono vincolanti e
devono essere rispettate da tutti i lottizzanti e loro
aventi causa, rilevando a tempo indeterminato, fino
all’intervento di un nuovo piano urbanistico (in tal senso
da ultimo Cons. Stato, Adunanza plenaria 20.07.2012, n. 28;
conforme Cons. Stato, V, 20.03.2008, n. 1216; IV 27.10.2009,
n. 6572), essendo, peraltro, del tutto irrilevante che sia
decorso il termine decennale previsto dall’art. 28 della
legge Urbanistica n. 1150 del 1942, atteso che detto termine
riguarda gli interventi edilizi autorizzati dal piano di
lottizzazione ma non riguarda la disciplina del territorio e
la destinazione delle aree, che rimane inalterata fino
all’intervento di un nuovo atto di pianificazione (in
terminis, Cons. Stato, IV, 353 del 2013; 2045 del 2012;
VI, n. 305 del 2012; IV, 27.10.2009, n. 6572)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 24.11.2015 n. 13283 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condizione imprescindibile per l’applicabilità
dell’istituto di sanatoria ex art. 36 dpr 380/2001 è la
sussistenza della cosiddetta “doppia conformità”: l’opera
eseguita deve essere, cioè, conforme sia alle norme vigenti
al momento della sua realizzazione, sia a quelle vigenti
alla presentazione della domanda.
----------------
Vale, tuttavia,
precisare che, ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 06.06.2001
n. 380 “in caso di interventi realizzati in assenza di
permesso di costruire, o in difformità da esso … il
responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario
dell’immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se
l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda”.
Condizione imprescindibile per l’applicabilità dell’istituto
in questione, dunque, è la sussistenza della cosiddetta “doppia
conformità”: l’opera eseguita deve essere, cioè,
conforme sia alle norme vigenti al momento della sua
realizzazione, sia a quelle vigenti alla presentazione della
domanda.
Pur dando atto della sussistenza di diversi orientamenti
giurisprudenziali, ritiene, infatti, il Collegio di aderire
alla scelta ermeneutica più rigorosa, deponendo in tale
senso la stessa lettera della norma, come sopra specificato
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.04.2006 n. 2306; Sez. V,
25.02.2009 n. 1126; Sez. IV, 02.11.2009 n. 6784; TAR Reggio
Calabria, n. 861 del 2015; TAR Lombardia, Brescia 23.06.2003
n. 870; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.06.2006 n. 1352;
TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 15.01.2004 n. 16; TAR
Emilia-Romagna, Parma 13.12.2007 n. 620; TAR Piemonte, Sez.
I, 18.10.2004 n. 2506; 20.04.2005 n. 1094; TAR Liguria, Sez.
I, 23.02.2007 n. 364; TAR Catania, Sez. I, 09.01.2009 n. 5;
TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 07.05.2008 n. 3501; Sez. VI,
04.08.2008 n. 9723 e Sez. III 19.11.2008 n. 19875; Cass. pen.,
Sez. III, 26.04.2007 n. 24451, 21.10.2008 n. 42526,
21.09.2009 n. 36350 e 21.01.2010 n. 9446)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 24.11.2015 n. 13283 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
base all'art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 “Si
ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti, che per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti, è
configurata una tipologia di abusivismo di particolare
gravità, in base alla presenza di alcuni segnali indicatori:
mero inizio di opere edilizie, o anche soltanto suddivisione
di un’area più o meno estesa in lotti, con modalità tali da
far supporre “la destinazione a scopo edificatorio”,
mediante opere concretamente idonee a stravolgere l’assetto
territoriale preesistente: situazioni, quelle sopra
descritte, corrispondenti rispettivamente a lottizzazione
c.d. “materiale”, o anche solo “negoziale”
e tali da giustificare l’adozione di severe misure
repressive
(art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di
cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che,
“ove non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta
ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio disponibile
del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva
–figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta
disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere abusive)– non deve confondersi con
l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento
edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la
disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite
nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca
casistica giurisprudenziale, una
lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in
presenza della preordinata trasformazione di una porzione di
territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita
maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la
consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o
integrazione della necessaria rete di opere di
urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la
prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di
complessi ad uso commerciale o direzionale– previa
suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce
dunque non tanto alla materiale entità dell’intervento
–programmato o in corso di realizzazione– ma alle finalità
ed alle conseguenze dello stesso, in termini di “peso
insediativo” sul territorio. Per tale ragione, potendo la
sanzione intervenire in via addirittura preventiva, si
richiede che l’intento sia evidenziato da elementi precisi
ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a
prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente
incompatibile sia con quello esistente che con quello
previsto dagli strumenti urbanistici.
La norma di riferimento, sopra riportata,
per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse
urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante
la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di
un’ampia porzione di territorio (“di terreni”),
non esclude in sé che la lottizzazione possa
avere luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente
preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in
una situazione, che rende oggettivamente più difficile la
configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30
del d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondate ed
assorbenti, nel caso di specie, le censure riferite ad
omessa puntuale individuazione dei presupposti della
lottizzazione abusiva, quali desumibili dal citato art. 30
del d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla citata norma “Si ha
lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando
vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti, che per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l’ubicazione o l’eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio”.
Nei termini sopra descritti, è configurata
una tipologia di abusivismo di particolare gravità, in base
alla presenza di alcuni segnali indicatori: mero inizio di
opere edilizie, o anche soltanto suddivisione di un’area più
o meno estesa in lotti, con modalità tali da far supporre “la
destinazione a scopo edificatorio”, mediante opere
concretamente idonee a stravolgere l’assetto territoriale
preesistente: situazioni, quelle sopra descritte,
corrispondenti rispettivamente a lottizzazione c.d. “materiale”,
o anche solo “negoziale” e tali da
giustificare l’adozione di severe misure repressive
(art. 30 cit., commi 7 e 8: nullità di eventuali atti di
cessione, nonché sospensione dell’intervento con atto che, “ove
non intervenga la revoca del provvedimento”, comporta
ex se l’acquisizione di diritto al patrimonio
disponibile del Comune delle aree lottizzate).
La nozione di lottizzazione abusiva
–figura di formazione giurisprudenziale, la cui compiuta
disciplina legislativa risale alla legge 28.02.1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell’attività
urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle
opere abusive)– non deve confondersi con
l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento
edificatorio non autorizzato, o non compatibile con la
disciplina urbanistica vigente (oggetto di sanzioni apposite
nel medesimo T.U. n. 380 del 2001).
Secondo una linea interpretativa, sorretta da ricca
casistica giurisprudenziale, una
lottizzazione abusiva può infatti individuarsi solo in
presenza della preordinata trasformazione di una porzione di
territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita
maglia al tessuto urbano, con conseguente necessità –per la
consistenza innovativa dell’intervento– di costituzione o
integrazione della necessaria rete di opere di
urbanizzazione (caratteristica, al riguardo, la
prefigurazione di interi quartieri residenziali –ovvero di
complessi ad uso commerciale o direzionale– previa
suddivisione del terreno in lotti edificabili).
Il testo della norma si riferisce dunque
non tanto alla materiale entità dell’intervento –programmato
o in corso di realizzazione– ma alle finalità ed alle
conseguenze dello stesso, in termini di “peso insediativo”
sul territorio. Per tale ragione, potendo la sanzione
intervenire in via addirittura preventiva, si richiede che
l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci,
ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un
perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia
con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti
urbanistici (cfr.
in senso sostanzialmente conforme, tra le tante, Cons.
Stato, VI, 29.01.2015, n. 410; 07.08.2015, n. 3911,
26.05.2015, n. 2649).
La norma di riferimento, sopra riportata,
per quanto incentrata sulla tutela dell’interesse
urbanistico più che di quello edilizio, perché sanzionante
la trasformazione urbanistica a scopo edificatorio di
un’ampia porzione di territorio (“di terreni”),
non esclude in sé che la lottizzazione possa avere
luogo anche in presenza di taluni edifici regolarmente
preesistenti: ma impone con evidenza particolari cautele in
una situazione, che rende oggettivamente più difficile la
configurazione della fattispecie di cui al citato art. 30
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nella situazione in esame non è contestata la preesistenza
di due immobili, su cui risulta effettuata una
ristrutturazione con mutamento di destinazione d’uso, con
nuove opere di urbanizzazione che appaiono, tuttavia,
limitate alla realizzazione di parcheggi (oltre
all’ammodernamento di altre infrastrutture già esistenti),
in un contesto che già sotto tale profilo non avalla, con la
necessaria consistenza di elementi indiziari, l’ipotesi
lottizzatoria, non emergendo la finalità caratteristica di
sottoporre a nuova edificazione terreni non urbanizzati,
corrispondenti a porzioni di un certo rilievo del
territorio.
La stessa Amministrazione, con la prima ordinanza di
sospensione dei lavori n. 396 del 05.05.2009, preannunciava
ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 (comunicazione di
avvio del procedimento) l’adozione di “provvedimenti
sanzionatori” e –non senza intrinseca contraddittorietà–
ingiungeva la demolizione di quanto realizzato, senza però
contestare la lottizzazione. Il giudice di primo grado
interpretava quindi l’atto in questione come mero ordine di
sospensione dei lavori, ormai privo di efficacia.
La misura tipica, di cui all’art. 30 del T.U., veniva quindi
emessa con l’impugnata ordinanza n. 30 del 25.01.2010, cui
faceva seguito la mera ricognizione di intervenuta
acquisizione dell’area, con atto n. 36057 del 24.06.2010.
Nella citata ordinanza n. 30 del 2010, in particolare,
appaiono recepite le conseguenze di un’ipotesi di reato
(lottizzazione abusiva) emersa in sede penale, ma che in via
amministrativa non appare suffragata da nuovi accertamenti,
in quanto la descrizione dell’intervento coincide con
quella, già in precedenza formulata per la sospensione dei
lavori.
Non modifica sostanzialmente tale stato di fatto la generica
enunciazione secondo cui –sulla base di non meglio precisati
“approfondimenti e valutazioni tecniche”– le opere
realizzate sarebbero apparse “riconducibili ad opere di
urbanizzazione che per la loro entità, o, in altri termini,
per le loro caratteristiche dimensionali e funzionali”
avrebbero comportato “uno stravolgimento dei luoghi,
finalizzato allo svolgimento di attività incompatibili con
la normativa vigente”; tali opere pertanto, “nella
loro complessità”, avrebbero determinato una “trasformazione
edilizia ed urbanistica tale, da configurare una
lottizzazione abusiva”.
La motivazione così sintetizzata, in effetti, appare in
buona parte tautologica e tale da non evidenziare i concreti
elementi in base ai quali le edificazioni preesistenti, con
l’aggiunta di parcheggi e nella nuova dimensione
direzionale, avrebbero tanto profondamente modificato
l’assetto del territorio da essere equiparabili
all’introduzione di un nuovo insediamento in area non ancora
urbanizzata (come avrebbe potuto ritenersi, ad esempio, in
presenza di un centro direzionale o commerciale di
consistenti dimensioni, realizzato in località inedificata,
o interessata in precedenza da sporadiche costruzioni
rurali, con esigenze infrastrutturali del tutto diverse).
Molto meno incisiva, rispetto a quella in astratto
descritta, è la situazione sottoposta a giudizio, in cui non
è contestato che i fabbricati, resi oggetto di mutamento di
destinazione d’uso, fossero già in precedenza estranei
all’uso agricolo dei terreni, così come non è contestato che
gli stessi non siano stati radicalmente trasformati,
rispetto all’originaria consistenza e che fossero già
serviti –tranne per quanto riguarda i parcheggi– da opere di
urbanizzazione primaria.
In tale contesto –pur restando salvi i provvedimenti che
l’Amministrazione è tenuta ad adottare, in presenza di opere
edilizie sprovviste dei necessari titoli abilitativi e non
assentibili– il Collegio ritiene che non siano stati
adeguatamente rappresentati i presupposti della
lottizzazione abusiva, con conseguente illegittimità dei
provvedimenti impugnati e con assorbimento di ogni ulteriore
motivo di gravame.
L’appello può dunque essere accolto, con le conseguenze
precisate in dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.11.2015 n. 5328 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'autorizzazione
paesaggistica costituisce “atto autonomo e presupposto
rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli
legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” (art. 146,
comma 4, del Codice per i beni culturali e paesaggistici):
il parametro normativo di riferimento per la valutazione
della Soprintendenza non va quindi individuato nella
disciplina urbanistico-edilizia, ma nella specifica
disciplina del vincolo paesistico, contenuta nel
provvedimento impositivo o, come nella specie, nella
normativa dettata con il piano paesistico.
---------------
Il potere dell’Autorità competente alla tutela del vincolo
paesistico di esprimere il giudizio in ordine alla
compatibilità di un intervento rispetto al vincolo medesimo
è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa,
poiché implica l’applicazione di cognizioni
tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori
scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di
opinabilità.
Di conseguenza, l’apprezzamento compiuto
dall’Amministrazione preposta alla tutela –da esercitarsi in
rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.– “è
sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i
profili della logicità, coerenza e completezza della
valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la
correttezza del criterio tecnico e del procedimento
applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della
relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede
di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la
sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di
opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga
sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la
sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti
opinabile”
---------------
3. – I motivi d’appello, tra di loro connessi e da esaminare
congiuntamente, sono infondati.
3.a - Come rilevato dalla sentenza impugnata,
l’apprezzamento della Soprintendenza –proprio perché
formulato in relazione alle prescrizioni del piano
paesistico– risulta condotto alla stregua del corretto
parametro normativo di riferimento.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce infatti “atto
autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o
agli altri titoli legittimanti l'intervento
urbanistico-edilizio” (art. 146, comma 4, del Codice per
i beni culturali e paesaggistici): il parametro normativo di
riferimento per la valutazione della Soprintendenza non va
quindi individuato nella disciplina urbanistico-edilizia, ma
nella specifica disciplina del vincolo paesistico, contenuta
nel provvedimento impositivo o, come nella specie, nella
normativa dettata con il piano paesistico.
3.b - Quanto invece alla sindacabilità -da parte del giudice
amministrativo- delle valutazioni espresse con tale parere,
la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che il potere
dell’Autorità competente alla tutela del vincolo paesistico
di esprimere il giudizio in ordine alla compatibilità di un
intervento rispetto al vincolo medesimo è connotato da
un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica
l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche
specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari
caratterizzati da ampi margini di opinabilità.
Di conseguenza, ritiene la giurisprudenza, l’apprezzamento
compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela –da
esercitarsi, come si sottolinea nella sentenza impugnata, in
rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.– “è
sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i
profili della logicità, coerenza e completezza della
valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la
correttezza del criterio tecnico e del procedimento
applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della
relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede
di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la
sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di
opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga
sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la
sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti
opinabile” (Cons. Stato, VI, 14.10.2015, n. 4747; della
medesima Sezione, ex plurimis, 02.03.2015, n. 1000;
03.07.2014, n. 3360; 22.04.2014, n. 2019; 01.04.2014, n.
1557).
Con riguardo alla specie, il giudizio espresso dalla
Soprintendenza in ordine alla compatibilità paesaggistica
dell’intervento non mette in luce profili di incoerenza e di
illogicità di tale evidenza da far emergere
l’inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale
compiuta, ma risulta congruo rispetto ai parametri di
discrezionalità tecnica cui deve presiedere una valutazione
paesaggistica
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.11.2015 n. 5327 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Il
sindaco omette l’ordinanza? Rischia l’omicidio colposo.
Cassazione. Le conseguenze dell’incidente nella zona di un
cantiere.
Il sindaco che non firma
un’ordinanza urgente per chiudere ai cittadini una zona
interessata da lavori pubblici può essere condannato per
omicidio colposo, oltre che per lesioni e omissione di atti
d’ufficio, se capita un incidente. E se l’incidente si
rivela mortale per più persone, la pena può arrivare a 15
anni di carcere, come prevede l’articolo 589 del Codice
penale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. IV penale, che
nella
sentenza 23.11.2015 n. 46400
ha scritto un altro capitolo nella complicata vicenda
giudiziaria nata dalla «tragedia del 1° maggio», quando otto
anni fa a Sorrento due donne furono uccise dalla caduta del
cestello di una gru, mentre alcuni operai addobbavano con le
luminarie la chiesa di Sant’Antonino.
La lunga storia giudiziaria ha fatto scattare la
prescrizione per le lesioni e l’omissione di atti d’ufficio,
mentre la Corte d’appello di Napoli dovrà tornare a
occuparsi del caso per rideterminare alla luce di questi
sviluppi la pena applicata all’omicidio colposo.
Al di là del caso sorrentino, sono i princìpi generali
indicati dalla Cassazione a fissare il perimetro per
l’attività dei sindaci. Anche se la ditta incaricata dei
lavori non presenta una richiesta di intervento, resta il
fatto che il sindaco «non poteva non essere consapevole» del
pericolo creato dal cantiere. In questo caso, il principio è
rafforzato dal fatto che l’ufficio del sindaco si trova
nella stessa piazza del cantiere. Con questa premessa,
scatta l’obbligo di adottare in modo tempestivo tutti gli
atti necessari «a tutelare l’incolumità dei cittadini», come
prevede l’articolo 54 del Testo unico degli enti locali.
Questo contesto di urgenza, aggiunge la Corte, fa sì che per
la legittimità dell’atto occorra solo «l’effettiva
esistenza di una situazione di pericolo» e non servono «formule
o formalità o procedure sacramentali». Ma non è solo
l’ordinanza urgente a tradurre in pratica il dovere del
sindaco, che può manifestarsi con qualsiasi «atto idoneo» a
evitare il pericolo, allertando la polizia o i vigili del
fuoco oppure imponendo misure di sicurezza alla ditta. È
l’inerzia, invece, a condannarlo (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2015).
---------------
MASSIMA
9. Quanto al ricorso di Fi.Ma. (proposto con
distinti atti di impugnazione dei
suoi due difensori) valgono le considerazioni che seguono.
Giova premettere che il Sindaco è a capo della struttura
comunale, ne coordina le
attività, provvede con ogni mezzo a sua disposizione ad
aiutare la propria cittadinanza
ad uscire dalle difficoltà dell'emergenza. E' un richiamo
assai generico ad una
funzione che invece secondo alcuni avrebbe avuto bisogno del
conferimento di ampi e
ben delineati poteri.
Ai sensi dell'art 54 Decreto Legislativo 18.08.2000
n. 267, c.d. TUEL (nel testo
vigente pro tempore) (Attribuzioni del Sindaco nei servizi
di competenza statale), il
Sindaco, quale ufficiale del Governo, oltre a sovraintendere
ad alcune materie che il
Comune tratta per conto dello Stato, "adotta, con atto
motivato e nel rispetto dei
princìpi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti
contingibili e urgenti al fine
di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità dei cittadini; per
l'esecuzione dei relativi ordini può richiedere al prefetto,
ove occorra, l'assistenza
della forza pubblica" (non si parlava di "sicurezza urbana",
introdotta nel 2008). Ne
consegue che nel potere del Sindaco non sono più ravvisabili
le limitazioni per materia
(sanità, etc.) già previste dal testo unico del 1915 e dalla
legge n. 142 del 1990 (Cons.
di Stato Sez. I del 20.02.2002).
Il Sindaco si limita dunque a "sovrintendere" al lavoro dei
dipendenti, ed in generale a
tutte le attività che oggi sono fondamentalmente assegnate
alla struttura comunale e
ai responsabili dei servizi; adotta invece (prendendosene in
carico tutta la
responsabilità civile e penale senza possibilità -se non
parziale- di trasferirla su altri
soggetti), i provvedimenti contingibili ed urgenti necessari
a tutelare l'incolumità dei
cittadini.
Orbene, è chiaro come l'attribuzione dei reati di omicidio
colposo e lesioni al
Fi. sia collegata in buona parte a quello di cui
all'art. 328, comma 1, c.p. sub
capo c).
Il delitto di omissione di atti d'ufficio è un reato di
pericolo la cui previsione sanziona il
rifiuto non già di un atto urgente, bensì di un atto dovuto
che deve essere compiuto
senza ritardo, ossia con tempestività, in modo da conseguire
gli effetti che gli sono
propri in relazione al bene oggetto di tutela (fattispecie
in cui Corte ha ritenuto che
legittimamente la decisione impugnata avesse escluso la
configurabilità del reato con riferimento alla mancata
adozione di un'ordinanza sindacale contingibile e urgente,
in
relazione al pericolo cagionato ai pedoni e ad un'abitazione
da una frana insistente
sulla sede stradale, cui si sarebbe potuto ovviare anche con
la chiusura della strada
ad opera dei Vigili del Fuoco) [Cass. pen. Sez. VI, n.
33857 del 07.05.2014 Rv.
262076].
Inoltre, ai fini della configurabilità dell'elemento
psicologico del delitto di rifiuto di atti
d'ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia
consapevolezza del proprio
contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la
realizzazione di un evento
"contra ius", senza che il diniego di adempimento trovi
alcuna plausibile
giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il
dovere di azione.
Infine, è bene precisare che il rifiuto di un atto d'ufficio
si verifica non solo a fronte di
una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista
un'urgenza sostanziale,
impositiva del compimento dell'atto, in modo tale che
l'inerzia del pubblico ufficiale
assuma, per l'appunto, la valenza del consapevole rifiuto
dell'atto medesimo.
Ciò premesso, se è vero che il ricorrente non fu investito
della specifica richiesta
d'intervento in relazione ai lavori posti in essere dalla
ditta Do., di certo egli
non poteva non essere consapevole della situazione di
effettivo e concreto pericolo
per la pubblica incolumità pedonale e veicolare in cui
versava l'attività posta in essere
dalla ditta Do., avvertita nettamente dalla comunità
cittadina e persino dal
Vice-Sindaco Fi.Ro. (pag. 26 sent.) sia per il
contatto con Di Ma.Ro.
il giorno precedente ai fatti e l'eloquente reazione
comportamentale avuta
dall'imputato a seguito dell'esplicita doglianza
rappresentata dalla donna (pag. 27
sent.) in relazione alle modalità dei lavori in questione,
sia per l'ubicazione del suo
ufficio -ove si recava assiduamente-posto nella Piazza S.
Antonino di fronte al luogo
del sinistro nelle immediate adiacenze della Basilica. Per
non dire degli accertati
frequenti contatti tra il sindaco e i Do., anche
nella stessa piazza (pag. 27
sent.), in occasione dei quali non potette non rendersi
conto delle modalità esecutive
dei lavori per le luminarie.
Sicché è innegabile sia la consapevolezza di Fi.Ma. dell'incombente pericolo
sia la sua oggettiva inerzia a fronte dell'immediata
necessità di prevenire o eliminare
il medesimo.
Orbene, nelle ordinanze contingibili ed urgenti ai sensi
dell'art. 54 c. 2 TUEL, rientra
una tipologia di provvedimenti amministrativi aventi un
contenuto non previamente
determinabile e quindi di atti del tutto atipici ed
eccezionali che presuppongono una
situazione di estrema gravità dipendente dai fattori più
disparati i quali, però, non
possono ricondursi solo a fenomeni di dimensioni bibliche
(quali terremoti, frane,
valanghe, inondazioni, etc.), bensì anche ad eventi più
modesti, ma comunque idonei
a porre in pericolo l'incolumità di un numero indeterminato
di persone.
Né può ritenersi che l'adozione di tali ordinanze
presupponga formule o formalità o
procedure sacramentali proprio a cagione dell'estrema
urgenza che le impone,
contando ai fini della legittimità dell'atto precipuamente
l'effettiva esistenza di una
situazione di pericolo imminente al momento di adozione
dell'ordinanza (Cons. di
Stato, n. 125 del 04.02.1998).
Né la presenza in Sorrento del Commissariato di P.S.,
competente per il rilascio della
necessaria autorizzazione (ex art. 110 R.D. n. 635/1949 della
quale non risulta, prima
della data del fatto, essere mai stata avanzata richiesta:
v. pag. 13 sent. di primo
grado) per i lavori concernenti le luminarie che doveva
effettuare la ditta
Do., implicava l'esclusione dalle prerogative del
Sindaco della competenza
attribuitagli dall'art. 54, c. 2, TUEL sopra richiamato.
Invero, la sicurezza pubblica non coincide con l'incolumità
pubblica, anche se sovente
i due termini siano adoperati impropriamente in via
cumulativa o alternativa. La prima
ha portata certamente più vasta ed attiene ad ogni possibile
attentato a qualsiasi
bene giuridico o materiale facente capo ai cittadini (è
stata definita come "quella
funzione che consente agli individui di vivere in
tranquillità nella società e di agire in
essa per manifestare la loro individualità e per soddisfare
i loro interessi"), mentre la
seconda si riferisce esclusivamente alla preservazione delle
condizioni fisiche degli
stessi (ovvero anche dell'integrità fisica della
popolazione).
Sicché sotto tale profilo è innegabile che
il Sindaco, al
quale il capo d'imputazione ascrive espressamente anche la
mancanza di diligenza e, quindi, la colpa generica, dovesse comunque attivarsi, quale massimo rappresentante
dell'Ente Comunale e
della collettività cittadina, non solo e non necessariamente
con l'adozione di
un'ordinanza ad hoc bensì con qualsiasi altro atto
amministrativo o comportamentale
(allertamento delle Forze dell'ordine, dei Vigili del Fuoco
o della stessa Polizia
municipale che da lui dipende, imposizione alla ditta
Do. delle opportune e
palesemente omesse cautele) idoneo a prevenire il pericolo
per la pubblica incolumità
e gl'infortuni sul lavoro, con adozione di ogni mezzo
appropriato (almeno
transennando la zona ed impedendo il traffico pedonale e
veicolare in prossimità ed,
ancor più, nello spazio sottostante la piattaforma mobile).
Si deve, infine, rammentare che non è mai deducibile in sede
di legittimità la
questione relativa alla pretesa eccessività della somma di
denaro liquidata a titolo di
provvisionale e comunque il provvedimento di liquidazione
della provvisionale (Cass. pen. Sez. IV, n. 24791 del 23.06.2010, Rv. 248348; Sez. H n.
36536 del 20.06.2003,
Rv. 226454).
Se, dunque, in merito al reato sub a) deve ritenersi
l'infondatezza dei ricorsi presentati nell'interesse del
Fiorentino, si deve al contempo, ai sensi dell'art. 129, 1°
comma c.p.p. rilevare che i reati di cui agli artt. 590 c.p.
(capo b) e 328 c.p. (capo c) ascritti al Fi. sono
rimasti estinti per l'intervenuto decorso del termine
prescrizionale all'11.5.2014, in assenza di periodi di
sospensione per una durata utile alla data odierna e di
cause di inammissibilità, né risultando gli estremi evidenti
per l'assoluzione di merito ai sensi dell'art. 129, 2° comma, c.p.p..
10. Consegue, nei confronti di Fi.Ma.,
l'annullamento della sentenza impugnata relativamente al
reato di cui al capo b) perché estinto per prescrizione con
rinvio per la determinazione ed eliminazione della relativa
pena applicata ex art. 589, ultimo comma, c.p., ad altra
sezione della Corte d'Appello di Napoli. La sentenza
impugnata dev'essere, invece, annullata senza rinvio in
ordine al reato di cui al capo c) perché estinto per
prescrizione con eliminazione della relativa pena di mesi
quattro di reclusione.
Residua il rigetto del ricorso di Fi.Ma. nel
resto.
11. Quanto al ricorso del responsabile civile Comune di
Sorrento, dalla lettura del decreto di citazione a giudizio
notificato si rileva la sua sostanziale completezza e
correttezza essendo stati trascritti a sufficienza nel corpo
di esso gli elementi relativi all'allegato di cui si lamenta
la mancanza e non rilevandosi peculiari violazioni previste
dall'art. 83 c.p.p..
Ma, in ogni caso, la pretesa nullità della citazione
dovrebbe comunque ritenersi sanata dalla comparizione e
costituzione in primo grado del responsabile civile Comune
di Sorrento ai sensi dell'art. 184 c.p.p. trattandosi di
nullità a regime intermedio e non risultando che la relativa
eccezione sia stata sollevata se non in sede di discussione
del giudizio di primo grado, tramite la memoria all'uopo
depositata.
Inoltre, non può escludersi la responsabilità solidale del
Comune di Sorrento in relazione alla residuata posizione del
Sindaco.
Questi, oltre che essere imputato quale Ufficiale del
Governo, rappresenta in ogni caso anche, e soprattutto,
l'organo di vertice dell'amministrazione Comunale ed in tale
veste ha omesso di attivarsi tempestivamente ed
adeguatamente per scongiurare l'incombente e visibile
pericolo per la pubblica incolumità.
Del resto, non va sottaciuto che "Le questioni concernenti
l'eventuale esclusione della parte civile o l'ammissibilità
della citazione del responsabile civile, che già siano state
poste e risolte nel giudizio di primo grado, non possono
essere oggetto di mera riproposizione nel processo di
appello, dovendosi considerare in tal caso irrevocabili le
deliberazioni adottate in argomento nella fase antecedente
di giudizio" (Cass. pen. Sez. IV, n. 7291 del 21.11.2002, Rv.
225727): a fortiori, deve aggiungersi, non può esserne
consentita l'ulteriore riproposizione in sede di
legittimità. |
CONDOMINIO: Amministratore condannato per l’«inerzia».
Manutenzione. Reato di lesioni colpose.
L’amministratore è «garante» per il condominio. E risponde
di lesioni colpose se non si è attivato per prevenire un
pericolo anche se non ha il via libera dell’assemblea e non
dispone di fondi.
La Corte di
Cassazione - Sez. IV penale, con la
sentenza 23.11.2015 n. 46385, ricorda che l’amministratore
riveste una posizione di garanzia in virtù della quale
risponde anche penalmente per le conseguenze delle sue
omissioni.
Partendo da questo principio la Suprema corte, respinge il
ricorso di un amministratore condannato per lesioni colpose
(articolo 590 del Codice penale) a causa delle ferite
riportate da un bambino colpito dai calcinacci. Una
responsabilità che il ricorrente ritiene di non avere perché
non era mai stato messo al corrente di un concreto pericolo
di crollo, le assemblee da lui convocate andavano
regolarmente deserte e, per finire, le casse erano vuote
perché la maggior parte dei condomini era morosa.
Nessuna giustificazione è però utile a salvarlo dalla
condanna. La Cassazione si allinea alle conclusioni della
Corte di merito e ricorda che l’amministratore ha l’obbligo
di rimuovere le situazioni che mettono a rischio
l’incolumità di terzi, eventualità che, nel caso esaminato,
era insita nello stato del rivestimento dell’edificio. Un
dovere di controllo sulla parti comuni dell’edificio che
esiste anche al di fuori degli atti cautelativi e urgenti e
che è non subordinato a un preventivo ok dell’assemblea o
all’esistenza di una segnalazione di pericolo (articolo 1130,
n. 4, del Codice civile).
Per quanto riguarda invece le opere
di manutenzione straordinaria, che rivestono il carattere
d’urgenza, l’amministratore ha la facoltà di intervenire
informando l’assemblea in un secondo momento (articolo 1135
del Codice civile ultimo comma). Nel caso esaminato
l’intervento di manutenzione doveva essere considerato
urgente anche a tutela dell’incolumità dei passanti. I
giudici sottolineano che non impedire un evento, per chi ha
l’obbligo giuridico di farlo, equivale a cagionarlo
(articolo 40, comma 2, del Codice penale).
È la situazione in
cui si è venuto a trovare l’amministratore condannato,
titolare dell’obbligo di garanzia attribuito dalle norme
civilistiche e gli obblighi di compiere atti di manutenzione
e gestione sulle cose comuni e di atti di amministrazione
straordinaria anche senza il sì dell’assemblea. Né la cassa
vuota e la morosità dei condòmini può essere considerata una
scusante per l’inerzia.
Eliminare il pericolo, precisano i
giudici, non vuol dire necessariamente far eseguire
interventi di manutenzione, ma anche semplicemente seguire
la strada della prevenzione adottando delle cautele.
L’amministratore avrebbe, infatti, evitato la condanna se
avesse provveduto a far transennare la zona o a far
rimuovere le mattonelle che rischiavano di cadere (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nell’ambito
del rapporto di pubblico impiego, rilevano, ai fini della
configurabilità dell’esercizio di mansioni superiori e della
loro rilevanza ai fini retributivi, quali presupposti
imprescindibili, lo svolgimento di fatto, in modo
continuativo e prevalente di funzioni rientranti nella
qualifica superiore, il conferimento mediante atto formale
delle mansioni stesse, l’esistenza di un posto che risulti
vacante nel relativo organico.
Viene impugnata la sentenza n. 1037/2009 del Tar per la
Calabria, sede di Catanzaro, con la quale si rigetta la
domanda volta ad ottenere il riconoscimento formale delle
mansioni superiori svolte e delle connesse differenze
retributive per il periodo 01.02.1993 al 12.11.1996.
Sostiene la ricorrente che il Tar non avrebbe tenuto conto
degli atti esistenti a fascicolo, comprovanti la sua
assegnazione alla qualifica superiore di capo-sala, rispetto
a quella giuridicamente ed economicamente rivestita di
infermiera professionale.
Cita l’interessata tra i vari documenti:
• una comunicazione del Primario del Pronto Soccorso del
presidio Ospedaliero dell’Ospedale di Paola, nella quale si
afferma che la dipendente rivestirà le mansioni superiori di
Capo-Sala presso il locale Pronto Soccorso;.
• una turnazione settimanale, riguardante il personale
paramedico nella quale la ricorrente è sempre menzionata
come capo-sala;
• un verbale d’intesa tra la Direzione Sanitaria e le OO.SS.
del Presidio Ospedaliero del 06.06.1994 in cui si chiede al
Coordinatore Sanitario la revoca delle funzioni di
capo-sala;
• una comunicazione datata 29.06.1995 in cui il Primario
disponeva il rientro dalle ferie della capo-sala Ri.Fr..
Dal che si evincerebbe in modo inequivocabile, secondo
l’appellante, l’attribuzione in modo stabile alla medesima
delle mansioni superiori.
Erroneamente poi il Tar avrebbe affermato l’insussistenza
presso il citato Pronto Soccorso di posti vacanti di
capo-sala, in quanto l’Azienda Sanitaria nella nota
09.02.2009 dichiarava risultante nella P.O. definitiva
l’esistenza di un posto di “collaboratore professionale
sanitario esperto” che corrisponde alla vecchia figura
di capo-sala.
Si osserva al riguardo che ai fini della configurabilità
dell’esercizio di mansioni superiori e della loro rilevanza
ai fini retributivi, costituiscono presupposti
imprescindibili: lo svolgimento di fatto, in modo
continuativo e prevalente di funzioni rientranti nella
qualifica superiore, il conferimento mediante atto formale
delle mansioni stesse, l’esistenza di un posto che risulti
vacante nel relativo organico.
Ora, a prescindere dalla valenza probatoria della
documentazione prodotta dalla ricorrente circa l’effettivo
svolgimento delle mansioni superiori, appare evidente
l’insussistenza delle ulteriori condizioni e cioè: un atto
formale di conferimento dell’incarico e il posto vacante in
organico.
Quanto al primo aspetto, sia dagli accertamenti istruttori
sia dalla documentazione versata in atti, non è emerso alcun
provvedimento formale di assegnazione della ricorrente alle
superiori mansioni.
Quanto al secondo punto si rileva dall’istruttoria che
all’epoca dei fatti non risultavano in organico posti
vacanti con funzioni di capo-sala.
Consegue a quanto detto l’infondatezza dell’appello con
conseguente conferma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 23.11.2015 n. 5303 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il Comune vieta impianti troppo tecnologici nel
traffico.
Il TAR ha negato l'autorizzazione all'installazione
di monitor giganti predisposti alla riproduzione di immagini
pubblicitarie in alta definizione sui palazzi delle strade
del centro abitato cittadino. Si rischia infatti di
interferire con la sicurezza della circolazione stradale
creando distrazione agli automobilisti ed ai pedoni.
---------------
... per
l'annullamento del provvedimento p.g. 163393/2015 in data
18.03.2015, di rigetto della domanda di autorizzazione
all'installazione di 2 impianti di riproduzione e/o
trasmissione immagini da posizionare su parete in Milano,
Corso Buenos Ayres n. 92;
...
Con ricorso depositato in data 21.04.2015 Town Group S.r.l.
ha impugnato, chiedendone la sospensione in via incidentale,
il diniego all’installazione di due impianti pubblicitari di
riproduzione e/o trasmissione di immagini deducendone
l’illegittimità sotto plurimi profili.
In particolare, Town group s.r.l. ha evidenziato la
violazione della Delibera della Giunta comunale n. 1187 del
06.06.2014, secondo la quale il parere viabilistico della
Polizia locale dovrebbe essere richiesto solo in caso di
impianti di trasmissione dinamica continua; ha censurato
altresì la violazione dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990,
avendo il comune convenuto respinto la sua istanza in base a
motivazione diversa da quella contenuta nel preavviso di
rigetto, e l’errata applicazione dell’art. 23 del d.lgs. n.
285/1992.
Sotto quest’ultimo profilo, la società ricorrente ha
evidenziato che il parere negativo della polizia locale al
quale il provvedimento di diniego aveva sostanzialmente
rinviato per relationem, avrebbe di fatto travisato i
presupposti di legge necessari per la legittima collocazione
di impianti pubblicitari.
Town Group ha infine dedotto un profilo di disparità di
trattamento per contraddittorietà esterna nel diniego
impugnato.
Si è costituito il comune, che ha chiesto la reiezione del
ricorso, e la causa è stata trattenuta in decisione, dopo la
fissazione del merito ex art. 55, comma 10 c.p.a., alla
pubblica udienza del 04.11.2015.
Il ricorso è da respingere, per quanto di ragione.
Quanto ai primo due motivi, il Collegio ritiene che essi
siano palesemente infondati, sulla base delle seguenti
considerazioni:
- la Delibera della Giunta comunale n. 1187 del 06.06.2014
non ha escluso la possibilità per il comune di richiedere il
parere di viabilità alla polizia locale per qualsiasi
ipotesi di nuova installazione di impianti di riproduzione o
trasmissioni immagini, stante il disposto di cui all’art. 23
del Codice della Strada;
- l’art. 10-bis della legge sul procedimento amministrativo
è stato rispettato, in quanto il secondo parere chiesto alla
polizia locale ha semplicemente confermato, con una
motivazione meno criptica, quanto già espresso nel primo
parere, sul quale la società ricorrente era stata messa in
grado di interloquire con la precedente comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Altresì chiaramente infondato è l’ultimo motivo di ricorso,
basato su una presunta disparità di trattamento da parte
dell’amministrazione comunale, in relazione alla quale però
non sono stati forniti elementi di prova sufficienti o
comunque sintomatici del vizio rilevato da parte della
ricorrente, ferma restando la necessità ineludibile per
l’amministrazione di rispettare le norme regolatrici della
materia, con conseguente eventuale necessità di revoca
futura delle autorizzazioni illegittime concesse, e non, al
contrario, automatico rilascio di nuove autorizzazioni a
loro volta illegittime.
Venendo al nucleo fondamentale e sostanziale delle censure
svolte da Town Group (violazione dell’art. 23, comma 1 del
codice della strada, oltre che dell’art. 8 del regolamento
comunale sulla pubblicità), è possibile formulare le
seguenti osservazioni.
La società ricorrente sostiene che il parere viabilistico
della polizia locale non avrebbe esplicitato il percorso
logico-valutativo che ha condotto alla conclusione negativa,
non risultando comprensibile, secondo la deduzione di parte,
se ed in quali termini fossero stati valutati quei parametri
(dimensioni, forma, colori, disegni e ubicazione) che
soltanto potrebbero determinare il divieto di collocazione
di impianti pubblicitari.
Il Collegio osserva che, nel provvedimento impugnato, il
comune resistente ha rilevato il contrasto con le norme
sopra citate (art. 23 del Cds e art. 8 del regolamento), in
quanto “le posizioni degli impianti a parete proposti
sull’immobile di Corso Buenos Aires 92 (…) sarebbero
collocati in prossimità di uno dei nodi più complessi e
trafficati della città. La posizione degli impianti potrebbe
distrarre l’attenzione dell’utenza veicolare e pedonale con
conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione (…)”.
La motivazione risulta congrua e fondata, in relazione alle
norme cui rimanda.
In particolare, l’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 285/1992
stabilisce che “lungo le strade o in vista di esse è
vietato collocare insegne, cartelli, manifesti, impianti di
pubblicità o propaganda, segni orizzontali reclamistici,
sorgenti luminose, visibili dai veicoli transitanti sulle
strade, che per dimensioni, forma, colori, disegno e
ubicazione (…) arrecare disturbo visivo agli utenti della
strada o distrarne l'attenzione con conseguente pericolo per
la sicurezza della circolazione”.
Non vi è dubbio che il comune, nel pervenire al suo diniego,
abbia valutato sia la posizione (ubicazione) dei cartelli da
autorizzare sia l’effetto visivo sugli utenti della strada.
Si tratta di valutazione tecnico-discrezionale che può
essere sindacata soltanto per manifesta illogicità o
travisamento dei presupposti di fatto; nel caso di specie,
non ricorrono né l’una né l’altra ipotesi, essendo pacifica
tra le parti l’ubicazione dei cartelli rispetto alla strada
e la particolare complessità di traffico pedonale e
veicolare della zona in cui avrebbero dovuto essere
installati. Tale complessità comporta la deduzione logica di
un potenziale pericolo da “distrazione” per la
circolazione stradale.
Come già in altre occasioni ribadito, infatti, il bene
primario protetto dalla norma del Cds è quello della
sicurezza stradale, che deve essere tutelato da lesioni
anche solo astrattamente ipotizzabili (si veda, tra le
altre, sent. n. 1395/2013 emessa dalla Sezione).
Di conseguenza, il provvedimento è legittimo anche sotto
questo profilo (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.11.2015 n. 2454 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Chi
può impugnare il permesso di costruire?
Impugnare il permesso di costruire: il Consiglio di Stato
chiarisce che oltre al proprietario confinante può farlo
anche un operatore economico che risulti realmente
danneggiato.
Il Consiglio di Stato con la
sentenza 19.11.2015 n. 5278
fornisce ulteriori indicazioni su chi è legittimato a
impugnare il permesso di costruire e sul concetto di “vicinitas”
.
Nel caso in esame, il titolare di una struttura alberghiera
impugna il permesso di costruire con cui una società aveva
ottenuto l’autorizzazione a riqualificare un vicino
complesso industriale dismesso, attraverso la demolizione e
realizzazione di 3 nuovi edifici, uno dei quali destinato ad
uso turistico-alberghiero.
Ritenendo detto permesso illegittimo e soprattutto lesivo
dei propri interessi (la costruzione di un nuovo albergo
nelle vicinanze lo avrebbe danneggiato), il titolare
dell’attività avanza ricorso al Tar Abruzzo chiedendo
l’annullamento del titolo edilizio.
Sia il Comune che parte resistente sostengono, tra le altre
cose, l’illegittimità a procedere da parte del ricorrente.
Il Tar, respingendo le eccezioni sollevate dal Comune e
dalla società titolare del permesso di costruire, accoglie
il ricorso e annulla il permesso di costruire.
La società resistente e il Comune ricorrono a loro volta al
Consiglio di Stato che accoglie il ricorso.
Il Consiglio di Stato si sofferma sulla nozione di “vicinitas”:
ad impugnare il permesso di costruire può essere il
proprietario di un immobile confinante, adiacente o
prospiciente su quell’oggetto dell’intervento assentito
oppure da altri soggetti che si trovano in una situazione di
“stabile collegamento” con la zona.
Nel corso degli anni il concetto di “vicinitas” si è
via via affinato, fino a riconoscere una più ampia platea di
soggetti abilitati al ricorso: anche agli operatori
economici è consentito far ricorso contro un permesso di
costruire cui è correlata un’autorizzazione commerciale, a
condizione che siano in grado di dimostrare che l’intervento
autorizzato comporterebbe una lesione dei loro diritti.
L’impugnazione del permesso di costruire non deve essere un
modo per ostacolare la concorrenza e la libertà di
stabilimento e deve essere supportata da valide motivazioni
da valutare caso per caso.
Se il nuovo insediamento commerciale serve in tutto o in
parte lo stesso bacino di clientela circoscrivibile in un
determinato ambito spaziale, può rappresentare un danno per
l’operatore alberghiero già presente; se, invece, il bacino
di clientela non è facilmente determinabile, il ricorso deve
essere considerato come un tentativo di porre limiti alla
libera concorrenza.
Nel caso in esame, quindi, in base a una serie di
considerazioni, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso e
conferma la validità del permesso di costruire (commento
tratto da www.acca.it).
---------------
MASSIMA
3. Osserva in via preliminare il collegio, in coerenza
con la costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da
ultimo e per tutte Ad. Plen. 25.02.2014 n. 9), come l'azione
di annullamento davanti al giudice amministrativo sia
soggetta a tre condizioni fondamentali: il c.d.
titolo o possibilità giuridica dell'azione (cioè la
posizione giuridica configurabile in astratto da una norma
come di interesse legittimo, ovvero come altri dice la
legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale
posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal
quisque de populo rispetto all'esercizio del potere
amministrativo) ; l'interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c.)
; la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva,
discendente dall'affermazione di colui che agisce in
giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal
lato attivo) .
Tutte le condizioni dell'azione giudiziale anzidette,
quindi, devono necessariamente sussistere anche nel caso di
impugnativa di titoli edilizi.
Infatti, è ormai ius receptum come
l'art. 10 della legge n. 765 del 1967
(che ha novellato in parte qua l'art. 31, comma 9,
della legge n. 1150 del 1942) non abbia
introdotto un'azione popolare (che consentirebbe a qualsiasi
cittadino di impugnare il provvedimento che prevede la
realizzazione di un'opera per far valere comunque
l'osservanza delle prescrizioni che regolano
l'edificazione), ma abbia più semplicemente voluto
riconoscere una posizione qualificata e differenziata in
favore di chi si trovi in una specifica situazione
giuridico-fattuale rispetto all'intervento edilizio
assentito, per cui il provvedimento impugnato venga
oggettivamente ad incidere la sua posizione sostanziale,
determinandone una lesione concreta, immediata e attuale.
E tale assunto, giova evidenziarlo, risulta in oggi ancora
più corroborato a seguito dell'intervenuta abrogazione del
richiamato art. 31 della legge n. 1150/1942, ad opera
dell'art. 136, comma 1, lettera a), del Testo Unico
dell'Edilizia.
3.1. Così la giurisprudenza amministrativa ha elaborato al
riguardo la nozione di vicinitas riconoscendo, in
linea di principio, la legittimazione a contestare in sede
giurisdizionale i titoli edilizi, solo a chi sia titolare di
immobili nella zona in cui è stata assentita l'edificazione
e a coloro che si trovino in una situazione di “stabile
collegamento” con la stessa.
La richiamata nozione di vicinitas, peraltro, è stata
nel tempo affinata e più adeguatamente specificata nella sua
concreta portata attraverso significativi e sostanziali
correttivi .
Da un lato, infatti, dopo le prime pronunce tendenti
a circoscrivere la legittimazione ad agire ai soli
proprietari frontisti, si è progressivamente estesa la
platea dei soggetti abilitati al ricorso, riconoscendo un
più ampio interesse di zona con riguardo, altresì, alla
posizione degli operatori economici che intendano
contrastare un titolo edilizio a cui si accompagni una
contestuale autorizzazione di natura commerciale.
Dall'altro lato, però, si è sempre più avuto modo di
precisare come il semplice dato materiale della vicinitas,
non sempre costituisca oggettivo ed incontrovertibile
elemento di individuazione della legittimazione e
dell'interesse ad agire, dovendosi comprovare il reale
pregiudizio che venga a derivare dalla realizzazione
dell'intervento assentito, specificando con riferimento alla
situazione concreta e fattuale come, perché, ed in quale
misura il provvedimento impugnato incida la posizione
sostanziale dedotta in causa, determinandone una lesione
concreta, immediata e di carattere attuale.
Infatti, una diversa posizione che non tenga conto di una
più attenta e oculata disamina della situazione dedotta in
causa, al di là della rappresentazione formulata dal
ricorrente, finirebbe per avallare una inammissibile sorta
di azione popolare nei confronti dell'operato
dell'amministrazione, per conseguire l'annullamento di ogni
provvedimento che consenta interventi non graditi da parte
dei vicini.
3.2. Allo stato attuale, quindi, va
osservato come la nozione di vicinitas vada
diversamente apprezzata, quanto meno con riguardo alla
circostanza per cui :
a) ad impugnare il permesso di costruire sia o meno il
titolare di un immobile confinante, adiacente o prospiciente
su quello oggetto dell'intervento assentito;
b) ad impugnare il permesso di costruire cui è correlata
un'autorizzazione commerciale, sia un operatore economico.
3.3. Invero, nel caso di cui alla lettera a) che precede, la
giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte precisato
con un indirizzo assolutamente prevalente che, ai fini della
legittimazione a impugnare un titolo edilizio da parte del
proprietario confinante (o di chi si trovi in una posizione
analoga), è sufficiente la semplice vicinitas, ossia
la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra
l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori,
escludendosi in linea di principio la necessità di dare
dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore.
Tale pregiudizio, infatti, deve ragionevolmente ritenersi
sussistente “in re ipsa in quanto consegue
necessariamente dalla maggiore tropizzazzione (traffico,
rumore), dalla minore qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica e dalla possibile diminuzione di valore
dell'immobile” ( cfr. da ultimo e per tutte Cons. Stat.
Sez IV, 22.09.2014 n. 4764 ed i richiami giurisprudenziali
ivi operati) .
Diversamente, nel caso in cui ad impugnare
il titolo edilizio non sia il proprietario confinante (o un
soggetto che si trovi in posizione analoga) la medesima
giurisprudenza, ed in particolare quella di questa Sezione
che il collegio pienamente condivide, ha precisato con
indirizzo pressoché univoco che il mero criterio della
vicinitas riguardato in senso solo materiale non può di
per sé radicare la legittimazione al ricorso giurisdizionale
“prescindendo dal generale principio dell'interesse ad
agire in relazione alla lesione concreta, attuale e
immediata della posizione sostanziale dell'interessato……..,
presupponendo altresì la detta legittimazione la
specificazione, con riferimento alla situazione concreta e
fattuale del come, del perché ed in quale misura il
provvedimento impugnato si rifletta sulla propria posizione
sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata
e di carattere attuale”
(Sez. IV 5.11.2004 n. 7245; 17.09.2012 n. 4924; 27.01.2012
n. 420; 30.11.2010 n. 8364; 04.12.2007 n. 6157) .
Ed al riguardo è stato aggiunto “che la
sussistenza dell'interesse ad agire deve essere valutata in
astratto, con riferimento al contenuto della domanda, e non
secundum eventum litis, e che requisiti imprescindibili per
la configurazione di questa condizione dell'azione sono il
suo carattere personale, la sua attualità e la sua
concretezza…… per cui la lesione arrecata dal provvedimento
impugnato deve essere effettiva, nel senso che
dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta
un danno certo alla sfera giuridica della ricorrente,ovvero
potenziale, intendendosi come tale, però, quello che
sicuramente (o molto probabilmente) si verificherà in futuro”
(Sez. IV 30.11.2010 n. 8364) .
Infatti, ”al fine di evitare il
proliferare di ricorsi non effettivamente rispondenti al
principio della tutela di un interesse qualificato……… in
concreto devono ritenersi titolati alla impugnativa solo i
soggetti che possono lamentare una rilevante e
pregiudizievole alterazione del preesistente assetto
urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione
dell'intervento controverso……. in termini, ad esempio, di
deprezzamento del valore del bene o di concreta
compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente”
(Sez. IV 17.09.2012 n. 4924) .
Ed in questo senso, la giurisprudenza della Sezione ha avuto
modo di precisare ulteriormente che mentre
la comprovata vicinitas è elemento sufficiente a
legittimare l’impugnativa di un titolo edilizio da parte del
proprietario confinante, non può viceversa “ambire alla
stessa tutela il proprietario confinante con l'edificio a
sua volta confinante con quello oggetto di intervento
edilizio, in quanto ciò determinerebbe una vera e propria
sostituzione processuale, in violazione dell'articolo 181
c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere in giudizio
in nome proprio un editto altrui se non nei casi
espressamente previsti dalla legge”
(Sez. IV 01.07.2013 n. 3543) .
3.4. Nel caso in cui ad impugnare il permesso di costruire
correlato ad una autorizzazione commerciale sia un operatore
economico, il requisito della vicinitas ha poi subito
una peculiare elaborazione da parte della giurisprudenza di
questo Consiglio .
In particolare il criterio dello stabile “collegamento
territoriale” che deve legare il ricorrente all'area di
operatività del controinteressato per poterne qualificare la
posizione processuale e conseguentemente il diritto di
azione, deve essere riguardato in un'ottica più ampia
rispetto a quella usuale.
Così il concetto di vicinitas nella
contestazione di una struttura commerciale, “si specifica
identificandosi nella nozione di stesso bacino d'utenza
della concorrente, tale potendo essere ritenuto anche con un
raggio di decine di chilometri”
(cfr. tra le tante Cons. St. Sez. IV 12.09.2007 n. 4821;
20.11.2007 n. 6613) .
Pertanto, nell'ipotesi in cui ad impugnare
il permesso di costruire sia il titolare di una struttura di
vendita, affinché il suo interesse processuale possa
qualificarsi personale, attuale e diretto, deve potersi
ravvisare la coincidenza, totale o quanto meno parziale, del
bacino di clientela, tale da poter oggettivamente
determinare un'apprezzabile calo del volume d'affari del
ricorrente.
In sostanza, l'insediamento commerciale
realizzato ex novo nella zona può considerarsi
pregiudizievole e radicare un interesse tutelabile, quando
venga a servire oggettivamente in tutto o in parte uno
stesso bacino di clientela, oggettivamente circoscrivibile
in un determinato ambito spaziale.
Così, la legittimazione al ricorso non può
di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del
giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi,
di mero fatto o contra ius, siccome volti nella
sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di
stabilimento.
E ciò in coerenza con la funzione svolta dalle condizioni
dell'azione nei processi di parte, innervati come sono dal
principio della domanda e dal suo corollario rappresentato
dal principio dispositivo; sul punto va richiamata la tesi
(corroborata dalla più recente giurisprudenza nelle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, cfr. 22.04.2013 n. 9685),
secondo cui tali condizioni (ed in
particolare il titolo e l'interesse ad agire), assolvono una
funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande
proposte al giudice, fino ad assumere l'aspetto di un
controllo di meritevolezza dell'interesse sostanziale in
gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali
rilevanti, desumibili dagli articoli 24 e 111 della
Costituzione.
Ne consegue che il riconoscimento della
legittimazione ad agire non è genericamente ammesso nei
confronti di tutti gli esercenti commerciali, ma è
subordinato al riconoscimento di determinati presupposti, e
ciò al fine di poter ritenere giuridicamente rilevante,
nonché qualificato e differenziato, l'interesse
all'impugnazione.
Pertanto, è necessario che l’operatore
economico che intende impugnare un titolo edilizio a cui
accede una valida e formale autorizzazione commerciale
eserciti nelle immediate adiacenze, che l’attività
commerciale esercitata sia dello stesso tipo in tutto o in
parte di quella relativa ai provvedimenti in contestazione,
e che le due attività vengano a servire uno stesso bacino di
clientela oggettivamente circoscritto o comunque
circoscrivibile con sufficiente certezza
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.11.2015 n. 5278 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti dall’intestatario
della concessione o da colui al quale essa è volturata e
relativi eredi, ovvero da chi esegue le opere di
trasformazione urbana, ma non anche dall’acquirente
dell’immobile.
Ai sensi dell'art. 16, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il
contributo afferente al permesso di costruire, commisurato
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo
di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del
rilascio del titolo edilizio.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è, in particolare,
un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non
tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in
proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in
relazione alla zona interessata alla trasformazione
urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che
il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse; fatto costitutivo di detta
obbligazione è il rilascio del permesso di costruire ed è a
tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione
dell'entità del contributo.
Il contributo di urbanizzazione è invece commisurato al
costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi
concretamente nella zona, e differisce dal contributo da
pagare all'atto del rilascio della concessione di
costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un
corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per
il conferimento al privato della facoltà di edificazione e
dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della
trasformazione; trattandosi di due istituti diversi ne
derivano oneri diversi, l'uno relativo al costo sostenuto
per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area,
l'altro relativo ad un contributo, di carattere tributario,
volto alla realizzazione del generale assetto urbanistico
del territorio comunale.
Secondo una ricostruzione diffusa in sede giurisprudenziale
trattasi, per entrambi gli oneri, di obbligazioni reali,
dotate, in quanto tali, di ambulatorietà passiva. Si
afferma, infatti, che il presupposto di esigibilità
dell'onere relativo al costo di costruzione non risiede solo
nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella
concreta fruizione del titolo e comunque le obbligazioni per
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno
trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni
propter rem che circolano con il bene cui accedono, sicché
nel caso di trasferimento del bene, esse gravano
sull'acquirente.
Tale orientamento è stato propugnato anche in seconde cure,
nel senso quindi che trattasi in sostanza di obbligazioni
connotate dall'inerenza alla cosa, anziché alla persona cui
è rilasciato il permesso di costruire, sicché tutti coloro
che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono
solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli
oneri in questione.
Ritiene il Collegio, tuttavia, di aderire al diverso
orientamento giurisprudenziale, secondo cui è più coerente
con il complessivo assetto della normativa oltre che
intrinsecamente più razionale affermarsi che gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti dall’intestatario della
concessione o da colui al quale essa è volturata e relativi
eredi, ovvero da chi esegue le opere di trasformazione
urbana, ma non anche dall’acquirente dell’immobile.
---------------
... per l'annullamento:
1) ordinanza ingiunzione prot. 42850 del 22.06.2015,
dell’importo rispettivamente di € 88.196,08, per omesso e/o
ritardato pagamento del costo di costruzione relativo al
permesso di costruire nr. 07/2007 rilasciato in favore del
sig. Ca.Gi. e poi volturato in favore dei signori Mo.An.Ma.
e Za.Gi. ed il permesso di costruire in sanatoria nr.
139/2009;
...
Con ricorso notificato il 18.09.2015 e ritualmente
depositato il 14 ottobre successivo, la sig.ra Im.Sc. ha
impugnato l’ordinanza, meglio distinta in epigrafe, con la
quale il Comune di Battipaglia le ingiungeva il pagamento di
€ 88.196,08, per omesso e/o ritardato versamento del costo
di costruzione relativo al permesso di costruire nr. 07/2007
rilasciato in favore del sig. Ca.Gi. e poi volturato in
favore dei signori Mo.An.Ma. e Za.Gi. ed il permesso di
costruire in sanatoria nr. 139/2009. Avverso tale atto
l’istante ha dedotto i seguenti vizi:
1) violazione e falsa applicazione artt. 7 e 8 L. n.
241/1990 e dell’art. 16 del T.U. edilizia. Violazione del
principio del contraddittorio;
2) violazione art. 3 L. 07.08.1990 n. 241. Eccesso di potere
per travisamento dei fatti e falso presupposto; per difetto
di istruttoria per carenza assoluta di motivazione.
In particolare, la ricorrente ha rilevato che, essendo
acquirente a titolo particolare mercé rogito notarile del
16/07/2010) di un appartamento posto all’interno del
fabbricato già realizzato, la pretesa del Comune, peraltro
mai precedentemente avanzata nei suoi riguardi, sarebbe
infondata, in quanto non sarebbe soggetto obbligato al
pagamento degli oneri di urbanizzazione dovuti al momento
del rilascio della concessione edilizia.
Il Comune di Battipaglia, ancorché ritualmente intimato, non
si è costituito in giudizio.
All’odierna camera di consiglio del 05.11.2015, il ricorso,
è stato trattenuto in decisione semplificata, rese edotte le
parti, sussistendone i presupposti di legge.
Il ricorso è fondato.
L’impugnato provvedimento postula la responsabilità solidale
della ricorrente, quale attuale proprietaria di uno dei
cespiti realizzati in virtù dei titoli edilizi su
menzionati, al pagamento dei relativi oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione.
Occorre premettere che, ai sensi dell'art. 16, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, il contributo afferente al permesso di
costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato
e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio
(Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1504).
Il contributo per oneri di urbanizzazione è, in particolare,
un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non
tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di
partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in
proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in
relazione alla zona interessata alla trasformazione
urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che
il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse; fatto costitutivo di detta
obbligazione è il rilascio del permesso di costruire ed è a
tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione
dell'entità del contributo (Consiglio di Stato, sez. V,
30.04.2014, n. 2261).
Il contributo di urbanizzazione è invece commisurato al
costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi
concretamente nella zona, e differisce dal contributo da
pagare all'atto del rilascio della concessione di
costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un
corrispettivo delle spese che la collettività si addossa per
il conferimento al privato della facoltà di edificazione e
dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della
trasformazione; trattandosi di due istituti diversi ne
derivano oneri diversi, l'uno relativo al costo sostenuto
per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area,
l'altro relativo ad un contributo, di carattere tributario,
volto alla realizzazione del generale assetto urbanistico
del territorio comunale (Consiglio di Stato, sez. IV,
15.09.2014, n. 4685).
Secondo una ricostruzione diffusa in sede giurisprudenziale
trattasi, per entrambi gli oneri, di obbligazioni reali,
dotate, in quanto tali, di ambulatorietà passiva. Si
afferma, infatti, che il presupposto di esigibilità
dell'onere relativo al costo di costruzione non risiede solo
nella materiale esecuzione delle opere ma anche nella
concreta fruizione del titolo e comunque le obbligazioni per
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione vanno
trattate alla stregua di oneri reali, ovvero di obbligazioni
propter rem che circolano con il bene cui accedono,
sicché nel caso di trasferimento del bene, esse gravano
sull'acquirente (TAR Napoli, sez. VIII, 16.04.2014, n.
2170).
Tale orientamento è stato propugnato anche in seconde cure,
nel senso quindi che trattasi in sostanza di obbligazioni
connotate dall'inerenza alla cosa, anziché alla persona cui
è rilasciato il permesso di costruire, sicché tutti coloro
che partecipano alla costruzione e la utilizzano sono
solidalmente obbligati verso il Comune al pagamento degli
oneri in questione (Cons. Stato, sez. V, n. 6333, del
12.07.2011).
Ritiene il Collegio, tuttavia, di aderire al diverso
orientamento giurisprudenziale, secondo cui è più coerente
con il complessivo assetto della normativa oltre che
intrinsecamente più razionale affermarsi che gli oneri di
urbanizzazione sono dovuti dall’intestatario della
concessione o da colui al quale essa è volturata e relativi
eredi, ovvero da chi esegue le opere di trasformazione
urbana, ma non anche dall’acquirente dell’immobile (TAR
Napoli, Sez. III, 12.04.2007/18.07.2007, n. 6793).
Il ricorso va conclusivamente accolto, ritenuta assorbita
ogni altra censura, di guisa che dell’atto impugnato, nei
limiti di interesse, occorre disporre l’annullamento (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 19.11.2015 n. 2453 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono edilizio esclusiva di stato. La Consulta:
i criteri li fissa il governo.
In tema di condono edilizio «straordinario» spettano alla
legislazione statale e non a quella regionale, le scelte di
principio sul versante della sanatoria amministrativa, la
decisione sul se disporre, nell'intero territorio nazionale,
di un condono straordinario e l'individuazione delle
volumetrie massime condonabili.
Questo è il principio espresso dalla Corte Costituzionale
con la
sentenza 19.11.2015 n. 233 di in merito
alla legittimità costituzionale sollevate dal presidente del
consiglio dei ministri degli articoli 25, 26 e 27 della
legge n. 65/2014 della Regione Toscana.
Ricordano i giudici
della corte costituzionale che si è in presenza di una
normativa riferibile ad opere e interventi edilizi,
esplicitamente qualificati, dalla stessa legge regionale
Toscana, come «abusivi», e quindi di un intervento afferente
alla materia «governo del territorio» nel cui ambito alle
regioni spetta l'adozione di una disciplina legislativa di
dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato.
In particolare, per tali opere e
interventi, viene prevista, in deroga alla disciplina
generale dettata dagli articoli 196, 199, 200 e 206 della
citata legge regionale l'applicazione di sole sanzioni
amministrative pecuniarie, per le ipotesi in cui la
valutazione discrezionale dell'autorità comunale competente
per territorio conduca ad escludere la persistenza di un
interesse attuale al ripristino dello status quo ante.
Pur
disponendo che il versamento delle somme corrispondenti alle
sanzioni amministrative pecuniarie (differenziate a seconda
dell'epoca di realizzazione e ultimazione delle opere e
degli interventi edilizi, e ricadenti all'esterno della perimetrazione
dei centri abitati) «non determina la legittimazione
dell'abuso»
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle
Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della
sanatoria»
oppure, ancora, di
«allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto
stabilito dalla legge dello Stato».
A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa
regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria
straordinaria per il solo territorio regionale.
---------------
SENTENZA
...
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 25,
26, 27, 207 e 208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65 (Norme per il governo del territorio),
promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con
ricorso notificato il 9-15.01.2015, depositato in
cancelleria il 13.01.2015 ed iscritto al n. 3 del
registro ricorsi 2015.
...
1.2.– Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del
Consiglio dei ministri censura gli artt. 207 e 208 della
legge della Regione Toscana n. 65 del 2014.
Le norme censurate disciplinano le conseguenze di opere ed
interventi edilizi eseguiti ed ultimati, in assenza di
titolo abilitativo o in difformità dal medesimo,
rispettivamente in data anteriore al 01.09.1967,
ossia al momento dell’entrata in vigore della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.942, n. 1150), o in data anteriore al
17.03.1985, corrispondente all’entrata in vigore della
legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo
dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e
sanatoria delle opere edilizie), sul primo condono edilizio.
In particolare, il citato art. 207 differenzia la disciplina
a seconda della collocazione degli immobili. Se essi
ricadono all’interno della perimetrazione dei centri abitati
(come definita all’epoca della realizzazione della
condotta), si prevede che il Comune possa valutare la
persistenza dell’interesse pubblico al ripristino della
legalità urbanistica violata mediante rimessione in
pristino: in caso di esito positivo di tale scrutinio, è
disposta l’applicazione delle sanzioni, ripristinatorie e
pecuniarie, di cui agli artt. 196, 199, 200 e 206 della
medesima legge regionale; in caso di valutazione negativa in
ordine alla persistenza dell’interesse pubblico, si prevede
esclusivamente l’irrogazione di una sanzione pecuniaria, in
misura ridotta per le opere e gli interventi conformi agli
strumenti urbanistici comunali attualmente vigenti, e con la
possibilità di consentire, con apposito piano operativo,
ulteriori interventi su tali immobili.
Se, invece, gli immobili ricadono all’esterno della
perimetrazione dei centri abitati (sempre come definita
all’epoca della realizzazione dell’opera), si prevede che
siano considerati «consistenze legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
L’art. 208, per le opere e gli interventi edilizi anteriori
al 17.03.1985, detta una disciplina analoga a quella
innanzi descritta, ma differenziando le sanzioni pecuniarie
a seconda che le opere o gli interventi siano stati
realizzati in assenza o in difformità dal titolo
abilitativo, ed escludendo, questa volta, distinzioni tra
manufatti ricadenti o non all’interno della perimetrazione
dei centri abitati.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene, in primo
luogo, che tali disposizioni, in quanto limitanti
l’applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 196, 199,
200 e 206 della legge regionale impugnata alle sole opere
per le quali sia ritenuto persistente l’interesse pubblico
alla rimessione in pristino e, se anteriori al 01.09.1967, solo se ricadenti all’interno del perimetro del centro
abitato, si porrebbero in contrasto con gli artt. 27, 31,
33, 34 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di edilizia – Testo
A), che configurano l’esercizio del potere comunale di
vigilanza e repressione degli abusi edilizi come un obbligo
e non come una facoltà, senza che sia necessario accertare
la ricorrenza attuale di ragioni di pubblico interesse e
senza prevedere alcun termine di decadenza o di prescrizione
per l’esercizio dei poteri repressivi comunali.
Di qui la prospettata violazione dell’art. 117, terzo comma,
Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi
fondamentali nella materia del governo del territorio.
Considerati i descritti effetti conservativi legati
all’irrogazione di mere sanzioni pecuniarie, la medesima
norma costituzionale sarebbe stata violata, a giudizio
dell’Avvocatura generale dello Stato, anche per
l’introduzione di una «surrettizia forma di condono», con
conseguente invasione della competenza legislativa statale,
essendo sottratta alla potestà legislativa regionale
qualsiasi forma di sanatoria straordinaria delle opere
abusive.
Per tale ragione, le norme censurate interferirebbero con le
disposizioni in materia di sanzioni civili e penali previste
dal testo unico sull’edilizia in tema di reati edilizi, e
violerebbero così anche l’art. 117, secondo comma, lettera
s) (rectius: lettera l), Cost., che riserva alla potestà
legislativa esclusiva statale la materia «ordinamento civile
e penale».
...
3.– Il secondo motivo di ricorso è fondato, poiché gli
impugnati artt. 207 e 208 della legge regionale n. 65 del
2014 sono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.
3.1.– È opportuno sottolineare preliminarmente che il tenore
letterale delle disposizioni impugnate consente agevolmente
di definire l’oggetto dell’intervento legislativo regionale
e l’ambito materiale cui questo risulta ascrivibile.
Infatti, le rubriche delle due disposizioni, e, in
particolare, i commi 1 e 4 dell’art. 207 ed il comma 1
dell’art. 208 fanno esplicito riferimento a «sanzioni ed
opere per interventi edilizi abusivi», e ad opere ed
interventi edilizi eseguiti ed ultimati «in assenza di
titolo abilitativo o in difformità dal medesimo».
Si è in presenza di una normativa riferibile ad opere e
interventi edilizi, esplicitamente qualificati, dalla stessa
legge regionale, come «abusivi», e quindi di un intervento
afferente alla materia «governo del territorio» di cui
all’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis e da ultimo,
sentenze n. 272 e n. 102 del 2013), nel cui ambito alle
Regioni spetta l’adozione di una disciplina legislativa di
dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato (sentenze n. 167 del 2014 e n. 401
del 2007).
In particolare, per tali opere ed interventi, viene
prevista, in deroga alla disciplina generale dettata dagli
artt. 196, 199, 200 e 206 della citata legge regionale
(delineata sulla falsariga di quella prevista in generale
dalle norme statali del testo unico sull’edilizia),
l’applicazione di sole sanzioni amministrative pecuniarie,
per le ipotesi in cui la valutazione discrezionale
dell’autorità comunale competente per territorio conduca ad
escludere la persistenza di un interesse attuale al
ripristino dello status quo ante.
Pur disponendo che il versamento delle somme corrispondenti
alle sanzioni amministrative pecuniarie –differenziate a
seconda dell’epoca di realizzazione ed ultimazione delle
opere e degli interventi edilizi, con esclusione di quelli
anteriori al 01.09.1967 e ricadenti all’esterno della perimetrazione dei centri abitati– «non determina la
legittimazione dell’abuso» (comma 3 di entrambi gli
articoli), le norme impugnate producono due evidenti effetti
sostanziali.
Il primo di essi consiste −in considerazione
dell’esclusione della sanzione demolitoria (e della
succedanea acquisizione gratuita delle aree al patrimonio
comunale, in caso di inadempimento dell’ordine di
demolizione), in generale prevista per gli immobili abusivi
dal testo unico sull’edilizia e dalle corrispondenti norme
della stessa legge della Regione Toscana− nella
conservazione, in mano privata, del patrimonio edilizio
esistente.
Il secondo effetto, di non minore portata, consiste nella
possibilità di eseguire ulteriori interventi edilizi –sotto
forma di «demolizione e ricostruzione, mutamento della
destinazione d’uso, aumento del numero delle unità
immobiliari, incremento di superficie utile lorda o di
volume» (attività rispettivamente previste dai commi 7 e 6
degli artt. 207 e 208)– previa emanazione di appositi piani
operativi, che diventano addirittura superflui per gli
immobili ultimati al di fuori dei centri urbani e prima del
01.09.1967. Anzi, il comma 4 dell’art. 207 si spinge
a definire tali ultimi manufatti quali «consistenze
legittime dal punto di vista urbanistico-edilizio».
La combinazione di queste due conseguenze produce, per tutti
gli immobili oggetto di disciplina, gli effetti tipici di un
«condono edilizio straordinario», che si differenzia, in
quanto tale, dall’istituto a carattere generale e permanente
del «permesso di costruire in sanatoria», disciplinato dagli
artt. 36 e 45 del testo unico sull’edilizia.
In tema di condono edilizio “straordinario”, la
giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che spettano alla
legislazione statale, oltre ai profili penalistici
(integralmente sottratti al legislatore regionale: sentenze
n. 49 del 2006, n. 70 del 2005 e n. 196 del 2004),
le scelte
di principio sul versante della sanatoria amministrativa, in
particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum:
la decisione sul se disporre, nell’intero territorio
nazionale, un condono straordinario, e quindi la previsione
di un titolo abilitativo edilizio straordinario; quella
relativa all’ambito temporale di efficacia della sanatoria;
infine l’individuazione delle volumetrie massime condonabili
(nello stesso senso, sentenze n. 225 del 2012 e n. 70 del
2005).
Nel rispetto di tali scelte di principio, competono alla
legislazione regionale l’articolazione e la specificazione
delle disposizioni dettate dal legislatore statale (sentenze
n. 225 del 2012, n. 49 del 2006 e n. 196 del 2004).
Ne consegue che le norme impugnate si pongono in contrasto
con i consolidati princìpi espressi dalla giurisprudenza
costituzionale in materia.
Esula, infatti, dalla potestà legislativa concorrente delle
Regioni il potere di «ampliare i limiti applicativi della
sanatoria» (sentenza n. 290 del 2009)
oppure, ancora, di
«allargare l’area del condono edilizio rispetto a quanto
stabilito dalla legge dello Stato» (sentenza n. 117 del
2015). A maggior ragione, esula dalla potestà legislativa
regionale il potere di disporre autonomamente una sanatoria
straordinaria per il solo territorio regionale.
Il che è appunto quanto si verifica in applicazione delle
norme impugnate.
Esse producono un effetto di sanatoria amministrativa
straordinaria di immobili abusivi, non solo senza alcuna
limitazione volumetrica, ma anche al di là delle modalità e,
soprattutto, dei tempi disciplinati dalle precedenti
normative statali.
Il riferimento, in particolare, è alla legge n. 47 del 1985,
la cui efficacia è stata estesa dall’art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della
finanza pubblica), cui ha fatto seguito l’art. 32 del
decreto-legge 30.09.2003, n. 269 (Disposizioni
urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24.11.2003, n. 326, pure contenente misure di regolarizzazione di
immobili abusivi.
In applicazione di tali norme statali, ben sarebbe stato
possibile procedere, nei tempi e nei modi da quelle
previsti, alla sanatoria delle stesse opere e degli stessi
interventi edilizi oggetto della disciplina censurata.
Sicché, consentirlo invece ora, alla luce delle disposizioni
regionali impugnate, significa introdurre un nuovo condono
extra ordinem, al di fuori di qualsiasi previa e necessaria
cornice di principio disciplinata dalla legge statale.
3.2.– Il contrasto delle norme impugnate con i principi che
governano il riparto di competenze in materia di condono
edilizio “straordinario” non è attenuato dalla
subordinazione degli effetti sostanziali, da queste
prodotti, alla valutazione discrezionale, che le stesse
disposizioni demandano all’amministrazione comunale
competente per territorio, in ordine alla sussistenza di un
perdurante interesse pubblico alla rimessione in pristino.
La difesa regionale sostiene che, nel corso degli ultimi
anni, la rigidità della disciplina statale concernente la
repressione degli abusi edilizi sarebbe stata «attenuata
dalle previsioni interpretative giurisprudenziali dei
giudici amministrativi». Questi ultimi avrebbero seguito il
principio secondo cui anche le sanzioni edilizie devono
essere applicate previa comparazione e valutazione di
prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino della
legalità violata rispetto all’affidamento del privato.
Sicché, qualora sia trascorso un lungo lasso di tempo tra
realizzazione e accertamento dell’abuso, l’irrogazione delle
sanzioni sarebbe subordinata ad una motivazione specifica
sulla sussistenza di un pubblico interesse attuale alla
eliminazione dell’opera.
Il legislatore regionale, per parte sua, avrebbe appunto
dettato norme conformi a tale principio, discendente
dall’interpretazione giurisprudenziale ritenuta «ormai
pacifica» della legge nazionale.
Tale argomento è privo di pregio.
Innanzitutto, l’affermazione relativa alla sussistenza di un
“diritto vivente”, nei termini prospettati dalla
difesa regionale, è smentita dalla constatazione della
coesistenza (se non proprio della prevalenza), nella
giurisprudenza amministrativa, di un opposto orientamento,
secondo cui l’interesse del privato al mantenimento
dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto
all’interesse pubblico all’osservanza della normativa
urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio.
Secondo tale indirizzo, non sussiste alcuna necessità di
motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia
ordinata la demolizione di un manufatto, anche quando sia
trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della
commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione. Ciò perché la repressione
degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente
vincolata, non soggetta a termini di decadenza o di
prescrizione (in questi termini, ex plurimis,
Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 05.01.2015, n.
13; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 30.12.2014,
n. 6423; Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza
01.10.2014, n. 4878; Consiglio di Stato, sezione sesta,
sentenza 28.01.2013, n. 496).
Ma, quand’anche una diversa opzione ermeneutica potesse
considerarsi talmente affermata da costituire approdo
“pacifico” nella giurisprudenza amministrativa, è assorbente
il rilievo per cui un suo eventuale riconoscimento normativo
non potrebbe essere rimesso al legislatore regionale, ma
solo a quello statale. In relazione a scelte così delicate
in materia edilizia, valgono evidenti esigenze di uniforme
trattamento sull’intero territorio nazionale (analogamente,
sentenza n. 164 del 2012), e solo la legge statale può
ovviamente assicurarle.
Per queste ragioni, le questioni di legittimità
costituzionale promosse avverso gli artt. 207 e 208 della
legge della Regione Toscana n. 65 del 2014 sono fondate, per
violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..
L’accoglimento del ricorso sotto il profilo descritto
determina l’assorbimento delle altre censure mosse alle
norme impugnate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 207 e
208 della legge della Regione Toscana 10.11.2014, n. 65
(Norme per il governo del territorio)
(Corte Costituzionale,
sentenza 19.11.2015 n. 233). |
URBANISTICA:
Superato il divario tra programma di
fabbricazione e piano regolatore generale a seguito della
sentenza della Corte Costituzionale 20.03.1978 n. 23, al
primo, finché non è approvato il secondo dall'organo di
controllo dell'ente territoriale che lo ha adottato, va
riconosciuta la funzione di strumento di sistemazione
urbanistica tipico del territorio comunale, anche quanto ad
eventuali varianti apportate con conseguente legittimità dei
vincoli con esso imposti alla proprietà privata anche in
tema di distanze tra costruzioni, costituendo detto
programma, a decorrere dalla sua pubblicazione o da quella
della variante di esso, parte integramene dei regolamenti
edilizi locali, mentre, fino a tale data, i rapporti di
vicinato sono disciplinati dalle precedenti norme locali o
dall'art. 873 c.c. o dalle leggi speciali, non rilevando
l'applicazione delle misure di salvaguardia di cui agli
artt. 1 della L. n. 1902/1952 e 3 della L. n. 675/1967,
integrativa dell'art. 10 della legge 07.08.1942 n. 1150,
poiché la normativa ivi contenuta è destinata ai Sindaci ed
ai Prefetti per fini di interesse pubblico e non ha effetti
nella regolamentazione dei rapporti tra privati.
---------------
Passando all'esame del ricorso principale, il primo motivo è
infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, superato il
divario tra programma di fabbricazione e piano regolatore
generale a seguito della sentenza della Corte Costituzionale
20.03.1978 n. 23, al primo, finché non è approvato il
secondo dall'organo di controllo dell'ente territoriale che
lo ha adottato, va riconosciuta la funzione di strumento di
sistemazione urbanistica tipico del territorio comunale,
anche quanto ad eventuali varianti apportate con conseguente
legittimità dei vincoli con esso imposti alla proprietà
privata anche in tema di distanze tra costruzioni,
costituendo detto programma, a decorrere dalla sua
pubblicazione o da quella della variante di esso, parte
integramene dei regolamenti edilizi locali, mentre, fino a
tale data, i rapporti di vicinato sono disciplinati dalle
precedenti norme locali o dall'art. 873 c.c. o dalle leggi
speciali, non rilevando l'applicazione delle misure di
salvaguardia di cui agli artt. 1 della L. n. 1902/1952 e 3
della L. n. 675/1967, integrativa dell'art. 10 della legge
07.08.1942 n. 1150, poiché la normativa ivi contenuta è
destinata ai Sindaci ed ai Prefetti per fini di interesse
pubblico e non ha effetti nella regolamentazione dei
rapporti tra privati (Cass. n. 2759/1993; n. 20392/2008; n.
19822/2004)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.11.2015 n. 23504). |
PATRIMONIO:
Se il parco si può dividere uno spazio spetta ai
cani. Tar di Brescia.
Il Tar di Brescia bilancia le
esigenze degli animali d’affezione rispetto a quelle del
turismo, dei cittadini e dei parchi giochi per bambini.
Il Comune di Sarnico
aveva genericamente vietato l’accesso dei cani, anche se
custoditi, in tre parchi, rispettivamente di 22mila, 2.600 e
1500 metri quadrati. Il parco più esteso, pari al 24% di
tutte le aree verdi pubbliche, pur essendo custodito e
particolarmente curato per la vicinanza al lago d’Iseo si
prestava a essere suddiviso, ricavandovi zone dedicate per i
proprietari di animali di affezione.
Stesso ragionamento è
stato adottato per un secondo parco, di 2.600 metri
quadrati, nel quale era possibile individuare una zona
mista; un terzo parco, il minore perché di soli 1.500 metri
quadrati, è invece rimasto precluso ai cani, ritenendosi
condivisibile la scelta di privilegiare lo spazio per i
giochi per bambini.
Il provvedimento del TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
ordinanza 17.11.2015 n. 2098,
dà quindi uno stimolo all’amministrazione comunale affinché
pianifichi meglio l’utilizzo delle aree verdi, delimitando
aree che consentano una più articolata fruizione.
L’ordinanza contiene anche un monito ai proprietari e
detentori dei cani, perché qualora questi dimostrassero
scarso senso civico creando problemi agli altri utenti,
resta ferma la possibilità che il Comune intervenga con
specifico potere di ordinanza e con sanzioni.
In situazioni analoghe, altri Comuni hanno adottato divieti
generici, subendo, tuttavia, annullamenti integrali e meno
elastici (Tar Potenza, 17.10.2013 n. 611; Cagliari
30.11.2012 n. 1080, Catanzaro, 24.05.2011 n. 778; Venezia
15.12.2009 n. 3600) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015).
---------------
MASSIMA
Considerato a un sommario esame:
1. Il Comune di Sarnico, con deliberazione consiliare n. 3
del 20.04.2015, ha approvato il regolamento per l’uso dei 12
parchi pubblici comunali, che hanno una superficie
complessiva pari a 89.600 mq.
2. L’ENPA impugna il regolamento nella parte in cui viene
vietato l’accesso con i cani ai parchi Lido Nettuno (22.000
mq), Plan de Cuques (2.600 mq) e Parco Moscatello (1.500
mq).
3. Sul potere dell’amministrazione comunale di interdire
l’ingresso dei cani nelle aree verdi pubbliche questo TAR si
è già pronunciato nei confronti del Comune di Sarnico, sia
in sede cautelare (v. ordinanza n. 902 del 13.11.2014) sia
nel merito (v. sentenza n. 1213 del 23.09.2015).
4. Riprendendo in parte quanto già esposto in tali pronunce,
si possono formulare le seguenti osservazioni:
(a) in generale, le aree verdi pubbliche
devono essere aperte a tutte le forme di uso collettivo
consentite dalla naturale destinazione dei luoghi, compreso
l’accesso in compagnia degli animali d’affezione, e nello
specifico dei cani;
(b) l’amministrazione può introdurre regole maggiormente
restrittive qualora la presenza dei cani, nonostante
l’obbligo del guinzaglio, renda più difficile ad altri
soggetti l’utilizzazione in sicurezza delle aree verdi
pubbliche. Questo si verifica, in particolare, quando sia
necessario proteggere la salute dei bambini da rischi di
natura igienico-sanitaria;
(c) di conseguenza, è possibile individuare all’interno dei
parchi di grandi e medie dimensioni alcune zone dedicate, da
riservare a soggetti particolari, dove è vietato l’ingresso
dei cani. Questa limitazione deve però essere compensata
dalla previsione di apposite aree di sgambamento facilmente
raggiungibili, in quanto tra i principi che vincolano la
pianificazione urbanistica è individuabile anche l’obbligo
di utilizzare gli spazi pubblici per assicurare il benessere
degli animali d’affezione;
(d) se le aree verdi pubbliche sono di piccole dimensioni,
rientra nella discrezionalità dell’amministrazione escludere
l’ingresso dei cani, qualora le caratteristiche dei luoghi
non consentano di tenere adeguatamente separate le diverse
tipologie di utenti;
(e) applicando questi criteri, risulta sproporzionata
l’esclusione assoluta dei cani dal Lido Nettuno, che è il
parco più esteso (pari a circa il 24% di tutte le aree verdi
pubbliche) e quello meglio controllabile, anche per il fatto
che l’ingresso è a pagamento (salvo residenti e minori di
anni 12).
Il sacrificio imposto ai proprietari e ai detentori di cani
(ossia il divieto di utilizzare con i loro animali
d’affezione un’area verde particolarmente prestigiosa, per
la vicinanza al lago, bene attrezzata e servita dalla
viabilità provinciale) è eccessivo, in quanto è possibile
creare una zonizzazione interna al parco che soddisfi le
esigenze di tutte le tipologie di utenti.
In ogni caso, il suddetto sacrificio non appare compensato
dall’abbondanza di parchi dove è consentito l’ingresso ai
cani, in quanto si tratta di aree verdi di minore pregio e
non attrezzate in modo comparabile;
(f) parimenti, non sembra essere stato adeguatamente
individuato un bilanciamento tra le diverse esigenze a
proposito del parco Plan de Cuques, tenuto conto, da un
lato, della posizione periferica dello stesso (che ne fa il
punto di riferimento per quanti abitano in questa porzione
del territorio comunale), e dall’altro della possibilità di
individuare una zona mista non esclusivamente dedicata ai
bambini;
(g) appare invece corretta l’esclusione dei cani dal Parco
Moscatello, in quanto le ridotte dimensioni impongono una
specializzazione nell’utilizzo, e rientra nella
discrezionalità dell’amministrazione la scelta di
privilegiare lo spazio-giochi per i bambini rispetto ad
altre soluzioni;
(h) qualora i proprietari e i detentori dei cani
dimostrassero scarso senso civico creando problemi al resto
degli utenti, specie per quanto riguarda la mancata raccolta
delle deiezioni animali, il Comune potrebbe comunque
intervenire mediante il potere di ordinanza.
I presupposti e i limiti di tale potere sono già stati
descritti da questo TAR nelle pronunce sopra indicate. In
particolare, è necessario il rispetto del principio di
proporzionalità. L’amministrazione può dunque interdire
temporaneamente l’ingresso dei cani nei luoghi dove si sono
verificati i maggiori inconvenienti, valutando poi i
risultati alla successiva ripresa del libero accesso.
5. Sussistono pertanto le condizioni per concedere una
misura sospensiva del divieto di ingresso dei cani nei
parchi Lido Nettuno e Plan de Cuques, ferma restando la
possibilità per il Comune di individuare all’interno di tali
parchi delle aree riservate a particolari categorie di
soggetti, secondo quanto sopra specificato. |
APPALTI: Fuori dalla gara se manca il requisito del salario minimo.
Corte Ue. Appalti di servizi.
Anche a livello europeo, per gli appalti di servizi
superiori a 200 mila euro, il bando di gara può imporre che
il personale abbia un salario minimo.
Lo afferma la Corte
di giustizia di Lussemburgo, con la
sentenza 17.11.2015 causa C-115/14 relativa a una lite
in materia di distribuzione lettere e pacchi.
La controversia era sorta prima che, in Germania, entrasse
in vigore un generico salario minimo (euro 8,50 lordi ad
ora, dal 01.01.2015), perché la città di Landau aveva
messo a gara la distribuzione postale imponendo, nel bando
di gara, l’obbligo di un salario minimo.
Detto obbligo era infatti ritenuto espressione di protezione
sociale, ed infatti con identica motivazione è stato
condiviso dalla Corte di giustizia. Clausole del genere
potranno quindi diffondersi nei bandi a livello comunitario,
mentre nel territorio nazionale rimangono applicabili gli
articoli 86 e 87 del Dlgs 163 del 2006 in tema di verifica
delle offerte anormalmente basse.
Il meccanismo di verifica dell’ anomalia dell’offerta, in
Italia, attua lo stesso principio adottato dalla città
tedesca, perché individua la soglia minima del costo del
lavoro.
Detto livello minimo è desunto (articolo 86, comma 3-bis), da
tabelle ministeriali o da contratti collettivi stipulati
(articolo 87, comma D) dai sindacati comparativamente più
rappresentativi. Il sistema italiano è più complesso, perché
non fa riferimento a una soglia predeterminata (gli euro
8,50 della Germania), ma nella sostanza è equivalente.
Per di più, vi sono due recenti approfondimenti, del
Consiglio di Stato (13.10.2015 n. 4699) e della Corte
costituzionale (51/2015), che migliorano la soglia di
corretta retribuzione del personale. Detta retribuzione è
affidata ad un giudizio complessivo sull’offerta, che deve
risultare congrua e non bassa in modo anomalo.
La
proporzionalità e sufficienza delle retribuzioni, per non
risultare basse in modo anomalo, devono far riferimento ai
contratti delle sigle sindacali “comparativamente” più
rappresentative: ed appunto le citate sentenze consentono di
escludere le offerte ancorate a contratti di anomale sigle
sindacali. Quando il costo del lavoro, seppur previsto da un
contratto sindacale, non è rappresentativo, non può essere
utilizzato in sede di gara pubblica, ma genera un’esclusione
per anomalia.
Decidendo una gara di gestione di front office telefonico di
un’azienda ospedaliera, il Consiglio di Stato ha censurato
il contratto Cnai che, pur non potendo ritenersi invalido,
non è stato ritenuto un idoneo parametro di riferimento. Un
orientamento che trova un’implicita conferma nella sentenza
di ieri: la protezione sociale consente alle stazioni
appaltanti e gara per gara di ritenere necessarie talune
garanzie per i lavoratori (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2015). |
APPALTI:
Appalti, garantita la tariffa minima.
Un contratto di appalto pubblico può prevedere tra i
requisiti il rispetto di una tariffa salariale minima per i
lavoratori.
Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea nella
sentenza 17.11.2015 causa C-115/14.
Il salario minimo, spiegano i giudici, può essere
giustificato dall'obiettivo della protezione dei lavoratori.
Di conseguenza, aggiunge la sentenza, è legittima
l'esclusione dalla gara di appalto degli offerenti e loro
subappaltatori che si rifiutino d'impegnarsi, con una
dichiarazione scritta allegata all'offerta, di versare il
salario minimo prefissato.
Il dubbio di compatibilità di una predetta clausola con il
diritto dell'Unione e, in particolare, con la direttiva
2004/18, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi, è stato sollevato dalla magistratura
tedesca. Ai sensi della predetta direttiva le
amministrazioni aggiudicatrici possono esigere condizioni
particolari in merito all'esecuzione dell'appalto, purché
compatibili con il diritto comunitario e a condizione che
siano precisate nel bando di gara o nel capitolato d'oneri.
Con la sentenza emessa ieri, la Corte dichiara che la
direttiva 2004/18 non osta alla normativa che impone agli
offerenti e ai loro subappaltatori di impegnarsi, mediante
una dichiarazione scritta da allegarsi all'offerta, a
versare un salario minimo prefissato al personale assegnato
all'esecuzione delle prestazioni. Secondo la Corte, infatti,
l'obbligo rappresenta una condizione particolare ammessa
dalla direttiva, perché riguarda l'esecuzione dell'appalto,
ed è basata su considerazioni di tipo sociale.
La Corte rileva, inoltre, che l'obbligo è trasparente e che
non è discriminatorio; e peraltro è compatibile con un'altra
direttiva dell'Unione, la 96/71 in merito al distacco dei
lavoratori, che prevede una tariffa salariale minima
(articolo ItaliaOggi del 18.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione)
dichiara:
1) L’articolo 26 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come
modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della
Commissione, del 30.11.2011, deve essere interpretato nel
senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di
uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento
principale, che impone agli offerenti e ai loro
subappaltatori di impegnarsi, mediante una dichiarazione
scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a
versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa,
al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle
prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato.
2) L’articolo 26 della direttiva 2004/18, come modificata
dal regolamento n. 1251/2011, deve essere interpretato nel
senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di
uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento
principale, che prevede l’esclusione, dalla partecipazione
ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
degli offerenti e dei loro subappaltatori che si rifiutino
di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve
essere allegata alla loro offerta, a versare un salario
minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che
sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto
dell’appalto pubblico considerato. |
ENTI LOCALI - VARI: Il
sindaco può vietare i Suv nei centri storici.
Il Consiglio di stato dà ragione al comune di
Firenze.
Il sindaco può limitare la circolazione nel centro abitato
ai veicoli troppo ingombranti e inquinanti come i
fuoristrada. I Suv infatti hanno una massa e un diametro
ruote notevolmente superiore alle comuni vetture e quindi
possono ostacolare il traffico specialmente nei centri
storici caratterizzati da una conformazione urbanistica
particolare.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 13.11.2015 n. 5191.
Da qualche anno nel comune di Firenze è stata attivata una
progressiva limitazione della circolazione nel centro
storico specificamente dedicata ai fuoristrada con un
diametro delle ruote superiore a 73 cm. Contro questa misura
innovativa di contrasto del traffico selvaggio e
dell'inquinamento i produttori automobilistici hanno
proposto immediatamente ricorso senza successo fino ai
giudici di palazzo Spada, lamentando pesanti interferenze
con il principio di libertà dell'iniziativa economica
privata.
Il primo cittadino della città del premier in
realtà ha motivato adeguatamente la sua decisione
specificando che le dimensioni ridotte delle strade del
centro storico fiorentino impongono scelte radicali anche
per la tutela della sicurezza della circolazione e dei
manufatti stradali.
I veicoli con ruote grandi, infatti,
sono facilitati a salire sui marciapiedi e a rovinare i
cordoli. Inoltre inquinano maggiormente essendo più pesanti
e ingombranti degli altri.
Il comune, ai sensi degli
articoli 6 e 7 del codice, può sicuramente regolare l'uso
delle strade scoraggiando i comportamenti meno virtuosi. Il Suv (sport utility vehicle) è una categoria commerciale di
veicoli ingombranti molto variegata.
Per questo motivo
identificare i fuoristrada sottoposti alla limitazione ztl
dalle dimensioni del pneumatico a parere del collegio è un
criterio oggettivo apprezzabile. Del resto la dimensione
della ruota è necessariamente proporzionata alle
caratteristiche del veicolo.
Nell'ambito della
discrezionalità amministrativa dunque il primo cittadino ha
ampia facoltà di regolare meglio la circolazione stradale
ammettendo per esempio alla regolare circolazione i mezzi
commerciali e vietando l'accesso al centro storico ai Suv
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2015). |
COMPETENZE GESTIONALI: E'
legittima l'ordinanza firmata dal sindaco, e non dal
dirigente, circa la limitazione di accesso ai SUV in una
Z.T.L..
I provvedimenti limitativi della circolazione veicolare
all’interno dei centri abitati che possono essere adottati
ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 285/1992 ineriscono alla
competenza comunale.
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Il Collegio sulla materia del contendere (competenza
sindacale ovvero dirigenziale nel sottoscrivere un'ordinanza
limitativa di accesso ai SUV) ritiene senz’altro di
attenersi all’impostazione del parere espresso dalla Sez. II
di questo Consiglio il 02.04.2003 con il n. 1661, avviso
approfonditamente motivato e, del resto, richiamato
adesivamente da entrambe le contendenti e dallo stesso
tribunale quale punto di riferimento sulla problematica.
Il detto parere, nell’affermare che le
misure previste dall’art. 7 del Codice della Strada devono
intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della
dirigenza comunale, ha però rilevato come una deroga a tale
principio valga, sulla scorta dei contenuti dello stesso
art. 7, per le misure di maggiore impatto sull’intera
collettività locale, per le quali lo stesso articolo del
Codice prevede l’intervento di un organo politico.
Conviene difatti ricordare che il
citato art. 7, al suo comma 9, nel riservare alla Giunta il
compito di “delimitare le aree pedonali e le zone a traffico
limitato tenendo conto degli effetti del traffico sulla
sicurezza della circolazione, sulla salute, sull'ordine
pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale e sul
territorio”, stabilisce anche che “in caso di urgenza il
provvedimento potrà essere adottato con ordinanza del
sindaco, ancorché di modifica o integrazione della
deliberazione della giunta.”
Ora, il provvedimento impugnato si presenta
come espressione proprio di quest’ultima, specifica
competenza, derogatoria del principio della generalità delle
attribuzioni dirigenziali.
L’atto in contestazione, infatti, attesa la
sua valenza, contribuisce a definire la disciplina di base
connotante la Z.T.L. nella sua interezza, e pertanto si
configura quale un suo atto integrativo ai sensi del comma 9
dell’art. 7.
Si tratta, inoltre, di un atto che non è esecutivo della
programmazione già esistente, ma appunto la integra, e come
tale dovrà ricevere attuazione attraverso la comune attività
di gestione.
La sua connotazione quale atto assunto in chiave d’urgenza,
infine, si può desumere tanto dagli argomenti addotti dalla
sua motivazione, quanto dalla previsione della sua entrata
in vigore sostanzialmente immediata.
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8. La prima censura da scrutinare è quella dell’incompetenza
sindacale.
8a. Il giudice di prime cure nel respingere la doglianza ha
lasciato aperto il problema preliminare della
riconducibilità del provvedimento impugnato all’ambito delle
competenze statali o invece comunali, esprimendo peraltro la
propria propensione, in proposito, per la prima delle due
opzioni (cfr. le pagg. 11 e 12 della sentenza in epigrafe).
Con il presente appello questo approccio viene
persuasivamente criticato: nondimeno, pur rettificandosi
l’impostazione seguita dal TAR, e configurando perciò la
competenza di cui si tratta quale competenza comunale, e non
statale, si vedrà che la censura d’incompetenza si conferma
pur sempre infondata.
8b. Parte ricorrente rileva correttamente come l’ordinanza
impugnata richiami gli artt. 6 e 7 del Codice della Strada,
e come questi ultimi, nel delineare la possibilità di un
intervento in materia del Sindaco, abbiano riguardo al
medesimo nella sua qualità di organo comunale, piuttosto che
nella sua veste complementare di organo di Governo.
L’art. 6 del Codice è imperniato, infatti, sulle prerogative
dell’“ente proprietario della strada”, e quindi si
riferisce agli organi dello stesso ente; l’art. 7, dal canto
suo, valorizza il tema del riparto di competenze tra sindaco
e giunta, tipici organi di governo locale.
A ciò va aggiunto che l’art. 7 è addirittura testuale
nell’intestare le attribuzioni connesse alla “Regolamentazione
della circolazione nei centri abitati” in capo ai Comuni
(cfr. in particolare l’incipit dei suoi commi 1 e 9).
La giurisprudenza di questo Consiglio, infine, ha già avuto
modo di precisare che i provvedimenti
limitativi della circolazione veicolare all’interno dei
centri abitati che possono essere adottati ai sensi
dell’art. 7 del d.lgs. n. 285/1992 ineriscono alla
competenza comunale
(cfr. Sez. V, 03.02.2009, n. 596, paragr. 6.3; Sez. II,
parere n. 1661 del 02.04.2003).
Sicché in questa materia la competenza comunale può essere
affermata senza necessità di approfondimenti ulteriori,
tenuto conto anche del fatto che sullo specifico punto non
si registra contrasto di vedute tra le parti.
8c. Tanto premesso, ai fini del puntuale scrutinio del
motivo in esame la Sezione non può che avere riguardo alla
configurazione data a tale mezzo dalle ricorrenti con il
loro originario atto introduttivo (non potendo la censura
essere estesa a profili ulteriori a distanza di tempo, e
tantomeno mediante semplici memorie).
Orbene, con il ricorso di parte il vizio dell’incompetenza
sindacale è stato prospettato sotto lo specifico profilo
della lesione delle competenze della dirigenza comunale, sul
presupposto della natura “meramente gestionale” del
provvedimento in contestazione.
8d. Ciò posto, il Collegio sulla materia
del contendere ritiene senz’altro di attenersi
all’impostazione del parere espresso dalla Sez. II di questo
Consiglio il 02.04.2003 con il n. 1661, avviso
approfonditamente motivato e, del resto, richiamato
adesivamente da entrambe le contendenti e dallo stesso
tribunale quale punto di riferimento sulla problematica.
Il detto parere, nell’affermare che le
misure previste dall’art. 7 del Codice della Strada devono
intendersi oggi, di norma, rimesse alla competenza della
dirigenza comunale, ha però rilevato come una deroga a tale
principio valga, sulla scorta dei contenuti dello stesso
art. 7, per le misure di maggiore impatto sull’intera
collettività locale, per le quali lo stesso articolo del
Codice prevede l’intervento di un organo politico
(per un’impostazione simile cfr. Cass. Civ., Sez. II,
06.11.2006 n. 23622).
8e. Conviene difatti ricordare che il
citato art. 7, al suo comma 9, nel riservare alla Giunta il
compito di “delimitare le aree pedonali e le zone a
traffico limitato tenendo conto degli effetti del traffico
sulla sicurezza della circolazione, sulla salute,
sull'ordine pubblico, sul patrimonio ambientale e culturale
e sul territorio”, stabilisce anche che “in caso di
urgenza il provvedimento potrà essere adottato con ordinanza
del sindaco, ancorché di modifica o integrazione della
deliberazione della giunta.”
8f. Ora, il provvedimento impugnato si
presenta come espressione proprio di quest’ultima, specifica
competenza, derogatoria del principio della generalità delle
attribuzioni dirigenziali.
L’atto in contestazione, infatti, attesa la
sua valenza, contribuisce a definire la disciplina di base
connotante la Z.T.L. nella sua interezza, e pertanto si
configura quale un suo atto integrativo ai sensi del comma 9
dell’art. 7.
Si tratta, inoltre, di un atto che non è esecutivo della
programmazione già esistente, ma appunto la integra, e come
tale dovrà ricevere attuazione attraverso la comune attività
di gestione.
La sua connotazione quale atto assunto in chiave d’urgenza,
infine, si può desumere tanto dagli argomenti addotti dalla
sua motivazione, quanto dalla previsione della sua entrata
in vigore sostanzialmente immediata
(non senza rimarcare, in ogni caso, che dal motivo in
trattazione, così come ritualmente introdotto a suo tempo in
giudizio, esula il profilo del riparto delle competenze tra
sindaco e Giunta).
8g. Per quanto precede, la doglianza d’incompetenza
sindacale proposta dalle ricorrenti risulta quindi infondata
(Consiglio di
Stato, Sez. V, con la
sentenza 13.11.2015 n. 5191
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle procedure ad evidenza pubblica, finalizzate
alla stipulazione di un contratto, la commissione
aggiudicatrice non può, a causa di dichiarazioni correttive
dell’offerente o in esecuzione di un’indagine volta a
delineare la reale volontà dello stesso, manipolare,
modificare o adattare l’offerta in assenza di disposizioni
in tal senso dirette, contenute nella lex specialis:
diversamente, verrebbe leso il principio di par condicio fra
i concorrenti, nonché quello di affidamento da essi riposto
nelle regole di gara e nella predisposizione delle
rispettive offerte economiche.
Non può consentirsi alle commissioni aggiudicatrici la
modifica di una delle componenti dell’offerta sostituendosi,
anche solo parzialmente, alla volontà dell’offerente e
interpretando la sua stessa volontà frutto di scelte
insindacabili.
La rettifica dell’offerta, eseguita al fine di ricercare la
effettiva volontà dell’offerente, è ammissibile, in adesione
ai principi di conservazione degli atti giuridici e di
massima partecipazione alle gare pubbliche, purché ad essa
si possa pervenire con ragionevole certezza e senza
attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta
medesima, né ad inammissibili dichiarazioni integrative
dell’offerente.
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1. La questione sottoposta all’esame di questa Adunanza
Plenaria concerne l’esatta individuazione del criterio utile
a dirimere le incertezze derivanti dall’emersione di
discordanze fra le offerte espresse in lettere e quelle
espresse in cifre, in sede di esame delle offerte presentate
dagli operatori partecipanti ad una gara finalizzata
all’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi
o forniture.
La problematica sorge in conseguenza dell’eventuale
sovrapposizione della disciplina contenuta, da un lato,
nell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 e, dall’altro lato,
nell’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010.
La prima delle disposizioni citate sancisce che “quando
in una offerta all’asta vi sia discordanza fra il prezzo
indicato in lettere e quello indicato in cifre, è valida
l’indicazione più vantaggiosa per l’amministrazione”.
Diversamente, l’art. 119 d.P.R. n. 207 del 2010 prevede al
comma 2 che “il prezzo
complessivo offerto, rappresentato dalla somma di tali
prodotti, è indicato dal concorrente in calce al modulo
stesso, unitamente al conseguente ribasso percentuale
rispetto al prezzo complessivo posto a base di gara. Il
prezzo complessivo ed il ribasso sono indicati in cifre ed
in lettere. In caso di discordanza prevale il ribasso
percentuale indicato in lettere”.
Al comma 3 dello stesso
art. 119, si ribadisce che “nel
caso di discordanza dei prezzi unitari offerti prevale il
prezzo indicato in lettere”.
Il conflitto tra le disposizioni, dunque, potrebbe sorgere
qualora, come nel caso di specie, l’operatore economico
proponesse un’offerta in lettere discordante rispetto
all’offerta in cifre e quest’ultima fosse maggiormente
vantaggiosa per l’Amministrazione.
1.1 Ciò posto, ed in via preliminare rispetto all’esame
delle specifica questione sottoposta al vaglio di questa
Adunanza, va affermata l’attualità del potenziale conflitto
fra le disposizioni, stante la indubbia vigenza dell’art. 72
r.d. n. 827 del 1924.
In effetti, non è dato rilevare alcun motivo idoneo a
revocare in dubbio tale assunto: l’art. 256 del d.lgs. n.
163 del 2006, nell’elencare le disposizioni abrogate in
seguito all’entrata in vigore del Codice dei contratti, non
cita espressamente l’art. 72 r.d. n. 827 del 1924. Tale
ultima disposizione, in applicazione dei principi regolatori
della successione tra norme, dunque, non può essere oggetto
di una interpretazione abrogante, come correttamente
evidenziato nell’ordinanza di rimessione e dalla
giurisprudenza in essa richiamata.
1.2 Il secondo presupposto da cui il Collegio ritiene di
dover prendere le mosse, riguarda l’ammissibilità nonché
l’esatta delimitazione dell’ambito applicativo del principio
di correzione delle offerte eseguito dalla commissione
aggiudicatrice in sede di esame delle stesse.
A ben vedere,
per un verso, è pacificamente consentito il superamento di
un contrasto fra la proposta espressa in cifre e quella
espressa in lettere, in caso di errore materiale facilmente
riconoscibile: al ricorrere di tale circostanza, infatti, il
consolidato indirizzo giurisprudenziale di questo Consiglio
consente di attribuire rilievo agli elementi “diretti ed
univoci” tali da configurare un errore meramente
materiale o di scritturazione, permettendo alla commissione
aggiudicatrice di emendarlo, tramite la priorità conferita
all’effettivo valore dell’offerta.
Diverso è il caso in cui, come espresso nell’ordinanza di
rimessione, “la discordanza sia tutt’altro che
macroscopica ed anzi obiettivamente marginale, di talché non
è dato a priori riconoscere con sicurezza quale delle due
diverse indicazioni sia frutto di errore”.
In effetti, nelle procedure ad evidenza pubblica,
finalizzate alla stipulazione di un contratto, la
commissione aggiudicatrice non può, a causa di dichiarazioni
correttive dell’offerente o in esecuzione di un’indagine
volta a delineare la reale volontà dello stesso, manipolare,
modificare o adattare l’offerta in assenza di disposizioni
in tal senso dirette, contenute nella lex specialis:
diversamente, verrebbe leso il principio di par condicio fra
i concorrenti, nonché quello di affidamento da essi riposto
nelle regole di gara e nella predisposizione delle
rispettive offerte economiche.
Queste ragioni hanno condotto la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato (cfr. ex multis Sez. III, sent.
17.07.2012 n. 4176; id. 26.03.2012 n. 1699) ad affermare il
principio secondo cui non può consentirsi alle commissioni
aggiudicatrici la modifica di una delle componenti
dell’offerta sostituendosi, anche solo parzialmente, alla
volontà dell’offerente e interpretando la sua stessa volontà
frutto di scelte insindacabili.
La rettifica dell’offerta, eseguita al fine di ricercare la
effettiva volontà dell’offerente, è ammissibile, in adesione
ai principi di conservazione degli atti giuridici e di
massima partecipazione alle gare pubbliche, purché ad essa
si possa pervenire con ragionevole certezza e senza
attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta
medesima, né ad inammissibili dichiarazioni integrative
dell’offerente (Cons. di Stato, Sez. III, 28.03.2014, n.
1487).
Nella fattispecie oggetto del presente giudizio, il Collegio
ritiene che l’azione correttiva dell’offerta della Pe.Ap.
s.r.l., non abbia avuto come effetto la sovrapposizione di
una opzione meramente soggettiva della commissione
aggiudicatrice, concernente il quantum proposto, rispetto
alla effettiva volontà della ditta concorrente.
Tale conclusione è agevolmente deducibile dalla circostanza
per cui la prevalenza attribuita al ribasso percentuale
espresso in lettere, è stata il frutto di una scelta
imparziale ed omogenea della commissione: lo stesso criterio
risolutivo delle discordanze presenti nell’offerta della
ditta Pe.Ap., infatti, è stato valorizzato anche nei
confronti di altre quattro imprese concorrenti, in presenza
delle medesime discrepanze interne tra l’offerta espressa in
cifre e quella espressa in lettere.
Questo strumento di
risoluzione delle discrasie, in definitiva, è stato
utilizzato in esecuzione dei fondamentali principi della
massima partecipazione alle gare ed a quello della par
condicio fra concorrenti, senza invadere il campo di
un’inammissibile ricerca della volontà soggettiva
dell’impresa concorrente.
2. Dopo aver delimitato la portata dei principi che vengono
in rilievo nel caso di specie, occorre ripercorrere le
argomentazioni poste a fondamento delle tesi rispettivamente
sostenute dalle parti in causa e accuratamente compendiate
nell’ordinanza di rimessione della questione dinanzi a
questa Adunanza Plenaria, al fine di individuare la
normativa utilmente applicabile al caso di specie.
3. Come già esposto, le problematiche sorgono a causa del
conflitto nascente dall’incompatibilità fra i criteri
risolutivi delle discrasie, presenti nelle offerte dei
concorrenti di una determinata gara pubblica, contenuti
nell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 e, rispettivamente,
nell’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010.
4. Secondo la tesi prospettata dall’impresa appellante, e
condivisa da una parte della giurisprudenza, l’art. 72
dovrebbe assurgere a criterio generale utile alla
risoluzione di un conflitto simile a quello integrato nel
caso di specie. In tal senso dovrebbe propendersi per
molteplici ragioni.
4.1 Innanzitutto, fra le disposizioni in esame dovrebbe
ritenersi sussistente una relazione di generalità -
specialità: infatti, dal tenore letterale delle disposizioni
potrebbe ricavarsi il principio secondo cui, mentre l’art.
72 assurge a norma di carattere generale, espressione di un
criterio risolutivo delle discrasie interne all’offerta da
utilizzare in assenza di diversi rimedi, l’art. 119, comma
2, concernerebbe esclusivamente le fattispecie di ribassi su
prezzi unitari.
Questa soluzione ermeneutica deriva dalla inammissibilità di
una interpretatio abrogans dell’art. 72 r.d. n. 827
del 1924: la norma, in assenza di un’esplicita disposizione
diretta in tal senso, non può ritenersi espunta
dall’ordinamento e, pertanto, non può essere svuotata di
significato in virtù della sola esistenza di una
disposizione cronologicamente più recente ma afferente ad
una diversa fattispecie.
4.2 A ben vedere, l’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del
2010, non può nemmeno considerarsi espressione di un
principio innovativo, derivante da originali e mutate
tendenze dell’ordinamento: la disposizione in esso contenuta
rappresenta la riproduzione di quanto già sancito, dapprima,
con l’art. 5 della l. n. 14 del 1973 (“norme sui
procedimenti di gara negli appalti di opere pubbliche
mediante licitazione privata”), secondo il cui comma 4 “i
prezzi unitari sono indicati in cifre ed in lettere: vale,
per il caso di discordanza, il prezzo indicato in lettere
[...]” e, successivamente, con una disposizione identica
all’attuale formulazione, dall’art. 90, commi 2 e 3, del
d.P.R. n. 554 del 1999.
Da ciò, parte della giurisprudenza ha ritenuto di poter
ricavare una giustificazione al carattere di norma generale
dell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924, il cui ambito di
applicazione sarebbe escluso nelle sole ipotesi regolate
dall’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010: in effetti,
se il criterio di valorizzazione dell’offerta espressa in
lettere fosse elevato a soluzione di carattere generale, non
si comprenderebbe il motivo per cui tale disposizione non
abbia abrogato l’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 (cfr.
C.G.A.R.S. 04.09.2014 n. 511; id. 06.02.2014 n. 54).
4.3 La relazione di specialità che connota le due
disposizioni in esame potrebbe essere dedotta, altresì, dal
dato testuale contenuto nell’art. 119, comma 2:
quest’ultimo, in effetti, si riferisce esplicitamente ed in
via esclusiva alle gare indette con il criterio dell’offerta
a prezzi unitari.
Pertanto, quanto all’aggiudicazione tramite il criterio del
prezzo più basso sull’elenco prezzi posto a base di gara,
dovrebbe prevalere il criterio imposto dall’art. 72 r.d. n.
827 del 1924. Invero, questa soluzione non può dirsi
inficiata dalla presenza dell’art. 118 del d.P.R. n. 207 del
2010 che, seppur disciplinante la medesima fattispecie, non
prevede un criterio di risoluzione delle discordanze tra
l’offerta espressa in cifre e quella espressa in lettere.
5. Il Collegio ritiene che la tesi sopra esposta, seppur
suffragata da valide argomentazioni, tanto sotto il profilo
logico-sistematico, quanto da un punto di vista strettamente
giuridico, non possa essere condivisa e, dunque, debba
considerarsi superata dal differente orientamento
giurisprudenziale che considera il criterio enunciato
dall’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010 espressione
di un principio di portata generale.
5.1 La valorizzazione dell’offerta maggiormente vantaggiosa
per l’Amministrazione potrebbe creare delle problematiche
nell’ambito delle gare in cui vi sia un meccanismo di
esclusione delle offerte anomale. Anche nell’ordinanza di
remissione è stato individuato questo aspetto critico,
evidenziando l’impossibilità di stabilire ex ante
quale sia l’offerta più vantaggiosa per l’Amministrazione:
nel contrasto tra offerta espressa in lettere ed offerta
espressa in cifre, quella che in astratto può apparire
maggiormente vantaggiosa, potrebbe condurre, invece, ad una
sua esclusione per anomalia.
Va altresì rilevato che le offerte considerate valide nel
corso di una gara, concorrono a determinare il valore medio
di quelle presentate dalla totalità dei concorrenti e, in
definitiva, a fissare l’entità delle offerte che subiranno
gli effetti del c.d. “taglio delle ali”.
Non meno rilevanti appaiono i risvolti che l’applicazione di
questo criterio risolutivo genererebbe in relazione al
principio di unicità della offerta, di cui all’art. 11,
comma 6, d.lgs. n. 163 del 2006: l’errore di scritturazione,
qualunque ne sia la causa, che determina discrasia tra
l’offerta espressa in lettere e quella espressa in cifre,
potrebbe condurre l’Amministrazione a valutare la più
vantaggiosa tra le due soltanto in una fase successiva alla
individuazione delle offerte degli altri concorrenti, con
conseguente lesione del divieto di offerte plurime e della
par condicio fra i concorrenti, nonché del buon andamento
dell’azione amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. V,
14.09.2010, n. 6695).
5.2 L’art. 119, comma 2, pur non introducendo una
disposizione di carattere innovativo, risponde ad esigenze
del tutto differenti rispetto all’art. 72 r.d. n. 827 del
1924: la tutela della concorrenza, infatti, costituisce la
più importante ratio ispiratrice dell’intera
normativa del settore dei contratti della Pubblica
Amministrazione e, in quest’ottica, anche la giurisprudenza
di settore deve necessariamente orientarsi.
La effettiva parità tra gli operatori economici che
partecipano ad una procedura finalizzata all’affidamento di
un appalto, non può considerarsi secondaria rispetto ad
altri e diversi interessi, seppur questi rivestano
un’importanza considerevole. Il legislatore europeo, prima,
e nazionale, poi, nel delineare il corpus normativo
afferente alla materia dei contratti, si è orientato nel
senso di valorizzare primariamente la par condicio fra
operatori economici, quale strumento per rendere virtuoso il
sistema economico nel suo complesso.
Ciò posto, dunque, il criterio di cui all’art. 119, comma 2,
d.P.R. n. 207 del 2010 è indubbiamente orientato
all’effettiva parità fra coloro che partecipano ad una gara
pubblica, poiché impone alla commissione un comportamento
univoco, non soggetto a interpretazioni virtualmente
difformi. Diversamente, l’art. 72 r.d. n. 827 del 1924 opera
con precipuo riferimento all’interesse economico-finanziario
dell’Amministrazione, come dimostra il suo inserimento
all’interno di un sistema normativo finalizzato all’"amministrazione
del patrimonio” ed alla “contabilità generale dello
Stato” e l’intenzione di addossare sull’operatore il
costo dell’errore in sede di compilazione dell’offerta.
5.3 Da un punto di vista sistematico, inoltre, nonostante
sia vero che l’art. 119 si riferisce esclusivamente alle
fattispecie di “aggiudicazione del prezzo più basso
determinato mediante offerta a prezzi unitari”, non può
escludersi che il criterio, in esso previsto, di superamento
delle discrasie tra offerte espresse in lettere ed offerte
espresse in cifre, dalle ipotesi in cui l’aggiudicazione
venga definita in virtù del massimo ribasso sull’elenco
prezzi o sull’importo dei lavori.
Invero, questa possibilità va considerata pienamente
ammissibile, anche solo comparando il dato testuale
ricavabile dalle disposizioni che disciplinano tali
fattispecie: in effetti, l’art. 119, a differenza dell’art.
118, prevede che “il prezzo complessivo ed il ribasso
sono indicati in cifre ed in lettere”; inoltre, il
criterio della prevalenza del prezzo indicato in lettere è
affermato sia nel caso di discordanza riscontrata nel prezzo
complessivo o nel ribasso percentuale (comma 2), sia nel
caso di incongruenze presenti nei prezzi unitari (comma3).
Da ciò si ricava che il criterio della valorizzazione del
prezzo indicato in lettere risponde ad un’esigenza di
certezza tanto per i concorrenti, quanto per la stazione
appaltante (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 01.10.2013 n. 4873;
id., Sez. V, 12.09.2011, n. 5095).
La soluzione offerta dall’art. 119 non è riprodotta
nell’art. 118, a causa dell’assenza di un’espressa richiesta
della doppia indicazione, in cifre ed in lettere,
dell’offerta proposta dal concorrente: se si ritenesse, in
ossequio ad un’interpretazione strettamente letterale, che
il criterio risolutivo di cui alla prima disposizione non
possa essere applicato alle fattispecie di cui all’art. 118,
parimenti dovrebbe escludersi la validità della previsione,
contenuta in un disciplinare di gara, secondo cui l’offerta
del singolo partecipante debba indicarsi sia in cifre che in
lettere.
5.4 Altrettanto rilevante, secondo il Collegio, risulta il
riferimento alla maggior ponderazione che richiede la
scritturazione dell’offerta in lettere da parte del
concorrente: questa affermazione, lungi dall’essere
un’ipotesi astratta e soggettiva, trova riscontro anche in
altri ambiti dell’ordinamento (art. 6 r.d. n. 1669 del 1933
e art. 9 r.d. n. 1736 del 1933), a dimostrazione della
volontà di attribuire rilievo ad un’esigenza di certezza ed
affidamento dei destinatari dei documenti su cui vengono
apposti gli importi in cifre ed in lettere.
A ben vedere, la stessa necessità di indicare anche in
lettere un determinato importo, implica, a monte, la
possibilità di errori di scritturazione della somma in
cifre: non risponderebbe ad un criterio di ragionevolezza,
ricostruire l’effettiva volontà dello scrivente in modo
differente a seconda della tipologia dell’ambito in cui ci
si trova; la priorità, in tal senso, attribuita
all’indicazione dell’importo trascritto in lettere, consente
di porre un criterio univoco ed imparziale, idoneo a
superare ogni tipo di contrasto esegetico.
6. In definitiva, se da un lato rimane indubbia la vigenza
dell’art. 72 r.d. n. 827 del 1924, dall’altro lato, la sua
compatibilità con l’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del
2010 è giustificata dal diverso ambito applicativo dei due
sistemi normativi: al riguardo il criterio di specialità è
utile, ma deve applicarsi con riferimento alle due fonti
normative complessivamente considerate, e non in rapporto ai
soli criteri di risoluzione delle discrasie presenti nelle
offerte.
Da ciò deriva che l’organicità, la completezza e la
specificità del d.lgs. n. 163 del 2006 (e del relativo
Regolamento di esecuzione), destinato a disciplinare “i
contratti delle stazioni appaltanti, degli enti
aggiudicatori e dei soggetti aggiudicatari, aventi ad
oggetto l’acquisizione di servizi, prodotti, lavori ed opere”,
consentono di affermarne la natura derogatoria, nel suo
complesso, rispetto alle disposizioni vigenti del r.d. n.
827 del 1924 che ha come obiettivo principale l’equilibrio
economico-finanziario dello Stato.
Di conseguenza, il suo ambito applicativo può essere
validamente circoscritto alle ipotesi, non ricomprese
nell’alveo della disciplina del Codice dei contratti, in cui
si renda necessario valorizzare l’interesse economico dello
Stato: da ciò, può desumersi che il vantaggio per
l’Amministrazione assurge a criterio dirimente in caso di
contrasto fra offerta espressa in lettere ed offerta
espressa in cifre, laddove occorra massimizzare gli introiti
per l’Erario, mentre gli interessi degli operatori economici
sono posti in un secondo piano.
In ultima analisi, il criterio di cui all’art. 72 r.d. n.
827 del 1924 può ritenersi validamente operante, come è
stato correttamente evidenziato, nelle ipotesi di procedure
ad evidenza pubblica aventi ad oggetto la stipula di
contratti passivi, come la vendita o la locazione di beni.
7. Sulla base delle sopra esposte considerazioni, l’appello
della ditta Pe.Ap. s.r.l. deve essere respinto.
L’unico motivo di appello, con il quale è stata riproposta,
in sede di impugnazione, la censura rivolta a sindacare la
legittimità dell’operato della commissione aggiudicatrice,
non può essere condiviso: infatti, quest’ultima
nell’attribuire rilevanza, in presenza di discordanze,
all’offerta espressa in lettere, ha correttamente applicato
il criterio di cui all’art. 119, comma 2, d.P.R. n. 207 del
2010 che può considerarsi espressione di un principio di
carattere generale, da ritenersi valido anche al di fuori
dei casi espressamente richiamati dalla norma. La stessa
commissione, nel verbale di aggiudicazione provvisorio ha
fatto espresso rinvio “a quanto previsto dal Regolamento”,
con ciò volendo esprimere il riferimento ai principi in esso
previsti.
Secondo il Collegio, in definitiva, va
confermata integralmente la decisione di primo grado, con
cui il TAR ha delineato, in modo del tutto corretto, non
soltanto i rispettivi ambiti di competenza dei due sistemi
normativi in questa sede esaminati, ma, altresì, la
legittimità dell’operato della commissione aggiudicatrice
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 13.11.2015 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di "carico urbanistico"
deriva dall'osservazione che ogni insediamento
umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni,
uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio
(opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade,
fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di
erogazione del gas) che deve essere proporzionato
all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti
insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro
svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente
legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione
in vari istituti di diritto urbanistico:
a) negli «standard» urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968 n.
1444 che richiedono l'inclusione, nella formazione degli
strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici
per abitante a seconda delle varie zone;
b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a
contributo sia di urbanizzazione che sul costo di
produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto
comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre
nuovo insediamento;
c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che
non comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni
contributo per le opere interne (art. 26 L. n. 47/1985 e
art. 4, comma 7, l. 493/1993) che non comportano la
creazione di nuove superficie utili, ferma restando la
destinazione dell'immobile;
e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non
costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L.
n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993)".
---------------
L'aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto
anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere
interne comportanti il mutamento della originaria
destinazione d'uso di un edificio.
---------------
8. Sulla nozione di
"carico urbanistico", peraltro, vengono fornite
puntuali indicazioni, osservando, testualmente, che "(...)questa
nozione deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano
è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni,
uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio
(opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade,
fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di
erogazione del gas) che deve essere proporzionato
all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti
insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro
svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente
legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione
in vari istituti di diritto urbanistico:
a) negli «standard»
urbanistici di cui al D.M. 02.04.1968 n. 1444 che richiedono
l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici,
di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda
delle varie zone;
b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a
contributo sia di urbanizzazione che sul costo di
produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto
comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre
nuovo insediamento;
c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che
non comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni
contributo per le opere interne (art. 26 L. n. 47/1985 e
art. 4, comma 7, l. 493/1993) che non comportano la
creazione di nuove superficie utili, ferma restando la
destinazione dell'immobile;
e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non
costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L.
n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993)".
Sulla scia di tali condivisibili rilievi, altre decisioni
successive hanno ulteriormente delineato i termini della
questione, richiamando l'attenzione sulla circostanza che il
pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche
relativamente al carico urbanistico, deve presentare il
requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del
quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione
(Sez. III n. 4745, 30.01.2008; conf. Sez. VI n. 21734,
29.05.2008; Sez. Il n. 17170, 05.05.2010) e chiarendo che, a
tal fine, l'abuso va considerato unitariamente (Sez. III n.
28479, 10.07.2009; Sez. III n. 18899, 09.05.2008).
L'aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto
anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere
interne comportanti il mutamento della originaria
destinazione d'uso di un edificio (Sez. III n. 22866,
13.06.2007; conf. Sez. IV n. 34976, 28.09.2010).
Nelle menzionate pronunce vengono, inoltre, indicate ipotesi
specifiche di incidenza dei singoli interventi sul carico
urbanistico, richiamando, ad esempio:
- il contenuto dell'articolo 41-sexies Legge 17.08.1942, n.
1150 come modificato dalle leggi 122/1989 e 246/2005 che
richiede, per le nuove costruzioni ed anche per le aree di
pertinenza delle costruzioni stesse, la esistenza di
appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un
metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione
(Sez. III n. 28479/2009, cit.);
- la rilevanza di nuove costruzioni in termini di esigenze
di trasporto, smaltimento rifiuti, viabilità etc. (Sez. III
n. 22866/2007, cit.);
- l'ulteriore domanda di strutture ed opere collettive, sia
in relazione alle prescritte dotazioni minime di spazi
pubblici per abitante nella zona urbanistica interessata
(Sez. III, n. 34142, 23.09.2005)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.11.2015 n. 45282). |
EDILIZIA PRIVATA:
Frazionamenti con oneri più cari se è
ristrutturazione. Consiglio di Stato. «Vecchi» interventi.
Titoli edilizi più onerosi, a
vantaggio dei bilanci comunali, se si altera la
distribuzione interna di un edificio per rendere più agevole
una destinazione d’uso esistente. Questo quanto meno fino a
settembre 2014, quando la «ristrutturazione» ha ceduto il
posto alla meno cara «manutenzione».
Lo sottolinea il
Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza
12.11.2015 n. 5184.
Il caso deciso riguarda la sede dell’ufficio Iva di Foggia,
che il ministero dell’Economia aveva in locazione: scaduto
il contratto, i due piani occupati sono tornati residenziali
con l’inserimento di nuovi impianti, la modifica e la
ridistribuzione dei volumi. Il risultato finale ha avuto un
costo di oltre 40.000 euro di oneri, somma richiesta dal
Comune in conseguenza della modifica alla distribuzione
interna, dell’alterazione di fisionomia e consistenza fisica
dell’immobile causata dalla demolizione di muri divisori,
scale, servizi.
L’intervento, per Comune e Consiglio di Stato, è oneroso: va
ritenuto di risanamento conservativo, mentre il privato non
può pretendere di risparmiare affermando di aver effettuato
solo opere di manutenzione straordinaria. La qualificazione
dell’intervento come risanamento è derivata dall’inserimento
di nuovi impianti, con la modifica e ridistribuzione dei
volumi, anche indipendentemente dalla destinazione d’uso,
che da residenziale, con l’attivazione della sede Iva era
diventata direzionale per poi tornare ancora residenziale.
All’interno di un edificio con volumi già definiti, sono
tornati così otto locali commerciali al piano terra,
altrettanti autonomi servizi e impianti tecnologici, il vano
scala interno è diventato superficie abitabile al primo
piano, mentre una serie di divisori ha generato sette unità
abitative di oltre 110 metri quadri, con relativi impianti
termosanitari. Tutto ciò è ristrutturazione edilizia, perché
sono risultati modificati la distribuzione della superficie
interna ed i volumi e l’ordine in cui erano disposte le
diverse porzioni dell’edificio, indipendentemente dalla
destinazione d’uso, che nel caso esaminato è tornata
residenziale.
La vicenda risale ai primi anni del 2000 e applica il
principio che ricollega l’onerosità dell’intervento al tipo
di modifiche e all’entità dei contributi in vigore al
momento del rilascio del titolo edilizio (Consiglio di Stato
1513/1998; Tar Torino 3832/2005). Lo stesso intervento, se
realizzato dopo il 2014, sarebbe stato possibile con diverse
norme sia statali che regionali: la manutenzione
straordinaria è infatti diventata più ampia (articolo 3
lettera b, del Dpr 380/2001, modificato dall’articolo 17 Dl
133, legge 164 del 2014) con possibilità di frazionare o
accorpare unità, se si mantiene la volumetria complessiva e
l’originaria destinazione d’uso.
Dal settembre 2014, l’articolo 17 del Dpr 380/2001 (Dl
133/2014, divenuto legge 164) agevolando la “densificazione”
edilizia, avrebbe ridotto di almeno il 20% (rispetto al
contributo per le nuove costruzioni), la ristrutturazione e
il riutilizzo di immobili dismessi, tutte le volte che non
vi sia una variante urbanistica, un permesso in deroga o un
cambio di destinazione che generi maggior valore
dell’edificio rispetto alla destinazione originaria.
La
novità rende più facile frazionare e accorpare con
manutenzione, perché le parole «frazionare» e «accorpare»
sono state inserite nell’articolo 3, lettera b, dal DL
133/2014 all’interno della manutenzione straordinaria. Prima
era possibile frazionare e accorpare ma era una
ristrutturazione, ben più onerosa (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo
della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica
di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti
e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si
configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro o risanamento conservativo, ma rientrano
nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
In sostanza, affinché sia ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino
modificati la distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse
porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più
agevole la destinazione d'uso esistente (nel caso di specie,
viene addirittura modificata!), atteso che anche in questi
casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere
che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
---------------
Pertanto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio,
anche un intervento che non determini cambiamento di
destinazione d’uso ma sia effettuato (così come è stato
effettuato in concreto) con le modalità poco sopra indicate
è da considerarsi un intervento di ristrutturazione.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR PUGLIA - SEZ.
STACCATA DI LECCE: SEZIONE III n. 5030/2005, resa tra le
parti, concernente oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria.
...
1. Il Collegio ritiene di dover preliminarmente precisare,
sotto il profilo delle circostanze in fatto, che la
destinazione ad uffici degli immobili per cui è
controversia, impressa nel 1972, è rimasta inalterata fino
al 2003, quando l’appellante e gli altri comproprietari
hanno presentato al Comune di Foggia una richiesta di cambio
di destinazione d’uso compatibile, allegando un progetto
esecutivo dei lavori da eseguire.
Il progetto prevedeva:
- la demolizione totale delle
tramezzature e dei due servizi igienici e la ricostruzione
delle stesse per ricavare n. 8 locali commerciali al piano
terra, con altrettanti autonomi servizi igienici ed impianti
tecnologici;
- l’apertura del caposcala A e B, con aumento
della superficie per effetto della trasformazione del vano
scala in superficie abitabile, al prima piano;
- la
ricostruzione della tramezzatura per ricavare n. 7 unità
abitative aventi una superficie media cadauna di oltre mq.
110, sempre al primo piano, con la costruzione di 7 impianti
igienici e di altrettanti impianti di riscaldamento
autonomi, nonché la realizzazione di 2 verande.
Già dalla semplice descrizione delle opere progettate,
emerge all’evidenza l’appartenenza degli interventi al genus
della ristrutturazione edilizia, atteso che manifestamente
essi producono l’effetto di aumentare permanentemente il
carico urbanistico di zona, con la conseguenza che sono
dovuti gli oneri richiesti dal Comune.
2. Passando all’esame dettagliato dei motivi di appello, si
deve evidenziare preliminarmente che l’errata trascrizione
consistente nel richiamo, effettuato dalla sentenza del TAR,
all’art. 9, ult. co., della legge n. 19 del 1971, non incide
sull’iter motivazionale della decisione, ma costituisce un
mero refuso materiale; peraltro, l’appellante nemmeno deduce
come tale erroneo richiamo abbia inficiato la logica sottesa
alla decisione (logica che è sintetizzabile in ciò:
appartenenza dell’intervento al genus della ristrutturazione
e, quindi, debenza degli oneri richiesti dal Comune).
3. Nel merito, più in specifico, si osserva che la
concessione edilizia n. 74 del 13.06.2003 è stata
legittimamente considerata dal Comune di Foggia a titolo
oneroso perché i lavori portati in progetto consistevano in
una totale ristrutturazione del piano terra e del primo
piano, con totale demolizione delle strutture interne (muri
divisori, scale, servizi e quant’altro esistente), con
cambio di destinazione d’uso, dalla categoria funzionale
omogenea direzionale a quella residenziale, e con incremento
della superficie abitabile per effetto dell’eliminazione
delle scale di collegamento tra il piano terra e il primo
piano, nonché con la realizzazione, al primo piano, di due
verande ricavate dall’arretramento del muro di prospetto.
Come ha chiarito ancora di recente questo Consiglio (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 14.07.2015, n. 3505), gli
interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo
della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica
di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti
e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si
configurano né come manutenzione straordinaria, né come
restauro o risanamento conservativo, ma rientrano
nell'ambito della ristrutturazione edilizia; in sostanza,
affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione
edilizia è sufficiente che risultino modificati la
distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero
l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni
dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la
destinazione d'uso esistente (nel caso di specie, viene
addirittura modificata!), atteso che anche in questi casi si
configura il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento
conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere
che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la
distribuzione interna della sua superficie.
Pertanto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio,
anche un intervento che non determini cambiamento di
destinazione d’uso ma sia effettuato (così come è stato
effettuato in concreto) con le modalità poco sopra indicate
è da considerarsi un intervento di ristrutturazione.
Nel caso di specie, peraltro, l’immobile di cui si tratta è
stato sì originariamente progettato per essere destinato
alla residenza, quanto al primo piano, e ad attività
commerciali quanto al piano terra; tuttavia, con successive
varianti approvate in data 08.07.1970 e 15.05.1971, è stato
totalmente realizzato e concretamente destinato ed
utilizzato ad uffici, possedendone tutte le attitudini
funzionali; lo dimostra, peraltro, lo stesso contenuto del
progetto presentato da parte ricorrente nel 2003, che
prevede, per l’appunto, la totale demolizione delle
strutture distributive degli ambienti degli interi due
livelli, con la totale ricostruzione delle stesse con le
attitudini funzionali per la residenza a primo piano e per
uso commerciale al piano terra.
Tale previa diversa destinazione d’uso è altresì dimostrata
dal contenuto della relazione tecnica e dei disegni del
progetto presentati al Comune in data 11.02.2003, ove si
legge che “Gli immobili in oggetto acquistati nel dicembre
1972 furono locati in fase di costruzione al Ministero delle
Finanze che, per proprie esigenze li fuse per destinarli ed
utilizzarli interamente ad ufficio provinciale IVA”.
Pertanto, il Comune ha fatto corretta e legittima
applicazione sia dell’art. 18 del Regolamento edilizio di
Foggia, secondo il quale quando l’intervento di conversione
d’uso e trasformazione tipologica richiede l’esecuzione di
opere edilizie, esso viene assimilato ad un intervento di
ristrutturazione; sia dell’art. 10, ult. comma, l. n.
10/1977, con conseguente quantificazione del contributo
nella misura massima prevista al momento del mutamento della
destinazione d’uso.
4. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello deve essere respinto in quanto infondato
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.11.2015 n. 5184 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Di Pietro non vale sempre.
Affidamenti diretti solo per adeguamenti.
È illegittimo utilizzare l'affidamento diretto al
progettista per adeguare il progetto originario alle nuove
norme, saltando l'obbligo di gara, per di più oltre la
soglia comunitaria.
È quanto ha affermato il Consiglio di
stato, Sez. V, con la
sentenza
12.11.2015 n. 5182, che ha dichiarato illegittimo l'affidamento
diretto per l'adeguamento del progetto (risalente al 1978),
per un importo sopra la soglia comunitaria per mancanza dei
presupposti che giustificano il ricorso alla procedura
negoziata disciplinata dall'articolo 7 del dlgs 157/1995.
La stazione appaltante aveva proceduto ad affidare al
progettista del progetto iniziale, con un meccanismo di
estensione del contratto basato su quanto disponeva la
cosiddetta «circolare Di Pietro» (del 07.10.1996, n.
4488/Ul) che forniva indirizzi operativi e chiarimenti sulla
disciplina transitoria di talune norme della legge quadro
sui lavori pubblici; era il periodo di passaggio fra la
legge 11.02.1994, n. 109 e la legge 02.06.1995, n.
216 (Merloni-bis). L'articolo 9 della circolare prevedeva
che «se la progettazione è stata affidata a professionisti
esterni all'amministrazione, gli stessi potranno procedere
al relativo adeguamento».
Il Consiglio di stato ha negato però la legittimità del
riferimento a questa indicazione perché la possibilità
prevista nella circolare presuppone un mero adeguamento del
progetto che sta per essere appaltato, per evitare di
riaffidare un nuovo incarico ritardando i lavori. Nel caso
specifico, invece, al progettista (che aveva predisposto gli
elaborati nel 1978) era richiesto di adeguare il progetto ai
tre livelli di progettazione nel frattempo intervenuti (cioè
di rifare l'intera progettazione) per un importo oltre la
soglia dei 200 mila euro.
Per i giudici, che confermano la sentenza di primo grado,
esclusa la possibilità di utilizzare la «circolare Di
Pietro» perché si tratta di progetti risalenti a molti anni
prima, occorreva, semmai, verificare se vi fossero gli
estremi per un affidamento a trattativa privata ai sensi
dell'allora vigente dlgs 157/1995, ma anche in questo caso la
fattispecie «non è riconducibile ad alcun caso che
eccezionalmente consente l'esperimento della procedura della
trattativa privata», ai sensi dell'articolo 7 del dlgs
157/1995
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).
---------------
MASSIMA
1. Il Collegio ritiene innanzitutto di condividere
l’eccezione di irricevibilità del gravame, sollevata
dall’appellato sig. Vi.Sc..
Infatti, le speciali disposizioni acceleratorie di cui
all'art. 23-bis dell'abrogata l. n. 1034 del 1971 si
applicano nei giudizi relativi ai “provvedimenti relativi
a procedure di affidamento di incarichi di progettazione e
di attività tecnico-amministrative ad esse connesse”,
come quello di specie; in base a tale norma, è previsto che
"Il termine per la proposizione dell'appello avverso la
sentenza del tribunale amministrativo regionale pronunciata
nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla
notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione
della sentenza".
Nel caso di specie, la sentenza appellata è stata notificata
a tutte le controparti, compresa la Regione appellante, a
mezzo del servizio postale, in data 30.01.2006 ed è
pervenuta al procuratore dell’appellante stessa, ovvero
all’Avvocatura Generale dello Stato, in data 02.02.2006,
mentre l’atto di appello è stato notificato all’appellato
Scaccia in data 03.04.2006.
Peraltro, la sentenza è stata depositata in data 30.05.2005,
facendo pertanto decorrere anche i 120 giorni dalla
pubblicazione cui si riferisce l'art. 23-bis dell'abrogata
l. n. 1034 del 1971.
2. In ogni caso nel merito l’appello è comunque infondato,
potendo sinteticamente rilevarsi che:
- la legittimazione al ricorso in tema di affidamento di
contratti pubblici spetta ai soggetti che abbiano
legittimamente partecipato alla procedura selettiva che si
contesta, giacché solo tale qualità permette alla singola
impresa di conseguire una posizione sostanziale
differenziata e meritevole di tutela, fatte salve alcune
deroghe (quali la contestazione della scelta della stazione
appaltante di indire una determinata procedura; la denuncia
dell'operatore economico di settore che contesta un
affidamento diretto o senza gara; l'impugnazione di una
clausola escludente) (cfr., da ultimo, ex multis,
Consiglio di Stato sez. VI, 10.12.2014, n. 6048);
- la situazione in oggetto rientra proprio nel novero di
tali ultime eccezioni, poiché il ricorrente in primo grado,
in qualità di operatore economico di settore, ha contestato
un affidamento diretto o senza gara;
- l’ipotesi dell’adeguamento del progetto
in ragione del sopravvenuto mutato quadro normativo,
nell’ipotesi in esame, non è riconducibile ad alcun caso che
eccezionalmente consente l’esperimento della procedura della
trattativa privata.
3. L’appello deve essere respinto. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
disposizioni dettate dal D.lgs. 14.03.2013 n. 33, in materia
di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da
parte delle pubbliche amministrazioni (c.d. accesso civico), disciplinano situazioni non ampliative,
né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai
documenti amministrativi, ai sensi degli art. 22 e segg. L.
07.08.1990 n. 241, tenuto presente che, col citato D.lgs. n.
33 del 2013, s’intende procedere al riordino della
disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più
ampia accessibilità alle informazioni, concernenti
l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche
amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico
e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità,
buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza
nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del
diritto ad una buona amministrazione, nonché per la
realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del
cittadino.
---------------
L’accesso civico consente ai cittadini e ad enti di
controllare democraticamente se un’amministrazione pubblica
abbia adempiuto agli obblighi di trasparenza previsti dalla
legge, segnatamente se abbia provveduto alla pubblicazione
di documenti, informazioni o dati, sicché l’amministrazione
destinataria dell’istanza di accesso civico, ai sensi
dell’art. 5, comma 3, del citato D.lgs. n. 33 del 2013,
entro trenta giorni, deve pubblicare il documento,
informazione o dato richiesto sul sito istituzionale,
trasmettendolo contestualmente all’istante, ovvero
comunicando a quest’ultimo il collegamento ipertestuale per
l’accesso, con la precisazione che in tale ultimo modo la
P.A. deve procedere allorché il documento, informazione o
dato risulti già pubblicato nel rispetto della normativa
vigente.
---------------
... per l'accertamento del diritto alla trasparenza
amministrativa relativa agli obblighi di pubblicazione
concernenti degli organi di indirizzo politico del comune di
Cosenza.
...
- Premesso che le disposizioni dettate dal D.lgs. 14.03.2013
n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (c.d.
accesso civico), disciplinano situazioni non ampliative, né
sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai
documenti amministrativi, ai sensi degli art. 22 e segg. L.
07.08.1990 n. 241, tenuto presente che, col citato D.lgs. n.
33 del 2013, s’intende procedere al riordino della
disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più
ampia accessibilità alle informazioni, concernenti
l’organizzazione e l’attività delle Pubbliche
amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico
e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità,
buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza
nell’utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del
diritto ad una buona amministrazione, nonché per la
realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del
cittadino (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 11.12.2014
n. 3027);
- Ritenuto che l’accesso civico consente ai cittadini e ad
enti di controllare democraticamente se un’amministrazione
pubblica abbia adempiuto agli obblighi di trasparenza
previsti dalla legge, segnatamente se abbia provveduto alla
pubblicazione di documenti, informazioni o dati, sicché
l’amministrazione destinataria dell’istanza di accesso
civico, ai sensi dell’art. 5, comma 3, del citato D.lgs. n.
33 del 2013, entro trenta giorni, deve pubblicare il
documento, informazione o dato richiesto sul sito
istituzionale, trasmettendolo contestualmente all’istante,
ovvero comunicando a quest’ultimo il collegamento
ipertestuale per l’accesso, con la precisazione che in tale
ultimo modo la P.A. deve procedere allorché il documento,
informazione o dato risulti già pubblicato nel rispetto
della normativa vigente (cfr. TAR Lazio, Sez. III-bis,
19.03.2014 n. 3014);
- Ritenuto che la domanda di accesso civico del 22.06.2015,
rimasta senza riscontro, riguarda dati ed informazioni
sottoposti agli obblighi di cui alla predetta normativa
(art. 14), eccezion fatta che per la dichiarazione del
coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado,
che dev’essere da costoro consentita;
- Considerato che, in conclusione, il ricorso va
parzialmente accolto, con conseguente condanna del comune di
Cosenza a procedere, entro 30 (trenta) giorni dalla
comunicazione e/o notificazione della presente sentenza,
alla pubblicazione nel sito dei documenti, delle
informazione e dei dati richiesti con la domanda di accesso
civico del 22.06.2015 avanzata dal ricorrente, eccezion
fatta che per la dichiarazione del coniuge non separato e
dei parenti entro il secondo grado (salvo che non sussista
autorizzazione in proposito) ed a comunicare al medesimo
l’avvenuta pubblicazione, indicando il relativo collegamento
ipertestuale
(TAR Calabria-Cosenza, Sez. II,
sentenza 12.11.2015 n. 1671 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La sentenza con firma digitale è valida.
La sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da
questi sottoscritta con firma digitale è valida.
Questo è quanto ha sancito la Corte di Cassazione, Sez. III
civile, con la
sentenza 10.11.2015 n. 22871.
Nel caso in esame
era stata impugnata una sentenza del Gdp Napoli lamentando
la sua inesistenza giuridica ai sensi dell'art. 132, c. 2,
n. 5 cpc..
Secondo la ricorrente, poiché la sentenza
conteneva soltanto la firma digitale e non la sottoscrizione
del giudice, non era possibile l'identificazione del suo
autore. Nell'impugnazione si deduceva che la normativa che
ha introdotto nell'ordinamento la firma digitale non è
applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno
scambio telematico di atti (che, per le sentenze, non è
previsto); per di più, nel caso non vi sarebbero nemmeno la
certificazione ed il deposito in cancelleria.
Il ricorrente
riteneva, quindi, che nell'attuale sistema normativo la
sentenza recante la firma digitale sarebbe stata mancante di
sottoscrizione ai sensi dell'art. 132 cpc, e perciò
inesistente. Secondo il Collegio il motivo è infondato.
Infatti, pur rammentando che l'art. 132, cpc prescrive che
la sentenza debba contenere «la sottoscrizione del giudice»,
rileva che è stata notevole 1'elaborazione giurisprudenziale
concernente il profilo interpretativo di questa
disposizione.
Le conclusioni sono, quindi, che la sentenza
redatta in formato elettronico dal giudice e da questi
sottoscritta con firma digitale, ex art. 15, dm 44/2011, non
è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, sia
perché sono garantite l'identificabilità dell'autore,
l'integrità del documento e l'immodificabilità del
provvedimento (se non dal suo autore), sia perché la firma
digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla
sottoscrizione autografa, in forza dei principi contenuti
nel dlgs 07.03.2005 n. 82 applicabili anche al processo
civile, ex art. 4, del dl 193/2009
(articolo ItaliaOggi Sette del 23.11.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La Cassazione dà il via libera alla sentenza
(solo) elettronica. Gli standard di sicurezza ne
garantiscono la genuinità.
Nullità. Respinto il ricorso sulla firma del giudice in
formato digitale.
La firma digitale sulla sentenza
redatta nel (solo) formato elettronico, garantisce
l’identificabilità del magistrato sottoscrittore,
l’integrità del documento e la non modificabilità del
provvedimento deciso.
La III Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza
10.11.2015 n. 22871) avvalla definitivamente la
digitalizzazione del processo telematico -respingendo una
declaratoria di «inesistenza giuridica» di una sentenza del
Tribunale di Napoli- ma lo fa soprattutto scegliendo la
strada maestra.
La sentenza “digitale” è da riconoscere, sostiene la Terza,
non tanto in via analogico-interpretativa, ma in forza di
due leggi che -pur in mancanza di recepimento/coordinamento
con il codice di procedura civile- ne fondano i presupposti
normativi. Si tratta del decreto legislativo 82 del 2005
(«Codice dell’amministrazione digitale») e del decreto legge
193/2009 («Interventi urgenti in materia di funzionalità del
sistema giudiziario»).
Con il corollario che non è neppure
necessario il deposito “materiale” in cancelleria (eccepito
con un secondo motivo di ricorso) perché il giudice,
trasmettendo telematicamente il documento (sentenza) in
cancelleria, lo consegna al cancelliere per la
pubblicazione, impedendone successive manipolazioni anche da
parte del giudice mittente stesso.
La vicenda da cui trae spunto la decisione della Suprema
corte era relativa a una sentenza del giudice di pace di
Napoli, poi impugnata, per un precetto opposto-opposizione
accolta per poche centinaia di euro. Secondo il ricorrente
la sentenza (solo) telematica era inesistente dal punto di
vista giuridico perché contenente «solo la firma digitale e
non la sottoscrizione del giudice» rendendo «non possibile»
la sua identificazione anche perché la normativa che aveva
introdotto nell’ordinamento la firma digitale «non sarebbe
applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno
scambio telematico di atti che per le sentenze non è
previsto».
Argomentazioni, queste, respinte in toto dalla
Cassazione perché, tra l’altro, il Dpcm 30.03.2009 (G.U.
129/2009) fissa le regole di sicurezza dell’interazione tra
la smart card, l’identificazione certa del titolare e il
dispositivo di rilascio del provvedimento, garantendo che la
chiave privata (un semplice file) non può essere estratta e
che il suo sblocco attraverso il pin avvenga solo
all’interno del dispositivo (pc) utilizzato per la stesura
originaria.
Questi principi generali di sicurezza sono stati
poi recepiti nel dl 193/2009 (convertito con modificazioni
dalla legge 22.02.2010, n. 24) fondando i presupposti
giuridici all’interno del processo telematico (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.11.2015). |
APPALTI SERVIZI:
L'avvalimento si applica alle concessioni di
servizi.
L'istituto dell'avvalimento si applica anche alle procedure
di affidamento di concessioni di servizi, nonostante l'art.
30 del codice dei contratti pubblici non lo preveda, in
quanto istituto pro concorrenziale; la disciplina delle
concessioni è ormai quasi equiparata a quella degli appalti.
Sono questi alcuni dei principi affermati dal Consiglio di
Stato -Sez. IV- nella
sentenza 09.11.2015 n. 5091 che,
rispetto a una procedura di affidamento in concessione di
una piscina comunale avviata nel 2013, era chiamato a
stabilire la legittimità dell'utilizzo dell'istituto dell'avvalimento
(il c.d. prestito di requisiti di partecipazione
disciplinato dall'articolo 49 del codice dei contratti
pubblici).
I giudici, nel confermare la sentenza di primo
grado, premettono l'affidamento di concessioni di servizi a
terzi deve sempre avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato Ue e dei principi generali sui
contratti ad evidenza pubblica. Il riferimento è ai
«principi» e non alle «disposizioni», ma il Consiglio di
stato chiarisce che «si devono intendere riconducibili ai
principi tutte quelle norme che rappresentino la
declinazione dei principi generali della materia e trovino
la propria ratio immediata nei medesimi principi».
Ed è
questo il caso dell'articolo 49 sull'avvalimento che pur
essendo norma non applicabile alle concessioni (visto che
l'articolo 30 del codice dei contratti pubblici le sottrae
alle disposizioni sugli appalti) deve essere ritenuto invece
utilizzabile perché istituto funzionale all'attuazione dei
principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza e proporzionalità applicabili alle
concessioni.
Non solo: l'avvalimento -dicono i giudici- consente anche di
rendere cogente il rispetto dei principi, di libera
concorrenza, non discriminazione, proporzionalità e
pubblicità, richiamati dall'articolo 2 del codice dei
contratti in quanto istituto che favorisce la concorrenza
nel settore delle commesse pubbliche. L'articolo 49 deve
quindi ritenersi utilizzabile anche nelle concessioni di
servizi, «senza sbarramenti rilevanti, per ogni tipo di
requisito tecnico, professionale o finanziario».
Tutto ciò vale anche in considerazione del fatto che ormai,
dice il Consiglio di Stato, la disciplina delle concessioni
è sostanzialmente assimilata a quella degli appalti pubblici
(articolo ItaliaOggi del'11.11.2015).
---------------
MASSIMA
6. – Per quanto ammissibile, però, l’appello principale
è anch’esso privo di pregio e dev’esser rigettato, per le
considerazioni di cui appresso.
Già in primo grado, l’odierna appellante aveva ritenuto non
avvalibile e non dimostrato il possesso, in capo alla
seconda graduata Ursa Major, del requisito esperienziale,
inerente allo svolgimento, nel triennio precedente alla
pubblicazione del bando, di attività analoga a quella
oggetto di concessione.
A tal riguardo, il TAR ha precisato, con statuizione ben
condivisibile, che siffatto requisito era certo posseduto
dalla Ursa Major, essendosi avvalsa di quello di altra
impresa e che l’avvalimento era stabilito in modo espresso
dal § 13) del disciplinare.
A differenza di ciò che opina
l’ATI appellante non è vero che, nelle gare per affidare
concessioni, vi sia una preclusione contro l’avvalimento ex
art. 49 del Dlgs 163/2006, istituto, invece, che ha efficacia
generale ed è ammesso, senza sbarramenti rilevanti, per ogni
tipo di requisito tecnico, professionale o finanziario. L’avvalimento
serve infatti a garantire la massima partecipazione alle
gare ad evidenza pubblica, consentendo ai concorrenti, che
siano privi di quelli richiesti dal bando, di parteciparvi
ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, così agevolando
l'ingresso sul mercato di nuovi operatori e, quindi, la
concorrenza fra le imprese (cfr. così Cons. St., III, 13.10.2014 n. 5057).
Si tratta di una precisazione assai
rilevante, agli occhi del Collegio, se si considera che dal
2013 (cfr. Cons. St., ad. plen., 07.05.2013 n. 13),
questo Giudice interpreta l’esclusione, posta dall’art. 30,
c. 3, del Dlgs 163/2006, delle concessioni di servizi
dall’ambito delle regole sugli appalti.
L'affidamento di queste ultime, conformemente alla
giurisprudenza europea e nazionale, deve avvenire nel
rispetto dei principi desumibili dal Trattato UE e dei
principi generali sui contratti ad evidenza pubblica,
all’uopo distinguendo tra principi e disposizioni. Si devono
allora intendere riconducibili ai primi (e quindi
estensibili anche alle concessioni di servizi) tutte quelle
norme che, pur configurandosi a guisa di disposizioni
legislative specifiche, rappresentino la declinazione dei
principi generali della materia e trovino la propria ratio
immediata nei medesimi principi: siffatte norme sono,
dunque, esse stesse come principi generali della materia. In
particolare, l'art. 30 sottrae sì dette concessioni alle
disposizioni sugli appalti, ma le assoggetta comunque, in
coerenza con il precedente art. 27 (principi relativi ai
contratti esclusi), al rispetto dei principi di economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza
e proporzionalità (arg. ex Cons. St., VI, 16.07.2015 n.
3571).
In aggiunta, l’art. 2, c. 1, del Dlgs 163/2006 impone
alle procedure inerenti alle concessioni de quibus di
rispettare i principi, tra l’altro, di libera concorrenza,
non discriminazione, proporzionalità e pubblicità, con le
modalità indicate nello stesso decreto n. 163. Sicché il
ripetuto art. 30 s’inserisce nell'ottica della progressiva
assimilazione delle concessioni stesse agli appalti (arg. ex
Cons. St., VI, 04.06.2015 n. 2755), nel senso di renderne
omogenee le regole di scelta del contraente.
Così l’asserito
(dall’ATI appellante) intuitus personae, che a suo
dire connoterebbe il regime delle concessioni di servizi, al
più è divenuto un concetto se non contrario certo recessivo
secondo le norme UE, nella misura in cui anche l’affidamento
in concessione, pur non tollerando la sussunzione in blocco
di tutto il Codice degli appalti pubblici, dev’esser
preceduto dall’applicazione rigorosa, tra gli altri, dei
principi di pubblicità, concorsualità e tutela della
concorrenza.
7. – Se, dunque, l’avvalimento è predicato quale strumento
anche per aumentare la libera concorrenza nel mercato delle
commesse pubbliche (ossia, della messa a disposizione delle
utilità collettive nei confronti delle imprese del settore)
poiché consente all'impresa ausiliata d’utilizzare tutti i
requisiti di capacità economica e tecnica dell'impresa
ausiliaria (compresa la certificazione di qualità: cfr. in
questi termini Cons. St., IV, 03.10.2014 n. 4958),
allora è anch’esso modo con cui in concreto si attua un
principio indefettibile tra le regole di detto mercato.
Non sfugge certo al Collegio che, a seconda del tipo di bene
pubblico da concedere e della natura e particolare
sensibilità degli interessi collettivi coinvolti, la lex
specialis di gara potrebbe delineare, negli ovvi limiti di
proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza, un concorso
solo tra soggetti ad alta qualificazione e, quindi, idonei
per le loro esclusive qualità a gestire il bene.
Ma nemmeno
si può sottacere che una tal vicenda rientra nei poteri
discrezionali (si badi, e non arbitrari) d’ogni ente
aggiudicatore nella scelta della platea dei possibili
concorrenti e dei modi di aggiudicazione, onde essa non è un
connotato peculiare delle concessioni.
E pure ad accedere
alla tesi restrittiva attorea, non irrazionale è quella
clausola della lex specialis, pure per le concessioni e come
nella specie, che fissi l’utilizzabilità dell’avvalimento in
base alle regole proprie di questo, le quali appunto
svolgono in concreto l’attuazione della libera concorrenza. |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima
l'ordinanza dirigenziale comunale con la quale è stata
ordinata la rimozione del cancello posto ad interruzione
della viabilità sulla strada vicinale pubblica poiché di
competenza sindacale.
L'esercizio del potere di autotutela
possessoria delle strade vicinali è attribuito al Sindaco
dall'art. 378 della legge 20.03.1865, all. F e dall'art. 15
DL Lgt. 01.09.1918 n. 1446, sottratto, quest'ultimo,
all'effetto abrogativo di cui all'art. 2 del DL 22.12.2008
n. 200 (convertito, con modificazioni, nella legge
18.02.2009 n. 9) dall'art. 1, II comma del DLgs 01.12.2009
n. 179.
Né tale potere può ritenersi trasferito al dirigente con
l'entrata in vigore del DLgs n. 267/2000, atteso che l'art.
107, V comma del predetto testo normativo fa espressamente
salve le competenze del Sindaco previste dall'art. 50, III
comma e dall'art. 54 (e cioè le competenze espressamente
attribuitegli dalla legge in determinate materie e,
specificatamente, in materia di ordine e di sicurezza
pubblica).
Dunque, l’esercizio del potere di autotutela possessoria
delle strade vicinali –quale quello esercitato
dall’Amministrazione nel caso in esame– è attribuito al
Sindaco.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 29/205 Reg. Ord.,
di data 24.06.2015, del Comune di Salzano, con la quale è
stata ordinata la rimozione del cancello posto ad
interruzione della viabilità sulla strada vicinale pubblica
via Dosa, nonché di ogni atto annesso, connesso o
presupposto.
...
La censura è fondata.
Come ricordato dal ricorrente, a seguito dell’impugnazione
di un primo provvedimento (prot. n. 25252 del 28.12.2009), a
firma del Responsabile dell’Area Tecnica del Comune
resistente, con il quale era stata ingiunta la riapertura
del cancello di cui si discute, posto ad interruzione della
viabilità, questo Tribunale, accogliendo il ricorso, aveva
rilevato il difetto di competenza del Responsabile dell’Area
Tecnica, osservando che “l'esercizio del potere di
autotutela possessoria delle strade vicinali è, infatti,
attribuito al Sindaco dall'art. 378 della legge 20.03.1865,
all. F e dall'art. 15 DL Lgt. 01.09.1918 n. 1446, sottratto,
quest'ultimo, all'effetto abrogativo di cui all'art. 2 del
DL 22.12.2008 n. 200 (convertito, con modificazioni, nella
legge 18.02.2009 n. 9) dall'art. 1, II comma del DLgs
01.12.2009 n. 179. Né tale potere può ritenersi trasferito
al dirigente con l'entrata in vigore del DLgs n. 267/2000,
atteso che l'art. 107, V comma del predetto testo normativo
fa espressamente salve le competenze del Sindaco previste
dall'art. 50, III comma e dall'art. 54 (e cioè le competenze
espressamente attribuitegli dalla legge in determinate
materie e, specificatamente, in materia di ordine e di
sicurezza pubblica)” (TAR Veneto, sez. I, 11.02.2010, n.
433).
Il Collegio non vede valide ragioni per discostarsi dal
riportato orientamento giurisprudenziale, anche di recente
confermato (TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 13.02.2014, n.
128), secondo il quale, dunque, l’esercizio del potere di
autotutela possessoria delle strade vicinali –quale quello
esercitato dall’Amministrazione nel caso in esame– è
attribuito al Sindaco.
Tanto chiarito, il ricorso va accolto in relazione al
denunciato vizio di incompetenza, dovendo restare assorbite
tutte le ulteriori censure formulate in ricorso, alla luce
del consolidato indirizzo giurisprudenziale, recentemente ed
autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, la quale ha precisato che “in tutte
le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere
obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere
amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il
giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il
relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non
potendo dettare le regole dell'azione amministrativa nei
confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo
munus” (Consiglio di Stato, A.P., 27.04.2015, n. 5).
Il ricorso, pertanto, va accolto, nei termini sopra esposti,
con conseguente annullamento dell’atto impugnato
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 09.11.2015 n. 1165 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: L’antenna di telefonia non deve pagare l’Ici.
Tributi locali. Il palo della compagnia di Tlc non è fissato
al terreno ed è assimilabile alle opere di urbanizzazione
primaria con finalità pubblica.
È illegittimo l’accertamento Ici sull’impianto di
telefonia poiché si tratta di un manufatto non fissato al
terreno e assimilabile alle opere di urbanizzazione primaria
con finalità pubbliche. Pertanto, sebbene non sia
obbligatoriamente accatastabile, può essere incluso nella
categoria E tra i fabbricati destinati al servizio della
collettività.
Ad affermarlo è la
Ctp di Reggio Emilia con la
sentenza
09.11.2015 n. 425/02/2015 (presidente e relatore
Crotti).
Una nota compagnia telefonica, proprietaria di una stazione
radio per l’espletamento del servizio di telefonia, riceveva
un accertamento ai fini Ici, fondato su un atto di
attribuzione di rendita catastale adottato dall’agenzia
delle Entrate e mai notificato.
La società ricorreva contro il provvedimento, sottolineando
che l’impianto è costituito da un palo metallico su cui
insistono le antenne, fissato con bulloni su un basamento di
cemento realizzato sul terreno e da un prefabbricato
metallico destinato al ricovero degli apparati elettronici.
La “struttura”, però, non è dotata di alcuna delle
caratteristiche previste per l’obbligo di accatastamento e,
pertanto, l’imposta non è dovuta. La società, inoltre,
evidenziava di non essere proprietaria del terreno su cui
insisteva, essendo solo titolare di un diritto d’uso.
Il Comune si costituiva, confermando la legittimità
dell’atto: l’Ici era stata liquidata in base alla rendita
catastale attribuita d’ufficio dall’Agenzia.
Il collegio emiliano, accogliendo il ricorso, ha
innanzitutto rilevato una carente motivazione del
provvedimento. L’attribuzione di rendita, oltre a non essere
stata debitamente notificata alla contribuente, classificava
il bene come un immobile in categoria D, per il quale la
norma prevede che l’accatastamento sia operato attraverso
una stima diretta e non con l’automatica applicazione delle
tariffe.
Il giudice ha poi evidenziato che il legislatore, già da
tempo, ha assimilato gli impianti delle reti di
comunicazione alle opere di urbanizzazione primaria
(articolo 86, Dlgs 259/2003), poiché risultano direttamente
asservite all’insediamento umano e rientrano nel patrimonio
indisponibile del Comune. Pertanto, non sono oggetto di
accatastamento, dato che non rivestono la qualifica di
fabbricati stabili.
Inoltre, gli impianti per le comunicazioni non assolvono
alcuna autonoma funzione produttiva, poiché fungono da meri
ripetitori di un segnale. Tuttavia, sebbene non esista un
preciso obbligo di accatastamento, attesa l’assimilazione
alle opere di urbanizzazione, l’unica categoria catastale
pertinente potrebbe essere il gruppo E, che include i
fabbricati per speciali esigenze pubbliche.
A questo punto, al fine di stabilire l’iscrivibilità di un
determinato bene nel gruppo E, oltre alle particolari
caratteristiche costruttive, rileva la concreta destinazione
collettiva, a prescindere dalla proprietà pubblica o privata
del manufatto o dalla finalità lucrativa.
La Ctp di Reggio Emilia ha così concluso che il
provvedimento di iscrizione catastale operato d’ufficio era
illegittimo e, conseguentemente, anche la pretesa Ici
sull’impianto doveva essere annullata (articolo Il Sole 24 Ore del 23.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
sussistenza dei presupposti necessari per il riconoscimento
sia ai fini giuridici che economici della più elevata
qualifica di lavoro (mansioni superiori svolte).
Alla stregua del consolidato
orientamento della giurisprudenza amministrativa, il
riconoscimento delle mansioni superiori può avere luogo in
presenza della triplice e contestuale condizione inerente:
- all’esistenza in organico di un posto vacante cui
ricondurre le mansioni di più elevato livello;
- alla previa adozione di un atto deliberativo di
assegnazione delle mansioni superiori da parte dell’organo a
ciò competente;
- all’espletamento delle suddette mansioni per un periodo
eccedente i sessanta giorni nell’anno solare.
Non può ritenersi sufficiente l’ordine di servizio datato
11.07.1991, atteso che, secondo la costante giurisprudenza
della Sezione ai fini del riconoscimento della pretesa
azionata, è necessaria l'esistenza di un puntuale incarico
formale, conferito dall'organo competente, requisito che non
può essere integrato con tutta evidenza da un mero ordine di
servizio.
---------------
... contro Comune di Napoli ... per ottenere il
riconoscimento della 5^ qualifica funzionale in relazione
alle mansioni superiori asseritamente svolte dal 1973 al
30.03.1999 e delle differenze retributive spettanti a tale
titolo, con conseguente condanna dell’amministrazione
intimata al pagamento degli importi dovuti oltre ad
interessi e rivalutazione monetaria.
...
Come si è anticipato nella parte in fatto, la domanda
giudiziale ha ad oggetto il riconoscimento delle mansioni
superiori asseritamente svolte dal ricorrente, a partire dal
maggio 1973 e fino al marzo 1999, presso il cimitero di
Soccavo del Comune di Napoli.
Ad avviso del Collegio il ricorso è infondato e va,
pertanto, respinto, non essendo comprovata la sussistenza
dei presupposti per il riconoscimento sia ai fini giuridici
che economici della più elevata qualifica richiesta (V
livello retributivo anziché III).
Infatti, alla stregua del consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa, il detto riconoscimento può
avere luogo in presenza della triplice e contestuale
condizione inerente: all’esistenza in organico di un posto
vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello;
alla previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione
delle mansioni superiori da parte dell’organo a ciò
competente; all’espletamento delle suddette mansioni per un
periodo eccedente i sessanta giorni nell’anno solare (cfr.
ex multis Consiglio di Stato, Sez. III, n. 5737 del
21.11.2014, n. 5904 del 10.12.2013, n. 768 del 13.03.2012;
n. 829 del 16.02.2012; n. 3661 del 21.06.2012; Sez. V, n.
814 del 15.02.2010; Sez. VI, n. 9016 del 16.12.2012; TAR
Campania, Napoli, Sezione V, n. 715 del 03.02.2015).
Nella fattispecie in trattazione le prime due condizioni su
enumerate non sussistono.
Certamente non ricorre la prima condizione, non essendo
stata data dimostrazione alcuna dell’esistenza di un posto
vacante nella pianta organica riferito alla posizione
funzionale e retributiva richiesta né a detta vacanza è
fatto riferimento negli atti di gestione del rapporto di
impiego versati in giudizio.
Ma neppure il secondo presupposto risulta sussistente,
atteso che non è stato prodotto in giudizio alcun preventivo
provvedimento formale ed esecutivo di incarico dell’organo
di vertice e di gestione dell’amministrazione comunale, da
cui insorga il dovere del dipendente di fornire le
prestazioni imposte e le connesse responsabilità e,
specularmente, in assenza del quale il dipendente stesso non
può ritenersi tenuto ad espletare i compiti rientranti nelle
attribuzioni della qualifica superiore.
Al riguardo, non può ritenersi sufficiente l’ordine di
servizio datato 11.07.1991, atteso che, secondo la costante
giurisprudenza della Sezione (cfr., tra le tante, sentenza
del 18.03.2015, n. 1628), dalla quale non vi sono ragioni
per discostarsi, ai fini del riconoscimento della pretesa
azionata, è necessaria l'esistenza di un puntuale incarico
formale, conferito dall'organo competente, requisito che non
può essere integrato con tutta evidenza da un mero ordine di
servizio.
Per le considerazioni che precedono il ricorso va
conclusivamente respinto
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 06.11.2015 n. 5207 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 36 del Dpr 380/2001, al comma 3, prevede
che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria
il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro
sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende
rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo condivisa
giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema introdotto dagli
artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio serbato
dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di
conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del
2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e
quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che però possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali,
i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>.
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
----------------
Secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai
sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto
dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in
precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato
per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di
sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la
formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della
parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera
presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli
effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione
resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
---------------
La censura è infondata.
L’art. 36 del Dpr 06.06.2001, n. 380, al comma 3,
prevede che: <<Sulla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata>> ed, in sede applicativa, secondo
condivisa giurisprudenza: <<Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3 L. n. 241 del 1990, il silenzio
serbato dall’amministrazione sull’istanza di accertamento di
conformità urbanistica di cui all’art. 36, D.P.R. n. 380 del
2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell’istanza (e
quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall’interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che però possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali,
i difetti di procedura o la mancanza di motivazione>>
(TAR Campania, Sez. II, 12.07.2013, n. 3644).
Pertanto l’ordinamento, a seguito della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell’art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza già come rigetto della stessa.
Pertanto, preso atto dell’insussistenza di alcun obbligo
dell’Amministrazione di provvedere con un provvedimento
espresso sull’istanza di accertamento di conformità e della
correlata legittimità del silenzio serbato sulla predetta
istanza, valutato come significativo (nonostante, per
definizione, risulti privo di motivazione), la tesi della
ricorrente per la quale la presentazione di una istanza di
sanatoria paralizzerebbe il potere repressivo del Comune
sino alla definizione della predetta istanza non è
condivisibile.
Sul punto, secondo giurisprudenza condivisa dal Collegio, la
presentazione della domanda di permesso in sanatoria, ai
sensi dell’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, nessun effetto
dispiega sui provvedimenti repressivi dell’abuso edilizio in
precedenza adottati, né tantomeno sul giudizio instaurato
per la loro impugnazione in quanto, decorso il termine di
sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette la
formazione del provvedimento di rigetto, che è onere della
parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera
presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli
effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione
resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del
termine suddetto).
Pertanto le argomentazioni di parte ricorrente nel senso da
ultimo precisato, non tengono conto che, ai sensi dell’art.
36, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001, decorso il termine
di settanta giorni dalla presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità, si forma il silenzio-diniego ed,
in tal caso, è onere del ricorrente impugnare tale silenzio
-che a tutti gli effetti costituisce un provvedimento
tacito- a pena di inammissibilità o improcedibilità del
ricorso proposto avverso i successivi provvedimenti
repressivi adottati dall’Autorità comunale (ordinanza di
demolizione e/o l’atto di acquisizione al patrimonio
comunale, a seconda dello stato di avanzamento del
procedimento).
D’altronde, nella fattispecie in esame, l’affermazione della
ricorrente secondo cui l’istanza di autorizzazione in
sanatoria per i lavori oggetto dell’impugnato provvedimento
demolitorio e del successivo accertamento, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 36 e 37, D.P.R. 380/2001
sarebbe meritevole di accoglimento (con il conseguente
diritto ad ottenere il permesso di costruire in sanatoria),
in considerazione del fatto che l’immobile insisterebbe in
una zona completamente mutata da un punto di vista
urbanistico e sarebbe risalente nel tempo risulta poi stata
smentita per tabulas dai sopravvenuti provvedimenti
di diniego, dalla ricorrente ritualmente impugnati con i
primi ed i secondi motivi aggiunti
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di abusi edilizi l’ordine di
demolizione è atto vincolato il quale non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto.
L’attività sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia
abusiva è connotata dal carattere vincolato e non
discrezionale. Infatti, il giudizio di difformità
dell’intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo
rilasciato, che costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non connotato da discrezionalità tecnica, ma
integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine
di demolizione di opere abusive, non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare.
---------------
Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini
della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento
consolidato di questa Sezione in tema di attività
sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso
del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che
non può confidare sul mantenimento di una situazione
contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una
specifica motivazione né la valutazione sull’interesse
pubblico, che “in re ipsa”.
Ed una siffatta impostazione trova il conforto di pacifica
giurisprudenza per la quale:
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto
più quanto riferita alla repressione di abusi su beni
vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato;
- In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è atto
vincolato il quale non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto;
- La norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto
più quanto riferita alla repressione di abusi su beni
vincolati, non appare contrastare con il principio di
ragionevolezza in quanto l’esigenza di ripristinare i valori
urbanistici e paesaggistici violati giustificano il
ripristino anche a distanza di tempo. Per lo stesso motivo,
non si ravvisa alcun contrasto con il principio
dell’affidamento, stante la preminenza dell’esigenza del
ripristino a fronte della permanenza della situazione di
illecito e di pregnanza del bene tutelato.
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli
abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della
disciplina esistente al momento dell’adozione del
provvedimento sanzionatorio e secondo condivisa
giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude il potere
di controllo ed il potere sanzionatorio del comune in
materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di tale
potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne consegue
che l’accertamento dell’illecito amministrativo e
l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche
a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso,
senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti
sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni
consolidate.
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito,
emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione
dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative
della commessa trasgressione, rincara la lesione
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che,
perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare
ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo
tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
---------------
Anche tale
censura è infondata.
In proposito, secondo pacifica e condivisa giurisprudenza:
<<In materia di abusi edilizi l’ordine di demolizione è
atto vincolato il quale non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una
comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né tantomeno una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto>> (TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I,
06.12.2013, n. 770); ed, ancora: <<L’attività
sanzionatoria della p.a. sull’attività edilizia abusiva è
connotata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Infatti, il giudizio di difformità dell’intervento edilizio
rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce
il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non
connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto e, pertanto, l’ordine di demolizione
di opere abusive, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sull’interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare>> (C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Relativamente all’incidenza del decorso del tempo ai fini
della repressione degli abusi edilizi secondo orientamento
consolidato di questa Sezione in tema di attività
sanzionatoria degli abusi edilizi, è irrilevante il decorso
del tempo e l’eventuale affidamento riposto dal privato, che
non può confidare sul mantenimento di una situazione
contraria alla legge, non essendo inoltre richiesta una
specifica motivazione né la valutazione sull’interesse
pubblico, che “in re ipsa” (cfr. TAR Campania, sez. III,
03.02.2015, n. 634); ed una siffatta impostazione trova il
conforto di pacifica giurisprudenza per la quale: <<La
norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più
quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati,
non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in
quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745); ed, ancora: <<In materia di abusi edilizi
l’ordine di demolizione è atto vincolato il quale non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né tantomeno
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente che
il tempo non può legittimare in via di fatto>> (TAR
Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480;
TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); <<La
norma di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380 del 2001, tanto più
quanto riferita alla repressione di abusi su beni vincolati,
non appare contrastare con il principio di ragionevolezza in
quanto l’esigenza di ripristinare i valori urbanistici e
paesaggistici violati giustificano il ripristino anche a
distanza di tempo. Per lo stesso motivo, non si ravvisa
alcun contrasto con il principio dell’affidamento, stante la
preminenza dell’esigenza del ripristino a fronte della
permanenza della situazione di illecito e di pregnanza del
bene tutelato>> (TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
In buona sostanza la natura di illecito permanente degli
abusi edilizi comporta l’applicabilità agli stessi della
disciplina esistente al momento dell’adozione del
provvedimento sanzionatorio (cfr. TAR Piemonte, sez. I,
22.03.2013, n. 354; TAR Veneto n. 1068 del 2013) e secondo
condivisa giurisprudenza la vetustà dell’opera non esclude
il potere di controllo ed il potere sanzionatorio del comune
in materia urbanistico-edilizia, perché l’esercizio di
tale potere non soggetto a prescrizione o decadenza; ne
consegue che l’accertamento dell’illecito amministrativo e
l’applicazione della relativa sanzione può intervenire anche
a notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso,
senza che il ritardo nell’adozione della sanzione comporti
sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni
consolidate (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.06.2008, n. 2045).
Pertanto, dal panorama giurisprudenziale sopra riferito,
emerge che il decorso del tempo dalla realizzazione
dell’illecito, lungi dall’attenuare le conseguenze negative
della commessa trasgressione, rincara la lesione
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso che,
perpetuandosi nel tempo, è suscettibile di arrecare
ulteriori nocumenti ai beni ed ai valori di primario rilievo
tutelati dalla normativa urbanistico-paesaggistica.
Nella fattispecie, poi, alle stregua di quanto rilevato
nella precedente censura, la valutazione della c.d. doppia
conformità urbanistica richiesta dall’art. 36, D.P.R. n. 380
del 2001 -contrariamente a quanto infondatamente dedotto-
non può dirsi essere stato omessa dall’Amministrazione
atteso che il provvedimento di tacito diniego dell’istanza
di sanatoria, pur risultando, per espressa volontà
legislativa di per sé privo di motivazione, è impugnabile
non per difetto di motivazione, bensì unicamente per il suo
contenuto di rigetto (Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI,
08.06.2004, n. 9278), circostanza questa puntualmente
avveratasi nel caso di specie atteso che i sopravvenuti
provvedimenti espressi di diniego sono stati impugnati dalla
ricorrente con i motivi aggiunti di cui appresso.
Inoltre il su riferito carattere vincolato caratterizzante
il potere di irrogazione delle sanzioni in materia
urbanistico-edilizie esclude che, in ogni caso, possa
trovare ingresso qualsivoglia censura di disparità di
trattamento per circostanza dell’identità dell’intervento
edilizio in questione rispetto agli altri realizzati nei
fondi limitrofi e che, però, non sarebbero stati oggetto di
alcun provvedimento sanzionatorio da parte
dell’Amministrazione comunale intimante; invero il parametro
di riferimento per valutare la legittimità dell’attività
repressiva posta in essere dall’Autorità urbanistica resta
sempre e soltanto l’ordinamento senza che possa ammettersi
il paragone o il confronto con altri casi apparentemente
analoghi in relazione ai quali l’atteggiamento della
predetta Autorità possa essere apparso più blando o
tollerante.
Altrettanto ininfluente ai fine della sussistenza
dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso si
rivela la dedotta circostanza che la costruzione sarebbe
stata effettuata svariati anni prima e sarebbe stata
destinata a salvaguardare per preservare, il piano
sottostante la stessa dalle intemperie, causa di
infiltrazioni continue, atteso che nel nostro ordinamento
non ha alcuna cittadinanza il c.d. “abuso di necessità”,
apprestando un meccanismo di tutela “oggettivo” che,
prescinde cioè dai motivi particolari per i quali è stato
commesso l’abuso dovendosi apprestare un sistema
sanzionatorio a presidio di beni e valori di assoluto
rilievo primario
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato
il loro contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non
devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del
relativo procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del
1990 e non richiedono apporti partecipativi del soggetto
destinatario. L’ordine di demolizione scaturisce dal mero
fatto della commissione dell’abuso e, stante la sua natura
vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento e non richiede una specifica
motivazione e la valutazione sull’interesse pubblico, che è
in re ipsa.
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura
urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza
di titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con
la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento.
L’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi non
deve essere preceduta dall’avviso di avvio del procedimento,
trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati, emessi
all’esito di un mero accertamento tecnico della consistenza
delle opere realizzate e del carattere abusivo delle
medesime.
L’ordine di demolizione in quanto atto dovuto e dal
contenuto rigidamente vincolato, presupponente un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime, non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento e
la partecipazione procedimentale degli interessati.
---------------
In una prospettiva sostanzialistica che valga ad impedire
che l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento diventi
un mero adempimento burocratico in grado soltanto di
ritardare il corso dell’azione amministrativa, il privato
non può limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di
avvio del procedimento, ma deve anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbero
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione.
---------------
Anche tale
censura è infondata
In proposito giurisprudenza assolutamente prevalente da cui
il Collegio non ha motivo per discostarsene rileva che: <<Gli atti sanzionatori in materia edilizia, dato il loro
contenuto vincolato sia nell’an che nel quid, non devono
essere preceduti dalla comunicazione di avvio del relativo
procedimento ai sensi dell’art. 7 l. n. 241 del 1990 e non
richiedono apporti partecipativi del soggetto destinatario.
L’ordine di demolizione scaturisce dal mero fatto della
commissione dell’abuso e, stante la sua natura vincolata,
non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento e non richiede una specifica motivazione e la
valutazione sull’interesse pubblico, che è in re ipsa>>
TAR Campania, Sez. III 02.12.2014, n. 6302); <<L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario dare notizia
dell’avvio del procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario dell’atto>> (TAR
Campania Sez. VII, 05.12.2014, n. 6383); ed, ancora: <<Gli
atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente
e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di
titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e
quindi non devono essere necessariamente preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento>> (TAR Campania,
Napoli, sez. II, 15.01.2015, n. 233); <<L’adozione di
provvedimenti repressivi di abusi edilizi non deve essere
preceduta dall’avviso di avvio del procedimento, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati, emessi all’esito di un
mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime>> (TAR
Lazio Roma, Sez. I, 30.12.2014, n. 13335); <<L’ordine di
demolizione in quanto atto dovuto e dal contenuto
rigidamente vincolato, presupponente un mero accertamento
tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul
carattere non assentito delle medesime, non richiede la
previa comunicazione di avvio del procedimento e la
partecipazione procedimentale degli interessati>> (TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425).
D’altronde, in una prospettiva sostanzialistica che valga ad
impedire che l’obbligo di comunicare l’avvio del
procedimento diventi un mero adempimento burocratico in
grado soltanto di ritardare il corso dell’azione
amministrativa, il privato non può limitarsi a dolersi della
mancata comunicazione di avvio del procedimento, ma deve
anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi
conoscitivi che avrebbero introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione (cfr. C.di S., sez. V,
02.04.2009, n. 2737)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve ribadirsi che il nostro ordinamento non
conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a
mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi
particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono
suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini
della irrogazione della sanzione urbanistica.
---------------
La censura è infondata.
Con un primo profilo di censura parte ricorrente deduce che,
dovendo la costruzione salvaguardare il piano sottostante
dalle intemperie, causa infiltrazioni continue e l’edificio
sarebbe stato realizzato per scopi di abitazione primaria e
non per fini speculativi.
Tuttavia, deve ribadirsi che il nostro ordinamento non
conosce fattispecie di abusi edilizi di necessità, quasi a
mo’ di causa di giustificazione, per modo che i motivi
particolari sottostanti alla commissione dell’abuso non sono
suscettibili di alcun apprezzamento discrezionale ai fini
della irrogazione della sanzione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se con il termine "sanatoria impropria" vuolsi
ammettere la possibilità di ritenere sanabile un’opera
conforme allo strumento urbanistico generale anche se tale
non lo era all’atto della sua realizzazione, la Suprema
Corte ha precisato che è da escludere, in base all’art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, la possibilità di una
legittimazione postuma di opere originariamente abusive che
solo successivamente siano divenute conformi alle norme
edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione
urbanistica.
Infatti, “l'attuale disposto legislativo non lascia più
spazio alla cosiddetta sanatoria impropria: tale istituto,
elaborato dalla giurisprudenza nella vigenza della l. n. 10
del 1977, in mancanza di una regolamentazione positiva
compiuta della materia, non ha difatti più ragione di
esistere nel vigente ordinamento, caratterizzato da una
disciplina puntuale delle ipotesi di sanatoria edilizia”.
Inoltre se con la c.d. “sanatoria impropria” si intendesse
ritenere un piano regolatore generale per la circostanza di
risalire a molti anni addietro “ormai superato e caducato e,
soprattutto, non più attento ed ubbidiente alle esigenze
della popolazione”, non più attuale e vigente.
Ancora, parte ricorrente, richiamandosi alla c.d. doppia
conformità urbanistica prevista dall’art. 36, D.P.R. n. 380
del 2001, per la quale la sanatoria di un’opera abusiva
richiederebbe la conformità della stessa alla strumentazione
urbanistica, sia con riferimento al momento della
realizzazione dell’opera che al momento della presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità, asserisce che la
giurisprudenza avrebbe accolto un concetto di sanatoria
impropria.
Al riguardo nota il Collegio che, se con tale termine vuolsi
ammettere la possibilità di ritenere sanabile un’opera
conforme allo strumento urbanistico generale anche se tale
non lo era all’atto della sua realizzazione, la Suprema
Corte ha precisato che è da escludere, in base all’art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, la possibilità di una
legittimazione postuma di opere originariamente abusive che
solo successivamente siano divenute conformi alle norme
edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica
(cfr. Cass. pen., sez. III, 21/10/2014, n. 47402).
Infatti,
“l'attuale disposto legislativo non lascia più spazio alla
cosiddetta sanatoria impropria: tale istituto, elaborato
dalla giurisprudenza nella vigenza della l. n. 10 del 1977,
in mancanza di una regolamentazione positiva compiuta della
materia, non ha difatti più ragione di esistere nel vigente
ordinamento, caratterizzato da una disciplina puntuale delle
ipotesi di sanatoria edilizia” (cfr. TAR Salerno, sez. II,
27/09/2012, n. 1699).
Inoltre se con la c.d. “sanatoria impropria” si intendesse
ritenere un piano regolatore generale per la circostanza di
risalire a molti anni addietro “ormai superato e caducato e,
soprattutto, non più attento ed ubbidiente alle esigenze
della popolazione”, non più attuale e vigente.
Sotto tale profilo irrilevante (e non può invocarsi un
concetto di “sanatoria giurisprudenziale impropria”),
l’argomento addotto da parte ricorrente per il quale,
risalendo il P.R.G. del Comune di San Giuseppe Vesuviano
agli anni ‘80 esso dovrebbe considerarsi quasi abrogato per
desuetudine, atteso che le previsioni dei piani regolatori
generali che abbiano carattere pianificatorio, ossia di mera
conformazione del territorio, sono destinati a durare a
tempo indeterminato, salvo ovviamente le varianti in corso
di vigenza
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il ricorso proposto contro il solo verbale
redatto dai vigili urbani è inammissibile, in quanto avente
ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente
dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia
municipale alla quale non è attribuita la competenza
all’adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo
occorrendo un formale atto di accertamento della competente
autorità amministrativa.
Il verbale di accertamento di infrazione redatto dal Corpo
di Polizia Municipale non è direttamente impugnabile,
trattandosi di atto a carattere endoprocedimentale, inidoneo
a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del
privato, la quale viene incisa solo a seguito e per
l’effetto dell’emanazione del provvedimento conclusivo del
procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza,
unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione.
In proposito,
secondo pacifica e condivisa giurisprudenza: <<Il ricorso
proposto contro il solo verbale redatto dai vigili urbani è
inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale
non è attribuita la competenza all’adozione di atti di
amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale
atto di accertamento della competente autorità
amministrativa>> (ex multis: TAR Lombardia, Brescia,
sez. II, 08.01.2011, n. 25); ed, ancora: <<il verbale di
accertamento di infrazione redatto dal Corpo di Polizia
Municipale non è direttamente impugnabile, trattandosi di
atto a carattere endoprocedimentale, inidoneo a produrre
alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la
quale viene incisa solo a seguito e per l’effetto
dell’emanazione del provvedimento conclusivo del
procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza,
unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione>>
(TAR Trentino Aldo Adige, Trento, 10.12.2007, n. 183).
Ne deriva che, previa contestazione nel verbale di udienza
ai sensi dell’art. 73 c.p.a., i motivi aggiunti in esame
sono inammissibili in quanto prodotti avverso un verbale di
accertamento di ottemperanza che, in quanto atto
endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma
impugnazione con conseguente inammissibilità originaria del
ricorso in esame (cfr. TAR Campania, sez. III, 15.01.2013, n.
28)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di agibilità, a norma dell’art. 24 del T.U.
sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti”, come la
giurisprudenza, anche della Sezione, ha già precisato.
Il Giudice d’appello ha al riguardo ribadito la delineata
funzione già dalla giurisprudenza di prime cure riconosciuta
al certificato di agibilità, avendo condivisibilmente
puntualizzato la differenza ontologica tra i titoli
abilitativi edilizi e il certificato di agibilità,
precisando al riguardo che la “funzione del certificato di
agibilità è accertare che l'immobile, al quale si riferisce,
è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti
in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione
specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire,
n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche”.
La giurisprudenza ha più di recente riproposto la cennata
opzione interpretativa avendo ribadito che “Il certificato
di agibilità ha la funzione di attestare il conseguimento
degli standard minimi e generali di qualità degli edifici.
Ai sensi dell'art. 24 n. 1, d.P.R. n. 380 del 2001, esso
attiene unicamente agli aspetti della conformità dell'opera
ai profili tecnici e igienico-sanitari, non avendo riguardo
ai profili più strettamente urbanistici”.
---------------
2.5. Quanto alla dedotta mancata allegazione all’istanza di
trasferimento che occupa, di documentazione comprovante la
regolarità urbanistico-edilizia del locale proposto,
occorrendo infatti altresì corredare la domanda di
trasferimento fuori zona di “idonea documentazione che
attesta la regolarità urbanistico–edilizia del locale
proposto, nonché la relativa destinazione d’uso commerciale”
(art. 11, comma 3, D.M. n. 38/2013), come già anticipato in
sede cautelare la delineata doglianza è fondata e va
pertanto accolta.
Osserva in proposito il Collegio che il certificato di
agibilità rilasciato dal Comune di Casamicciola Terme il
20.06.2014 e prodotto alla P.A. dalla controinteressata solo
l’08.07.2014, tre giorni prima dell’adozione del
provvedimento, a norma dell’art. 24 del T.U. sull’edilizia,
unicamente “attesta la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli
edifici e degli impianti”, come la giurisprudenza, anche
della Sezione, ha già precisato (TAR Campania–Napoli,
Sez. III, n. 2240/2010; TAR Lombardia–Milano, Sez. II,
17.09.2009 n. 4672).
Il Giudice d’appello ha al riguardo ribadito la delineata
funzione già dalla giurisprudenza di prime cure riconosciuta
al certificato di agibilità, avendo condivisibilmente
puntualizzato la differenza ontologica tra i titoli
abilitativi edilizi e il certificato di agibilità,
precisando al riguardo che la “funzione del certificato di
agibilità è accertare che l'immobile, al quale si riferisce,
è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti
in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione
specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire,
n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche”
(Consiglio di Stato sez. IV, 26.08.2014 n. 4309).
La giurisprudenza ha più di recente riproposto la cennata
opzione interpretativa avendo ribadito che “Il certificato
di agibilità ha la funzione di attestare il conseguimento
degli standard minimi e generali di qualità degli edifici.
Ai sensi dell'art. 24 n. 1, d.P.R. n. 380 del 2001, esso
attiene unicamente agli aspetti della conformità dell'opera
ai profili tecnici e igienico-sanitari, non avendo
riguardo ai profili più strettamente urbanistici” (TAR
Valle d’Aosta, 08.08.2015 n. 61).
Va inoltre soggiunto, come pure anticipato in sede
cautelare, che il certificato di agibilità è del tutto
inidoneo ad attestare la specifica destinazione d’uso
commerciale, che, a norma dell’art. 11, comma 3, sopra
riportato del D.M. n. 38/2013 deve essere attestata con
idonea documentazione da allegare alla domanda di
trasferimento della rivendita
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
regola, di matrice giurisprudenziale, secondo la quale l’inosservanza
di un termine previsto per la conclusione di un determinato
procedimento o per l’adozione di un determinato
provvedimento non ne produce l’illegittimità in caso di
adozione dell’atto conclusivo oltre il termine stesso, è
derogata laddove una specifica norma sancisca la
perentorietà del termine ovvero la consumazione del potere
amministrativo con lo spirare di esso, essendosi statuito
che “il carattere perentorio del termine di adozione di un
atto amministrativo, comportante in caso di violazione
l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi
espressamente da un'apposita norma che qualifica come
perentorio il termine o che prescriva la decadenza del
potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo”.
Sull’argomento si è recentissimamente espressa anche la
Sezione, avendo precisato, in linea con l’orientamento di
cui si è testé fatto cenno, che “La violazione del termine
di conclusione del procedimento non determina
l'illegittimità del provvedimento finale. Invero, il
carattere perentorio del termine di adozione di un atto
amministrativo, comportante in caso di violazione
l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi
espressamente da un'apposita norma che qualifica come
perentorio il termine o che prescriva la decadenza del
potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo”.
Si era già in tal senso condivisibilmente affermato che “In
assenza di una specifica disposizione che espressamente
preveda come perentorio il termine assegnato per la
conclusione del procedimento amministrativo, detto termine
deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio
ed il suo superamento -se abilita l'interessato ad agire
contro l'inerzia dell'amministrazione- non esaurisce il
potere di quest'ultima di pronunciarsi e, conseguentemente,
non determina di per sé l'illegittimità del provvedimento
finale”.
4.3. Non
lascia infatti adito a dubbi né riserva in proposito spazi
di discrezionalità all’Amministrazione la perentoria
disposizione di cui all’ultimo periodo dell’art. 11, comma 4,
del D.M. n. 38/2013 del quale è fondatamente dedotta la
violazione.
Stabilisce invero tale norma che “4. Per le domande
pervenute prive della documentazione di cui ai commi 2 e 3
gli Uffici competenti invitano il richiedente a provvedere
alla loro integrazione nel termine di 30 giorni” peraltro
indicando in termini tassativi e perentori anche le
conseguenze dell’inutile decorso del predetto termine,
all’uopo disponendo che “Decorso il termine senza che le
stesse siano state integrate, le domande sono dichiarate improcedibili”.
Rammenta in proposito il Tribunale che la regola, di matrice
giurisprudenziale, secondo la quale l’inosservanza di un
termine previsto per la conclusione di un determinato
procedimento o per l’adozione di un determinato
provvedimento non ne produce l’illegittimità in caso di
adozione dell’atto conclusivo oltre il termine stesso, è
derogata laddove una specifica norma sancisca la
perentorietà del termine ovvero la consumazione del potere
amministrativo con lo spirare di esso, essendosi statuito
che “il carattere perentorio del termine di adozione di un
atto amministrativo, comportante in caso di violazione
l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi
espressamente da un'apposita norma che qualifica come
perentorio il termine o che prescriva la decadenza del
potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo”
(TAR Puglia–Lecce, Sez. II, 18.05.2004, n. 3001).
Sull’argomento si è recentissimamente espressa anche la
Sezione, avendo precisato, in linea con l’orientamento di
cui si è testé fatto cenno, che “La violazione del termine
di conclusione del procedimento non determina
l'illegittimità del provvedimento finale. Invero, il
carattere perentorio del termine di adozione di un atto
amministrativo, comportante in caso di violazione
l'illegittimità dello stesso provvedimento, deve ricavarsi
espressamente da un'apposita norma che qualifica come
perentorio il termine o che prescriva la decadenza del
potere amministrativo oltre un certo periodo di tempo”
(TAR Campania-Napoli, Sez. III 11.06.2015 n. 3168).
Si era già in tal senso condivisibilmente affermato che
“In assenza di una specifica disposizione che espressamente
preveda come perentorio il termine assegnato per la
conclusione del procedimento amministrativo, detto termine
deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio
ed il suo superamento —se abilita l'interessato ad agire
contro l'inerzia dell'amministrazione— non esaurisce il
potere di quest'ultima di pronunciarsi e, conseguentemente,
non determina di per sé l'illegittimità del provvedimento
finale” (TAR Firenze, Sez. II, 08.10.2013 n. 1346)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 06.11.2015 n. 5188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Calcolo oneri di sicurezza.
Divisi fra stazione appaltante e impresa.
Gli oneri della sicurezza «esterni» devono essere stimati
dalla stazione appaltante e il ribasso dell'impresa, in
assenza di precisazioni, si applica alla stima dell'appalto
con esclusione di tali oneri.
È quanto ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
06.11.2015 n. 5070 che affronta la vicenda relativa
all'indicazione degli oneri per la sicurezza.
In particolare, si chiarisce che la determinazione degli
oneri di sicurezza cosiddetti esterni compete alla stazione
appaltante, diversamente da quanto accade per gli oneri
cosiddetti interni o aziendali. La stazione appaltante è
quindi tenuta a stimarli fornendo ai concorrenti
un'indicazione di cui non possono che tenere conto in sede
di formulazione dell'offerta.
La sentenza rammenta che la norma del codice dei contratti
che si occupa di questa materia è rappresentata
dall'articolo 86, comma 3-bis, ove si stabilisce che il
«costo relativo alla sicurezza» debba essere «specificamente
indicato» rivolgendosi, per gli oneri cosiddetti esterni,
alla stazione appaltante, che chiama a provvedere a questa
indicazione in occasione della predisposizione della gara
d'appalto e per gli oneri cosiddetti interni (aziendali),
alle singole imprese concorrenti in sede di offerta.
Le
radicali differenze che investono la natura degli oneri di
sicurezza dell'uno e dell'altro tipo escludono che la regola
della necessaria indicazione da parte delle concorrenti
degli oneri aziendali, possa essere estesa anche agli oneri
cosiddetti esterni.
Secondo i giudici, giacché la definizione degli oneri
esterni «compete alla sola amministrazione, chiamata a
fissarli a monte della procedura, su di essi le imprese
concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo,
sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto
sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a
base della procedura».
Da ciò discende che, dal momento che
è la lex specialis a stabilire, quantificandoli, gli
oneri di sicurezza cosiddetti esterni e il valore economico
rispetto al quale i ribassi di gara verranno ammessi, non è
possibile dubitare (di regola almeno) che i ribassi
presentati in concreto senza precisazioni debbano essere
riferiti proprio all'ammontare ammesso a ribasso dalla
stessa legge di gara
(articolo ItaliaOggi del 13.11.2015).
---------------
MASSIMA
10d - Infondato, infine, è anche il residuo mezzo
dell’appello incidentale, che verte in tema di oneri di
sicurezza.
10d1 - Il Consorzio ha ricordato che il servizio destinato
ad affidamento si connotava per un importo complessivo a
base d’asta di euro 2.823.646,76, di cui euro 2.801.151,98
come corrispettivo a base di gara soggetto a ribasso, ed
euro 22.494,78 come oneri di sicurezza c.d. esterni, non
soggetti a ribasso.
Tanto premesso, il Consorzio si è doluto che la IMPRESUD
nell’offrire il proprio ribasso non abbia specificato se la
sua offerta era sull’importo globale onnicomprensivo di euro
2.823.646,76 o, invece, sull’importo al netto degli oneri
non soggetti a ribasso (euro 2.801.151,98).
L’offerta avversaria, è stato detto, si è limitata a
indicare la percentuale di ribasso, senza specificare
l’ammontare degli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso
da sottrarre all’importo a base d’asta, e perciò senza
chiarire su quale base andasse applicato il ribasso offerto.
La censura di parte riguarda, pertanto, i soli oneri di
sicurezza c.d. esterni.
10d2 - Il Collegio deve preliminarmente osservare che la
problematica che così viene agitata non ha formato oggetto
di esame da parte dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio
in occasione della sentenza n. 3/2015, la quale ha
riguardato la diversa –benché contigua- tematica degli oneri
di sicurezza c.d. interni o aziendali, che era stata appunto
sollevata con l’ordinanza della Sezione 16.01.2015, n. 88.
Benché, quindi, nella decisione dell’Adunanza compaia [nel
paragr. 2.9, alla lett. a)], un accenno en passant
anche alla considerazione degli oneri di sicurezza c.d.
esterni, questo va considerato all’evidenza come un mero
obiter dictum, come tale insuscettibile di vincolare ai
fini della previsione dell’art. 99, comma 3, C.P.A..
10d3 - Fatta questa premessa, il Collegio deve subito
osservare che il ribasso offerto senza la specificazione
sulla cui omissione si appunta la doglianza del Consorzio
non può che essere inteso alla luce della previsione della
lex specialis, già ricordata, indicativa dell’importo
a base d’asta ammesso a ribasso: l’offerta dell’IMPRESUD
deve, pertanto, essere riferita al (solo) importo soggetto a
ribasso in forza della legge di gara.
D’altra parte, non vi è alcuna norma che imponga ai
concorrenti (tantomeno, a pena di esclusione) di riprodurre
nella loro offerta la quantificazione degli oneri di
sicurezza c.d. esterni già effettuata dall’Amministrazione,
un precetto simile non comparendo né nella disciplina
positiva, né nella specifica lex specialis.
Il disciplinare esigeva, semmai, nella sua pag. 10,
un’apposita dichiarazione delle concorrenti riflettente i “costi
di sicurezza aziendali”: ma non è a questi che la
censura in esame si riferisce (l’offerta economica di
IMPRESUD presentava inoltre puntualmente la precisazione,
parimenti richiesta al punto cit., che il ribasso proposto
era “al netto del costo del personale e degli oneri per
l’attuazione dei piani di sicurezza”).
Né l’adempimento ulteriore preteso dal Consorzio
presenterebbe utilità di sorta, proprio per la ragione che
la determinazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni
compete alla Stazione appaltante (contrariamente a quanto
vale per gli oneri c.d. interni o aziendali), che vi procede
impartendo un’indicazione di cui i concorrenti non possono
far altro che tenere conto all’atto della formulazione delle
loro offerte.
Le radicali differenze che investono la natura degli oneri
di sicurezza dell’uno e dell’altro tipo (ben scolpite dalla
stessa Adunanza Plenaria) escludono, invero, che la regola
della necessaria indicazione da parte delle concorrenti
degli oneri aziendali, i quali sono appunto loro
individualmente propri, possa essere estesa anche agli oneri
c.d. esterni, giacché la definizione di questi ultimi
compete appunto, per converso, alla sola Amministrazione,
chiamata a fissarli a monte della procedura, e su di essi le
concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo,
sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto
sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a
base della procedura.
L’art. 86, comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006, dove stabilisce
che il “costo relativo alla sicurezza” debba essere “specificamente
indicato”, si rivolge al tempo stesso, infatti: per gli
oneri c.d. esterni, alla Stazione appaltante, che chiama
appunto a provvedere a siffatta indicazione in occasione
della predisposizione della gara d’appalto; per gli oneri
c.d. interni, alle singole concorrenti in sede di offerta.
10d4 -
Non può infine condividersi la tesi che l’omessa
riproduzione dell’importo degli oneri di questo secondo tipo
da parte degli offerenti possa generare di per sé
un’indeterminatezza dell’offerta, o farne venir meno un
elemento essenziale
(cfr., invece, Sez. III, 23.01.2014, n. 348).
Dal momento, infatti, che è la lex specialis a
stabilire, quantificando gli oneri di sicurezza c.d.
esterni, il valore economico rispetto al quale, di riflesso,
i ribassi di gara verranno ammessi, non è possibile dubitare
(di regola almeno) che i ribassi presentati in concreto
senza precisazioni debbano essere riferiti proprio
all’ammontare ammesso a ribasso dalla stessa legge di gara.
Non solo, quindi, non vi è indeterminatezza dell’offerta
individuale, ma la precisazione in discussione non è nemmeno
necessaria all’interpretazione della medesima, che deve
essere comunque letta alla luce della vincolante indicazione
della lex specialis sull’ammontare ammesso a ribasso.
Del resto, l’art. 86, comma 3-ter, d.lgs. cit. stabilisce
espressamente, come pure inequivocabilmente, che “Il
costo relativo alla sicurezza non può essere comunque
soggetto a ribasso d’asta”, precetto che alle imprese,
operatori professionali, non sarebbe consentito ignorare.
10d5 - Neanche questo motivo dell’originario ricorso
incidentale, pertanto, può essere accolto. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il mobbing «include» il demansionamento.
Cassazione. Escluso l’evento «maggiore» la
domanda di risarcimento danni vale per il fatto di minor
portata.
Con la
sentenza
05.11.2015 n. 22635, la
Corte di Cassazione -Sez. lavoro- chiarisce, sotto il
duplice profilo sostanziale e processuale, il rapporto tra
la domanda giudiziale di accertamento del mobbing e quella
di demansionamento.
La Corte d’appello di Caltanissetta ha condannato un datore
di lavoro al risarcimento del danno biologico e da perdita
di professionalità in favore del dipendente tenuto inattivo
per un apprezzabile periodo di tempo. Ciò, nonostante avesse
escluso che la condotta della società integrasse gli estremi
del mobbing su cui si fondava la domanda del lavoratore.
La Cassazione fa applicazione di due interessanti principi
di diritto: in primo luogo sottolinea che, nell’indagine
diretta all’individuazione delle domande, il giudice deve
guardare il contenuto sostanziale della pretesa fatta
valere. Il petitum va individuato attraverso l’esame
complessivo dell’atto introduttivo, non limitandolo alle
conclusioni, ma estendendolo anche alla parte espositiva del
ricorso (si vedano le sentenze 20294/2005 e 22893/2008).
In secondo luogo, la Cassazione conferma la pronuncia della
Corte d’appello nella parte in cui ha ritenuto che nella
domanda di risarcimento dei danni da preteso mobbing può
ritenersi compresa anche quella, di minor portata, di
risarcimento dei danni da dequalificazione professionale,
quale conseguenza dell’inattività o della scarsa
utilizzazione del lavoratore volutamente decisa dal datore.
Una volta esclusa la natura “mobbizzante” della condotta,
secondo i giudici bene ha fatto la Corte d’appello a
esaminare la domanda anche sotto il profilo della violazione
degli obblighi del datore di lavoro ai sensi dell’articolo
2103 del codice civile.
Infine nella sentenza si ribadiscono gli elementi ritenuti
necessari per la configurabilità del mobbing:
a) plurimi
comportamenti di carattere persecutorio posti in essere
contro la “vittima” in modo sistematico e prolungato nel
tempo;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità e
della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le
suddette condotte e il pregiudizio subìto dalla vittima;
d)
il sottile filo rosso rappresentato dall’elemento soggettivo
e dall’intento persecutorio comune a tutti i comportamenti
lesivi.
Nel caso in commento, la condotta di «esautoramento del
lavoratore dalle sue mansioni», in assenza del requisito
soggettivo dell’intento persecutorio e vessatorio, è stata
correttamente ritenuta dalla Corte territoriale
riconducibile a una ipotesi di demansionamento.
In altre
parole, nessun vizio di ultrapetizione ma legittima diversa
qualificazione giuridica della condotta lamentata e della
domanda proposta dal lavoratore (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2015).
---------------
MASSIMA
2.2. In ogni caso il motivo è infondato.
La censura è in
realtà volta a
censurare la qualificazione della domanda giudiziale e della
sua
ampiezza operata dalla Corte territoriale, la quale ha
correttamente
ritenuto compresa nella domanda di risarcimento dei danni da
preteso
mobbing anche quella, di portata e contenuto meno ampio, di
risarcimento dei danni da dequalificazione professionale,
conseguente allo stato di inattività o di scarsa
utilizzazione del
lavoratore.
Del resto, nelle stesse conclusioni del ricorso
ex art. 414
c.p.c. il lavoratore ha richiesto il risarcimento del danno
-oltre che
alla lesione della sua integrità psicofisica- anche alla
professionalità,
causati "dai comportamenti posti in essere dalla società
resistente e
da alcuni colleghi', previo accertamento della loro vessatorietà e
arbitrarietà, sicché bene ha fatto la Corte, una volta
esclusa la natura
"mobbizzante" delle condotte, ad esaminare la domanda anche
sotto
il profilo della violazione degli obblighi posti al datore
di lavoro
dall'art. 2103 c.c..
2.3. E' jus receptum che il mobbing è una figura complessa
che, secondo
quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla
giurisprudenza di questa Corte, designa un complesso
fenomeno
consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori,
protratti nel
tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da
parte dei
componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo
capo,
caratterizzati da un intento di persecuzione ed
emarginazione
finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima
dal gruppo
(vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003; Cass.
05.11.2012, n. 18927).
Ai fini della configurabilità del
mobbing
lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi:
a)
una serie di
comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche
leciti se
considerati singolarmente- che, con intento vessatorio,
siano stati
posti in essere contro la vittima in modo miratamente
sistematico e
prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di
lavoro o di
un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti,
sottoposti al
potere direttivo dei primi;
b) l'evento lesivo della salute,
della
personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso
eziologico tra la
descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima
nella propria
integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
d) il
suindicato
elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante
di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass., 25.09.2014, n. 20230; Cass. 21.05.2011,
n. 12048; Cass. 26.03.2010, n.
7382).
2.4. La complessità della fattispecie del mobbing e la
mancanza di una sua specifica disciplina confermano l'esattezza della
scelta della
Corte territoriale di ritenere che, esclusa la sussistenza
dell'intento
vessatorio e persecutorio, rimane giuridicamente valutabile,
nell'ambito dei medesimi fatti allegati e delle conclusioni
rassegnate,
la condotta di "radicale e sostanziale esautoramento" del
lavoratore
dalle sue mansioni, la quale è fonte di danno alla sfera
patrimoniale
e/o non patrimoniale del lavoratore ove ricollegabile
eziologicamente
all'inadempimento del datore di lavoro.
Ciò in quanto la
riconduzione al "demansionamento" dell'identico
comportamento
ascritto alla datrice di lavoro non comporta domanda nuova
ma solo
diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico (cfr.,
per l'ipotesi
inversa, di qualificazione in termini di mobbing della
domanda di
demansionamento, Cass., 23/03/2005, n. 6326). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza
di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e
rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni
discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici,
fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella
sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti
partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla
disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi,
contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini
del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei
luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di
interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva
statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive;
tanto più che, in relazione ad una simile tipologia
provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies
della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità
dell’atto adottato in violazione delle norme su
procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente enucleato.
---------------
La gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane
affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse
privato al mantenimento in loco della res, in quanto
costituisce –come già evidenziato– atto dovuto e
rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse
pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e,
stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene
meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di
ingenerare affidamenti.
---------------
L'ordinanza di demolizione può legittimamente essere emessa
nei confronti del proprietario dell’opera abusiva, anche se
non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi
–come accennato– di illecito permanente sanzionato in via
ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o
della colpa del soggetto interessato.
---------------
Il
procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile
non interferisce con l’esercizio del potere di repressione
degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno
è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre
l’altro è volto a sanzionare l’attività
urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di
agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata
sanzione demolitoria.
---------------
1.5. Privo di pregio si rivela anche l’ulteriore profilo di
censura volto a denunciare la mancata instaurazione del
contraddittorio procedimentale previamente all’adozione
della misura repressivo-ripristinatoria.
Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di
atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non
implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in
meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto
di fatto rientrante nella sfera di controllo
dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di
quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina
tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la
preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino
di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene,
in ogni caso, posto in condizione di interloquire con
l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di
rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in
relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può
trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990,
che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in
violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua
natura vincolata, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello
concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n.
5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II,
03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV,
17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV,
22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859;
08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900;
Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679;
sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n.
16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008,
n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474;
04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV,
18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR
Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige,
Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso,
20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I,
20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR
Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto,
Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605;
TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
2. I superiori approdi –quanto, precipuamente, al mancato
consolidamento degli effetti della d.i.a. presentata per
interventi esulanti dal relativo regime abilitativo e,
quindi, quanto alla diretta irrogabilità della sanzione
reale, senza l’intermediazione delle garanzie
dell’autotutela, operanti in esito al prodursi degli effetti
anzidetti (cfr. art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990)–
inducono a ripudiare anche il motivo di impugnazione inteso
a denunciare l’omessa ponderazione tra l’interesse pubblico
al ripristino dello stato dei luoghi e il confliggente
affidamento dei privati (non responsabili dell’abuso) nella
conservazione delle opere eseguite.
Al riguardo, occorre rimarcare che la gravata misura
repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla
ponderazione discrezionale dell’interesse privato al
mantenimento in loco della res, in quanto costituisce
–come già evidenziato– atto dovuto e rigorosamente
vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede
in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il
carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il
mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare
affidamenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV,
04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n.
17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII,
05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce,
sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR
Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio,
Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova,
sez. I, 21.03.2011, n. 432).
Tale conclusione neppure resta menomata dalla dedotta
circostanza che i ricorrenti non sarebbero responsabili
dell’abuso contestato (avendo acquistato da terzi l’immobile
già nelle condizioni emerse in sede di accertamento).
L'ordinanza di demolizione può, infatti, legittimamente
essere emessa nei confronti del proprietario dell’opera
abusiva, anche se non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi –come accennato– di illecito
permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere
dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto
interessato (cfr., ex multis, TAR Lazio, Latina,
06.08.2009, n. 780; TAR Campania, Napoli, sez. II,
15.12.2009, n. 8704; sez. IV, 09.04.2010, n. 1890; sez. III,
23.04.2010, n. 2106; sez. IV, 24.05.2010, n. 8343; TAR
Sicilia, Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619).
3. I nominati in epigrafe non possono, poi, fondatamente
dolersi del fatto che le unità immobiliari abusivamente
adibite ad appartamenti residenziali avrebbero, dapprima,
conseguito l’autorizzazione di abitabilità ed usabilità,
prot. n. 99, dell’11.02.2008 e, poi, contraddittoriamente,
formato oggetto della gravata misura
repressivo-ripristinatoria.
Rileva, in questo senso, il Collegio che il procedimento
volto ad attestare l’agibilità di un immobile non
interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli
illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno
è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati (cfr. art. 24 del d.p.r. n. 380/2001), mentre
l’altro è volto a sanzionare l’attività
urbanistico-edilizia, laddove non sia stata realizzata in
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di
agibilità non è sintomo di contraddittorietà della irrogata
sanzione demolitoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio ritiene di dover escludere che
l’invocata regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo
dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da
trovare ingresso nell’ordinamento.
Nel senso di una rigorosa
applicazione del canone della c.d. doppia conformità degli
interventi abusivi rispetto alla disciplina
urbanistico-edilizia vigente sia al momento della loro
esecuzione sia al momento della presentazione della domanda
di sanatoria, militano i seguenti argomenti interpretativi:
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei
termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34,
comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale
proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e
inequivoco nel riferire il requisito della conformità
urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia”
al momento della sua realizzazione “sia” al momento della
presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al
Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da
Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità
sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla
possibile variazione in peius della disciplina
urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti
che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi
sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe
ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del ius
superveniens favorevole, rispetto al momento ultimativo
della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente
abrogatrice dell’inciso “sia al momento della realizzazione
dello stesso” (e cioè dell’immobile abusivo) e, quindi,
contra legem: se, infatti, l’art. 36, comma 1, cit. fosse
unicamente volto a salvaguardare il privato istante dalle
conseguenze sfavorevoli (nel senso di una sopravvenuta
modifica in peius del ius aedificandi) dell’inerzia
dell’amministrazione nel concludere l’avviato procedimento
di sanatoria, sarebbe stato sufficiente il riferimento
testuale “al momento della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”, ha individuato l’intero arco
temporale lungo il quale si sia protratto l’abuso edilizio
commesso, senza che il relativo responsabile si sia attivato
per regolarizzarlo, ed entro il quale gli effetti
peggiorativi del ius superveniens non possono non ricadere
su costui, ma anche oltre il quale gli stessi effetti
restano imputabili all’inerzia dell’amministrazione nel
provvedere e non sono più su di lui riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l.
28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi
dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti
norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola
pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha preferito
“non inserire una tale previsione, sia perché la
giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può
dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la
modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le
considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel
parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al
testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota,
vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della
regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato
introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del
regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel
senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire
la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire
di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro
requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il
necessario titolo abilitativo. Il rilascio di quest’ultimo
in esito ad accertamento di conformità presuppone, pertanto,
in capo al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica
del tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario
permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab
origine della conformità urbanistico-edilizia dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità,
bensì quello diverso del condono edilizio, nei limiti,
segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia applicabile
alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’
significherebbe anche introdurre surrettiziamente
nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato
dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un
abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius
superveniens, anziché di un’apposita disciplina legislativa
condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle
ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato,
derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati
sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure
ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile
di applicazione analogica né di una interpretazione
riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore
letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo
strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta
l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e
derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa
prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia
dell'intervento sine titulo alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della sua realizzazione sia alla data
della presentazione della domanda.
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in
favore della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla
pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di
controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon
andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei
manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base
della disciplina urbanistica vigente al momento della
proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi
alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione.
Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione (il successivo procedimento
amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera
abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia
ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la
nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata
nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e, quindi,
nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità– tra i
principi di legalità e di buon andamento della pubblica
amministrazione, con assegnazione della prevalenza a
quest'ultimo, in nome di una presunta logica
‘efficientista’, si rivela artificiosa.
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica
amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal
principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui
è informata l'attività amministrativa e che trova un
fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali
(artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi
dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può
esservi rispetto del buon andamento della pubblica
amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo,
rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato,
nella materia de qua, individuato dal legislatore nel
consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi
formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino
rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del
territorio, e non solo di quella vigente al momento
dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente
all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione
del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio
degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le
sole norme disciplinanti il procedimento da osservare
nell'attività edificatoria.
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato,
nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e
sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire
violazioni sostanziali della normativa del settore, quali
rimangono – sul piano urbanistico – quelle connesse ad opere
per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver
riguardo al momento della realizzazione dell'opera per
valutare la sussistenza dell'abuso.
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di
buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che
l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso
del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla
stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a
modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per
incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni
interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di
manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di
conformità ex post, a mezzo di modifiche della disciplina
del settore.
E si finirebbe per alterare l’essenza stessa
dell’accertamento di (doppia) conformità, che risiede
(anche) nello sterilizzare e nel disancorare l’attività
pianificatoria degli enti locali dalla tentazione di
‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita trasformazione del
territorio da parte dei privati tramite varianti ‘pilotate’
agli strumenti urbanistici.
---------------
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria
della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè consentire la
legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significherebbe tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante la
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire
in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per
premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a
discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito
attività edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente
violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto,
premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura
neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in
quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là
della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in
rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e
commisurato dal legislatore.
---------------
4.3. La pretesa applicabilità dei principi sottesi alla c.d.
sanatoria giurisprudenziale non soccorre, infine, alla tesi
propugnata da parte ricorrente nel senso della presunta
conformità urbanistico-edilizia delle opere controverse
rispetto alla sopravvenuta disciplina del vigente piano
urbanistico comunale di Orta di Atella.
In proposito, fermo restando che l’attuale conformità
urbanistico-edilizia dedotta dai nominati in epigrafe è
rimasta concretamente indimostrata, e ribadita
l’insussistenza di apposita domanda di sanatoria (cfr.
retro, sub n. 4.1), il Collegio ritiene di dover escludere
che l’invocata regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ sia compatibile col dettato normativo
dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, tanto da
trovare ingresso nell’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
26.04.2006, n. 2306; 17.09.2007, n. 4838; sez. V,
25.02.2009, n. 1126; sez. IV, 02.11.2009, n. 6784; TAR
Lombardia, Brescia, 23.06.2003, n. 870; Milano, sez. II,
09.06.2006, n. 1352; sez. I, 24.05.2013, n. 1371; TAR Emilia
Romagna, Bologna, sez. II, 15.01.2004, n. 16; Parma,
13.12.2007, n. 620; TAR Piemonte, Torino, sez. I,
18.10.2004, n. 2506; 20.04.2005, n. 1094; TAR Liguria,
Genova, sez. I, 23.02.2007, n. 364; TAR Sicilia, Catania,
sez. I, 09.01.2009, n. 5; TAR Campania, Napoli, sez, VII,
07.05.2008, n. 3501; sez. VI, 04.08.2008, n. 9723; sez. III,
19.11.2008, n. 19875; sez. VIII, 10.09.2010, n. 17398;
03.07.2012, n. 3153; TAR Puglia, Lecce, sez. III,
09.12.2010, n. 2816; TAR Toscana, Firenze, sez. III,
11.02.2011, n. 263; 13.05.2011, n. 837; 27.03.2013, n. 497;
Cass. pen., sez. III, 26.04.2007, n. 24451; 21.10.2008, n.
42526; 21.09.2009, n. 36350; 21.01.2010, n. 9446).
Nel senso di una rigorosa applicazione del canone della c.d.
doppia conformità degli interventi abusivi rispetto alla
disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della
loro esecuzione sia al momento della presentazione della
domanda di sanatoria, militano i seguenti argomenti
interpretativi, già illustrati dalla Sezione nelle sentenze
n. 17398 del 10.09.2010, n. 3153 del 03.07.2012 e n. 1690
del 20.03.2014.
a) Argomento letterale.
Ai sensi dell’art. 36, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001, “in
caso di interventi realizzati in assenza di permesso di
costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei
termini di cui agli artt. 31, comma 3, 33, comma 1, 34,
comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale
proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda”.
Il tenore letterale della norma è del tutto perspicuo e
inequivoco nel riferire il requisito della conformità
urbanistico-edilizia dell’opera (formalmente abusiva) “sia”
al momento della sua realizzazione “sia” al momento
della presentazione della domanda di sanatoria.
Di fronte a siffatto dettato normativo, non appare al
Collegio condivisibile l’approccio ermeneutico elaborato da
Cons. Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835.
Stando a tale pronuncia, il canone della doppia conformità
sarebbe preordinato a garantire il richiedente dalla
possibile variazione in peius della disciplina
urbanistico-edilizia, a seguito di emanazione di strumenti
che riducano o escludano, appunto, il ius aedificandi
sussistente al momento dell'istanza, mentre non potrebbe
ritenersi diretto a disciplinare l'ipotesi inversa del
ius superveniens favorevole, rispetto al momento
ultimativo della proposizione dell'istanza.
Una simile interpretazione si rivela inammissibilmente
abrogatrice dell’inciso “sia al momento della
realizzazione dello stesso” (e cioè dell’immobile
abusivo) e, quindi, contra legem: se, infatti, l’art.
36, comma 1, cit. fosse unicamente volto a salvaguardare il
privato istante dalle conseguenze sfavorevoli (nel senso di
una sopravvenuta modifica in peius del ius
aedificandi) dell’inerzia dell’amministrazione nel
concludere l’avviato procedimento di sanatoria, sarebbe
stato sufficiente il riferimento testuale “al momento
della presentazione della domanda”.
In realtà, il legislatore, con l’espressione “sia al
momento della realizzazione dello stesso, sia al momento
della presentazione della domanda”, ha individuato
l’intero arco temporale lungo il quale si sia protratto
l’abuso edilizio commesso, senza che il relativo
responsabile si sia attivato per regolarizzarlo, ed entro il
quale gli effetti peggiorativi del ius superveniens
non possono non ricadere su costui, ma anche oltre il quale
gli stessi effetti restano imputabili all’inerzia
dell’amministrazione nel provvedere e non sono più su di lui
riversabili.
b) Argomento storico.
Nell’emanare il nuovo art. 36, comma 1, del d.p.r. n.
380/2001, in luogo del previgente art. 13, comma 1, della l.
28.02.1985, n. 47, il legislatore delegato, discostandosi
dalla linea suggerita di Cons. Stato, ad. gen., sez. atti
norm., 29.03.2001, n. 52, nel senso di codificare la regola
pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’, ha
preferito “non inserire una tale previsione, sia perché
la giurisprudenza sul punto non è pacifica (sicché non può
dirsi formato quel diritto vivente che avrebbe consentito la
modifica del dato testuale), sia, soprattutto, per le
considerazioni in senso nettamente contrario contenute nel
parere espresso dalla Camera” (relazione illustrativa al
testo unico dell’edilizia).
Un simile antefatto storico dell’iter legislativo denota,
vieppiù, la resistenza dell’ordinamento al recepimento della
regola pretoria della ‘sanatoria giurisprudenziale’.
c) Argomento logico-sistematico.
L'istituto dell’accertamento di conformità è stato
introdotto, nell'ambito di una revisione complessiva del
regime sanzionatorio degli illeciti edilizi, orientata nel
senso di una maggiore severità, con l'intento di consentire
la sanatoria dei soli abusi meramente formali, vale a dire
di quelle costruzioni per le quali, sussistendo ogni altro
requisito di legge e regolamento, manchi soltanto il
necessario titolo abilitativo (cfr. Cons. Stato, sez. V,
29.05.2006, n. 3267). Il rilascio di quest’ultimo in esito
ad accertamento di conformità presuppone, pertanto, in capo
al responsabile dell'abuso, una situazione giuridica del
tutto equiparabile a quella di chi richieda un ordinario
permesso di costruire, ivi compresa la sussistenza ab
origine della conformità urbanistico-edilizia
dell’opera.
Del resto, alla sanabilità degli abusi sostanziali è
dedicato non già l’istituto dell'accertamento di conformità,
bensì quello diverso del condono edilizio (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352), nei
limiti, segnatamente temporali, in cui quest'ultimo sia
applicabile alla fattispecie concreta considerata.
Ciò posto, ammettere la ‘sanatoria giurisprudenziale’
significherebbe anche introdurre surrettiziamente
nell’ordinamento una sorta di condono atipico, affrancato
dai predetti limiti, mediante il quale il responsabile di un
abuso sostanziale potrebbe trovarsi a beneficiare degli
effetti indirettamente sananti di un più favorevole ius
superveniens, anziché di un’apposita disciplina
legislativa condonistica.
Nel delineato contesto sistematico, l’art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, in quanto norma, da un lato, circoscritta alle
ipotesi di abusi meramente formali e, d’altro lato,
derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati
sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure
ripristinatorie e sanzionatorie, non è, dunque, suscettibile
di applicazione analogica né di una interpretazione
riduttiva, secondo cui, in contrasto col suo tenore
letterale, basterebbe la conformità delle opere con lo
strumento urbanistico vigente all’epoca in cui sia proposta
l’istanza di accertamento.
Viceversa, stante l’evidenziata portata speciale e
derogatoria della norma in esame, la sanabilità da essa
prevista postula sempre la conformità urbanistico-edilizia
dell'intervento sine titulo alla disciplina
urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione
sia alla data della presentazione della domanda (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; 02.11.2009, n. 6784).
d) Argomento teleologico.
Il denominatore comune delle argomentazioni addotte in
favore della regola pretoria della ‘sanatoria
giurisprudenziale’ è precipuamente rappresentato dalla
pretesa esigenza di ispirare l'esercizio del potere di
controllo sull'attività edificatoria dei privati al buon
andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.
Tale canone costituzionale imporrebbe, in sede di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n.
380/2001, di accogliere l'istanza di sanatoria per quei
manufatti che potrebbero ben essere realizzati sulla base
della disciplina urbanistica vigente al momento della
proposizione della predetta istanza, sebbene non conformi
alla disciplina vigente al momento della loro realizzazione.
Si eviterebbe, così, uno spreco di attività inutili, sia
dell'amministrazione (il successivo procedimento
amministrativo preordinato alla demolizione dell'opera
abusiva), sia del privato (la nuova edificazione), sia
ancora dell'amministrazione (il rilascio del titolo per la
nuova edificazione).
A ben vedere, invece, quella sorta di antinomia adombrata
nel propugnare la ‘sanatoria giurisprudenziale’ –e,
quindi, nel ripudiare l'esigenza della doppia conformità–
tra i principi di legalità e di buon andamento della
pubblica amministrazione, con assegnazione della prevalenza
a quest'ultimo, in nome di una presunta logica ‘efficientista’,
si rivela artificiosa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II,
09.06.2006, n. 1352).
Va, innanzitutto, rimarcato che l'agire della pubblica
amministrazione deve essere in ogni sua fase retto dal
principio di legalità, inteso quale regola fondamentale cui
è informata l'attività amministrativa e che trova un
fondamento positivo in varie disposizioni costituzionali
(artt. 23, 24, 97, 101 e 113 Cost.). In altri termini, lungi
dall'esservi antinomia fra efficienza e legalità, non può
esservi rispetto del buon andamento della pubblica
amministrazione ex art. 97 Cost., se non vi è, nel contempo,
rispetto del principio di legalità.
Il punto di equilibrio fra efficienza e legalità, è stato,
nella materia de qua, individuato dal legislatore nel
consentire –come già detto– la sanatoria dei c.d. abusi
formali, sottraendo alla demolizione le opere che risultino
rispettose della disciplina sostanziale sull'utilizzo del
territorio, e non solo di quella vigente al momento
dell'istanza di sanatoria, ma anche di quella vigente
all'epoca della loro realizzazione (e ciò in applicazione
del principio di legalità), e quindi evitando un sacrificio
degli interessi dei privati che abbiano violato soltanto le
sole norme disciplinanti il procedimento da osservare
nell'attività edificatoria (TAR Lombardia, Milano, sez. II,
09.06.2006, n. 1352; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
09.01.2009, n. 5).
La vera insanabile contraddizione risiederebbe, da un lato,
nell'imporre alle autorità comunali di reprimere e
sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro, nel consentire
violazioni sostanziali della normativa del settore, quali
rimangono – sul piano urbanistico – quelle connesse ad opere
per cui non esista la doppia conformità, dovendosi aver
riguardo al momento della realizzazione dell'opera per
valutare la sussistenza dell'abuso (cfr. TAR Lombardia,
Milano, sez. II, 09.06.2006, n. 1352).
Ciò, in quanto sarebbe davvero contrario al principio di
buon andamento ex art. 97 Cost. ammettere che
l'amministrazione, una volta emanata la disciplina sull'uso
del territorio, di fronte ad interventi difformi dalla
stessa, sia indotta –anziché a provvedere a sanzionarli– a
modificare la disciplina stessa. Si finirebbe, così, per
incoraggiare, anziché impedire, gli abusi, perché ogni
interessato si sentirebbe incitato alla realizzazione di
manufatti difformi, confidando sulla loro acquisizione di
conformità ex post, a mezzo di modifiche della
disciplina del settore. E si finirebbe per alterare
l’essenza stessa dell’accertamento di (doppia) conformità,
che risiede (anche) nello sterilizzare e nel disancorare
l’attività pianificatoria degli enti locali dalla tentazione
di ‘legalizzare’ surrettiziamente l’illecita
trasformazione del territorio da parte dei privati tramite
varianti ‘pilotate’ agli strumenti urbanistici.
In definitiva, predicare l’operatività della regola pretoria
della ‘sanatoria giurisprudenziale’, e cioè
consentire la legittimazione postuma di opere
originariamente e sostanzialmente abusive, significherebbe
tradire:
- il principio di legalità, sia in quanto si svuoterebbe
della sua portata precettiva, certa e vincolante la
disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della
commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi
l’ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire
in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale,
ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001) alle sole violazioni di ordine formale;
- il principio di imparzialità, in quanto si finirebbe per
premiare gli autori di abusi edilizi sostanziali, a
discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito
attività edificatorie, nel doveroso convincimento di
rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente
violate;
- i principi di buon andamento e di efficacia, in quanto,
premiando –come detto– gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, risulterebbe attenuata, se non addirittura
neutralizzata, la forza deterrente dell’apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio;
- i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in
quanto si estenderebbe l’ambito oggettivo di applicazione di
un istituto (permesso di costruire in sanatoria) al di là
della fenomenologia (abusi edilizi meramente formali) in
rapporto alla quale lo stesso è stato enucleato e
commisurato dal legislatore
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.11.2015 n. 5136 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Frazionamento e predisposizione di un terreno
agricolo alla realizzazione di edifici aventi natura e
destinazione residenziale - Reato di lottizzazione abusiva -
Configurabilità - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e
la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione
di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in
quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente
connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo
del fondo ed incompatibile con l'originaria vocazione
dell'area (Sez. 3, n. 15605 del 31/03/2011 - dep.
19/04/2011, Manco e altri, Rv. 250151, che, peraltro, ha
specificato come il mero possesso della qualifica di
imprenditore o bracciante agricolo non sarebbe, di per sé,
sufficiente ad escludere il reato).
Lottizzazione abusiva - Sentenza di
proscioglimento per prescrizione del reato - Confisca del
bene lottizzato.
In tema di lottizzazione abusiva, il giudice, anche quando
pronuncia sentenza di proscioglimento per prescrizione del
reato, può disporre, sulla base di adeguata motivazione
sull'attribuibilità del fatto all'imputato, la confisca del
bene lottizzato, atteso quanto affermato dalla Corte
Costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, anche
considerata la pronuncia della Corte EDU del 29.10.2013 nel
caso Varvara c/Italia: Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015 -
dep. 22/04/2015, Boezi e altri, Rv. 263585; Sez. 4, n. 31239
del 23/06/2015 - dep. 17/07/2015, Giallombardo, Rv. 264337) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi o urbanistici - Sequestro
preventivo di manufatto abusivo - Valutazione del giudice
degli effetti pregiudizievoli del reato.
In tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che,
al fine di disporre il sequestro preventivo di manufatto
abusivo, il giudice di merito ha il dovere di compiere in
ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa
pertinente al reato possa agevolare o protrarre le
conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri
reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un
reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o
una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con
riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a.
in relazione a costruzioni non assistite da concessione
edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici)
ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca
un elemento neutro sotto il profilo dell'offensività (Sez.
U, n. 12878 del 29/01/2003 - dep. 20/03/2003, P.M. in proc.
Innocenti, Rv. 223722).
Reati edilizi o urbanistici - Opere
edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo - Limiti
all'uso e godimento dell'opera abusiva - Sequestro disposto
per la violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
- Requisito del periculum - Confiscabilità ex art. 44, c. 2, d.P.R. n. 380/2001 - 146 e 181, D.Lgs. n. 42 del 2004 -
Finalità residenziali vietate dallo strumento urbanistico in
zona a vocazione agricola - Fattispecie: uso esclusivamente
residenziale di un manufatto realizzabile solo per finalità
agricole.
In materia di reati edilizi o urbanistici, non rileva il
successivo utilizzo dell'immobile ai fini abitativi, laddove
si consideri che il sequestro è stato disposto per la
violazione dell'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001
(sotto il duplice profilo della configurabilità
dell'illecito lottizzatorio che della totale difformità
degli interventi edilizi rispetto al titolo abilitativo,
dovendosi qui ribadire che in materia edilizia è
ipotizzabile il sequestro preventivo anche dell'immobile
abusivamente costruito e già ultimato, atteso che le
esigenze cautelari ravvisabili sono sia il paventato aumento
del carico urbanistico sia le ulteriori conseguenze dovute
all'uso ed al godimento dell'opera abusiva al di fuori di
ogni controllo prescritto in funzione della tutela degli
interessi pubblici coinvolti, come ben descritto dal
tribunale del riesame nel caso di specie: Sez. 3, n. 9058
del 22/01/2003 - dep. 26/02/2003, P.M. in proc. Sferratore
L., Rv. 224173).
Quanto, infine, al requisito del periculum, deve, in
particolare osservarsi come la natura permanente del reato
previsto dall'art. 44, comma primo, lett. c), d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380, legittima il sequestro preventivo delle
opere edilizie eseguite in zona sottoposta a vincolo anche
nel caso di ultimazione dei lavori, in quanto l'esecuzione
di interventi edilizi in zona vincolata ne protrae nel tempo
e ne aggrava le conseguenze, determinando e radicando il
danno all'ambiente ed al quadro paesaggistico che il vincolo
ambientale mira a salvaguardare (Sez. 3, n. 30932 del
19/05/2009 - dep. 24/07/2009, Tortora, Rv. 245207),
soprattutto in contesti, come quello sub iudice, nei quali
l'attività edilizia non si esaurisce in sé, ma comporta un
protrarsi dell'aggravio urbanistico tenuto conto del maggior
"consumo del territorio" derivante dall'utilizzo per fini
esclusivamente residenziali di un immobile che, per
destinazione originaria del programma di fabbricazione,
poteva essere utilizzato solo per finalità rurali.
E non v'è dubbio che l'utilizzo da parte del proprietario
lottizzatore abusivo di un immobile con finalità
residenziali vietate dallo strumento urbanistico, in zona a
vocazione agricola, determina un incremento del carico
urbanistico, concetto non normativamente definito che ha
come presupposto il rilievo che agli insediamenti umani ed
primari (abitazioni, uffici, opifici, negozi etc.) sono
correlati insediamenti secondari di servizi (gas, luce,
strade etc.) che devono essere calibrati sui primi.
Le opere
edilizie abusive possono comportare una sproporzione tra il
numero degli abitanti, o di coloro che svolgono una attività
sul territorio, e le strutture collettive originariamente
predisposte. Ora l'insediamento abusivamente introdotto
nella zona agricola dall'indagato deve considerarsi primario
e, di conseguenza, determina un aggravio, anche se non
apparentemente rilevante, del carico urbanistico.
Tanto premesso, non può certamente ritenersi inadeguata né
apparente, ai fini che qui rilevano agli effetti dell'art.
325 cod. proc. pen., la motivazione sul punto fornita dal
tribunale del riesame che, proprio all'esito di una
valutazione "in concreto" sull'eventuale ulteriore
pregiudizio all'assetto urbanistico del territorio,
discendente dall'uso dell'opera abusiva (nella specie, ad
uso esclusivamente residenziale di un manufatto realizzabile
solo per finalità agricole), ha ritenuto sussistere il
periculum, anche evidenziando la confiscabilità ex art.
44, comma secondo, d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi o urbanistici -
Aggravamento del carico urbanistico - Pericolo degli effetti
pregiudizievoli del reato - Mutamento della originaria
destinazione d'uso di un edificio.
Il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche
relativamente al carico urbanistico, deve presentare il
requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del
quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione
(Sez. III n. 4745, 30/01/2008; conf. Sez. VI n. 21734,
29/05/2008; Sez. II n. 17170, 05/05/2010) e chiarendo che, a
tal fine, l'abuso va considerato unitariamente (Sez. III n.
28479, 10/07/2009; Sez. III n. 18899, 09/05/2008).
L'aggravamento del carico urbanistico è stato riconosciuto
anche con riferimento alle ipotesi di realizzazione di opere
interne comportanti il mutamento della originaria
destinazione d'uso di un edificio (Sez. III n. 22866,
13.06.2007; conf. Sez. IV n. 34976, 28/09/2010) Conf. Cass.
Pen. Sez. 3^ Ud. 27/10/2015 Sentenza n. 45282.
Nozione di "carico urbanistico" -
Elemento c. d. primario (abitazioni, uffici, opifici,
negozi) ed elemento secondario (Opere pubbliche in genere,
uffici pubblici, strade, fognature ecc.).
La nozione di "carico urbanistico", deriva
dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito
da un elemento c. d. primario (abitazioni, uffici, opifici,
negozi) e da uno secondario di servizio (Opere pubbliche in
genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature,
elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione
del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento
primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle
caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio.
Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente
legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione
in vari istituti di diritto urbanistico:
a) negli standards urbanistici di cui al D.M 02.04.1968 n.
1444 che richiedono l'inclusione, nella formazione degli
strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici
per abitante a seconda delle varie zone;
b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a
contributo sia di urbanizzazione che sul costo di
produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto
comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre
nuovo insediamento;
c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che
non comportano nuovo insediamento, come le opere di
urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione;
d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni
contributo per le opere interne (art. 26 L. n. 47/1985 e
art. 4, comma 7, l. 493/1993) che non comportano la
creazione di nuove superficie utili, ferma restando la
destinazione dell'immobile;
e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non
costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10 L.
n. 47/1985 e art. 4 L. 493/1993)". Conf. Cass. Pen. Sez. 3^
Ud. 27/10/2015 Sentenza n. 45282 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2015 n. 46535 - udienza - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'illegittima
raccolta e trasporto di rifiuti (rottami metallici) in forma
ambulante.
La condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152
del 2006, art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga,
in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi del citato
d.lgs., artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216,
svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda,
per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e
che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
La deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 266,
comma 5, per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera
qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività
commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto
del suo commercio.
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RITENUTO IN FATTO
1. - Con ordinanza del 05.05.2015, il Tribunale di Chieti ha
rigettato l'appello proposto dall'indagato avverso
l'ordinanza del Gip dello stesso Tribunale del 03.04.2015,
con la quale era stata rigettata l'istanza di revoca del
sequestro preventivo di un autocarro disposto nei confronti
del predetto, in ordine al reato di cui all'art. 256, comma
1, del d.lgs. n. 152 del 2006.
2. - Avverso l'ordinanza l'indagato ha proposto
personalmente ricorso per cassazione, deducendo, con unico
motivo di doglianza, l'erronea applicazione della
disposizione incriminatrice, perché non si sarebbe
considerato che egli svolgeva un'attività di robivecchi, non
rientrante nella gestione dei rifiuti, ma nel commercio
ambulante, per il quale lo stesso indagato aveva regolare
autorizzazione.
In ogni caso, la licenza di commercio ambulante non sarebbe
coniugata al peso trasportato e il sequestro del mezzo
sarebbe comunque illegittimo, in mancanza di prova della sua
intrinseca pericolosità.
Con memoria depositata in prossimità della camera di
consiglio davanti a questa Corte, il difensore dell'indagato
ha ribadito quanto già rilevato nel ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - Il ricorso è inammissibile, perché basato su rilievi
manifestamente infondati.
Il Tribunale ha evidenziato che l'attività concretamente
svolta dal ricorrente non è quella di robivecchi, che
resterebbe sottratta alla disciplina generale dei rifiuti,
avendone il legislatore considerato la minima pericolosità
per la salute e per l'ambiente, ma quella di trasporto
abusivo di rifiuti, trattandosi di ben una tonnellata di
rottami metallici di variegata natura, assolutamente
inutilizzabili -come risulta dai rilievi svolti e dalle
fotografie scattate dalla polizia giudiziaria- in mancanza
della prescritta autorizzazione.
Nel caso in esame, dunque, il Tribunale ha correttamente
desunto la configurabilità di una vera e propria gestione
abusiva di rifiuti dalla tipologia dei materiali e
dall'elevato quantitativo degli stessi.
Deve perciò richiamarsi integralmente la consolidata
giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sez. 3,
24.06.2014, n. 29992, rv. 260266), secondo cui:
- «la condotta sanzionata dal d.lgs. n. 152 del 2006,
art. 256, comma 1, è riferibile a chiunque svolga, in
assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi del citato
d.lgs., artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216,
svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda,
per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e
che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità»;
- «la deroga prevista dal d.lgs. n. 152 del 2006, art.
266, comma 5, per l'attività di raccolta e trasporto dei
rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante
opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto
sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di
attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31 marzo 1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che
formano oggetto del suo commercio».
Quanto, poi, alla motivazione circa il periculum in mora,
deve rilevarsi che -contrariamente a quanto sostenuto dal
ricorrente- la stessa è superflua, trattandosi di sequestro
preventivo preordinato alla confisca obbligatoria del mezzo
di trasporto, ai sensi dell'art. 260-ter, comma 5, del
d.lgs. n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 04.11.2015 n. 44471). |
EDILIZIA PRIVATA: Garanzia decennale anche per modifiche e ristrutturazioni.
Immobili. Per interventi dopo l’edificazione.
La garanzia
decennale in materia di appalti opera anche nelle
ristrutturazioni, e non soltanto nella fase di costruzione
vera e propria degli edifici. Infatti la garanzia del
costruttore/appaltatore ai sensi dell’articolo 1669 del
Codice civile («Rovina e difetti di cose immobili») scatta
pure nel caso di interventi di riparazione e modifica
successivi alla edificazione, nel caso di opere destinate
per loro natura a lunga durata.
Il principio è riconfermato da una recente sentenza della
Corte di Cassazione - Sez. II civile (sentenza 04.11.2015 n.
22553) secondo cui la garanzia decennale prescritta dall’art
1669 può ben essere invocata anche con riguardo al
compimento di opere –siano essi interventi di modificazione
o riparazione– afferenti a un preesistente edificio. E
ricade dunque sugli autori di tali interventi.
Il contenzioso contrapponeva inizialmente una società di
costruzioni a un condominio. La ditta aveva concluso nel
1991 una importante serie di lavori di manutenzione
straordinaria sullo stabile. Nel 1996 l’amministratore aveva
denunciato i primi, numerosi, difetti.
La ditta, a fronte della richiesta del condominio di ovviare
ai problemi, aveva rigettato ogni responsabilità. Il
condominio quindi nel 1997 aveva fatto causa chiedendo
l’eliminazione dei vizi, oltre al risarcimento danni.
Il primo giudice aveva accolto il ricorso e condannato la
ditta al pagamento danni, quantificato in 28mila euro circa.
La sentenza era stata appellata da entrambe le parti, e così
quella d’appello.
Nella sentenza appena depositata la Cassazione respinge tre
dei quattro motivi di ricorso promossi dalla ditta e ne
accoglie uno solo, legato alla quantificazione del danno.
In realtà, già per la Corte d’appello la ditta non aveva
restaurato l’edificio, non avendolo né consolidato, né
ripristinato o rinnovato negli elementi costitutivi, e
nemmeno arrecato radicali modifiche sostitutive, né portato
lo stabile ad essere un immobile del tutto diverso dal
preesistente. Aveva solo rinnovato e sostituito parti, anche
strutturali, di un edificio già interamente edificato da
terzi, avente caratteristiche ben precise, non modificate.
Tuttavia, è risultata corretta l’applicazione del 1669 sulla
garanzia decennale, che non attiene dunque solo a vizi
riguardanti la costruzione dell’edificio, o parte di esso,
ma anche ai casi di modificazioni o riparazioni, se
destinate per loro natura a lunga durata. La norma non ha un
ambito applicativo limitato ai difetti costruttivi inerenti
alla sola fase “genetica” di realizzazione
dell’edificio, ma anche agli interventi successivi (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lavori
di ristrutturazione, la Cassazione sulla responsabilità
decennale dell'impresa esecutrice.
Costituiscono gravi difetti
dell'edificio anche quelli che riguardano elementi secondari
e accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi,
ecc.) tali da compromettere la funzionalità globale
dell'opera.
È responsabile ai sensi dell'articolo 1669 del Codice
civile, alla stregua del costruttore, l'impresa che ha
effettuato interventi di modificazione o riparazione su un
preesistente edificio destinato a lunga durata, i quali
interventi rovinino, in tutto o in parte, o presentino
evidente pericolo di rovina o gravi difetti.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con
la
sentenza 04.11.2015 n. 22553.
La suprema Corte ricorda che il legislatore «discrimina
tra "edificio o altra cosa immobile destinata per sua natura
a lunga durata", da un lato, e "opera", dall'altro. L'opera
cui allude la norma non si identifica necessariamente con
l'edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata,
ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o
riparativo, eseguito successivamente all'originaria
costruzione dell'edificio, con la conseguenza che anche il
termine "compimento", ai fini della delimitazione temporale
decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già
l'edificio in sé considerato, bensì l'opera eventualmente
realizzata successivamente alla costruzione dell'edificio.
Quanto ai difetti della costruzione, inoltre, l'etimologia
del termine "costruzione" non necessariamente deve essere
ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma
ben può riferirsi alle opere successive realizzate
sull'edificio pregresso, che abbiano i requisiti
dell'intervento costruttivo”».
RESPONSABILITÀ DI CHI REALIZZA OPERE DI
RISTRUTTURAZIONE.
Pertanto, la responsabilità ex art. 1669 c.c. «ben può
essere invocata con riguardo al compimento di opere (rectius
di interventi di modificazione o riparazione) afferenti ad
un preesistente edificio o ad altra preesistente cosa
immobile destinata per sua natura a lunga durata, le quali,
in ragione di vizi del suolo (su cui la nuova opera si
radica) o di difetti della costruzione (dell'opera),
rovinino, in tutto o in parte, o presentino evidente
pericolo di rovina ovvero gravi difetti (anche essi riferiti
all'opera innovativa, non già all'edificio pregresso). Con
la conseguenza che anche gli autori di tali interventi di
modificazione o riparazione (rectius gli esecutori delle
opere integrative) possono rispondere ai sensi dell'art.
1669 cc. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza
sensibile o sugli elementi essenziali delle strutture
dell'edificio ovvero su elementi secondari od accessori,
tali da compromettere la funzionalità globale dell'immobile
stesso».
IN COSA CONSISTE UN “GRAVE DIFETTO DI
COSTRUZIONE”.
Secondo il costante insegnamento della Cassazione, «l'estremo
del grave difetto di costruzione, a differenza di quelli che
determinano rovina totale o parziale dell'edificio, può
anche consistere in una menomazione che, pur riguardando una
parte soltanto dell'opera, incida sulla funzionalità della
stessa, impedendole di fornire l'utilità cui è destinata per
lungo lasso di tempo».
La suprema Corte ricorda che ai fini della responsabilità
dell'appaltatore costituiscono gravi difetti dell'edificio «non
solo quelli che incidono in misura sensibile sugli elementi
essenziali delle strutture dell'opera, ma anche quelli che
riguardano elementi secondari ed accessori
(impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, ecc.), purché
tali da compromettere la funzionalità globale dell'opera
stessa e che, anche senza richiedere opere di manutenzione
straordinaria, possano essere eliminati finanche solo con
gli interventi di manutenzione ordinaria indicati dalla
lettera a dell'art. 31 della legge 05.08.1978 n. 457 e cioè
con "opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle
finiture degli edifici" o con "opere necessarie per
integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici
esistenti"» (commento tratto da www.casaeclima.com).
----------------
Con il primo motivo la società ricorrente lamenta la
violazione o falsa applicazione dell'art. 1669 c.c. per
avere il giudice di merito ritenuto che alla società fosse
da attribuire la qualità di costruttore per lavori di
manutenzione straordinaria, eseguiti nel periodo compreso
fra il giugno 1988 ed il gennaio 1991, senza tenere conto
che al momento dell'esecuzione dei lavori stessi ella era
proprietaria esclusiva dello stabile de quo e che la
natura delle opere realizzate corrispondeva a quelle
contemplate nell'art. 31, lett. b), legge n. 457 del 1978,
come da provvedimento autorizzatorio n. 760 dell'11.09.1991
del Comune di Genova, giacche anche le opere eseguite in
variante erano state ritenute dallo stesso ente locale per
tipologia e caratteristiche (qualitative e quantitative)
perfettamente rientranti nella manutenzione straordinaria.
In altri termini, la OLMI non avrebbe restaurato l'edificio,
non avendolo consolidato, ripristinato e rinnovato negli
elementi costitutivi di esso, ma semplicemente aveva
rinnovato e sostituito parti, anche strutturali, di un
edificio già interamente edificato da terzi, avente ben
precise caratteristiche costruttive, non modificate dagli
interventi della ricorrente, per cui non poteva essere a lei
attribuita la qualifica di costruttore.
A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito
di diritto: "Viola o applica falsamente
l'art. 1669 c.c. il giudice di merito che applica tale norma
alle opere aventi ad oggetto le modificazioni o le
riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre
preesistenti cose immobili, destinate per loro natura a
lunga durata e dichiara soggetto alla relativa
responsabilità decennale per difetto di costruzione colui
che materialmente le esegua, con conseguente condanna al
risarcimento dei danni, come ha fatto la Corte di appello di
Genova nell'impugnata sentenza, ritenendo responsabile ex
art. 1669 c.c. la DI.MI. per i pretesi difetti delle opere
di manutenzione straordinaria ex art. 31, lett. b), L.
457/1978, eseguite nel periodo giugno 1988-gennaio 1991 sul
preesistente edificio di Genova via Sotto i Volti 14,
denunciati dal Condominio nel settembre 1996 e poi dal
Condominio stesso fatti valere in causa nel 1997 ai fini
della condanna della società ricorrente al risarcimento dei
danni in forza dell'applicazione, appunto, dell'art. 1669
c.c.?".
Il secondo motivo, con il quale la ricorrente insiste
nella doglianza di violazione e falsa applicazione degli
artt. 1669 c.c. e 31 l. 457/1978, con riferimento alla
accezione legislativa di manutenzione straordinaria, per non
avere con i lavori de quibus alterato i volumi e la
destinazione d'uso dell'edificio, pone il seguente quesito
di diritto: "Viola o applica falsamente
l'ad. 31, lett. b), L. 457/1978 il giudice di merito che
esclusa la riconducibilità di opere edilizie nella categoria
giuridica della manutenzione straordinaria, adducendo a tal
fine soltanto la notevole portata dell'intervento edilizio e
giudicando irrilevante la mancata alterazione dei volumi e
della specifica destinazione del preesistente edificio
oggetto di tali opere, come ha fatto la Corte di appello
genovese nell'impugnata sentenza escludendo che i lavori
eseguiti dalla DI.MI. fossero in realtà di manutenzione
straordinaria, per avere costituito un intervento edificio
di notevole portata, tale da investire direttamente i due
fabbricati, anche se non ha alterato i volumi e la specifica
destinazione?
Viola o applica falsamente l'art. 31
lett. b), c) e d) L. 457/1978 il giudice di merito che, al
fine di applicare alla fattispecie esaminata l'art. 1669
c.c., dopo avere escluso la manutenzione straordinaria,
qualifichi le opere edilizie eseguite in un preesistente
edificio come di ristrutturazione edilizia, assumendo come
concreto parametro di giudizio per tale qualificazione non
la tipologia di lavori elencati e specificati all'ad. 31,
lett. d), L. 457/1978, bensì una nozione non tecnica, che
prescinde dalla descrizione testualmente compiuta dalla
norma?
Viola o applica falsamente l'ad. 31, lett. b), c) e d), L.
457/1978 il giudice di merito che, al fine di applicare alla
fattispecie esaminata l'art. 1669 c.c., dopo avere escluso
la manutenzione straordinaria, qualifichi come di
ristrutturazione edilizia le opere eseguite in un
preesistente edificio quantunque le stesse in concreto non
abbiano affatto comportato la definizione e la ricostruzione
del fabbricato con la sola conservazione di parte dei muri
perimetrali e con la completa eliminazione delle strutture
interne?
Viola o applica falsamente l'art. 31,
lett. b), c) e d), L. 457/1978 il giudice di merito che, al
fine di applicare alla fattispecie esaminata l'art. 1669
c.c., dopo avere compiuto i passi in precedenza elencati,
utilizzi la nozione di ristrutturazione come sinonimo di
ricostruzione dell'edificio, come ha fatto la Corte di
appello genovese inquadrando nella categoria della
ristrutturazione edilizia ex art. 31, lett. d), L. n.
457/1978 alcuni dei lavori eseguiti in via Sotto i Volti 14
dalla DI.MI. —consistiti nell'accorpamento di due diversi
edifici attraverso lavori di raccordo fra due coperture,
delle quali l'una a falsa e l'altra a terrazzo; nel
rifacimento delle scale; nell'eliminazione degli archi sulle
finestre; nella ricostruzione di due solai— quantunque tali
lavori non abbiano affatto arrecato radicali modifiche
sostitutive dell'edificio, né portato quest'ultimo ad essere
un immobile del tutto diverso sa quello preesistente, non
avendo la DI.MI. operato la demolizione e la ricostruzione
del fabbricato con la sola conservazione di parte dei muri
perimetrali e con la completa eliminazione delle strutture
interne?".
Le prime due doglianze -che possono essere trattate
congiuntamente, data l'intima connessione, essendo entrambe
rivolte a censurare le statuizioni dell'impugnata sentenza
relative alla (in)sussistenza della responsabilità invocata,
rilevanti sotto il profilo del sistema rimediale
applicabile- non sono meritevoli di accoglimento.
La sentenza impugnata ha ritenuto sussistere la
responsabilità della DI.MI. ai sensi dell'art. 1669 c.c.
poiché è rimasto accertato che la stessa aveva acquistato
l'intero fabbricato in questione da terzi, bene sul quale
aveva poi curato di effettuare consistenti opere di
ristrutturazione, e dopo averlo ripartito in porzioni, con
la realizzazione di singole unità immobiliari, aveva
provveduto alla vendita di ciascuno degli appartamenti con
separati contratti.
Sostiene la ricorrente che la responsabilità per rovina e
difetti di cose immobili (regolata dall'art. 1669 c.c.)
dovrebbe essere ascritta alle sole ipotesi in cui siano
riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell'edificio
stesso o di una parte di esso, ma non anche in caso di
modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio
preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se
destinate per loro natura a lunga durata.
In altri termini, ad avviso della DI.MI. anche le cause
della rovina, dell'evidente pericolo di rovina o dei gravi
difetti dovrebbero essere riconducibili direttamente a
difetti del suolo o a vizi della costruzione pertinenti
all'edificio (o alla diversa cosa immobile destinata per sua
natura a lunga durata).
La ricorrente fonda tale interpretazione sull'esegesi
letterale della norma, la quale, quando usa la locuzione
"opera", alluderebbe agli edifici o alle altre cose immobili
destinate per loro natura a lunga durata, che il legislatore
richiama nell'incipit della disposizione ("Quando si
tratti di ..."). Sicché la fattispecie delineata dalla
norma sarebbe integrata solo quando, entro dieci anni dalla
realizzazione dell'edificio o della cosa immobile destinata
per sua natura a lunga durata, si prospettino rovina,
evidente pericolo di rovina o gravi difetti, dipendenti da
vizi del suolo o difetti della costruzione, afferenti
all'edificio medesimo o alla cosa immobile interessata. La
lettura prospettata dalla ricorrente avrebbe due precisi
riflessi applicativi, uno di natura oggettiva e l'altro di
natura subiettiva.
Sotto il primo profilo, la norma avrebbe un ambito
applicativo limitato ai difetti costruttivi inerenti alla
sola fase genetica di realizzazione dell'edificio ovvero di
una parte di esso, non già ai difetti eventualmente
riconducibili ad interventi susseguenti all'edificazione
dell'immobile, che apportino modificazioni o riparazioni ad
un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose
immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata.
Sotto il profilo soggettivo, la legittimazione passiva
sostanziale, a fronte della proposizione dell'azione di
responsabilità ex art. 1669 c.c., spetterebbe in via
esclusiva all'appaltatore o al costruttore-venditore
dell'edificio o della cosa immobile ovvero di una frazione
di esso, al tempo della realizzazione originaria, non già ai
soggetti che abbiano effettuato, successivamente alla
realizzazione, interventi modificativi o riparativi (di
manutenzione o di ristrutturazione o di ricostruzione).
Ad avviso della ricorrente siffatta impostazione ermeneutica
sarebbe avallata da due pronunce della Cassazione, secondo
cui la responsabilità dell'appaltatore ex art. 1669 c.c.
trova applicazione esclusivamente quando siano riscontrabili
vizi riguardanti la costruzione dell'edificio stesso o di
una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o
riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad.
altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per
loro natura a lunga durata (cfr. Cass. 20.11.2007 n. 24143;
Cass. 22.05.2015, n. 10658).
In applicazione del suddetto principio, nella prima sentenza
evocata, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che
aveva ritenuto configurabile tale ipotesi di responsabilità
in riferimento all'opera di mero rifacimento della
impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo
condominiale di un edificio preesistente.
Secondo l'orientamento dalla giurisprudenza di legittimità,
assolutamente costante, la lettera della norma giustifica
una diversa impostazione ermeneutica, e ciò perché non a
caso il legislatore discrimina tra "edificio o altra cosa
immobile destinata per sua natura a lunga durata", da un
lato, e "opera", dall'altro.
L'opera cui allude la norma non si identifica
necessariamente con l'edificio o con la cosa immobile
destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi
intervento, modificativo o ripartivo, eseguito
successivamente all'originaria costruzione dell'edificio,
con la conseguenza che anche il termine "compimento",
ai fini della delimitazione temporale decennale della
responsabilità, ha ad oggetto non già l'edificio in sé
considerato, bensì l'opera, p, eventualmente realizzata
successivamente alla costruzione dell'edificio.
Quanto ai difetti della costruzione, inoltre, l'etimologia
del termine "costruzione" non necessariamente deve
essere ricondotta alla realizzazione iniziale del
fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive
realizzate sull'edificio pregresso, che abbiano i requisiti
dell'intervento costruttivo.
La responsabilità ex art. 1669 c.c., pertanto, ben può
essere invocata con riguardo al compimento di opere (rectius
di interventi di modificazione o riparazione) afferenti ad
un preesistente edificio o ad altra preesistente cosa
immobile destinata per sua natura a lunga durata, le quali,
in ragione di vizi del suolo (su cui la nuova opera si
radica) o di difetti della costruzione (dell'opera),
rovinino, in tutto o in parte, o presentino evidente
pericolo di rovina ovvero gravi difetti (anche essi riferiti
all'opera innovativa, non già all'edificio pregresso).
Con la conseguenza che anche gli autori di tali interventi
di modificazione o riparazione (rectius gli esecutori
delle opere integrative) possono rispondere ai sensi
dell'art. 1669 cc. allorché le opere realizzate abbiano una
incidenza sensibile o sugli elementi essenziali delle
strutture dell'edificio ovvero su elementi secondari od
accessori, tali da compromettere la funzionalità globale
dell'immobile stesso (cfr. Cass. 04.01.1993 n. 13; più di
recente, segue la stessa linea interpretativa, Cass.
29.09.2009 n. 20853).
Nella specie la corte distrettuale, in adesione al costante
insegnamento di questa Corte, secondo il quale
l'estremo del
grave difetto di costruzione, a differenza di quelli che
determinano rovina totale o parziale dell'edificio, può
anche consistere in una menomazione che, pur riguardando una
parte soltanto dell'opera, incida sulla funzionalità della
stessa, impedendole di fornire l'utilità cui è destinata per
lungo lasso di tempo, ha ritenuto, con giudizio di fatto non
suscettibile di sindacato in questa sede e saldamente
ancorato alle risultanze dell'espletata indagine, che
proprio tale ipotesi ricorreva nella fattispecie concreta.
Infatti, la presenza nelle pareti esterne lato nord e
nord-ovest dello stabile di molteplici fessurazioni a forma
di grigliato e dello spessore di circa mm. 2/3 nella tinta e
nell'intonaco, tali da rendere non più impermeabili dette
facciate, le vistose crepe nell'intonaco delle pareti e del
soffitto dei locali scale ai vari piani, l'erroneo
posizionamento delle finestre di areazione dei locali scale,
sì da essere inutilizzabili, al pari dei telai che
sostenevano le persiane in alluminio delle finestre di tutto
il fabbricato, considerati nella loro globale incidenza,
anche in prospettiva futura, sulla funzionalità e
sull'utilità dell'opera, non possono che essere ritenuti
gravi difetti.
Né sussiste, peraltro, l'asserita divergenza della sentenza
impugnata con l'approdo ermeneutico di cui alle due pronunce
di questa Corte sopra citate (Cass. n. 24143 del 2007 e
Cass. n. 10658 del 2015), che lasciano intendere, pur
nell'ambiguità dei riferimenti, più ad una diversa
valutazione complessiva delle emergenze fattuali, piuttosto
che configurare un vero e proprio contrasto sincrono di
giurisprudenza.
Del pari nessun valore può essere attribuito
con riguardo alla responsabilità di cui all'art. 1669 c.c.
alle classificazioni urbanistiche predisposte dal
legislatore al diverso fine del recupero di manufatti
preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento
giustifica l'integrale responsabilità dell'appaltatore sia
in presenza di interventi di manutenzione straordinaria sia
in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell'art. 31
della legge n. 457 del 1978. Infatti, ai fini della
responsabilità dell'appaltatore, costituiscono gravi difetti
dell'edificio non solo quelli che incidono in misura
sensibile sugli elementi essenziali delle strutture
dell'opera, ma anche quelli che riguardano elementi
secondari ed accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti,
infissi, ecc.), purché tali da compromettere la funzionalità
globale dell'opera stessa e che, anche senza richiedere
opere di manutenzione straordinaria, possano essere
eliminati finanche solo con gli interventi di manutenzione
ordinaria indicati dalla lettera a dell'art. 31 della legge
05.08.1978 n. 457 e cioè con "opere di riparazione,
rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici" o
con "opere necessarie per integrare o mantenere in
efficienza gli impianti tecnologici esistenti" (cfr. Cass.
01.02.1995 n. 1164).
In applicazione del suddetto principio, la corte di merito,
congruamente motivando sul punto, ha chiarito la notevole
portata degli interventi realizzati, consistiti
nell'accorpamento di due diversi edifici attraverso lavori
di raccordo fra le due coperture, di cui una a falda e
l'altra a terrazzo, nel rifacimento integrale delle scale,
nell'eliminazione degli archi sulle finestre, nella
ricostruzione di due solai, nel rifacimento degli intonaci
esterni.
Ed ha concluso affermando che le fessurazioni
presenti sull'intonaco esterno rifatto dalla DI.MI. hanno
determinato le infiltrazioni lamentate dal Condominio sulle
parti comuni, le quali incidono in modo rilevante sulla
struttura e sulla funzionalità dell'opus per cui si
tratta di gravi difetti di costruzione, ciò anche in
coerenza con la tipologia degli interventi descritti
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.11.2015 n. 22553). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il
consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di
accesso ai documenti amministrativi che può così essere
sintetizzato:
- l’accesso ai documenti amministrativi è posizione
giuridica strumentalmente riconosciuta al servizio di un
interesse serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento di cui si chiede l’ostensione;
- l’interesse che giustifica l’ostensione va inteso in senso
ampio e non necessariamente coincide con quella alla difesa
giudiziale di una posizione giuridica soggettiva del
richiedente;
- in sede di giudizio sull’accesso il Giudice non deve
verificare la fondatezza della posizione giuridica
soggettiva alla cui cura è finalizzato la denegata istanza
di ostensione, ma deve limitarsi ad appurare che questa non
sia manifestamente pretestuosa o del tutto scollegata ai
documenti richiesti;
- l’oggetto della domanda di accesso deve essere
circoscritto mediante la puntuale indicazione degli atti di
cui si chiede l’ostensione, risultando inammissibili istanze
con finalità meramente esplorative;
- anche l’accesso all’informazione ambientale ex articolo 3,
comma 1, D.Lgs. n. 195/2005, che pure è facilitato rispetto
a quello generale ex art. 22 L. n. 241/1990, necessita
comunque che l’istanza non sia formulata in termini
estremamente generici, ma al contrario che sia
sufficientemente circostanziata.
...per l'annullamento del diniego su istanza di accesso
della documentazione relativa al progetto “autostrade del
mare” e al relativo progetto di stazione marittima
comprensiva degli afferenti lavori di costruzioni di accosti
e ormeggi, nonché delle delibere e verbali del C.d.A. in
subiecta materia dell'Azienda Speciale per il Porto di
Monfalcone, oltreché della documentazione relativa alla
rimozione dei rifiuti abbandonati nella cassa di colmata del
porto di Monfalcone, giusta nota prot. n. 4186 del
12.06.2015;
...
9.1. Nel merito il ricorso è fondato, sia pure nei limiti e
nei termini che si vanno a esporre.
9.2. Il ragionamento deve necessariamente muovere dal
consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di
accesso ai documenti amministrativi, dal quale il Collegio
ritiene di non discostarsi, e che può così essere
sintetizzato:
- l’accesso ai documenti amministrativi è posizione
giuridica strumentalmente riconosciuta al servizio di un
interesse serio, effettivo, autonomo, non emulativo,
corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento di cui si chiede l’ostensione (cfr.,
C.d.S., Sez. V, sentenza n. 4452/2015);
- l’interesse che giustifica l’ostensione va inteso in senso
ampio e non necessariamente coincide con quella alla difesa
giudiziale di una posizione giuridica soggettiva del
richiedente (cfr., TAR Abruzzo–L’Aquila, sentenza n.
646/2015);
- in sede di giudizio sull’accesso il Giudice non deve
verificare la fondatezza della posizione giuridica
soggettiva alla cui cura è finalizzato la denegata istanza
di ostensione, ma deve limitarsi ad appurare che questa non
sia manifestamente pretestuosa o del tutto scollegata ai
documenti richiesti (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. II, sentenza
n. 11120/2015);
- l’oggetto della domanda di accesso deve essere
circoscritto mediante la puntuale indicazione degli atti di
cui si chiede l’ostensione, risultando inammissibili istanze
con finalità meramente esplorative (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. VI, sentenza n. 3018/2015);
- anche l’accesso all’informazione ambientale ex articolo 3,
comma 1, D.Lgs. n. 195/2005, che pure è facilitato rispetto
a quello generale ex art. 22 L. n. 241/1990, necessita
comunque che l’istanza non sia formulata in termini
estremamente generici, ma al contrario che sia
sufficientemente circostanziata (cfr., C.d.S., Sez. III,
sentenza n. 4636/2015)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 04.11.2015 n. 480 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
procedura intesa alla formazione del c.d.
"silenzio-inadempimento" riguarda le ipotesi in cui, di
fronte alla formale richiesta di un provvedimento da parte
di un privato, costituente cioè atto iniziale di una
procedura amministrativa normativamente prevista per
l'emanazione di una determinazione autoritativa su istanza
di parte, la p.a. omette di provvedere entro i termini
stabiliti dalla legge; di conseguenza l'omissione
dell'adozione del provvedimento finale assume il valore di
silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui
sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di
esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente
alla competenza dell'organo amministrativo destinatario
della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in
funzione dell'adozione di un atto tipizzato nella sfera
autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l'azione
avverso il silenzio è, dunque, l'esistenza di un obbligo in
capo all'Amministrazione di adottare un provvedimento
amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o
negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del
ricorrente.
---------------
Il brocardo “res inter alios acta tertio neque nocet neque
prodest” (ndr: ciò che è stato negoziato tra alcuni non
nuoce e non giova ad altri) costituisce un canone (di
civiltà giuridica, prima che di portata precettiva)
certamente applicabile alla branca del diritto
amministrativo.
Ne consegue che, se indebitamente un atto “vincola” un terzo
(Ente pubblico) che ad esso non ha partecipato, questi non
ha l’onere né il dovere di impugnarlo: semplicemente l’atto
non dispiega effetti nei suoi confronti.
---------------
2. Il Collegio non intende discostarsi dal consolidato
orientamento giurisprudenziale –ancora di recente a più
riprese– ribadito da questa Quarta Sezione (ex aliis
Consiglio di Stato sez. IV 19/03/2015 n.1503) secondo cui “la
procedura intesa alla formazione del c.d.
"silenzio-inadempimento" riguarda le ipotesi in cui, di
fronte alla formale richiesta di un provvedimento da parte
di un privato, costituente cioè atto iniziale di una
procedura amministrativa normativamente prevista per
l'emanazione di una determinazione autoritativa su istanza
di parte, la p.a. omette di provvedere entro i termini
stabiliti dalla legge; di conseguenza l'omissione
dell'adozione del provvedimento finale assume il valore di
silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui
sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di
esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente
alla competenza dell'organo amministrativo destinatario
della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in
funzione dell'adozione di un atto tipizzato nella sfera
autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l'azione
avverso il silenzio è, dunque, l'esistenza di un obbligo in
capo all'Amministrazione di adottare un provvedimento
amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o
negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del
ricorrente”.
---------------
2.4.1. Innanzitutto
deve rilevarsi che il brocardo “res inter alios acta
tertio neque nocet neque prodest” costituisce un canone
(di civiltà giuridica, prima che di portata precettiva: si
veda sul punto, tra le tante Cassazione civile sez. III
19/11/2004 n. 21875) certamente applicabile alla branca del
diritto amministrativo.
Ne consegue che, se indebitamente un atto “vincola”
un terzo (Ente pubblico) che ad esso non ha partecipato,
questi non ha l’onere né il dovere di impugnarlo:
semplicemente l’atto non dispiega effetti nei suoi confronti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.11.2015 n. 5015 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In termini strutturali, la cessione volontaria è
sì un contratto.
Tuttavia, da un punto di vista funzionale, essa equivale a
un provvedimento di esproprio. Si tratta cioè di uno
strumento che, sebbene formalmente negoziale, mantiene la
connotazione di atto autoritativo, dato che il fine pubblico
può essere perseguito anche attraverso la diretta
negoziazione del provvedimento finale.
Valgono dunque, in quanto compatibili, le disposizioni
dettate per l’espropriazione (si veda ora, espressamente,
l’art. 45, comma 4, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327).
---------------
Contratto di cessione o procedimento di espropriazione sono
orientati alla realizzazione di un particolare interesse
pubblico (nella specie, il P.E.E.P.), che è successivamente
venuto meno a seguito delle decisioni di segno diverso
adottate dal Comune. La prospettiva puramente civilistica
cristallizza l’interesse pubblico al momento dell’atto ed
esclude che l’ente, al mutare delle circostanze, possa fare
ciò che invece istituzionalmente gli spetta, cioè adeguare,
nelle forme dovute, le proprie decisioni all’interesse
pubblico quale concretamente viene configurandosi.
In altri termini: proprio alla luce dei principi, appare
difficile sostenere che il Comune, dopo avere acquisito
delle aree per fini di edilizia pubblica, non possa poi
rivalutare le proprie scelte considerando in seguito
sufficiente la realizzazione edificatoria compiuta e
assegnando alle superfici residue una destinazione diversa,
purché di pubblico interesse.
---------------
Secondo l’art. 21, secondo comma, della legge n. 865 del
1971, in tema di edilizia residenziale pubblica, le aree
espropriate e acquisite dal Comune fanno parte del suo
patrimonio indisponibile.
Vale allora un indirizzo di questo Consiglio di Stato, non
recente ma tuttora da condividere, secondo cui tali aree,
proprio per rientrare nel patrimonio indisponibile
dell’ente, non possono essere sottratte alla loro
destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano (art. 828, secondo comma, c.c.) e dunque non sono
soggette a retrocessione.
Anche quella giurisprudenza che considera tale impossibilità
di retrocessione non assoluta aggiunge che essa deve
valutarsi alla luce di una “diversa, sopravvenuta esigenza
di destinazione dei terreni acquisiti in via di ablazione ad
altre, attuali finalità pubbliche”): il che esattamente si è
verificato nella vicenda in questione.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Friuli Venezia
Giulia-Trieste: Sezione I n. 609/2014, resa tra le parti,
concernente procedura espropriativa per pubblica utilità -
accordo di cessione volontaria.
...
3.1 Il terzo motivo dell’appello è fondato.
In termini strutturali, la cessione volontaria è sì un
contratto.
Tuttavia, da un punto di vista funzionale, essa equivale a
un provvedimento di esproprio. Si tratta cioè di uno
strumento che, sebbene formalmente negoziale, mantiene la
connotazione di atto autoritativo, dato che il fine pubblico
può essere perseguito anche attraverso la diretta
negoziazione del provvedimento finale (giurisprudenza
costante: da ultimo, v. Cons. Stato, sez. V, 20.08.2013, n.
4179; Id., sez. IV, 08.11.2013, n. 5346).
Valgono dunque, in quanto compatibili, le disposizioni
dettate per l’espropriazione (si veda ora, espressamente,
l’art. 45, comma 4, del d.P.R. 08.06.2001, n. 327).
3.2 Ciò premesso, il Collegio non ritiene di condividere la
ricostruzione della controversia che il TAR ha fatto in
chiave esclusivamente civilistica, ricorrendo alle categorie
della nullità per difetto della causa e della risoluzione
per inadempimento.
Peraltro, anche a voler utilizzare i soli schemi propri del
diritto civile, è da escludere che l’originario vincolo di
destinazione delle aree al servizio del P.E.E.P. penetri
nella causa del contratto e possa determinarne un vizio
genetico o funzionale, poiché -in vista dell’interesse
pubblico sottostante- la causa è nello scambio del bene
contro un prezzo e nessuno di questi elementi è mancato alla
stipula né è venuto meno successivamente.
In generale, non si coglie la complessa realtà della vicenda
contrattuale se non ponendosi dal punto di vista del
procedimento amministrativo, cui questa è funzionalmente
equivalente.
Contratto di cessione o procedimento di
espropriazione sono orientati alla realizzazione di un
particolare interesse pubblico (nella specie, il P.E.E.P.),
che è successivamente venuto meno a seguito delle decisioni
di segno diverso adottate dal Comune. La prospettiva
puramente civilistica cristallizza l’interesse pubblico al
momento dell’atto ed esclude che l’ente, al mutare delle
circostanze, possa fare ciò che invece istituzionalmente gli
spetta, cioè adeguare, nelle forme dovute, le proprie
decisioni all’interesse pubblico quale concretamente viene
configurandosi.
In altri termini: proprio alla luce dei principi, appare
difficile sostenere che il Comune, dopo avere acquisito
delle aree per fini di edilizia pubblica, non possa poi
rivalutare le proprie scelte considerando in seguito
sufficiente la realizzazione edificatoria compiuta e
assegnando alle superfici residue una destinazione diversa,
purché di pubblico interesse.
3.3 Nella specie -come detto in narrativa- il Comune di San
Giorgio di Nogaro, modificando il proprio P.R.G., ha ridotto
il perimetro del P.E.E.P. e impresso alle aree oggetto della
cessione altre destinazioni (impianti sportivi, servizi
socio-sanitari e parcheggi), del rilievo pubblico delle
quali non è possibile dubitare. L’opera pubblica (il
P.E.E.P.) è stata eseguita e alcuni dei terreni acquisiti a
tal fine (quelle degli appellati) non hanno ricevuto la
prevista destinazione. Come dice esattamente il Comune, la
fattispecie è esattamente quella descritta dall’art. 60
della legge n. 2359 del 1865, applicabile ratione
temporis. La conseguenza è che “gli espropriati o gli
aventi ragione da essi che abbiano la proprietà dei beni da
cui fu staccato quello espropriato, hanno diritto ad
ottenerne la retrocessione”.
3.4 In effetti, i privati, in via subordinata, hanno anche
chiesto la retrocessione dei beni, sostenendo che con la
dichiarazione del 23.11.2006 l’ente avrebbe già reso
manifesta l’intenzione di non avvalersi più dei terreni
relitti per gli scopi inizialmente delineati e citando
giurisprudenza secondo cui la radicale difformità dell’opera
realizzata o la radicale modifica dell’assetto territoriale
originariamente programmato configurerebbero la posizione
del privato non come interesse legittimo, ma come diritto
soggettivo potestativo alla retrocessione, automaticamente
esistente anche senza l’interposizione dell’intervento
discrezionale della P.A. e direttamente tutelabile avanti
all’Autorità giudiziaria.
Il Comune non contesta queste affermazioni, ma sostiene che
in tema di aree destinate a P.E.E.P. la retrocessione non
opererebbe e che il relativo diritto sarebbe comunque
prescritto, decorrendo il termine dalla variante in
riduzione del piano (1990) e, per le altre aree, dalla
scadenza del termine di efficacia del piano stesso (1993).
3.5 Il Collegio non ritiene di esaminare la questione della
prescrizione perché ritiene che, in concreto, il diritto
alla retrocessione non sussista.
Secondo l’art. 21, secondo comma, della legge n. 865 del
1971, in tema di edilizia residenziale pubblica, le aree
espropriate e acquisite dal Comune fanno parte del suo
patrimonio indisponibile. Vale allora un indirizzo di questo
Consiglio di Stato, non recente ma tuttora da condividere,
secondo cui tali aree, proprio per rientrare nel patrimonio
indisponibile dell’ente, non possono essere sottratte alla
loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che
li riguardano (art. 828, secondo comma, c.c.) e dunque non
sono soggette a retrocessione (cfr. sez. IV, 18.09.1997, n.
981; e per una fattispecie analoga -beni acquisiti per la
realizzazione di un P.I.P.- sez. IV, 22.05.2000, n. 2939).
Anche quella giurisprudenza che considera tale impossibilità
di retrocessione non assoluta aggiunge che essa deve
valutarsi alla luce di una “diversa, sopravvenuta
esigenza di destinazione dei terreni acquisiti in via di
ablazione ad altre, attuali finalità pubbliche” (Cons.
Stato, sez. V, 19.02.2007, n. 833): il che esattamente si è
verificato nella vicenda in questione.
4. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello
del Comune è fondato e va pertanto accolto, con riforma
della sentenza impugnata e reiezione del ricorso
introduttivo.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ.,
sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti,
Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono
stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione
di segno diverso.
Ciò vale anche, ad esempio, per la supposta nullità o
inefficacia delle scritture private autenticate (punto Bb3
del ricorso introduttivo), che viene motivata in termini
generici, o per la ritenuta mancata impugnazione di un
passaggio della motivazione, che varrebbe da solo a reggere
la sentenza (pag. 3 della memoria di replica del 24
settembre scorso), e che per l’appunto costituisce invece
-come detto- non un autonomo capo della decisione, ma solo
un momento dell’argomentazione più ampia.
Nemmeno residua una diversa, autonoma ragione di danno
ingiusto risarcibile a favore dei privati che peraltro -sia
detto per inciso, non essendo stato il punto discusso in
questa sede se non sotto il profilo di un’affermata
inammissibilità dell’appello- non hanno impugnato a suo
tempo le delibere comunali che hanno condotto alla nuova
destinazione delle aree.
Non correttamente il TAR svaluta tale circostanza,
ipotizzando a carico al Comune l’onere di perseguire i nuovi
interessi pubblici emersi mediante una procedura complessa
(retrocessione dei beni, mutamento di destinazione
urbanistica e avvio di una nuova procedura ablatoria),
idonea -in tesi- a soddisfare l’interesse dei privati a un
maggiore indennizzo.
Anche ammessa in via di ipotesi la sussistenza di un tale
onere, peraltro difficilmente compatibile con i principi di
speditezza ed efficienza dell’azione amministrativa, essa
non riuscirebbe tuttavia a giustificare la mancata
iniziativa degli originari ricorrenti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 03.11.2015 n. 5000 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
stabili nel tempo vanno considerati come idonei ad alterare
lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà
strutturale, la potenziale rimovibilità della struttura e
l'assenza di opere murarie: essi non risultano in concreto
deputati a un uso per fini contingenti, ma sono destinati a
un impiego protratto nel tempo.
La “precarietà” dell’opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico
e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo
stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel
tempo: non possono essere considerati manufatti idonei a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a
un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
precaria o irrilevante.
In ogni caso la predetta “precarietà” del manufatto, che
rende non necessaria la concessione edilizia, non dipende
dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla sua
inidoneità a determinare una stabile trasformazione del
territorio, con la conseguente esigibilità del titolo
edilizio allorquando la struttura, ancorché prefabbricata,
sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, e non
meramente occasionale.
---------------
In questo contesto, si è ritenuto che la sola stagionalità
dell'installazione del manufatto non possa implicare il
carattere della “temporaneità”, atteso da un lato il
carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura
destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di
somministrazione, e dall’altro la permanente idoneità ad
alterare lo stato dei luoghi che il complessivo manufatto è
idoneo a determinare, anche a prescindere dalla rimozione
per alcuni mesi l'anno.
---------------
1. Passando all’esame del merito dei ricorsi, è utile
riepilogare i principi giurisprudenziali enucleati in
vicende analoghe a quella in esame.
1.1 Per consolidata giurisprudenza i manufatti non precari,
ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a
nulla rilevando la precarietà strutturale, la potenziale
rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie
(Consiglio di Stato, sez. VI – 04/09/2015 n. 4124): essi non
risultano in concreto deputati a un uso per fini
contingenti, ma sono destinati a un impiego protratto nel
tempo.
La “precarietà” dell’opera, che esonera dall'obbligo
del possesso del permesso di costruire, postula un uso
specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette
che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel
tempo: non possono essere considerati manufatti idonei a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a
un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
precaria o irrilevante (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI –
04/09/2015 n. 4116).
In ogni caso la predetta “precarietà” del manufatto,
che rende non necessaria la concessione edilizia, non
dipende dal suo sistema di ancoraggio al terreno, ma dalla
sua inidoneità a determinare una stabile trasformazione del
territorio, con la conseguente esigibilità del titolo
edilizio allorquando la struttura, ancorché prefabbricata,
sia destinata a dare un’utilità prolungata nel tempo, e non
meramente occasionale (Consiglio di Stato, sez. V –
27/04/2012 n. 2450).
1.2 In questo contesto, si è ritenuto che la sola
stagionalità dell'installazione del manufatto non possa
implicare il carattere della “temporaneità”, atteso
da un lato il carattere ontologicamente “non temporaneo”
di una struttura destinata all'esercizio di un'attività
commerciale e di somministrazione, e dall’altro la
permanente idoneità ad alterare lo stato dei luoghi che il
complessivo manufatto è idoneo a determinare, anche a
prescindere dalla rimozione per alcuni mesi l'anno (TAR
Calabria-Reggio Calabria – 08/04/2015 n. 350)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.11.2015 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
L'e-mail è pomo della discordia. La contesa
riguarda l'uso improprio del pc aziendale.
I dubbi della Fondazione studi consulenti del
lavoro su una pronuncia della Cassazione.
Approfittare del computer e dell'e-mail dell'azienda non
costa nulla. Soprattutto se il datore di lavoro, per fare le
cose a modo, ha previsto nel codice disciplinare una
sanzione conservativa per l'uso improprio della postazione
internet aziendale da parte dei dipendenti.
In circostanze
come queste, infatti, anche se il lavoratore trascura le
informative e i ripetuti avvisi del datore e abusa della
navigazione e della posta elettronica, il suo comportamento
non potrà essere mai sufficiente a configurare il livello di
gravità richiesto dall'art. 2119 codice civile ai fini del
licenziamento per giusta causa.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- nella
sentenza
02.11.2015 n.
22353.
La decisione, secondo la Fondazione
studi dei Consulenti del lavoro, «suscita qualche
perplessità», perché «legittima l'azione di quel dipendente
che, esplicitamente e coscientemente, utilizzi a fini
personali strumenti informatici di cui dispone in ragione
della posizione professionale ricoperta in azienda» (Parere
n. 2/2015).
Uso improprio dell'e-mail aziendale.
La Fondazione spiega che l'elemento essenziale su cui la
giurisprudenza della Cassazione ha focalizzato l'attenzione
è l'«uso improprio» della casella di posta elettronica
aziendale. Con tale espressione s'intende l'utilizzo che
fuoriesca integralmente dalle finalità connesse alle
mansioni lavorative, che sono quelle che risultano
dall'obbligazione assunta dal prestatore con la
sottoscrizione del contratto di lavoro. Ipotesi classica è
quella del ricorso a tale casella per effettuare
comunicazioni o intrattenere rapporti di natura
essenzialmente personale, non legati, cioè, nemmeno
occasionalmente, all'esercizio dell'attività di lavoro (in
questo senso, cassazione 11.08.2014, n. 17859).
Secondo
la Corte di cassazione, tuttavia, l'utilizzo della casella
di posta elettronica aziendale per fini personali non
legittima, di per sé, il ricorso al licenziamento per giusta
causa, ex art. 2119 codice civile. In particolare, per
invocare tale massima sanzione, servirebbero elementi
addizionali in grado di qualificare in termini di maggiore
intensità la gravità del comportamento del dipendente, al
punto da legittimare un'interruzione in tronco del rapporto
di lavoro (si pensi al grave danno conseguente
all'interruzione ingiustificata della prestazione
lavorativa; oppure all'utilizzo della casella a fini
personali e illeciti, come la commissione di un reato; in
questo senso ancora la sentenza n. 17859/2014 della
cassazione).
In tutti i casi in cui la condotta del
dipendente si sia sostanziata nell'utilizzo della posta
elettronica aziendale, senza produzione di un danno serio e
quantificabile, la Corte ha sempre individuato come
proporzionata e sufficiente una sanzione disciplinare di
natura conservativa (in tal senso Cassazione sentenza 18.03.2014, n. 6222; Cassazione sentenza 17.06.2011, n.
13353; Cassazione sentenza 29.09.2005, n. 19053).
L'ultima pronuncia.
Con la recente pronuncia (02.11.2015, n. 22353) la
Suprema corte è ritornata ancora una volta sul tema
dell'utilizzo improprio della casella di posta elettronica
aziendale. Con essa, conferma la dichiarazione
d'illegittimità del licenziamento disciplinare inflitto a un
lavoratore a causa dell'uso improprio di strumenti di lavoro
aziendali e, in particolare, del personal computer in
dotazione, delle reti informatiche aziendali e della casella
di posta elettronica.
La Corte d'appello aveva argomentato
che gli addebiti rientravano nella previsione del contratto
collettivo, che sancisce solo la sanzione conservativa; e
che, peraltro, non poteva ritenersi che la condotta
realizzata costituisse un'ipotesi diversa e più grave,
rispetto a quella prevista dalla disposizione contrattuale,
poiché non era emerso che l'utilizzo personale di posta
elettronica e navigazione in internet avesse prodotto una
significativa sottrazione di tempo all'attività di lavoro,
né che la condotta avesse realizzato il blocco del lavoro,
con grave danno per l'attività produttiva.
La Cassazione
condivide la posizione del giudice d'appello e, alla
contestazione del datore di lavoro che non si era tenuto
conto di una condotta generale del lavoratore tale da aver
integrato la violazione del dovere di obbedienza (art. 2104
del codice civile), risponde con i principi già indicati in
fattispecie analoga (sentenza n. 6222 del 18.03.2014):
«Il riferimento a precedenti informazioni e preavvisi (cioè
a disposizioni del datore di lavoro in ordine all'uso del
computer aziendale) non prospetta invero una violazione di
distinti obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della
valutazione della gravità dell'inadempimento» e «il fatto
che la condotta sia stata reiterata non esorbita dalla
previsione «dell'utilizzo improprio», locuzione che può
intendersi anche come riferita a un impiego protratto nel
tempo».
Le perplessità.
Secondo i giudici di Cassazione, insomma, se il codice
disciplinare o la contrattazione collettiva prevede la
sanzione conservativa per l'uso improprio della e-mail
aziendale, l'elusione, da parte del lavoratore, delle
specifiche informative e dei molteplici avvisi effettuati
dal datore al fine di prevenire abusi, non è sufficiente a
configurare il livello di gravità richiesto dall'art. 2119
del codice civile.
In questi casi, dunque, il datore dovrà
attenersi all'applicazione della sanzione disciplinare
prevista, non potendo la violazione dei moniti e delle
comunicazioni datoriali essere considerata come una
violazione di obblighi contrattuali distinti, tali da
consentire il passaggio alla sanzione espulsiva.
Questa posizione assunta dalla cassazione, secondo la
Fondazione studi consulenti, «suscita qualche perplessità».
Essa finisce, infatti, per legittimare l'azione di quel
dipendente che, esplicitamente e coscientemente,
contravvenendo a specifiche indicazioni precauzionali del
datore di lavoro, utilizzi a fini personali strumenti
informatici di cui dispone in ragione della posizione
professionale ricoperta in azienda.
«Un'impostazione,
quest'ultima», si legge nel Parere, «che espone il datore di
lavoro al rischio continuo che il dipendente in questione
reiteri il suo comportamento ad libitum, privando di valore
vincolante le ripetute indicazioni circa l'utilizzo
appropriato della strumentazione di lavoro».
Proprio come è in effetti avvenuto nel caso di specie, ove
il dipendente non si era semplicemente limitato a violare la
disposizione del contratto collettivo che vieta l'uso
improprio di strumentazione aziendale, ma aveva aggravato la
sua posizione non attenendosi alle specifiche e comprovate
indicazioni ulteriormente fornitegli
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015). |
APPALTI:
Subappalto senza nomi. Nell'offerta non c'è
obbligo di indicazioni.
Non è obbligatoria l'indicazione in sede di offerta del nome
del subappaltatore, neanche in caso di «subappalto
necessario».
È quanto ha affermato la
sentenza 02.11.2015 n. 9 dell'adunanza plenaria
del Consiglio di Stato (si veda
anche Italia Oggi del 5 novembre) risolvendo il conflitto
fra due tesi interpretative contrapposte: la prima, che
afferma la necessità dell'indicazione del nominativo del
subappaltatore già nella fase dell'offerta per le
lavorazioni in cui è richiesta al presenza di una impresa
specializzata e qualificata per tutte le lavorazioni; la
seconda, che invece afferma il solo obbligo di indicazione
delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in
subappalto, ma non anche del nome dell'impresa
subappaltatrice.
La questione rimessa dalla quarta sezione del Consiglio di
stato all'adunanza plenaria viene affrontata partendo dalla
considerazione che non si è in presenza di «un sistema di
regole chiaro e univoco» e che ciò non consente «opzioni
ermeneutiche additive, analogiche, sistematiche o
estensive». In questo caso, infatti si finirebbe per
stabilire una regola non scritta (la necessità
dell'indicazione del nome del subappaltatore già nella fase
dell'offerta) che confliggerebbe con il dato testuale della
disposizione legislativa.
Per la sentenza l'indicazione del nome del subappaltatore
non è obbligatoria all'atto dell'offerta, neanche nei casi
in cui, ai fini dell'esecuzione delle lavorazioni relative a
categorie scorporabili a qualificazione necessaria, risulta
indispensabile il loro subappalto a un'impresa provvista
delle relative qualificazioni (nella fattispecie che viene
comunemente, e, per certi versi, impropriamente definita
come «subappalto necessario»).
Diversamente (e cioè affermando l'obbligo di indicazione in
fase di offerta) si finirebbe, hanno detto i giudici, per
costituire una «clausola espulsiva atipica, in palese
spregio del principio di tassatività delle cause di
esclusione» (codificato all'art. 46, comma 1-bis, del
codice dei contratti pubblici).
Ciò detto, nel disegno di legge delega si prevede che il
nuovo codice dovrà elencare i casi in cui sarà obbligatorio
indicare almeno tre subappaltatori per ogni tipologia di
attività
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2015). |
APPALTI:
Chi fa la gara non deve dare subito il nome del
subappaltatore.
Chi partecipa alla gara d'appalto non deve indicare fin
dall'offerta il nome dell'impresa cui subappalterà i lavori.
I requisiti di validità degli appalti sono infatti tassativi
e non esistono in materia vincoli Ue, tanto che
l'interpretazione contraria finirebbe per introdurre una
clausola espulsiva atipica, vale a dire un elemento di
distorsione nei lavori pubblici. E su questa tesi è
d'accordo anche l'Anac, l'authority anticorruzione.
Lo stabilisce l'adunanza plenaria del consiglio di Stato con
la
sentenza 02.11.2015 n. 9, che chiude il
contrasto di giurisprudenza.
Affidamento significativo
È troppo gravoso imporre alle imprese che concorrono alla
procedura pubblica di scegliere un (solo) subappaltatore fin
dalla fase di partecipazione alla gara: si tratta di un
«onere sproporzionato», osserva palazzo Spada, perché le
condizioni di efficacia del subappalto sono tratteggiate con
efficacia dall'articolo 118 del codice.
La stessa Anac, dopo
l'incorporazione dell'autorità di vigilanza nel settore, ha
validato schemi di appalto che non prevedono l'indicazione
tempestiva ingenerando così un «significativo affidamento»
negli operatori economici. Nelle norme europee non c'è
traccia di un obbligo del genere e dunque non può essere il
giudice a ricavarlo nel silenzio della legge.
Le direttive
Ue sugli appalti pubblici lasciano libertà in materia agli
stati membri e alle stazioni appaltanti: pretendere
l'indicazione del nome equivarrebbe dunque a integrare in
automatico il bando di gara che in origine non lo prevedeva,
con un «obbligo non previsto da alcuna disposizione
normativa cogente pretermessa nell'avviso» («eterointegrazione»,
la definiscono i giudici): il giudice si sostituirebbe così
al legislatore oltre che alla stazione appaltante. Senza
dimenticare che spendere subito il nome dell'interlocutore
nel subappalto necessario può creare confusione con il
diverso istituto dell'avvalimento.
Insomma: il
subappaltatore sarà prescelto nella fase di esecuzione,
durante la quale verranno verificati i suoi requisiti.
Esclusione confermata
Il massimo consesso del consiglio di stato ha stabilito
anche un altro principio di diritto: non sono legittimamente
esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel
caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della
presentazione delle offerte si è conclusa prima della
pubblicazione della decisione dell'adunanza plenaria 3/2015
(articolo ItaliaOggi del 05.11.2015). |
TRIBUTI:
Esenzione Ici, conta il catasto. Categoria
decisiva per assoggettare i fabbricati rurali. Lo ha
ribadito la Corte di cassazione: necessario l'inquadramento
A/6 o D/10.
Nonostante siano intervenute delle modifiche normative sulla
disciplina dei fabbricati rurali, che attribuiscono
rilevanza giuridica solo all'annotazione in catasto del
requisito di ruralità, questi immobili sono esenti da Ici
solo se inquadrati catastalmente nelle categorie A/6, se
destinati ad abitazione, o D/10, se utilizzati per
l'esercizio dell'attività agricola.
Lo ha ribadito
la Corte di Cassazione -Sez. VI civile- con l'ordinanza
30.10.2015 n. 22195.
La Cassazione, dunque, riafferma che è decisivo per il
riconoscimento dell'esenzione Ici dei fabbricati rurali
l'inquadramento catastale. «Qualora l'immobile sia
iscritto in una diversa categoria catastale, sarà onere del
contribuente, che pretenda l'esenzione dall'imposta,
impugnare l'atto di classamento, restando, altrimenti, il
fabbricato medesimo assoggettato a Ici. Allo stesso modo, il
comune dovrà impugnare autonomamente l'attribuzione della
categoria catastale A/6 o D/10, al fine di poter
legittimamente pretendere l'assoggettamento del fabbricato
all'imposta».
Va però posto in evidenza che l'Agenzia del territorio, con
la circolare 2/2012, ha chiarito che non conta più la
classificazione catastale per avere diritto al trattamento
agevolato Ici per i fabbricati rurali. E che possono
mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente
l'annotazione catastale, tranne per i fabbricati strumentali
che siano per loro natura censibili nella categoria D/10.
La circolare ha fornito delle indicazioni sulla corretta
interpretazione delle disposizioni contenute nel decreto
ministeriale emanato il 26.07.2012, che ha stabilito, in
dettaglio, quali adempimenti devono porre in essere i
titolari dei fabbricati interessati a ottenere l'annotazione
negli atti catastali della ruralità, al fine di fruire anche
per l'Imu delle agevolazioni tributarie, così come disposto
dall'articolo 13 del dl «salva Italia» (201/2011).
Domande e autocertificazioni necessarie per il
riconoscimento del requisito di ruralità, redatte in
conformità ai modelli allegati al decreto ministeriale,
avrebbero dovuto essere presentate all'ufficio provinciale
competente per territorio entro il 01.10.2012, al fine di
ottenere l'esenzione anche per gli anni pregressi.
L'eventuale diniego di ruralità è impugnabile innanzi alle
commissioni tributarie.
Infatti, nel caso di esito negativo del controllo sulle
domande e autocertificazioni prodotte dagli interessati,
l'Agenzia è tenuta a notificare un provvedimento motivato
con il quale disconosce il requisito della ruralità. Dagli
atti catastali devono risultare anche le annotazioni
negative sugli immobili, che impediscono ai contribuenti di
poter fruire dei vantaggi fiscali. Anche secondo il
dipartimento delle finanze del ministero dell'economia
(circolare 3/2012) la classificazione catastale non è più
decisiva.
La retroattività delle istanze.
Bisogna ricordare che, ex lege, le variazioni
catastali e le annotazioni di ruralità richieste dai
titolari di fabbricati rurali hanno effetto retroattivo per
i cinque anni antecedenti a quello in cui sono state
presentate le relative domande. Lo prevede l'articolo 2,
comma 5-ter del dl 102/2013, in sede di conversione nella
legge 124/2013.
L'efficacia retroattiva di questa disposizione di
interpretazione autentica può arrivare fino all'anno
d'imposta 2006, considerato che i contribuenti avrebbero
potuto inoltrare le prime istanze di variazione entro il
30.09.2011. In base a questa norma, quindi, le domande di
variazione catastale, disciplinate dall'articolo 7, comma
2-bis, del dl 70/2011, e l'inserimento negli atti catastali
della ruralità degli immobili producono effetti per i cinque
anni antecedenti a quello in cui sono state presentate.
Quindi non c'è più alcun dubbio, come è accaduto in passato,
sulla valenza retroattiva delle istanze. L'efficacia
retroattiva di questa disposizione di interpretazione
autentica può arrivare fino all'anno d'imposta 2006,
considerato che i contribuenti avrebbero potuto inoltrare le
prime domande di variazione entro il 30.09.2011.
Pertanto, produce effetti sulle domande di rimborso già
presentate dai contribuenti e sul contenzioso pendente.
Inoltre, consente di presentare istanze di rimborso ai
contribuenti che possedendo un fabbricato non accatastato in
categoria rurale si sono adeguati alle pronunce della Corte
di cassazione, pagando regolarmente l'Ici (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.11.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ricorso con il servizio postale. Libertà ed
equivalenza per il deposito in cancelleria. Sentenza del
consiglio di stato analizza l'articolo 156 del codice di
procedura civile.
Il ricorso può essere consegnato in cancelleria anche
mediante il servizio postale; ciò in quanto nessuna legge lo
vieta.
Lo ha
stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 30.10.2015 n. 4984.
Dalla lettura dell'art. 156 del codice di procedura civile,
precisa la sentenza, si desume il principio generale che è
quello della libertà o della equivalenza, delle forme degli
atti processuali. Perché ciò che conta è soltanto che la
forma concretamente adottata sia idonea allo scopo voluto
dalla legge.
Sotto questo punto di vista, in pratica, non occorre una
norma espressa per legittimare una determinata forma; ma, al
contrario, occorre una norma espressa per vietarla. Con la
quale se l'invio a mezzo posta non è espressamente
consentito, ma non è neppure espressamente vietato, non si
ha motivo per ritenerlo invalido o inefficace.
Del resto, ha rilevato la terza sezione se i termini
andassero interpretati alla lettera, come ha fatto il
giudice di primo grado che ha escluso l'invio a mezzo posta
perché la legge prevede la consegna, sarebbe illegittimo il
deposito che non avviene effettuato direttamente «dalla
parte» mentre nella prassi il deposito di un atto
(incluso il ricorso introduttivo) può essere effettuato da
un qualsivoglia mandatario, non necessariamente accreditato
o qualificato, al limite neppure identificato. Altra
questione, ha osservato la sezione, è se il supposto divieto
dell'invio a mezzo posta discenda non da una norma espressa
ma da esigenze di ordine pratico.
Il riferimento è ai possibili inconvenienti e disguidi che
potrebbero derivare dall'impersonalità del mezzo, qual è il
servizio postale, e dalla mancanza di un incontro diretto
fra la parte, o chi la rappresenta, e l'operatore che riceve
il deposito.
Pragmatica, comunque, la decisione del consiglio di stato
nella parte in cui evidenzia che ciò che conta è l'effetto
giuridico della scelta del mezzo: quello di porre a carico
di chi se ne avvale i rischi di eventuali disfunzioni o
ritardi inerenti a quel mezzo. Ciò in quanto non si può
estendere al deposito del ricorso giurisdizionale il
principio che ai fini dei termini di decadenza vale la data
di spedizione, non quella di ricevimento dell'atto (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Basta con i professori-avvocati. La professione è
incompatibile con un lavoro dipendente.
Lo hanno stabilito le sezioni unite
dalla Cassazione. Ribaltato l'orientamento precedente.
I docenti delle scuole di ogni ordine e grado possono
esercitare contemporaneamente la professione di avvocato o
svolgere altra attività libero-professionale?
Fino a qualche giorno fa la risposta alla domanda era
positiva alla luce di quanto dispone il comma 15
dell'articolo 508 del decreto legislativo 297/1994 e il
comma 6 dell'articolo 53 del decreto legislativo 165/2001.
«Al personale docente, dispone in particolare il predetto
comma 15, è consentito, previa autorizzazione del direttore
didattico o del preside, l'esercizio di libere professioni
che non siano di pregiudizio all'assolvimento di tutte le
attività ineranti alla funzione docente e siano compatibili
con l'orario di insegnamento e di servizio».
Dallo scorso 28 ottobre, data di pubblicazione della
sentenza
28.10.2015 n. 21949 della Corte di Cassazione, Sezz. Unite
Civili, la risposta alla domanda, certamente per quanto
attiene all'esercizio della professione di avvocato, è di
tutt'altro tenore.
I giudici della Corte hanno infatti ritenuto legittimo, alla
luce di quanto dispongono gli articoli 18 e 19 della legge
247/2012 (l'esercizio della professione forense è
incompatibile con qualsiasi attività di lavoro subordinato
anche se svolto con orario di lavoro parziale, ad accezione
dell'insegnamento di materie giuridiche nelle scuole
secondarie pubbliche), il rigetto da parte del Consiglio
dell'ordine degli avvocati di Milano, della istanza di
iscrizione all'albo degli avvocati di quella città
presentata da una docente di scuola primaria in servizio a
tempo indeterminato in regime di part-time. Una docente in
possesso sia della laurea in giurisprudenza che del
prescritto periodo biennale di pratica professionale e del
superamento dell'esame di abilitazione all'esercizio della
professione forense.
Stante la citata sentenza, nessun docente in servizio nelle
scuole di ogni ordine e grado che non insegni materie
giuridiche potrà ottenere l'iscrizione all'albo degli
avvocati e quindi esercitare la professione forense
congiuntamente all'insegnamento nelle scuole pubbliche.
Una posizione in aperto contrasto con le norme citate in
premessa e con la consuetudine rafforzatasi nel tempo di
consentire a qualsiasi docente di svolgere una attività
libero-professionale, ovviamente se preventivamente
autorizzata del dirigente scolastico, una autorizzazione
che, salvo casi particolari, è stata fino ad oggi sempre
concessa.
La sentenza dei giudici della Corte potrebbe ora riaprire il
dibattito sulla legittimità o meno di ritenere compatibile
con la funzione docente lo svolgimento di una qualsiasi
attività professionale anziché solo di quella che, seppure
teoricamente, potrebbe apportare un contributo migliorativo
all'insegnamento, una finalità quest'ultima che a suo tempo
aveva giustificato, limitatamente al solo personale docente
delle scuole di ogni ordine e grado, la deroga al divieto di
esercitare attività commerciale, industriale e professionale
o di assumere o mantenere impegni alle dipendenze di privati
o accettare cariche in società costituite a fini di lucro
(articolo ItaliaOggi del 17.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
ignora il collegio come la giurisprudenza anche di questa
Sezione abbia più volte avuto modo di chiarire che in caso
di impugnazione da parte del vicino di un permesso di
costruire rilasciato a terzi, il termine di impugnazione
inizia a decorrere in linea di principio dal completamento
dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione
realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine
alla portata dell'intervento.
Al contempo, però, la medesima giurisprudenza ha altresì
precisato che il principio della certezza delle situazioni
giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta, di
converso, che non si possa lasciare il soggetto titolare di
un permesso edilizio nella incertezza circa la sorte del
proprio titolo oltre una ragionevole misura in quanto, nelle
more, il ritardo dell'impugnativa si risolverebbe in un
danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei
lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati
illegittimi.
Infatti, l’anzidetto principio è posto dall'ordinamento a
tutela della posizione di tutte le parti direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento e, pertanto,
anche di quella del soggetto titolare del permesso a non
realizzare una costruzione che sia suscettibile di un
possibile futuro abbattimento.
---------------
Così l'insegnamento giurisprudenziale più sopra richiamato,
di carattere generale come già evidenziato, è stato
ridimensionato nella sua concreta portata attraverso
significativi e sostanziali “correttivi”, in presenza di
svariate situazioni in cui l'ultimazione dei lavori non può
ragionevolmente essere invocata dal vicino quale circostanza
inderogabile da cui far decorrere il termine decadenziale
per l'impugnativa del titolo edilizio ritenuto illegittimo e
lesivo dei propri interessi.
Ed in questo senso la giurisprudenza anche di questa
Sezione, che il collegio pienamente condivide, ha
individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione
della natura delle doglianze mosse nei confronti
dell'intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo
alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto
dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé
e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e
delle attività poste in essere in sede procedimentale o
comunque extra-processuale, non sussistono oggettivamente
ragionevoli motivi che possano legittimare l'interessato ad
una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei
relativi lavori.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo,
determinando una situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contrarie ai principi ordinamentali, come già
precisato.
In altri termini, in ossequio al vecchio brocardo
“diligentibus iura succurrunt”, il vicino che intenda
avversare un intervento edilizio ha il preciso onere di
attivarsi tempestivamente secondo i canoni di buona fede in
senso oggettivo, senza differire colposamente o comunque
senza valida ragione l'impugnativa del relativo titolo alla
fine dei lavori, quando ciò non sia oggettivamente
necessario ai fini ricorsuali.
---------------
2. Con il primo mezzo di censura la società
ricorrente deduce l'erroneità della sentenza impugnata,
laddove ha respinto l'eccezione di tardività del gravame
proposto dai ricorrenti in primo grado, dalla stessa
sollevata in tale sede.
Assume al riguardo la Ecocortinadampezzo che:
- a prescindere dalla tipologia delle censure dedotte “la
percezione di lesività che legittima un'impugnazione
differita a fine lavori vale quando non siano già noti gli
estremi dei permessi di costruire e non ci si sia attivati
per conoscerne i contenuti, mentre nel caso in esame i
ricorrenti erano già ben edotti dell'esistenza e degli
estremi dei tre permessi di costruire fin dal luglio del
2014, essendosi anche attivati per l'estrazione di copia dei
progetti con due distinte e successive istanze di accesso
formale….”;
- pertanto, “i ricorrenti avevano il preciso onere di
impugnarli fin da subito, salva la facoltà di differire la
proposizione di motivi aggiunti eventualmente emergenti da
una più approfondita e successiva analisi degli elementi
anche tecnici o presupposti dei permessi di costruire”.
3. La doglianza è fondata.
4. Ed invero, non ignora il collegio come la giurisprudenza
anche di questa Sezione abbia più volte avuto modo di
chiarire che in caso di impugnazione da parte del vicino di
un permesso di costruire rilasciato a terzi, il termine di
impugnazione inizia a decorrere in linea di principio dal
completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la
costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi
in ordine alla portata dell'intervento.
Al contempo, però, la medesima giurisprudenza ha altresì
precisato che il principio della certezza delle situazioni
giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta, di
converso, che non si possa lasciare il soggetto titolare di
un permesso edilizio nella incertezza circa la sorte del
proprio titolo oltre una ragionevole misura in quanto, nelle
more, il ritardo dell'impugnativa si risolverebbe in un
danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei
lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati
illegittimi (cfr. da ultimo e per tutte Sez. IV 10.06.2014
n. 2959).
Infatti, l’anzidetto principio è posto dall'ordinamento a
tutela della posizione di tutte le parti direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento e, pertanto,
anche di quella del soggetto titolare del permesso a non
realizzare una costruzione che sia suscettibile di un
possibile futuro abbattimento.
Così l'insegnamento giurisprudenziale più sopra richiamato,
di carattere generale come già evidenziato, è stato
ridimensionato nella sua concreta portata attraverso
significativi e sostanziali “correttivi”, in presenza di
svariate situazioni in cui l'ultimazione dei lavori non può
ragionevolmente essere invocata dal vicino quale circostanza
inderogabile da cui far decorrere il termine decadenziale
per l'impugnativa del titolo edilizio ritenuto illegittimo e
lesivo dei propri interessi.
Ed in questo senso la giurisprudenza anche di questa
Sezione, che il collegio pienamente condivide, ha
individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione
della natura delle doglianze mosse nei confronti
dell'intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo
alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto
dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé
e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e
delle attività poste in essere in sede procedimentale o
comunque extra-processuale, non sussistono oggettivamente
ragionevoli motivi che possano legittimare l'interessato ad
una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei
relativi lavori.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo,
determinando una situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contrarie ai principi ordinamentali, come già
precisato.
In altri termini, in ossequio al vecchio brocardo
“diligentibus iura succurrunt”, il vicino che intenda
avversare un intervento edilizio ha il preciso onere di
attivarsi tempestivamente secondo i canoni di buona fede in
senso oggettivo, senza differire colposamente o comunque
senza valida ragione l'impugnativa del relativo titolo alla
fine dei lavori, quando ciò non sia oggettivamente
necessario ai fini ricorsuali
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2015 n. 4909 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
legittimità -o meno- di poter venire a
conoscenza della documentazione contabile afferente
all’erogazione della retribuzione di risultato in favore
degli altri dirigenti.
L’esercizio del diritto di accesso è
autorizzato solo se sostenuto dall’esigenza di tutelare un
interesse giuridicamente rilevante, intendendosi per tale un
interesse serio, effettivo, concreto, attuale e, in
definitiva, ricollegabile all’istante da un preciso e ben
identificabile nesso funzionale alla realizzazione di
esigenze di giustizia.
Nel caso di specie, la conoscenza della documentazione
rimasta riservata non risulterebbe idonea a soddisfare alcun
apprezzabile interesse, tanto meno collegato ad esigenze di
difesa giurisdizionale, attesa l’assoluta irrilevanza, a
qualsiasi fine di tutela dei suoi interessi, del mero
confronto della sua retribuzione di risultato con quella
riconosciuta ai suoi colleghi (in ragione dell’autonomia e
dell’indipendenza delle relative posizioni soggettive).
... per la riforma della sentenza del TAR LAZIO-ROMA:
SEZ. III-quater n. 8139/2015, resa tra le parti,
concernente diniego accesso alla documentazione contabile
riguardante capitolo di bilancio della retribuzione di
risultato dei dirigenti di prima fascia;
...
3.- Prima di esaminare la fondatezza del gravame, appare,
tuttavia, necessaria la preliminare definizione dell’oggetto
del giudizio, al fine di circoscrivere la disamina del
ricorso alla materia effettivamente (e ancora) controversa.
In attuazione ed in coerenza con la decisione assunta in
data 28.10.2014 dalla Commissione per l’accesso alla
documentazione amministrativa, investita della questione
dall’odierno ricorrente, l’INPS provvedeva, con la nota in
data 09.12.2014 (qui impugnata), a consentire l’accesso
dell’interessato a tutte le informazioni direttamente
attinenti alla misura degli importi erogati al richiedente a
titolo di retribuzione di risultato e di riparto dei residui
del fondo dirigenti di prima fascia, per ciascuno degli anni
considerati, nonché, per ognuno dei corrispondenti esercizi
di bilancio, agli importi (impegnati ed erogati) del fondo
retribuzione di risultato, continuando a negare l’ostensione
della residua documentazione richiesta, per la rilavata
assenza dei requisiti attinenti alla specificità
dell’oggetto ed alla concretezza dell’interesse.
In esito alla predetta determinazione, residua, quindi,
quale materia controversa, la sola conoscenza della
documentazione contabile afferente all’erogazione della
retribuzione di risultato in favore degli altri dirigenti di
prima fascia (essendo stato, per il resto, compiutamente
soddisfatto l’interesse conoscitivo dell’interessato), con
la conseguenza che il presente scrutinio dev’essere limitato
alla sola disamina della spettanza dell’accesso ad essa.
4.- Così definito e circoscritto il perimetro della presente
indagine, risulta agevole rilevare che, in relazione alla
pretesa conoscenza della documentazione relativa alla
retribuzione di risultato riconosciuta ad altri dirigenti,
non appare configurabile, in capo all’odierno ricorrente,
alcun interesse meritevole di tutela, azionabile con il
rimedio peculiare apprestato dall’art. 116 c.p.a..
E’ sufficiente, al riguardo, rilevare che l’esercizio del
diritto di accesso è autorizzato solo se sostenuto
dall’esigenza di tutelare un interesse giuridicamente
rilevante, intendendosi per tale un interesse serio,
effettivo, concreto, attuale e, in definitiva, ricollegabile
all’istante da un preciso e ben identificabile nesso
funzionale alla realizzazione di esigenze di giustizia (cfr.
ex multis Cons. St., sez. V, 23.09.2015, n. 4452),
per concludere che, nel caso di specie, la conoscenza della
documentazione rimasta riservata non risulterebbe idonea a
soddisfare alcun apprezzabile interesse, tanto meno
collegato ad esigenze di difesa giurisdizionale, del Dr. To.,
attesa l’assoluta irrilevanza, a qualsiasi fine di tutela
dei suoi interessi, del mero confronto della sua
retribuzione di risultato con quella riconosciuta ai suoi
colleghi (in ragione dell’autonomia e dell’indipendenza
delle relative posizioni soggettive).
Ne consegue, pertanto, l’assenza, nella fattispecie,
dell’indefettibile presupposto della sussistenza di un
interesse idoneo a legittimare (secondo la regolazione
contenuta negli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del
1990) la valida attivazione del rimedio nella specie
azionato.
L’INPS risulta, peraltro, adempiente agli obblighi di
trasparenza, quanto alla pubblicazione sul sito
istituzionale di tutte le componenti della retribuzione dei
dirigenti, sanciti dall’art. 15, comma 1, d.lgs. n. 33 del
2013, sicché, anche sotto tale profilo, la pretesa del
ricorrente deve ritenersi priva di fondamento.
5.- Alla stregua delle considerazioni che precedono,
l’appello dev’essere, quindi, respinto (Consiglio di Stato,
Sez. II,
sentenza 27.10.2015 n. 4903 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
corretta quantificazione della sanzione ex art. 37 DPR
380/2001 per l'esecuzione abusiva di opere di tombinamento
di un fosso.
Le opere eseguite (tombinamento di un
fosso in assenza di d.i.a.) contribuiscono oggettivamente ad
un miglioramento complessivo della fruibilità della villa
che si giova di una più ampia e meglio accessibile area
pertinenziale e, pertanto, la tesi dei ricorrenti secondo la
quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito
al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento
non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per
stimare il valore dell’incremento del valore della villa
appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una
recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive
di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un
altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati
precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare
dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere
pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il
Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di
stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo
delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che
il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza
possa ritenersi aumentato quantomeno in misura
corrispondente a quanto speso per i materiali e la
manodopera.
---------------
... per
l'annullamento del provvedimento comunale 13.07.2009 n. 7173
di applicazione sanzione pecuniaria riferita all’esecuzione
di opere di tombinamento di un fosso in assenza di d.i.a. ed
atti connessi.
...
I ricorrenti, proprietari di una villa sita nel Comune di
Loreggia, hanno effettuato, senza alcun titolo abilitativo,
il tombinamento di un fosso sul lato nord della proprietà
per una lunghezza di circa 180 m. mediante la posa di
tubazioni in calcestruzzo, pozzetti e il riempimento di
materiale vegetale.
Poiché le opere, stante il divieto di realizzare il
tombinamento o la chiusura di fossi prevista dalla
valutazione di compatibilità idraulica recepita dallo
strumento urbanistico, non sono state ritenute sanabili, il
Comune ha applicato la sanzione di cui all’art. 37, comma 1,
del DPR 06.06.2001, n. 380, che prevede una sanzione
pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile conseguente alla realizzazione degli
interventi stessi, quantificata in € 21.600,00.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti contestano la
correttezza della quantificazione dell’ammontare della
sanzione lamentando in via principale l’erroneità del
criterio adottato dal Comune che, anziché valutare
l’incremento di valore prima e dopo l’esecuzione dei lavori,
si è riferito al costo sostenuto per l’esecuzione delle
opere, e sostengono che pertanto il calcolo corretto
dell’aumento del valore venale dell’immobile non avrebbe
dovuto essere riferito all’incremento di valore della villa,
ma a quello relativo alla sola striscia di terreno
recuperata a seguito del tombinamento.
Secondo la loro prospettazione il Comune avrebbe dovuto
tener conto del solo valore della superficie del terreno
agricolo recuperato, applicando una sanzione finale di €
2.040,00.
In via subordinata, lamentano il difetto di istruttoria
deducendo che il Comune, senza effettuare una ricerca di
mercato, ha arbitrariamente valutato in € 10.800,00 il costo
dell’opera senza considerare gli effettivi costi sostenuti
ammontanti invece ad € 6.000,00,.
Si è costituito in giudizio il Comune replicando alle
censure proposte e concludendo per la reiezione del ricorso.
Con ordinanza n. 1165 del 17.12.2009, è stata accolta la
domanda cautelare.
Alla pubblica udienza dell’08.10.2015, la causa è stata
trattenuta in decisione.
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase
cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere
respinto.
Le opere eseguite contribuiscono oggettivamente ad un
miglioramento complessivo della fruibilità della villa che
si giova di una più ampia e meglio accessibile area
pertinenziale e pertanto la tesi dei ricorrenti secondo la
quale l’incremento di valore avrebbe dovuto essere riferito
al solo sedime di terreno agricolo ricavato dal tombinamento
non è condivisibile.
Inoltre il riferimento al criterio del costo delle opere per
stimare il valore dell’incremento del valore della villa
appare legittimo.
Infatti il tombinamento del fossato, al pari di una
recinzione o di altri manufatti similari, sono opere prive
di autonomia e per loro natura sono poste al servizio di un
altro immobile e ciò non consente di fare riferimento a dati
precisi per poter calcolare in modo preciso l’ammontare
dell’aumento del valore venale dell’immobile a cui le opere
pertinenziali sono poste a servizio.
Per ovviare a tale problema, non appare incongruo che il
Comune possa fare riferimento a predeterminati criteri di
stima di carattere forfettario o, in mancanza, al costo
delle opere, criterio che si fonda sulla considerazione che
il valore dell’immobile di cui costituiscono pertinenza
possa ritenersi aumentato quantomeno in misura
corrispondente a quanto speso per i materiali e la
manodopera.
Le censure di cui al primo motivo devono pertanto essere
respinte.
Parimenti infondata è anche la censura di cui al secondo
motivo, perché dalla documentazione versata in atti, e non
contestata dai ricorrenti, risulta che il Comune,
contrariamente a quanto dedotto, non si è determinato in
modo arbitrario nello stimare il costo delle opere, ma si è
riferito ad una somma inferiore a quella dei costi medi
rilevabili sul mercato, come comprovano i due preventivi di
spesa acquisiti dal Comune da due diverse ditte che,
calcolando analiticamente i lavori da eseguire e i materiali
da utilizzare, hanno quantificato in € 11.700,00, ed €
14.100,00, i costi complessivi necessari all’esecuzione del
tombinamento, e ciò è sufficiente a comprovare la non
arbitrarietà della stima e l’inattendibilità dei dati
forniti dai ricorrenti che si sono limitati a depositare in
giudizio una fattura priva dell’esposizione analitica dei
costi secondo la quale la spesa sostenuta è stata di €
6.000,00.
In definitiva il ricorso deve essere respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 26.10.2015 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Sì all’avviso Ici notificato con la Pec.
Accertamento. Per la Ctp Matera è legittima la modalità
adottata dall’ente impositore.
Sì all’avviso di accertamento Ici notificato via Pec (posta
elettronica certificata) dal Comune. La trasmissione di un
documento informatico attraverso la posta elettronica
certificata equivale infatti, salvo che la legge non
disponga diversamente, alla notificazione a mezzo posta.
Ad affermarlo è
stata la Commissione tributaria provinciale di Matera con la
sentenza 26.10.2015 n. 447/1/2015.
Una società ha impugnato l’avviso di ingiunzione di
pagamento emesso da un Comune per il recupero dell’Ici
sostenendo di non avere mai ricevuto gli avvisi di
accertamento sottostanti all’ingiunzione impugnata.
Nel costituirsi l’ente locale ha, invece, chiesto il rigetto
del ricorso in quanto gli atti prodromici all’ingiunzione di
pagamento erano stati tutti validamente notificati tramite
Pec presso l’indirizzo di posta elettronica certificata
dell’azienda per come emergeva dalla documentazione che
esibiva.
Senza entrare nel merito della controversia, la Commissione
tributaria provinciale di Matera ha rigettato il ricorso
dando ragione all’amministrazione comunale. In particolare,
i giudici lucani hanno fatto presente che in base
all’articolo 48 del Codice dell’amministrazione digitale
(Cad) -relativo proprio alla posta elettronica certificata– la trasmissione telematica di comunicazioni che
necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di
consegna, avviene mediante posta elettronica certificata. Il
comma 2 della disposizione prevede, inoltre, che la
trasmissione del documento informatico per via telematica,
effettuata in virtù del comma 1, equivale alla notificazione
a mezzo posta, a meno che la legge disponga diversamente.
Per questi motivi il collegio giudicante di Matera ha
ritenuto che, alla luce dell’articolo 48 del Codice
dell’amministrazione digitale, il perfezionamento della
notifica a mezzo posta elettronica certificata è
perfettamente analogo a quello sancito per il
perfezionamento della notifica a mezzo posta. In questo
modo, poiché era stato dimostrato che gli avvisi di
accertamento erano stati tutti notificati validamente ed
erano divenuti definitivi perché non opposti nei termini di
legge, la Ctp ha rigettato il ricorso proposto avverso la
successiva ingiunzione di pagamento.
Più in generale, è opportuno ricordare che la notifica
tramite pec può riguardare le imprese costituite in forma
societaria che sono tenute ad indicare il proprio indirizzo
di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione
nel registro delle imprese. Allo stesso modo i
professionisti, iscritti in albi ed elenchi, sono tenuti a
comunicare ai rispettivi Ordini o Collegi il proprio
indirizzo di posta elettronica certificata. Per i privati
cittadini non esiste, invece, l’obbligo di attivare una
casella di posta elettronica certificata.
Infine, per il mittente la notifica si ha per compiuta nel
momento in cui il documento informatico è stato trasmesso al
proprio server, mentre per il destinatario la notificazione
è perfezionata allorquando il documento è per lui
accessibile perché presente nella sua casella di posta
elettronica (articolo Il Sole 24 Ore del 18.11.2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Recupero rifiuti con la qualifica.
La Cassazione: la p.a. deve verificare.
La procedura di rinnovo dell'attività di recupero dei
rifiuti non può essere considerata come una mera formalità e
presuppone comunque la verifica, da parte
dell'amministrazione competente della sussistenza dei
requisiti e presupposti richiesti dalla legge per
l'esercizio di tale attività. Pertanto in sede di rinnovo
della comunicazione per l'esercizio dell'attività di
recupero di rifiuti l'inosservanza delle prescrizioni
disposte dalla Provincia configura il reato di gestione
illecita di rifiuti.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione,
Sez. III penale, con la
sentenza 23.10.2015 n. 41049.
Deve affermarsi il
principio secondo il quale ai sensi dell'art. 216 del dlgs
n. 252 del 2006 l'amministrazione provinciale è tenuta a
effettuare, anche in sede di rinnovo della comunicazione la
medesima verifica e sussistenza dei requisiti richiesti
dalla legge in sede di prima comunicazione. Il 5 comma
dell'articolo 216 del dlgs n. 252 del 2006 stabilisce che la
comunicazione deve essere rinnovata ogni cinque anni e
comunque in caso di modifica sostanziale delle operazioni di
recupero.
Il quarto comma dello stesso articolo statuisce che la
provincia, qualora accerti il mancato rispetto delle norme
tecniche e delle condizioni richieste, dispone, con
provvedimento motivato, il divieto di inizio ovvero di
prosecuzione dell'attività, salvo che l'interessato non
provveda a conformare alla normativa vigente detta attività
e i suoi effetti entro il termine e secondo le prescrizioni
stabiliti dall'amministrazione. Il potere
dell'amministrazione provinciale di imporre specifiche
prescrizioni è dunque previsto dalla legge e nulla esclude
che possa essere esercitato anche in sede di rinnovo della
comunicazione.
Invero la procedura di rinnovo di rinnovo dell'attività di
recupero dei rifiuti non può essere considerata come una
mera formalità e presuppone comunque la verifica, da parte
dell'amministrazione competente, della sussistenza dei
requisiti e presupposti richiesti dalla legge per
l'esercizio di tale attività
(articolo ItaliaOggi del 06.11.2015).
---------------
MASSIMA
3. Considerati dunque i dati fattuali evidenziati nel
provvedimento impugnato e sulla base degli altri elementi
ricavabili dal ricorso, unici atti a disposizione del
Collegio, deve escludersi la sussistenza della dedotta
violazione di legge.
L'art. 216 d.lgs. 152/2006 stabilisce, al comma 5, che la
comunicazione per l'esercizio di attività di recupero di
rifiuti deve essere rinnovata ogni cinque anni e, comunque,
in caso di modifica sostanziale delle operazioni di
recupero.
Il comma 4 della medesima disposizione specifica, inoltre,
che nel caso in cui venga accertato il mancato rispetto
delle norme tecniche e delle condizioni di cui al comma 1,
la provincia dispone, con provvedimento motivato, il divieto
di inizio ovvero di prosecuzione dell'attività, salvo che
l'interessato non provveda a conformare alla normativa
vigente detta attività ed i suoi effetti entro il termine e
secondo le prescrizioni stabiliti dall'amministrazione.
Il potere dell'amministrazione provinciale di imporre
specifiche prescrizioni è dunque previsto dalla legge e
nulla esclude che possa essere esercitato anche in sede di
rinnovo della comunicazione.
Invero la procedura di rinnovo non può essere considerata
come una mera formalità e presuppone comunque la verifica,
da parte dell'amministrazione competente, della sussistenza
dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge per
l'esercizio dell'attività di recupero, verifica che il comma
3 dell'art. 216 impone, stabilendo che sia effettuata
d'ufficio sulla base della relazione che lo stesso comma
prevede debba essere allegata alla comunicazione di inizio
di attività.
Ne consegue che, in presenza di provvedimenti inibitori
emessi dall'amministrazione, l'inizio o la prosecuzione
dell'attività di recupero deve ritenersi effettuata in
assenza di valido titolo abilitativo, configurandosi il
reato di illecita gestione di cui all'art. 256 d.lgs.
152/2006, poiché il procedimento finalizzato al
conseguimento del titolo non può ritenersi completato.
4. Deve conseguentemente affermarsi il principio secondo il
quale
ai sensi dell'art. 216 d.lgs. 152/2006 l'amministrazione
provinciale è chiamata ad effettuare, anche in relazione al
rinnovo della comunicazione di cui al comma 5 la medesima
verifica della sussistenza dei requisiti e delle condizioni
richieste dalla legge in sede di prima comunicazione e
l'espletamento dell'attività in presenza di provvedimento di
divieto di inizio o di prosecuzione, emesso ai sensi del
comma 4, deve ritenersi effettuato in assenza di
comunicazione e sanzionabile ai sensi dell'art. 256, comma
1, d.lgs. 152/2006. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Legali p.a., diritto ai compensi. Deve essere
certo il tempo dell'effettiva liquidazione. Il Tar Campania
delinea il perimetro per l'erogazione delle somme dopo il dl
90/2014.
Diritto degli avvocati dipendenti degli enti pubblici di
percepire i compensi professionali (cc.dd. propine) a
seguito dell'esito vittorioso della lite patrocinata.
I criteri per l'erogazione dei compensi professionali agli
avvocati degli enti pubblici dopo il dl n. 90/2014 sono
stati precisati dal TAR Campania–Napoli, Sez. V, con
la
sentenza 23.10.2015 n. 5025.
L'occasione è stata il
ricorso presentato dagli avvocati della Città metropolitana
di Napoli (già Provincia di Napoli), inquadrati nella
relativa dotazione organica in cat. D3 (ex 8 q.f.), con il
quale era stato impugnato il regolamento per la
corresponsione dei compensi professionali al personale
togato (di cui all'art. 9 del decreto legge 24.06.2014
n. 90, convertito in legge con modificazioni dall'art. 1,
comma 1, legge 11.08.2014 n. 114), approvato dalla
Provincia di Napoli, contestandone la legittimità.
Dalla sentenza emergono questi tre elementi:
a) il diritto degli avvocati dipendenti degli enti pubblici
di percepire i compensi professionali (cc.dd. propine) a
seguito dell'esito vittorioso della lite patrocinata,
indipendentemente dal fatto che, detto esito, sia stato
conseguito in forza di una sentenza che abbia deciso nel
merito la causa, ovvero di un provvedimento giurisdizionale
che abbia definito il giudizio per perenzione, per rinuncia
al ricorso, o, in generale, per inattività della parte
ricorrente, nonché, ancora, per effetto della conclusione di
un accordo transattivo;
b) il tempo della effettiva liquidazione dei suddetti
compensi professionali deve essere certo; secondo il Tar
Napoli, infatti, il difetto, nel regolamento, della
previsione di un termine (possibilmente perentorio) entro
cui provvedere alla concreta erogazione delle cc.dd. propine
elude, verosimilmente anche sine die, le legittime
aspettative degli avvocati aventi diritto, e quindi,
contrasta con i principi di cui all'art. 97 Cost.;
c) deve essere disposto il tetto massimo oltre il quale i
compensi professionali in questione non possono essere
erogati in favore degli avvocati pubblici.
Per quanto concerne questo ultimo aspetto i giudici
amministrativi hanno rilevato che gli avvocati dipendenti di
enti pubblici ed iscritti nell'albo speciale annesso
all'albo professionale godono già di tutte le garanzie e le
prerogative (economiche e giuridiche) connesse al pubblico
impiego.
Stando così le cose la determinazione legislativa di un
limite massimo alla liquidazione dei compensi professionali
appare un equo contemperamento tra il diritto degli avvocati
dipendenti a un'equa retribuzione, proporzionata alla
quantità e qualità dell'attività svolta (art. 36 Cost.) e la
necessità di salvaguardare la tenuta dei conti pubblici,
tenendo conto che, in caso di sentenza favorevole con
compensazione delle spese di lite, la liquidazione dei
compensi professionali spettanti avviene a totale carico del
bilancio dell'Ente di appartenenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'apprezzamento
di merito sul parere espresso dalla Soprintendenza è
sindacabile in giustizia amministrativa solamente per
manifesta erroneità o illogicità.
Invero, l’apprezzamento dell’organismo territoriale del
Mibact, in quanto avente contenuto tecnico–discrezionale, è
assoggettato esclusivamente a un sindacato giurisdizionale
esterno, svolto nei limiti:
- della verifica della corretta percezione da parte
dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del
provvedere, della completezza dell’istruttoria;
- della ragionevolezza della scelta compiuta in relazione
alla fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle
ragioni della decisione,
e che questo giudice d’appello non può sostituire la propria
valutazione a quella rientrante nei poteri
dell’Amministrazione.
---------------
Per consolidata giurisprudenza, in tema di autorizzazione
paesaggistica la disparità di trattamento è vizio assai
difficilmente riscontrabile, atteso il giocoforza diverso
impatto sul paesaggio di due progetti, quand’anche simili
tra loro.
---------------
Tuttavia, non appare inutile soggiungere che:
- sulla contestazione, in sede giudiziale, del parere della
Soprintendenza, in modo condivisibile la sentenza ha
evidenziato come l’interessata avesse inteso contrapporre,
inammissibilmente, una diversa valutazione di merito a
quella della Soprintendenza, puntualmente motivata con
riferimento al pregiudizio arrecato dalle dimensioni
dell’abuso edilizio al contesto panoramico tra la linea di
costa già edificata e l’antistante sistema naturalistico
dunale. Apprezzamento di merito sindacabile in giustizia
amministrativa solamente per manifesta erroneità o
illogicità, che nella fattispecie non si ravvisano (ex
multis, Cons. Stato, VI, 17.09.2012, n. 4759;
08.05.2015, n. 2675, dove si precisa che l’apprezzamento
dell’organismo territoriale del Mibact, in quanto avente
contenuto tecnico–discrezionale, è assoggettato
esclusivamente a un sindacato giurisdizionale esterno,
svolto nei limiti della verifica della corretta percezione
da parte dell’organo pubblico dei presupposti di fatto del
provvedere, della completezza dell’istruttoria; della
ragionevolezza della scelta compiuta in relazione alla
fattispecie concreta, della adeguata esternazione delle
ragioni della decisione; e che questo giudice d’appello non
può sostituire la propria valutazione a quella rientrante
nei poteri dell’Amministrazione);
- la disparità di trattamento denunciata (v. sopra, p. 4.1.)
non può avere ingresso. Per consolidata giurisprudenza, in
tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di
trattamento è vizio assai difficilmente riscontrabile,
atteso il giocoforza diverso impatto sul paesaggio di due
progetti, quand’anche simili tra loro (Cons. Stato, VI,
13.02.1984, n. 81; 08.08.2000, n. 4345; 24.10.2008, n. 5267;
11.09.2013, n. 4497; 05.03.2014, n. 1059; 01.04.2014, n.
1559; 10.02.2015, n. 718)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.10.2015 n. 4875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Entrate k.o. per lite temeraria. Punito il
tentativo di giustificare l'accertamento tardivo.
La Ctp Milano ha deciso che l'Agenzia dovrà
versare 35 mila euro di risarcimento.
Fisco condannato per lite temeraria. L'Agenzia delle entrate
dovrà versare 35 mila euro di risarcimento a un'impresa per
avere emesso (e poi successivamente difeso in giudizio) un
accertamento notificato oltre la scadenza dei termini di
decadenza dell'azione accertatrice.
Così ha deciso la Ctp Milano con la sentenza 23.10.20154 n. 8502/15/15, accogliendo il ricorso di
un'azienda che si era vista richiedere dall'erario più di 21
milioni di euro, tra imposte, sanzioni e interessi.
Tutto
inizia nel 2002 con una verifica della guardia di finanza.
Secondo le Fiamme gialle l'impresa era esterovestita: pur
essendo formalmente residente in Olanda, la sede effettiva
era in Italia e quindi doveva essere considerata dal punto
di vista fiscale come un soggetto residente. Il conseguente
avviso di accertamento, però, veniva emanato dall'Agenzia
delle entrate solo nel febbraio 2014, ossia circa 12 anni
dopo i rilievi della Gdf.
L'ufficio recuperava a tassazione
per gli anni 2001 e 2002 dividendi e plusvalenze incassati
dal soggetto olandese ma che, secondo il fisco, avrebbero
dovuti essere dichiarati e tassati in Italia: ai 10 milioni
euro di imposte evase, si aggiungevano 11 milioni di
sanzioni.
A parere del fisco, nessun termine di prescrizione
tributaria era stato violato: i cinque anni a disposizione
per i controlli in caso di omessa dichiarazione dovevano
infatti ritenersi raddoppiati in quanto le somme evase
superavano le soglie di punibilità penale previste dal dlgs
n. 74/2000. Ai 10 anni così determinati, doveva poi essere
aggiunta l'ulteriore proroga di termini sancita
dall'articolo 10 della legge n. 289/2002. Una tesi però
immediatamente confutata dalla società contribuente, che
impugnava la rettifica invocando la prescrizione delle
annualità accertate. Trovando accoglimento da parte dei
magistrati tributari.
Secondo la Ctp Milano, infatti, il
raddoppio dei termini in presenza di reato non può cumularsi
con eventuali prolungamenti previsti da altre disposizioni.
Come già stabilito dalla sentenza n. 247/2011 della Corte
costituzionale. In caso contrario, infatti, si arriverebbe a
tempi per l'accertamento «irragionevolmente lunghi». I
giudici meneghini non si limitano però ad applicare tale
principio di diritto, ritenendo che l'Agenzia sia incorsa in
una «responsabilità aggravata per lite temeraria». Pur
avendo avuto a disposizione 10 anni per la notifica delle
contestazioni, gli accertamenti sono partiti solo nel 2014,
causando alla società «un evidente danno e rilevanti
disagi».
Una scelta, quella di procedere comunque alla
rettifica fuori tempo massimo, che a giudizio della Ctp
deriva da una «precisa volontà di evitare responsabilità
discendenti dall'omessa notifica degli avvisi di
accertamento entro i termini ordinari, anche in
considerazione dei rilevanti ammontari oggetto degli
stessi».
«La Ctp di Milano ha affermato la responsabilità
aggravata dell'Agenzia delle entrate, perché quest'ultima,
nonostante fosse decaduta dal potere di emettere gli
accertamenti, aveva cercato di occultare tale decadenza
mediante la elaborazione di una tesi del tutto priva di
fondamento e caratterizzata da un evidente scopo «elusivo»,
volto all'aggiramento delle disposizioni applicabili in
materia», commenta Giulio Andreani, senior advisor di Dla
Piper (che ha difeso in giudizio la società), «in altri
termini, la legge esiste per tutti: la devono rispettare i
contribuenti, ma anche l'amministrazione finanziaria e nulla
giustifica la sua violazione da parte di qualsiasi soggetto»
(articolo ItaliaOggi del 07.11.2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Compensazione spese debitamente motivata.
La compensazione delle spese deve essere debitamente
motivata anche in caso di cessazione della materia del
contendere.
Questo è quanto ha precisato il Consiglio di stato, sez. III
con la
sentenza 23.10.2015 n. 4887.
Nel caso in esame era stato presentato ricorso per far
dichiarare l'illegittimità del silenzio mantenuto
dall'Amministrazione dell'interno su una domanda di
concessione della cittadinanza italiana. L'amministrazione
intimata, però, aveva fatto presente di aver già emanato il
decreto di conferimento.
Con sentenza del Tar Lazio veniva così dichiarata la
cessazione della materia del contendere e veniva disposta la
compensazione delle spese di giudizio giustificandola con
«la grande mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del
rilevante numero richieste di cittadinanza italiana».
Veniva allora proposto appello, limitatamente al capo
relativo alla compensazione delle spese.
Il Consiglio di stato lo ha accolto.
Il Collegio, infatti, rileva come non emerga alcuna causa
giustificativa della compensazione delle spese. Negando
anche che una giustificazione si possa rinvenire nella
circostanza «della grande mole di lavoro gravante sugli
uffici a causa del rilevante numero richieste di
cittadinanza italiana»
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015).
---------------
MASSIMA
1. L’appellante, già ricorrente in primo grado,
nell’anno 2014 ha proposto davanti al TAR del Lazio un
ricorso (R.G. 3552/2014) con il rito dell’art. 117 c.p.a.
per far dichiarare l’illegittimità del silenzio mantenuto
dall’Amministrazione dell’Interno sulla sua domanda di
concessione della cittadinanza italiana.
Il ricorso è stato discusso alla camera di consiglio del
30.10.2014; ed è stato definito con la sentenza n. 274/2015,
pubblicata il 09.01.2015.
La sentenza dà atto che «con nota del 2.10.2014,
l'amministrazione intimata ha rappresentato di aver emanato
il decreto di conferimento della cittadinanza italiana»
e conseguentemente dichiara cessata la materia del
contendere.
Infine, la sentenza così conclude: «Sussistono giusti
motivi per disporre la compensazione delle spese del
presente giudizio, tenuto conto –come è noto– della grande
mole di lavoro gravante sugli uffici a causa del rilevante
numero richieste di cittadinanza italiana».
2. L’interessato propone appello a questo
Consiglio, limitatamente al capo relativo alla compensazione
delle spese.
L’appellante sostiene, in sintesi, che l’evoluzione della
disciplina delle spese del giudizio, nel processo
amministrativo come in quello civile, è da tempo ispirata ad
una progressiva riduzione dei margini di discrezionalità che
consentono al giudice di derogare al principio che la parte
soccombente deve rimborsare le spese alla parte vittoriosa;
nonché all’aggravamento dell’onere di motivare l’eventuale
compensazione.
Nella specie, peraltro –prosegue l’appellante– la
motivazione data in concreto dalla sentenza appellata è
incongrua.
L’Amministrazione appellata si è costituita per resistere
all’appello, con argomentate memorie.
Il ricorso è ora passato in decisione con rito camerale.
3. Il Collegio osserva innanzi tutto che, pur non essendosi
il TAR pronunciato esplicitamente sul punto, si può ritenere
sostanzialmente incontroverso che il ricorso proposto in
primo grado fosse fondato. Ed invero, il fatto stesso che il
TAR, nel disporre la compensazione delle spese, abbia
ritenuto necessario giustificare tale decisione con
riferimento ai gravosi compiti dell’Amministrazione, lascia
intendere che quel Collegio avrebbe ritenuto altrimenti
doveroso liquidare le spese in favore del ricorrente in base
al criterio della c.d. soccombenza virtuale; ciò implica e
sottintende, a sua volta, che il TAR riteneva che il ricorso
del privato sarebbe stato accolto, se non fosse sopravvenuto
il provvedimento che faceva cessare la materia del
contendere.
In altre parole, il ricorso al TAR contro il silenzio era
ammissibile e fondato; così come ammissibile e fondata era
la domanda di concessione della cittadinanza italiana, tanto
è vero che l’Amministrazione l’ha accolta, sia pure
tardivamente.
4. Ma, se questo è vero, la soccombenza dell’Amministrazione
era certa e piena, e solo formalmente è stata evitata una
pronuncia in tal senso, grazie al fatto sopravvenuto.
Sin qui, pertanto, non emerge alcuna causa giustificativa,
per quanto opinabile, della compensazione delle spese. Resta
da vedere se una giustificazione si possa rinvenire nella
circostanza «della grande mole di lavoro gravante sugli
uffici a causa del rilevante numero richieste di
cittadinanza italiana».
Ad avviso di questo Collegio, la risposta deve essere
negativa.
Si prende atto dei dati forniti dalla
difesa dell’Amministrazione, i quali in effetti confermano
che il numero di tali domande è andato crescendo negli
ultimi due decenni, sino a superare –per ora– la quota di
centomila istanze per anno. Ma proprio perché si tratta di
un fenomeno di lungo periodo, e altresì in crescita
costante, esso non può essere addotto come scusante della
sistematica violazione dei termini stabiliti per la
conclusione dei procedimenti.
Si dovrebbero, semmai, adottare le misure più opportune, che
non spetta a questo Collegio indicare, ma che potrebbero
consistere, ad esempio, nel potenziamento degli uffici
addetti; ovvero nello snellimento delle procedure; o anche
nella previsione di termini più realistici e più aderenti
alla reale capacità di evasione delle pratiche in parola.
5. Si deve aggiungere che non costituisce vizio della
sentenza il fatto che essa non abbia disposto il rimborso (a
carico dell’amministrazione soccombente) del contributo
unificato. Come risulta dalla normativa in materia (art. 13,
comma 6-bis, del d.lgs. n. 115/2002) e come confermato dalla
giurisprudenza (anche di questa Sezione) il rimborso del
contributo unificato è dovuto ex lege anche quando
sia stata disposta la compensazione delle spese, sempreché
la decisione sia favorevole alla parte che lo ha versato.
6. In conclusione, l’appello deve essere accolto, e in
riforma della sentenza appellata l’Amministrazione deve
essere condannata al pagamento delle spese relative al primo
grado.
Il loro importo sarà liquidato in misura congrua al limitato
impegno difensivo inerente al ricorso contro il silenzio,
per il carattere sommario e camerale del rito, e perché la
parte ricorrente non deve dare altra dimostrazione che
quella di avere presentato una istanza e che la relativa
pratica non è stata definita nel termine prescritto. |
APPALTI:
Cause di esclusione, decide la p.a. appaltante.
Tribunale amministrativo regionale per la
Calabria.
La circostanza della ricorrenza o meno della causa di
esclusione dell'art. 38, comma, 1, lett. f), del dlgs 163/2006
costituisce un giudizio rimesso integralmente alla stazione
appaltante, pertanto, mentre in relazione ai fatti è
possibile immaginare una dichiarazione falsa o non
veritiera, alla medesima conclusione non può pervenirsi in
relazione a un giudizio di competenza della pubblica
amministrazione.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del TAR Calabria-Catanzaro
con la
sentenza 23.10.2015 n. 1634.
Si osserva, per completezza di notazione di commento, che ai
sensi dell'art. 38, comma 1, lett. f) cit., sono esclusi i
soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione
appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede
nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione
appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un
errore grave nell'esercizio della loro attività
professionale accertato con qualsiasi mezzo di prova da
parte della stazione appaltante.
E inoltre secondo i giudici di Catanzaro, la dichiarazione
resa può ritenersi fuorviante o non esauriente rientrando
nella competenza della pubblica amministrazione
l'accertamento, con qualsiasi mezzo di prova, come recita la
disposizione, della sussistenza del presupposto in
questione.
Il thema decidendum
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici
amministrativi calabresi, non veniva in rilievo la prima
ipotesi disciplinata dalla norma in quanto non si trattava
di una negligenza commessa nei confronti della stazione
appaltante che bandiva la gara. Si trattava, bensì,
dell'allegazione di un fatto che sarebbe idoneo a costituire
un errore grave nell'esercizio dell'attività professionale,
come previsto dalla seconda ipotesi della disposizione.
Dalla lettura della dichiarazione resa e dalle allegazioni
delle parti non emergeva anzitutto l'esistenza di una falsa
dichiarazione. L'aggiudicatario aveva dichiarato in maniera
adeguatamente circostanziata i tratti peculiari della
vicenda che l'hanno interessato descrivendo e rappresentando
le argomentazioni per le quali a suo giudizio tali fatti non
siano idonei a integrare la fattispecie della disposizione
citata.
Nel caso di specie, l'aggiudicataria aveva descritto e
dichiarato un fatto ritenendolo non idoneo a integrare la
norma indicata, rimettendo tuttavia alla stazione appaltante
l'esame del fatto stesso al fine di verificarne la
riconducibilità alla fattispecie.
Quindi, nella mera dichiarazione di non ricorrenza
dell'ipotesi di cui alla lett. f) citata non può ipotizzarsi
alcuna falsa dichiarazione vertendosi sull'esito di un
giudizio da svolgersi da parte della pubblica
amministrazione, rilevando al contrario la sola
dichiarazione e rappresentazione del fatto in questione (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.11.2015).
---------------
MASSIMA
3. Il ricorso proposto non può trovare accoglimento.
Ai sensi dell’art. 38, comma, 1, lett. f),
del d.lgs. 163/2006 sono esclusi i soggetti che, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio
della loro attività professionale accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
Nel caso di specie, non viene in rilievo la prima ipotesi
disciplinata dalla norma in quanto non si tratta di una
negligenza commessa nei confronti della stazione appaltante
che bandisce la gara. Si tratta dell’allegazione di un fatto
che sarebbe idoneo a costituire un errore grave
nell’esercizio dell’attività professionale, come previsto
dalla seconda ipotesi della disposizione. Dalla lettura
della dichiarazione resa e dalle allegazioni delle parti non
emerge anzitutto l’esistenza di una falsa dichiarazione.
L’aggiudicatario, rectius la società della quale
questa si è avvalsa, ha dichiarato in maniera adeguatamente
circostanziata i tratti peculiari della vicenda che l’hanno
interessata descrivendo e rappresentando le argomentazioni
per le quali a suo giudizio tali fatti non siano idonei a
integrare la fattispecie della disposizione citata. La
determinazione della Provincia di Massa Carrara è stata,
infatti, espressamente richiamata nella dichiarazione, fermo
poi motivare in relazione all’irrilevanza della stessa ai
fini dell’art. 38.
La circostanza della ricorrenza o meno
della causa di esclusione dell’art. 38, lett. f),
costituisce un giudizio rimesso integralmente alla stazione
appaltante, pertanto, mentre in relazione ai fatti è
possibile immaginare una dichiarazione falsa o non
veritiera, alla medesima conclusione non può pervenirsi in
relazione a un giudizio di competenza della pubblica
amministrazione.
Nel caso di specie, l’aggiudicataria ha descritto e
dichiarato un fatto ritenendolo non idoneo a integrare la
norma indicata, rimettendo tuttavia alla stazione appaltante
l’esame del fatto stesso al fine di verificarne la
riconducibilità alla fattispecie. Pertanto,
nella mera dichiarazione di non ricorrenza
dell’ipotesi di cui alla lett. f) citata non può ipotizzarsi
alcuna falsa dichiarazione vertendosi sull’esito di un
giudizio da svolgersi da parte della pubblica
amministrazione, rilevando al contrario la sola
dichiarazione e rappresentazione del fatto in questione.
Né la dichiarazione resa può ritenersi
fuorviante o non esauriente rientrando nella competenza
della pubblica amministrazione l’accertamento, con qualsiasi
mezzo di prova, come recita la disposizione, della
sussistenza del presupposto in questione.
Nel caso di specie, risulta che la pubblica amministrazione
abbia compiuto un’istruttoria sul punto (doc. 17, 18, 19 del
fascicolo di parte RFI) e abbia valutato, anche in
considerazione della mancanza di un accertamento definitivo
sull’inadempimento e della sospensione dell’iscrizione della
stessa segnalazione, alla mancanza di una grave negligenza
idonea a giustificare l’esclusione dell’aggiudicataria.
Ne deriva che il ricorso non può trovare accoglimento. La
natura assorbente delle argomentazioni che precedono esonera
il giudicante dall’esaminare le ulteriori argomentazioni
delle parti e comporta il rigetto della domanda di
risarcimento del danno proposta. |
APPALTI:
Linea soft sull'omissione delle condanne penali.
Nel caso in cui l'obbligo dichiarativo sia imposto dalla lex
specialis, l'omessa dichiarazione di alcune condanne penali
sarà sanzionata con l'esclusione; solo nel caso in cui la
dichiarazione dovesse essere resa sulla scorta di modelli
predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente
incorresse in errore indotto dalla formulazione ambigua o
equivoca del modello, non potrà determinarsi l'esclusione
dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa.
Ad affermarlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR
Marche con la
sentenza 23.10.2015 n.
771.
A parere dei giudici amministrativi marchigiani sarebbe così
possibile evitare ritardi e rallentamenti nello svolgimento
della procedura ad evidenza pubblica di scelta del
contraente, andando a realizzare quanto più celermente
possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la
gara di appalto.
Si osserva inoltre, che in caso di omissione della
dichiarazione dei precedenti penali e anche di uno solo di
essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla relativa
gravità, l'esclusione dalla gara sarà legittima.
Inoltre, secondo un ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non osservare l'obbligo di rendere al
momento della presentazione della domanda di partecipazione
le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del dlgs n.
163/2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che
sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale (si vedano: Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n.
3550; 14.12.2011, n. 6569).
Nelle gare pubbliche, si osserva poi, che la completezza e
la veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione
di tutte le condanne riportate, della dichiarazione
sostitutiva di notorietà, rappresenta lo strumento
indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i
contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla
semplificazione e all'economicità del procedimento di gara e
quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter
verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono
ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla
moralità professionale (articolo ItaliaOggi Sette del
30.11.2015).
---------------
MASSIMA
II. Il Collegio reputa che la controversia sia matura
per una decisione in forma semplificata, avuto riguardo
all’infondatezza dei motivi di ricorso, apprezzabile già in
sede cautelare.
II.1. La stazione appaltante ha basato il provvedimento di
esclusione della ricorrente sul fatto che il legale
rappresentante di quest’ultima avesse presentato una
dichiarazione non veritiera sensi e per gli effetti degli
artt. 45 e 46 del D.P.R. n. 445/2000 in relazione al
possesso dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, lett.
c), del d.lgs. n. 163/2006; egli ha, infatti, dichiarato che
“nei propri confronti non è stata pronunciata … sentenza
di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi
dell'articolo 444 c.p.p. per reati gravi in danno dello
Stato o della Comunità che incidono sulla moralità
professionale … ovvero sentenze seppure non definitive
relative a reati che precludono la partecipazione alle gare
d’appalto”, mentre, nell’ambito delle verifiche svolte
da In.It. s.p.a. è emerso, in base alla consultazione del
casellario giudiziale rilasciato dalla Procura della
Republica presso il Tribunale di Roma in data 17.06.2015,
che a carico del sig. Ed.Cr., legale rappresentante della
ditta ricorrente, risulta emessa una sentenza di condanna
del 03.12.2014, divenuta irrevocabile, pronunciata dal
Tribunale di Roma ex art. 444 c.p.p., per omesso versamento
IVA.
II.2. Ciò posto, si osserva che, in tema di
dichiarazione dei requisiti per la partecipazione a gare
d'appalto, ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, possono
ritenersi ormai consolidati, oltre che integralmente
condivisi dal Collegio, i seguenti principi più volte
espressi dalla giurisprudenza amministrativa
(ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014,
n. 4932 e 17.06.2014, n. 3092; TAR Campania Napoli, sez. VII,
10.04.2015, n. 2045):
- la valutazione della gravità delle
condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla
moralità professionale spetta esclusivamente alla stazione
appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono tenuti ad
indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi
operare alcun filtro, ciò implicando un giudizio meramente
soggettivo inconciliabile con la ratio della norma;
- nelle gare pubbliche la completezza e la
veridicità, sotto il profilo della puntuale indicazione di
tutte le condanne riportate, della dichiarazione sostitutiva
di notorietà rappresenta lo strumento indispensabile,
adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti
interessi in gioco, quello dei concorrenti alla
semplificazione e all'economicità del procedimento di gara
(a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di
adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente
economico, come la prova documentale di stati e qualità
personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e
quello pubblico, delle Amministrazioni appaltanti, di poter
verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono
ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla
moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e
rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza
pubblica di scelta del contraente, in tal modo realizzando
quanto più celermente possibile l'interesse pubblico
perseguito proprio con la gara di appalto; di conseguenza
l'omessa dichiarazione dei precedenti penali e anche di uno
solo di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla
relativa gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara
(Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4932; in senso
analogo, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015 n. 4511).
In particolare, in base all’orientamento giurisprudenziale
più restrittivo, anche in assenza di
un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante
la sua eterointegrazione con la norma di legge,
l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della
presentazione della domanda di partecipazione le dovute
dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006
comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia
consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale (Cons.
St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569).
Tuttavia, anche per l’orientamento più permissivo
affermatosi nella giurisprudenza amministrativa (secondo cui
il concorrente può ritenersi esonerato dal dichiarare
l'esistenza di condanne per infrazioni penalmente rilevanti,
ma di lieve entità), qualora l’obbligo
dichiarativo sia imposto dalla lex specialis,
l'omessa dichiarazione di alcune condanne penali è
sanzionata con l'esclusione; solo se la dichiarazione è resa
sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione
appaltante ed il concorrente incorre in errore indotto dalla
formulazione ambigua o equivoca del modello, non può
determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza
della dichiarazione resa
(Consiglio di Stato, sez. IV, 25.05.2015).
II.3. Applicando tali principi al caso in esame, il gravato
provvedimento di esclusione si rivela legittimo dal momento
che:
- il bando di gara, al paragrafo III.2.1, lett. a), ha
previsto, tra le condizioni di partecipazione, che il
concorrente non dovesse trovarsi nelle condizioni di
esclusione di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006; il
disciplinare, inoltre, al paragrafo V.1, ha precisato che,
ai sensi di quanto previsto dal predetto art. 38, sarebbero
stati esclusi dalla gara i concorrenti che si trovavano in
una delle condizioni ivi indicate e, al paragrafo VII.1, tra
la documentazione amministrativa da produrre a pena di
esclusione, ha previsto (punto 2) una dichiarazione
sostitutiva con cui il legale rappresentante dell’impresa
avrebbe dovuto attestare, indicandole espressamente,
l’assenza delle condizioni di cui all’art. 38, comma 1,
lettere a), b), c), d), e), f), g), h), i), l), m), m-bis),
m-ter) e m-quater del d.lgs. n. 163/2006;
- il legale rappresentante della società ricorrente ha reso
due dichiarazioni in data 11.05.2015, in cui ha attestato
l’assenza delle condizioni di esclusione di cui al citato
art. 38, menzionandole espressamente, tra le quali anche
quelle di cui alla lettera c) della norma suddetta;
- sussisteva invece l’obbligo di dichiarare
tutte le eventuali condanne riportate, derivante, oltre che
direttamente dalla legge, anche dalle specifiche
disposizioni della lex specialis, le cui puntuali
indicazioni hanno appunto lo scopo di richiamare
l'attenzione dei concorrenti sull'obbligo di una
dichiarazione corretta, completa ed esaustiva in ordine al
possesso dei requisiti generali di cui all'art. 38 del
d.lgs. n. 163/2006, in ragione della rilevanza che essi (ed
il loro accertamento) hanno ai fini dell'aggiudicazione
degli appalti pubblici;
- a tale conclusione si giunge anche dalla lettura dell’art.
38, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, che
impone l'obbligo al concorrente di dichiarare tutte
le eventuali condanne (sentenze di condanna passate in
giudicato, decreti penali di condanna divenuti irrevocabili,
sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti
ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale),
riportate dai soggetti elencati al precedente comma 1, lett.
c), della medesima disposizione, ad eccezione delle condanne
relative ai reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti
dopo la condanna (con formale provvedimento della competente
autorità giudiziaria), delle condanne revocate e di quelle
per le quali è intervenute la riabilitazione;
- né avrebbe potuto trovare applicazione, nella fattispecie,
il comma 2-bis dell'art. 38, norma preordinata a consentire
l'integrazione della documentazione attestante i requisiti
di partecipazione, ma non certo ad evitare l'esclusione
dalla gara per falsità delle dichiarazioni rese (TAR
Lombardia Brescia, 06.02.2015, n. 201). |
APPALTI: In
ordine alla individuazione delle condizioni per valutare la
sussistenza dell’interesse a ricorrere della terza graduata
in una procedura di gara, la giurisprudenza ha evidenziato
che l’utilità che essa ricorrente tiene a conseguire, sia
essa finale o strumentale, deve derivare in via immediata e
secondo criteri di regolarità causale dall’accoglimento del
ricorso e non già in via mediata da eventi incerti e
potenziali quali l’esito negativo di una verifica di
anomalia.
Tale circostanza costituisce infatti una mera eventualità,
di modo che l’esclusione per tale ragione dell’offerta della
seconda graduata non rappresenta dal punto di vista
giuridico formale una normale ed immediata conseguenza
dell’annullamento dell’aggiudicazione originaria della prima
graduata.
L’orientamento giurisprudenziale citato è confluito ed è
stato rielaborato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8
del 03.02.2014, che ha precisato che “L’utilità o bene della
vita cui aspira il ricorrente…deve porsi in rapporto di
prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto alla
domanda di annullamento proposta e non restare subordinata
ad eventi solo potenziali e incerti”.
In ordine alla individuazione delle condizioni per valutare
la sussistenza dell’interesse a ricorrere della terza
graduata in una procedura di gara, la giurisprudenza ha
evidenziato che l’utilità che essa ricorrente tiene a
conseguire, sia essa finale o strumentale, deve derivare in
via immediata e secondo criteri di regolarità causale
dall’accoglimento del ricorso e non già in via mediata da
eventi incerti e potenziali quali l’esito negativo di una
verifica di anomalia.
Tale circostanza costituisce infatti una mera eventualità,
di modo che l’esclusione per tale ragione dell’offerta della
seconda graduata non rappresenta dal punto di vista
giuridico formale una normale ed immediata conseguenza
dell’annullamento dell’aggiudicazione originaria della prima
graduata (in tal senso, cfr., tra le tante, Cons. Stato, VI,
02.04.2012, n.1941; IV, 12.02.2007, n. 587).
L’orientamento giurisprudenziale citato è confluito ed è
stato rielaborato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 8
del 03.02.2014, che ha precisato che “L’utilità o bene
della vita cui aspira il ricorrente…deve porsi in rapporto
di prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto
alla domanda di annullamento proposta e non restare
subordinata ad eventi solo potenziali e incerti”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4871 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le vicende giudiziarie relative ai vertici
aziendali (arrestati) della Sa. non sono tali da comportarne
la esclusione dalla gara, atteso che l’art. 38 del d.lgs. n.
163/2006 ha riguardo agli amministratori muniti di potere di
rappresentanza o al direttore tecnico cessato, ma non opera
con riferimento a figure delle quali non è dimostrato il
ruolo svolto nella compagine societaria interessata da
indagini penali, in disparte la circostanza che, a fronte
dell’attuale pendenza dei ricorsi in cassazione avverso le
sentenze del giudice di merito, la causa ostativa di cui
alla lett. c) del citato art. 38 non può dirsi integrata,
non risultando, allo stato, irrevocabili le eventuali
condanne ex art. 444 cod. proc. pen. cui si fa riferimento
da parte dell’appellante incidentale.
10.5- Quanto
ai profili di illegittimità dedotti da Ambi.En.Te. con
riguardo alle vicende giudiziarie che hanno interessato i
vertici aziendali dell’impresa Sa. e che avrebbero
dovuto condurre alla sua esclusione dalla gara, sviluppati
con il terzo motivo dell’appello incidentale da essa
proposto, non assumono rilievo non essendosi formalizzate in
provvedimenti definitivi, essendo solo tali quelli previsti
dall’articolo 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 ai fini della
esclusione dalla gara.
Invero, le vicende giudiziarie relative ai vertici aziendali
(arrestati) della Sa. non sono tali da comportarne la
esclusione dalla gara, atteso che l’art. 38 del d.lgs. n.
163/2006 ha riguardo agli amministratori muniti di potere di
rappresentanza o al direttore tecnico cessato, ma non opera
con riferimento a figure delle quali non è dimostrato il
ruolo svolto nella compagine societaria interessata da
indagini penali, in disparte la circostanza che, a fronte
dell’attuale pendenza dei ricorsi in cassazione avverso le
sentenze del giudice di merito, la causa ostativa di cui
alla lett. c) del citato art. 38 non può dirsi integrata,
non risultando, allo stato, irrevocabili le eventuali
condanne ex art. 444 cod. proc. pen. cui si fa riferimento
da parte dell’appellante incidentale (cfr. in termini,
Consiglio di Stato, sez. V, n. 2082 del 2015)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4871 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il segretario comunale, essendo dipendente del
Comune e dotato di professionalità insita nella stessa
funzione espletata, ben può essere componente della
commissione di gara.
11.- Malgrado
la censura non sia priva di spessore, per mera completezza
va, comunque, esaminato il motivo dedotto con l’appello
incidentale da Ambi.En.Te. in ordine all’asserita
illegittimità della composizione della commissione di gara.
La censura è infondata.
Come affermato dal TAR con percorso motivazionale corretto,
l’importo e la natura dell’appalto (appalto di servizi del
valore di base di euro 14.809.773,60) consentivano alla
stazione appaltante di avvalersi di soggetti esterni quali
componenti della commissione di gara, naturalmente escluso
il presidente, così come previsto dall’articolo 282, comma
2, del d.p.r. n. 207 del 2010, in disparte la carenza di
personale dipendente di adeguata professionalità.
Né v’era necessità di estrinsecare le motivazioni che
avevano portato alla nomina dei membri esterni, atteso che
la natura e il valore dell’appalto ne consentivano la
nomina.
Quanto all’asserita carenza di specifiche professionalità
dei componenti scelti dalla stazione appaltante (si assume
che ad eccezione del presidente ing. Vi., gli altri due
componenti non erano esperti nel settore oggetto della
gara), non è dimostrata ed è smentita dai curricula degli
interessati, sicché la censura deve ritenersi quanto a tale
profilo inammissibile e infondata e non è nemmeno provato
che l’asserita carenza di professionalità si sia tradotta in
vizi di valutazione delle offerte o degli esiti della gara o
del presunto e indimostrato vizio di imparzialità.
Il segretario comunale, essendo dipendente del Comune e
dotato di professionalità insita nella stessa funzione
espletata, ben poteva essere componente della commissione di
gara
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4871 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006 stabilisce, al
comma 2, lettera d), che per usufruire dell’avvalimento il
concorrente deve allegare «una dichiarazione sottoscritta
dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga
verso il concorrente e verso la stazione appaltante a
mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le
risorse necessarie di cui è carente il concorrente», e, al
comma 2, lettera f), che deve pure allegare «in originale o
copia autentica il contratto in virtù del quale l'impresa
ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a
fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse
necessarie per tutta la durata dell'appalto».
Poiché il riportato art. 49 non pone alcuna limitazione
all’applicazione dell'istituto dell'avvalimento, se non con
riguardo ai requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39, deve ritenersi
ammissibile l'avvalimento anche per dimostrare il fatturato
e l'esperienza pregressa.
A tale istituto la giurisprudenza ha riconosciuto un
amplissimo ambito di applicazione, anche per i requisiti che
attengono a profili personali del concorrente, quali il
fatturato o l'esperienza pregressa, la certificazione di
qualità e, in genere, i requisiti soggettivi di qualità.
Va pertanto ritenuto ammissibile anche il c.d. «avvalimento
di garanzia», con il quale l'impresa ausiliaria mette la
propria solidità economica e finanziaria al servizio dell'ausiliata.
L'unico limite imposto al riguardo dall'ordinamento è che l'avvalimento
non si risolva nel prestito di una mera «condizione
soggettiva», del tutto disancorata dalla concreta messa a
disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali,
dovendo l'impresa ausiliaria assumere l'obbligazione di
mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione
all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio
apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di qualità (e, quindi, a
seconda dei casi, i mezzi, il personale, la prassi e tutti
gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione
all'oggetto dell'appalto).
Di conseguenza il limite di operatività dell'istituto è dato
dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante
non deve risolversi nel prestito di un valore puramente
«cartolare e astratto», ma è invece necessario che dal
contratto di avvalimento risulti un impegno chiaro e
concreto dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie
risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le
parti che giustificano l'attribuzione del requisito di
garanzia.
Le regole applicabili in materia di avvalimento, pur
finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la
determinatezza di questo, ad avviso del collegio non devono
comunque essere interpretate meccanicamente, secondo
aprioristici schematismi concettuali, che non tengano conto
del singolo appalto e, soprattutto, frustrando la
sostanziale disciplina dettata dalla lex specialis.
Nelle gare pubbliche, il ricorso all'avvalimento, avente ad
oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è quindi, in
linea di principio, legittimo, non ponendo la disciplina
dell'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 alcuna limitazione
se non per i requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso d.lgs. n.
163 del 2006.
Nelle gare pubbliche, il ricorso all'avvalimento, avente ad
oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è quindi, in
linea di principio, legittimo, non ponendo la disciplina
dell'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 alcuna limitazione
se non per i requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso d.lgs. n.
163 del 2006.
---------------
Invero,
nelle gare pubbliche, per stabilire il grado di
specificità del contratto di avvalimento di garanzia fra
l'impresa partecipante e l'ausiliaria, occorre avere
riguardo a come il requisito ausiliato si pone e che peso
ha, nel sistema delineato dalla lex specialis, rispetto
all'oggetto dell'appalto; proprio per questo, il requisito
solo finanziario non impone altro obbligo negoziale che
l'impegno dell'impresa ausiliaria di rispondere, nei limiti
che il requisito stesso ha nel contesto della gara, con le
proprie e complessive risorse economiche quando, in sede
esecutiva, la necessità sottesa al requisito si renda
attuale.
Ciò non implica necessariamente il coinvolgimento di aspetti
specifici dell'organizzazione della impresa, donde la non
necessità di dedurli in contratto, se questi non rispondano
al concreto interesse della stazione appaltante, desumibile
dall'indicazione del requisito stesso.
Peraltro, in un caso analogo è stato ritenuto dalla
giurisprudenza conforme alle previsioni di legge in
proposito il contratto con il quale la società ausiliaria si
è obbligata a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata,
per tutta la durata dell'appalto, il requisito del fatturato
specifico realizzato in un determinato anno.
---------------
Circa il
fatto che la fattispecie
in esame sarebbe inquadrabile almeno in parte nell’ambito
dell’«avvalimento di garanzia», che ha ad oggetto requisiti
immateriali o soggettivi (come referenze bancarie, fatturato
e simili), distinto dall’«avvalimento operativo», avente ad
oggetto requisiti materiali (come mezzi ed attrezzature),
con sufficienza della responsabilità solidale
dell’ausiliaria, di cui all’art. 49, comma 4, del d.lgs. n.
163 del 2006, alla tutela delle esigenze pubbliche, senza
necessità di specificazione delle risorse e dei mezzi messi
a disposizione, la distinzione tra tali figure di avvalimento
non avrebbe un solido fondamento giuridico, non esistendo
disposizioni differenzianti la specificità dell’oggetto a
seconda dell’una o dell’altra categoria e non potendo l’«avvalimento
di garanzia» rimanere astratto, cioè svincolato da qualsiasi
collegamento con risorse materiali ed immateriali poste a
disposizione dell’ausiliata.
16.1.- Osserva in proposito il Collegio che, come già
rilevato, il ricorso all'istituto dell'avvalimento è
riconosciuto dalla giurisprudenza come possibile in un ampio
ventaglio di ipotesi, muovendo dalla ratio dello stesso, che
è quella di consentire la massima partecipazione alle gare,
permettendo ai concorrenti, privi dei requisiti richiesti
dal bando, di avvalersi dei requisiti di altri soggetti, e
di agevolare così l'ingresso sul mercato di nuovi operatori
e quindi la concorrenza fra le imprese.
E’ stato ritenuto ammissibile anche il c.d. avvalimento di
garanzia, con l’unico limite che esso non si risolva nel
prestito di una mera condizione soggettiva, del tutto
disancorata dalla concreta messa a disposizione di risorse
materiali, economiche o gestionali.
Può convenirsi con la sentenza del Consiglio di giustizia
amministrativa della Sicilia n. 35 del 2015 richiamata dalla
appellante che la distinzione tra avvalimento di garanzia e
avvalimento tecnico-operativo non può tradursi in un
differente regime giuridico, ma va considerato che è pure
ivi condivisibilmente affermato che il c.d. avvalimento di
garanzia «non deve rimanere astratto, cioè svincolato da
qualsivoglia collegamento con risorse materiali o
immateriali, che snaturerebbe l'istituto, in elusione dei
requisiti stabiliti nel bando di gara, esibiti solo in modo
formale, finendo col frustare anche la funzione di garanzia».
Ciò si
traduce nella necessità che nel contratto siano
adeguatamente indicati, a seconda dei casi, il fatturato
globale e l'importo relativo ai servizi o forniture nel
settore oggetto della gara nonché, come specificato dalla
dottrina, gli specifici «fattori della produzione e tutte le
risorse che hanno permesso all'ausiliaria di eseguire le
prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal bando».
Anche nell'avvalimento di garanzia i requisiti di fatturato
sono infatti preordinati a garantire l'affidabilità del
concorrente a sostenere finanziariamente sia l'attuazione
dell'appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante
nel caso d'inadempimento.
Può quindi concludersi che anche l'avvalimento di garanzia,
a prescindere dalla possibilità di distinguerlo
giuridicamente da quello operativo, è consentito purché i
relativi atti non si risolvano in formule generiche e
svincolate da qualsiasi collegamento con le risorse
materiali o immateriali rese disponibili.
---------------
Deve ritenersi invalido il
contratto di avvalimento solo in presenza di una condizione,
apposta all'impegno relativo, tale da non consentire la
certezza dell'impegno contenuto nel contratto di avvalimento.
Il contratto di avvalimento non è quindi valido ove
sottoposto a condizione meramente potestativa, trattandosi
in questo caso dell’assunzione di un obbligo ‘nulla’ ai
sensi dell'art. 1355 del c.c.
È stato invece ritenuto legittimo il contratto di
avvalimento sottoposto a condizione di acquisire efficacia
solo nel caso in cui la società avvalsa avrebbe conseguito
l'aggiudicazione della gara, essendo chiaro che l'evento
dedotto in condizione è proprio l'aggiudicazione
dell'appalto, in funzione del quale l'avvalimento è stato
stipulato, e che si tratta propriamente di condizione
risolutiva,
che postula che le parti subordinino la risoluzione
del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro
ed incerto, il cui verificarsi priva di effetti il negozio ab origine.
---------------
15.1.- Passando all’esame di tali censure, la Sezione rileva
che l’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce, al
comma 2, lettera d), che per usufruire dell’avvalimento il
concorrente deve allegare «una dichiarazione sottoscritta
dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga
verso il concorrente e verso la stazione appaltante a
mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le
risorse necessarie di cui è carente il concorrente», e, al
comma 2, lettera f), che deve pure allegare «in originale o
copia autentica il contratto in virtù del quale l'impresa
ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a
fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse
necessarie per tutta la durata dell'appalto».
Inoltre, l’art. 88 del d.P.R. n. 207 del 2010 dispone che,
«Per la qualificazione in gara, il contratto di cui
all'articolo 49, comma 2, lettera f), del codice deve
riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente:
a) oggetto: le risorse e i mezzi prestati in modo
determinato e specifico;
b) durata;
c) ogni altro utile elemento ai fini dell'avvalimento».
Poiché il riportato art. 49 non pone alcuna limitazione
all’applicazione dell'istituto dell'avvalimento, se non con
riguardo ai requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39, deve ritenersi
ammissibile l'avvalimento anche per dimostrare il fatturato
e l'esperienza pregressa.
A tale istituto la giurisprudenza ha riconosciuto un
amplissimo ambito di applicazione, anche per i requisiti che
attengono a profili personali del concorrente, quali il
fatturato o l'esperienza pregressa, la certificazione di
qualità e, in genere, i requisiti soggettivi di qualità.
Va pertanto ritenuto ammissibile anche il c.d. «avvalimento
di garanzia», con il quale l'impresa ausiliaria mette la
propria solidità economica e finanziaria al servizio dell'ausiliata.
L'unico limite imposto al riguardo dall'ordinamento è che l'avvalimento
non si risolva nel prestito di una mera «condizione
soggettiva», del tutto disancorata dalla concreta messa a
disposizione di risorse materiali, economiche o gestionali,
dovendo l'impresa ausiliaria assumere l'obbligazione di
mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione
all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse e il proprio
apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano
l'attribuzione del requisito di qualità (e, quindi, a
seconda dei casi, i mezzi, il personale, la prassi e tutti
gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione
all'oggetto dell'appalto).
Di conseguenza il limite di operatività dell'istituto è dato
dal fatto che la messa a disposizione del requisito mancante
non deve risolversi nel prestito di un valore puramente
«cartolare e astratto», ma è invece necessario che dal
contratto di avvalimento risulti un impegno chiaro e
concreto dell'impresa ausiliaria a prestare le proprie
risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le
parti che giustificano l'attribuzione del requisito di
garanzia.
Le regole applicabili in materia di avvalimento, pur
finalizzate a garantire la serietà, la concretezza e la
determinatezza di questo, ad avviso del collegio non devono
comunque essere interpretate meccanicamente, secondo
aprioristici schematismi concettuali, che non tengano conto
del singolo appalto e, soprattutto, frustrando la
sostanziale disciplina dettata dalla lex specialis (che nel
caso di specie, mirava a garantire con l'avvalimento una
specifica risorsa immateriale, cioè il fatturato, frutto di
una specifica esperienza maturata in un settore eguale o
analogo a quello del servizio richiesto).
Nelle gare pubbliche, il ricorso all'avvalimento, avente ad
oggetto il fatturato o l'esperienza pregressa, è quindi, in
linea di principio, legittimo, non ponendo la disciplina
dell'art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006 alcuna limitazione
se non per i requisiti strettamente personali di carattere
generale, di cui agli artt. 38 e 39 dello stesso d.lgs. n.
163 del 2006 (Consiglio di Stato, sez. III, 17.06.2014,
n. 3058; Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2013, n.
911).
Come posto in rilievo dal giudice di primo grado, con il
contratto di avvalimento di cui trattasi la ausiliaria
s.r.l. Global Cri si era impegnata a mettere a disposizione
della s.r.l. La Cascina Global Service i requisiti speciali
di partecipazione di cui ai punti III.2.2 lett. c.2) e III.2.3
lett. a) del bando di gara, cioè il «fatturato dell’impresa
relativo ai servizi nel settore oggetto della gara pari o
superiore, nel triennio, ad euro 2.482.652,50, ossia pari ad
1 volta il valore complessivo del presente appalto» e la
«realizzazione di almeno un servizio analogo nell’ambito
dello stesso settore negli ultimi tre anni, con
l’indicazione degli importi, delle date e dei destinatari,
pubblici o privati, dei servizi stessi» (cioè il fatturato
specifico del triennio 2010-2012 per il servizio di pulizia
e manutenzione immobili, servizi cimiteriali e servizio di
custodia, svolti presso il Comune di Torre Santa Susanna).
Con il contratto era stato anche stabilito che l’impresa
ausiliaria, «ove occorra: a) presterà la consulenza
richiesta dall’impresa concorrente, per la risoluzione di
problemi tecnici di particolare difficoltà; b) comunicherà
all’impresa concorrente gli standards operativi e le
procedure di intervento elaborate per una più efficace
esecuzione dei servizi affidati; c) formerà ed organizzerà
il personale dell’impresa concorrente».
Quindi era stato messo a disposizione dell’ausiliata solo un
bene, richiesto dalla lex specialis (non precipuamente
classificabile secondo le indicazioni contenute nelle norme
sopra richiamate, trattandosi non di mezzi o strumentazioni,
o attrezzature), cioè un bene immateriale, che, comunque,
non era indeterminato nell’oggetto, o solo cartolare o
generico, né riproduceva pedissequamente la formula
legislativa, essendo valutabile come congruo con riferimento
alla natura del requisito prestato, meramente esperienziale,
e dell’oggetto della gara, senza alcuna necessità di
indicazione di mezzi ed attrezzature.
All’impresa ausiliaria non poteva infatti essere chiesto di
dimostrare il possesso di un requisito in maniera diversa e
più intensa rispetto a quanto previsto dalla lex specialis
come oggetto di sua dimostrazione, se non avesse avuto
bisogno di ricorrere all’avvalimento (cioè, nel caso di
specie, la realizzazione di almeno un servizio analogo
nell’ambito dello stesso settore negli ultimi tre anni, con
indicazione degli importi, delle date e dei destinatari dei
servizi stessi).
Invero, nelle gare pubbliche, per stabilire il grado di
specificità del contratto di avvalimento di garanzia fra
l'impresa partecipante e l'ausiliaria, occorre avere
riguardo a come il requisito ausiliato si pone e che peso
ha, nel sistema delineato dalla lex specialis, rispetto
all'oggetto dell'appalto; proprio per questo, il requisito
solo finanziario non impone altro obbligo negoziale che
l'impegno dell'impresa ausiliaria di rispondere, nei limiti
che il requisito stesso ha nel contesto della gara, con le
proprie e complessive risorse economiche quando, in sede
esecutiva, la necessità sottesa al requisito si renda
attuale.
Ciò non implica necessariamente il coinvolgimento di aspetti
specifici dell'organizzazione della impresa, donde la non
necessità di dedurli in contratto, se questi non rispondano
al concreto interesse della stazione appaltante, desumibile
dall'indicazione del requisito stesso.
Peraltro, in un caso analogo è stato ritenuto dalla
giurisprudenza conforme alle previsioni di legge in
proposito il contratto con il quale la società ausiliaria si
è obbligata a mettere a disposizione dell'impresa ausiliata,
per tutta la durata dell'appalto, il requisito del fatturato
specifico realizzato in un determinato anno (Consiglio di
Stato, sez. III, 02.03.2015, n. 1020).
15.2.- Quanto alla dedotta elusività della messa a
disposizione delle risorse da parte della ausiliaria solo
«ove occorra» e «se necessario», che avrebbe escluso la
possibilità di verifica della concreta disponibilità attuale
di risorse e dotazioni aziendali, ritiene la Sezione, a
prescindere dalla eccepita inammissibilità della censura
perché non formulata in primo grado e proposta in violazione
del divieto di nova in appello di cui all’art. 104, comma 1,
del c.p.a., che sia da escludere che essa possa avere
rilievo al fine di dimostrare la irregolarità del prestato
avvalimento.
Infatti le locuzioni suddette vanno interpretate non nel
senso che la disponibilità sarebbe stata solo eventuale, ma
in quello che le risorse indicate nel contratto sarebbero
state messe a disposizione della ausiliaria ogniqualvolta
che la ausiliata ne avesse avuto necessità, il che appare al
collegio pienamente coerente con la ratio dell’istituto
dell’avvalimento e con le concrete esigenze della stazione
appaltante in ordine alla formulata richiesta di
attestazione del possesso dei requisiti speciali di
partecipazione in questione.
16.- Con il primo motivo di gravame è stato ulteriormente
sostenuto che non sarebbe condivisibile anche la ulteriore
tesi, fatta propria dal TAR, secondo cui la fattispecie
in esame sarebbe inquadrabile almeno in parte nell’ambito
dell’«avvalimento di garanzia», che ha ad oggetto requisiti
immateriali o soggettivi (come referenze bancarie, fatturato
e simili), distinto dall’«avvalimento operativo», avente ad
oggetto requisiti materiali (come mezzi ed attrezzature),
con sufficienza della responsabilità solidale
dell’ausiliaria, di cui all’art. 49, comma 4, del d.lgs. n.
163 del 2006, alla tutela delle esigenze pubbliche, senza
necessità di specificazione delle risorse e dei mezzi messi
a disposizione.
Come rilevato dal C.G.A.R.S. con la sentenza 21.01.2015, n. 35,
la distinzione tra tali figure di avvalimento
non avrebbe un solido fondamento giuridico, non esistendo
disposizioni differenzianti la specificità dell’oggetto a
seconda dell’una o dell’altra categoria e non potendo l’«avvalimento
di garanzia» rimanere astratto, cioè svincolato da qualsiasi
collegamento con risorse materiali ed immateriali poste a
disposizione dell’ausiliata.
16.1.- Osserva in proposito il Collegio che, come già
rilevato, il ricorso all'istituto dell'avvalimento è
riconosciuto dalla giurisprudenza come possibile in un ampio
ventaglio di ipotesi, muovendo dalla ratio dello stesso, che
è quella di consentire la massima partecipazione alle gare,
permettendo ai concorrenti, privi dei requisiti richiesti
dal bando, di avvalersi dei requisiti di altri soggetti, e
di agevolare così l'ingresso sul mercato di nuovi operatori
e quindi la concorrenza fra le imprese.
E’ stato ritenuto ammissibile anche il c.d. avvalimento di
garanzia, con l’unico limite che esso non si risolva nel
prestito di una mera condizione soggettiva, del tutto
disancorata dalla concreta messa a disposizione di risorse
materiali, economiche o gestionali.
Può convenirsi con la sentenza del Consiglio di giustizia
amministrativa della Sicilia n. 35 del 2015 richiamata dalla
appellante che la distinzione tra avvalimento di garanzia e
avvalimento tecnico-operativo non può tradursi in un
differente regime giuridico, ma va considerato che è pure
ivi condivisibilmente affermato che il c.d. avvalimento di
garanzia «non deve rimanere astratto, cioè svincolato da
qualsivoglia collegamento con risorse materiali o
immateriali, che snaturerebbe l'istituto, in elusione dei
requisiti stabiliti nel bando di gara, esibiti solo in modo
formale, finendo col frustare anche la funzione di garanzia»
(Cons. St., III, 22.01.2014, n. 294; in termini
analoghi Cons. St., III, 17.06.2014, n. 3057).
Ciò si
traduce nella necessità che nel contratto siano
adeguatamente indicati, a seconda dei casi, il fatturato
globale e l'importo relativo ai servizi o forniture nel
settore oggetto della gara nonché, come specificato dalla
dottrina, gli specifici «fattori della produzione e tutte le
risorse che hanno permesso all'ausiliaria di eseguire le
prestazioni analoghe nel periodo richiesto dal bando».
Anche nell'avvalimento di garanzia i requisiti di fatturato
sono infatti preordinati a garantire l'affidabilità del
concorrente a sostenere finanziariamente sia l'attuazione
dell'appalto, sia il risarcimento della stazione appaltante
nel caso d'inadempimento.
Può quindi concludersi che anche l'avvalimento di garanzia,
a prescindere dalla possibilità di distinguerlo
giuridicamente da quello operativo, è consentito purché i
relativi atti non si risolvano in formule generiche e
svincolate da qualsiasi collegamento con le risorse
materiali o immateriali rese disponibili (Consiglio di
Stato, sez. III, 07.07.2015, n. 3390).
Nel caso di specie, come già evidenziato, il contratto di
avvalimento intercorso tra la ausiliaria Global Cri s.r.l.
non consisteva in una formula astratta e generica, ma
indicava compiutamente e sufficientemente la risorse messe a
disposizione della società ausiliata, cioè il fatturato
specifico del triennio 2010-2012 per il servizio di pulizia
e manutenzione immobili, servizi cimiteriali e servizio di
custodia, svolti presso il Comune di Torre Santa Susanna.
L’esaminata censura non è quindi idonea a dimostrare la
inadeguatezza, rispetto ai requisiti previsti dalla
normativa in materia, del contratto di avvalimento
intercorso tra dette società (che mirava a garantire una
specifica risorsa immateriale, cioè il fatturato, frutto di
una specifica esperienza maturata in un settore eguale o
analogo a quello del servizio richiesto) e deve essere
respinta.
17.- Con il secondo motivo d’appello è stato dedotto che il
contratto di avvalimento esibito dall’aggiudicataria non
sarebbe comunque stato idoneo a mettere a disposizione dell’ausiliata
e della stazione appaltante le risorse necessarie per la
durata dell’appalto, in quanto all’art. 12 del contratto era
contenuta una clausola risolutiva espressa che collegava ad
inadempimenti di qualsiasi natura dell’ausiliata la
risoluzione ipso iure del contratto, con la conseguenza che
la stazione appaltante si sarebbe potuta trovare priva della
responsabilità solidale della ausiliaria.
Sarebbe stato quindi stipulato un contratto di avvalimento
condizionato, che però non sarebbe ammissibile, atteso che
in caso di inadempimento dell’appaltatore la stazione
appaltante deve poter agire direttamente sull’impresa
ausiliaria.
Non sarebbe condivisibile la tesi TAR, che ha respinto
dette censure rilevando che due delle ipotesi di risoluzione
erano riconducibili a procedure concorsuali e a violazioni
di norme in materia di contratti della p.a. che
configuravano fattispecie che, prima di determinare la
risoluzione del contratto di avvalimento, avrebbero
comportato la risoluzione del contratto di appalto tra la
aggiudicataria e la stazione appaltante, perché comunque la
clausola risolutiva si riferiva ad ipotesi di grave
inadempimento idonee a comportare la risoluzione del
contratto di avvalimento ex art. 1455 del c.c., anche se non
prevista espressamente.
Infatti, tale clausola avrebbe reso nullo il contratto di
avvalimento, che non sarebbe sottoponibile a condizioni
perché, consentendo all’impresa ausiliaria di sottrarsi ai
propri obblighi nell’ipotesi in cui valuti la ricorrenza di
una delle clausole risolutive, inserirebbe nel rapporto
trilaterale un elemento di incertezza e di indeterminatezza
idoneo a vanificarne la finalità di garanzia del contratto.
17.1.- Osserva il Collegio che deve ritenersi invalido il
contratto di avvalimento solo in presenza di una condizione,
apposta all'impegno relativo, tale da non consentire la
certezza dell'impegno contenuto nel contratto di avvalimento.
Il contratto di avvalimento non è quindi valido ove
sottoposto a condizione meramente potestativa, trattandosi
in questo caso dell’assunzione di un obbligo ‘nulla’ ai
sensi dell'art. 1355 del c.c.
È stato invece ritenuto legittimo il contratto di
avvalimento sottoposto a condizione di acquisire efficacia
solo nel caso in cui la società avvalsa avrebbe conseguito
l'aggiudicazione della gara, essendo chiaro che l'evento
dedotto in condizione è proprio l'aggiudicazione
dell'appalto, in funzione del quale l'avvalimento è stato
stipulato, e che si tratta propriamente di condizione
risolutiva (Consiglio di Stato, sez. III, 25.02.2014,
n. 895), che postula che le parti subordinino la risoluzione
del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro
ed incerto, il cui verificarsi priva di effetti il negozio
ab origine.
Invece, con la clausola risolutiva espressa, le parti
prevedono lo scioglimento del contratto qualora una
determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o lo
sia secondo modalità diverse da quelle prestabilite, sicché
la risoluzione opera di diritto ove il contraente non
inadempiente dichiari di volersene avvalere, senza necessità
di provare la gravità dell'inadempimento della controparte
all'inadempimento dell'obbligazione oggetto della clausola
risolutiva espressa.
Nel caso di specie, l’art. 3 del contratto di avvalimento
conteneva l’impegno espresso della società ausiliaria di
mettere a disposizione dell’ausiliata i requisiti e le
risorse per tutta la durata dell’appalto e poi all’art. 12
la seguente clausola risolutiva espressa: «A norma dell'art.
1456 c.c., l'impresa ausiliaria potrà invocare la
risoluzione del contratto ove ricorrano le seguenti ipotesi:
a) nel caso in cui l'impresa concorrente venga sottoposta a
procedura concorsuale o esecutiva e in caso di scioglimento
o sottoposizione alle procedure di cui all'art. 2409 c.c.
(gravi irregolarità nella gestione sociale);
b) nel caso di inadempimento grave ai sensi dell’art. 1455
del c.c. da parte dell'impresa concorrente anche ad una sola
obbligazione del presente contratto, salvo il risarcimento
del danno;
c) nel caso che l'impresa concorrente, violi norme di legge
in materia di contratti della Pubblica Amministrazione,
norme penali per reati attinenti lo svolgimento
dell'attività di impresa, i rapporti che le pubbliche
amministrazioni, norme fiscali».
Come ha correttamente rilevato il TAR, le fattispecie
indicate in tale clausola contrattuale comunque avrebbero
avuto rilevanza giuridica, con la conseguenza che di per sé
essa non può apportare alcun nocumento all’amministrazione.
Sotto tale profilo, l’ordinamento giuridico –una volta
attribuita rilevanza giuridica al contratto di avvalimento-
non può precludere l’esercizio della autonomia negoziale, in
ordine alla predeterminazione delle conseguenze che inter
partes si debbano verificare nei casi da loro individuati.
Del resto, l’assenza di nocumento specifico si desume
proprio dalla normativa in materia.
Nell'ipotesi di cui alla citata lettera a), la società, ex
art. 38, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del 2006,
che si trova in stato di fallimento, di liquidazione coatta,
di concordato preventivo o nei cui riguardi sia in corso un
procedimento per la dichiarazione di tali situazioni è
comunque esclusa dalla partecipazione alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori,
forniture e servizi, né può essere affidataria di subappalti
e non può stipulare i relativi contratti.
Nell’ipotesi di cui alla lettera b), la clausola risolutiva
si riferisce ad ipotesi di grave inadempimento che
comportano comunque la possibile risoluzione del contratto
di avvalimento ex art. 1455 del c.c., con la sola,
irrilevante, differenza che, trattandosi di clausola
risolutiva espressa non sarebbe stata necessaria la prova
della gravità dell’inadempimanto, ma sarebbe stata
sufficiente la manifestazione della volontà di avvalersi di
detta clausola, esercitando il diritto potestativo di
risolvere il contratto.
Nell’ipotesi di cui alla lettera c), le circostanze previste
configurano invece situazioni che, in quanto non attinenti
all’esecuzione della prestazione principale e all’interesse
della parte a cui favore sono previste (di percepire il
corrispettivo pattuito per la fornitura dell’avvalimento),
non potrebbero essere invocate per svincolarsi dall’avvalimento.
In conclusione, le riportate clausole contrattuali non
escludevano la serietà dell'impegno contenuto nel contratto
di avvalimento e non lo rendevano quindi invalido
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2015 n. 4860 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Pieno diritto d’accesso alle offerte. Tar
Liguria. Già dall’aggiudicazione provvisoria.
Il diritto d’accesso alle offerte in gara va garantito sin
dall’aggiudicazione provvisoria poiché, al contrario delle
norme sulla verifica dell’anomalia, il legislatore non ha
specificato i tempi per esercitarlo.
L’ha precisato il
Tar Liguria -sentenza 22.10.2015 n. 834,
I Sez.– su un ricorso di un privato che aveva chiesto a un
Comune la copia dell’offerta tecnica vincitrice di un
affidamento di un incarico professionale con procedura
negoziata.
Al richiedente -in gara con un’associazione temporanea di
professionisti- la Pubblica amministrazione aveva fornito
gli atti solo dopo l’aggiudicazione definitiva, ritenendo
«differito» a questa fase l’esercizio del diritto d’accesso
in base alle norme sull’«accesso agli atti e divieti di
divulgazione» del Codice appalti (lettera c, comma 2,
articolo 13, Dlgs n. 163/2006).
Il Tar, giudicando fondato
il ricorso anche se ormai improcedibile per l’accesso nel
frattempo garantito, ha spiegato che «la citata disposizione
del codice dei contratti pubblici stabilisce che il diritto
di accesso nelle procedure negoziate è differito, «in
relazione alle offerte, fino all’approvazione
dell’aggiudicazione», senza tuttavia specificare se si
tratti dell’aggiudicazione provvisoria o di quella
definitiva» e che «la prima soluzione interpretativa è
sicuramente preferibile in base al canone letterale».
Ribadendo quanto stabilito dal Tar di Catania (sentenza n.
812/2011), il collegio ha sottolineato che «la citata
lettera c) fa riferimento, infatti, all’“aggiudicazione”,
mentre la successiva lettera c-bis) prevede che l’accesso al
procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta sia
differito «fino all’aggiudicazione definitiva»: ciò dimostra
che il legislatore, quando ha ritenuto rilevante attendere
che si fosse realizzata la conclusione della procedura
selettiva, lo ha detto espressamente».
La sentenza ha però
chiarito che «militano a favore di tale interpretazione
anche ragioni di ordine logico, poiché la ratio del
differimento, che deve essere identificata con l’esigenza di
non intralciare l’ordinato svolgimento delle operazioni di
gara ed evitare aggravi procedimentali nella delicata fase
di valutazione delle offerte, viene meno nelle more
dell’approvazione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva».
Nel bando in esame «una volta intervenuta
l’aggiudicazione provvisoria, non poteva ritenersi
sussistente alcun divieto legale di divulgare i dati
concernenti le offerte e l’istanza di accesso doveva essere
evasa» (articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2015).
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MASSIMA
Rileva il Collegio che la completa evasione dell’istanza
di accesso documentale presentata dall’odierno ricorrente,
comprovata mediante la documentazione versata in atti
dall’Amministrazione resistente e riconosciuta dallo stesso
interessato, comporta la declaratoria di improcedibilità del
ricorso per sopravvenuto difetto di interesse.
Come espressamente richiesto dalla difesa del ricorrente,
però, deve essere accertato, ai fini della decisione sulle
spese di giudizio, se vi sia o meno soccombenza virtuale
dell’Amministrazione.
Non merita di essere condivisa, in primo luogo, l’eccezione
di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione
attiva, fondata sul rilievo che il gravame è stato proposto
da uno solo dei componenti della costituenda associazione di
professionisti, senza il consenso (e, anzi, con
l’opposizione postuma) della collega.
Secondo pacifica giurisprudenza, infatti,
ciascun membro di un’associazione temporanea che abbia
partecipato ad una gara d’appalto può impugnare a titolo
individuale gli atti della procedura, poiché il fenomeno del
raggruppamento di imprese (o di professionisti), tanto più
nel caso di raggruppamento ancora costituendo, non dà luogo
ad un’entità giuridica autonoma che escluda la soggettività
delle singole imprese (o dei singoli professionisti) che lo
compongono (cfr.,
fra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 02.07.2014, n. 3336).
Nel merito, la difesa comunale sostiene che il ricorso è
infondato, atteso che, in forza dell’art. 13, comma 2, lett.
c), del d.lgs. n. 163/2006, il diritto di accesso alle
offerte presentate nelle procedure di affidamento di
contratti pubblici sarebbe differito all’approvazione
dell’aggiudicazione definitiva.
Ne consegue la tempestività della nota comunale del
18.07.2015, con la quale, appena cinque giorni dopo
l’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, è
stata positivamente evasa l’istanza di accesso presentata
dall’odierno ricorrente.
La tesi difensiva (pur coerente alle conclusioni cui è
pervenuto, in analoga fattispecie, il TAR Campania, Napoli,
sez. VI, con la sentenza n. 333 del 24.01.2012) non
persuade.
La citata disposizione del codice dei contratti pubblici
stabilisce che il diritto di accesso nelle
procedure negoziate è differito, “in relazione alle
offerte, fino all’approvazione dell'aggiudicazione”,
senza tuttavia specificare se si tratti dell’aggiudicazione
provvisoria o di quella definitiva.
Ad avviso del Collegio, la prima soluzione interpretativa è
sicuramente preferibile in base al canone letterale.
La citata lettera c) fa riferimento, infatti, all’”aggiudicazione”,
mentre la successiva lettera c-bis) prevede che l’accesso al
procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta sia
differito “fino all’aggiudicazione definitiva”: ciò
dimostra che il legislatore, quando ha ritenuto rilevante
attendere che si fosse realizzata la conclusione della
procedura selettiva (attraverso, appunto, l’aggiudicazione
definitiva), lo ha detto espressamente
(così TAR Sicilia, Catania, sez. I, 07.04.2011, n. 812).
Militano a favore di tale interpretazione
anche ragioni di ordine logico, poiché la
ratio
del differimento, che deve essere identificata con
l’esigenza di non intralciare l’ordinato svolgimento delle
operazioni di gara ed evitare aggravi procedimentali nella
delicata fase di valutazione delle offerte, viene meno nelle
more dell’approvazione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva.
Una volta intervenuta l’aggiudicazione provvisoria della
gara, non poteva ritenersi sussistente, perciò, alcun
divieto legale di divulgare i dati concernenti le offerte e
l’istanza di accesso doveva, in conseguenza, essere evasa
nel termine di trenta giorni previsto dalla legge.
Tanto precisato, ritiene il Collegio che, pur dovendo essere
imputata la soccombenza virtuale all’Amministrazione, la
regolazione delle spese di giudizio non possa non tener
conto del contrasto giurisprudenziale sopra accennato che,
unitamente al carattere non perspicuo della normativa di
riferimento, vale a giustificare l’atteggiamento “prudenziale”
serbato a fronte dell’istanza di accesso.
Il ritardo, peraltro lieve, con cui il Comune di Sestri
Levante ha provveduto a riscontrare la richiesta suddetta
non è stato determinato, pertanto, da alcuna arbitrarietà o
negligenza, come dimostra anche il fatto che, una volta
intervenuta l’aggiudicazione definitiva della gara,
l’Amministrazione ha sollecitamente dato luogo agli
adempimenti richiesti. |
APPALTI:
Appalti: esclusione illegittima se il mittente è
individuabile dall’adesivo sul plico.
Con la
sentenza 21.10.2015 n. 12060 la Sez. III-quater
del TAR Lazio-Roma ha annullato l’esclusione di una
concorrente da una gara d’appalto disposta a causa della
riscontrata mancanza, all’esterno del plico contenente le
buste con le offerte, del mittente, dell’oggetto della gara
stessa nonché dell’indicazione del lotto ovvero dei lotti a
cui intendeva partecipare la candidata.
A tale conclusione il TAR è giunto applicando il comma 1-bis
dell’art. 46 del D.Lgs. 163/2006 (Codice dei Contratti
Pubblici), secondo il quale “la stazione
appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di
mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente
codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge
vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso
di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda
di partecipazione o altre irregolarità relative alla
chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato il principio di
segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non
possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di
esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Nel caso di specie è accaduto, come detto, che la
commissione giudicatrice, rilevata l’incompletezza delle
modalità di predisposizione del plico, abbia disposto
l’esclusione della concorrente, ritenendo evidentemente che
tali mancanze rendessero impossibile nei suoi confronti la
prosecuzione della procedura ad evidenza pubblica per
inemendabile difetto afferente alla corretta individuazione
sia della gara (e di quale parte di essa) sia
dell’offerente.
Quest’ultima proponeva allora ricorso avverso il
provvedimento espulsivo al fine di ottenere la propria
riammissione.
I Giudici capitolini accoglievano la domanda sulla scorta di
diverse considerazioni.
In primo luogo hanno evidenziato come gli elementi fattuali
che hanno dato luogo all’allontanamento dalla gara non
fossero ricompresi dalla lex specialis nel novero di
quelli la cui assenza era sanzionata a pena di esclusione
dalla competizione né, tantomeno, consistevano in
prescrizioni la cui osservanza è imposta dall’art. 46 comma
1-bis predetto.
In seconda battuta hanno precisato come il disciplinare
indicava, tra le formalità da compiersi appunto sotto pena
di esclusione, solo la necessità di rispettare le modalità
richieste affinché fosse garantita l’integrità dal plico,
che infatti era arrivato intonso, sigillato con del nastro
adesivo, in modo tale da non aver ingenerato alcun dubbio a
proposito della -mantenuta appieno- segretezza del suo
contenuto.
Hanno anche aggiunto che sul nastro menzionato poc’anzi era
stato apposto il timbro della società offerente, di talché
non sarebbero dovute sorgere perplessità nemmeno
sull’attribuzione del plico alla mittente, così agevolmente
individuabile.
Senza trascurare l’altrettanto importante circostanza in
base alla quale, nel momento in cui il plico venne
depositato presso la stazione appaltante, alcun rilievo
venne mosso al riguardo; anzi, non solo da allora nessuno si
era posta la questione circa un’eventuale difficile
identificazione del mittente e del contenuto della
documentazione giunta ma, addirittura, i rappresentanti
dell’impresa stessa erano stati invitati a presenziare alla
prima seduta della commissione valutatrice. Il che stava a
significare che era già stata vagliata e, quindi, superata
ogni possibile criticità in ordine alle formalità
indispensabili per assicurare il corretto svolgimento della
gara relativamente alla presentazione del plico in parola.
La sentenza in commento si segnala per la sua portata
innovativa, soprattutto con riferimento alla mancata
indicazione dell’oggetto della gara, atteso che nei
repertori si possono trovare precedenti giurisprudenziali
che hanno statuito l’illegittimità dell’esclusione
nonostante sarebbe stato possibile rinvenire in altro modo,
e comunque senza la necessità di compiere accurate indagini
in quanto (difformemente dal caso di cui si è occupato il
Tribunale Amministrativo laziale) evincibile materialmente
dall’analisi visiva del plico, la menzione della gara
stessa: nella fattispecie decisa dal TAR Veneto, Sez. I, con
la sentenza n. 736 del 26/06/2015, ad esempio, si era posto
l’accento sul fatto che “l’indicazione dell’oggetto della
lettera di invito in luogo di quello dell’appalto
costituisce un mero errore materiale, privo di conseguenza,
atteso che, come rilevato dall’Amministrazione resistente,
non poteva sussistere alcun dubbio in ordine al fatto che il
plico di cui trattasi era riferito alla gara in questione,
considerato che la ditta Minchio era tra le dieci imprese
invitate, sul plico era indicato l’oggetto dell’invito alla
procedura e che il plico medesimo era pervenuto nel termine
fissato per la gara in oggetto”.
Il medesimo arresto giurisprudenziale, tuttavia, si era già
spinto oltre, precisando che “nessuna sanzione espulsiva
–che, comunque, sarebbe stata nulla per le stesse ragioni
sopra ricordate- era prevista dalla lettera di invito in
ordine all’indicazione dell’oggetto dell’appalto
sull’esterno del plico contenente l’offerta”.
Si può pertanto affermare che il TAR romano si sia posto
sulla stessa lunghezza d’onda: si rammenta all’uopo che la
questione affidata alle sue cure era caratterizzata dalla
mancanza assoluta, sul plico, di ogni riferimento alla gara
da svolgersi, considerando altresì che la concorrente aveva
facoltà di partecipare solo per uno o più dei lotti in cui
era suddivisibile la fornitura e nemmeno questo dato era
prima facie rintracciabile.
Sul punto è bene notare come il ragionamento seguito dai
Giudici capitolini si ponga in frontale contrasto con quanto
sostenuto qualche mese prima dall’Autorità Nazionale
Anticorruzione mediante la determinazione n. 1 del
08/01/2015, dedicata ai “Criteri interpretativi in ordine
alle disposizioni dell’art. 38, comma 2-bis, e dell’art. 46,
comma 1-ter, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163”, laddove è
dato inequivocabilmente leggere che, “con riferimento
alle modalità di presentazione delle offerte, costituiscono
cause di esclusione le seguenti ipotesi: - mancata
indicazione sul plico esterno generale del riferimento della
gara cui l’offerta è rivolta”; nello stesso atto è stato
ulteriormente specificato che, invece, non possono causare
esclusioni né “la mancata o errata indicazione, su una o
più delle buste interne, del riferimento alla gara cui
l’offerta è rivolta, nel caso in cui detta indicazione sia
comunque presente sul plico generale esterno, debitamente
chiuso e sigillato” né “la mancata indicazione del
riferimento della gara su uno o più documenti componenti
l’offerta”; identiche argomentazioni si ritrovano nella
determinazione n. 4 del 10/10/2012.
Pare perciò di capire che, secondo l’Autorità, debba essere
ritenuta irrinunciabile l’esigenza di verificare il rispetto
del comma 1-bis dell’art. 46 citato in relazione alla
necessità di impedire la partecipazione qualora vi sia “incertezza
assoluta sul contenuto … dell’offerta”, ossia ciò che
potrebbe sostenersi essere accaduto proprio nel caso deciso
con la statuizione in commento.
A parere di chi scrive occorre tenere presente che la
sentenza n. 12060/2015 emanata dal TAR Roma ha dovuto
dirimere una questione la cui decisione non poteva essere
affrontata senza prestare particolare attenzione al fatto
che ci si trovava sul sottile e, spesso, scomodo crinale
delineatosi tra applicazione del principio sostanzialistico,
cui in questo caso è stata accordata prevalenza anche in
virtù della presumibile volontà di assicurare il risultato
di perseguire l’interesse pubblico favorendo la massima
partecipazione alle gare (il cd. “favor partecipationis”)
e considerazione del principio formalistico (volto ad
attribuire importanza maggiore al rispetto delle forme a
confronto con le finalità conseguite), al quale, sempre
secondo la decisione in parola, non può ammettersi
supremazia allorquando, ad esempio, non vi siano (rilevanti)
dubbi sulla riconducibilità dell’offerta pervenuta a quel
tipo di gara. Il tutto tenendo ben presente il dato
normativo, rinvenibile in particolare nelle disposizioni
dettate dell’art. 46 del Codice dei Contratti Pubblici.
Orbene il Tribunale capitolino ha, come visto, optato per
una estensione del principio sostanzialistico: ciò si desume
allorché si ponga mente alla rilevanza attribuita al
comportamento posto in essere dalla resistente la quale ha,
tra l’altro, perfino invitato l’impresa poi ricorrente a
partecipare alla prima delle sedute di gara previste, cosa
che ha contribuito a rafforzare l’idea dell’illegittimità
della disposta esclusione. Si può supporre che tale incedere
sia stato valutato un po’ contraddittorio.
Ci si chiede però quale potrebbe essere la soluzione qualora
ci si trovi di fronte ad un caso in cui, presentato un plico
confezionato con le medesime caratteristiche di quello che
ha dato luogo alle contestazioni sfociate nella sentenza in
commento, la stazione appaltante, contrariamente a quanto
allora accaduto, ne rifiutasse la consegna oppure non
invitasse la concorrente ad assistere alle sedute pubbliche
previste per l’espletamento della gara, decretandone
conseguentemente l’esclusione: sarebbe ancora ammissibile
ritenere che tali manchevolezze non integrerebbero
un’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta? Come
farebbe la P.A. a sapere con esattezza a quale procedura sia
da riferirsi la documentazione ricevuta? Potrebbe invero
essere assai difficile evincerlo; del resto l’A.N.AC., come
visto, ha dichiarato che proprio tale evenienza dovrebbe
condurre all’esclusione del mittente.
Vero è che, se l’indicazione della gara fosse riportata
sulle altre buste rinvenute all’interno del plico, i
funzionari non addetti a quella procedura dovrebbero
consegnare immediatamente la documentazione a chi di dovere
ovverosia alla commissione insediata per la gestione della
gara cui si riferisce (o, comunque, all’ufficio all’uopo
preposto), e quindi diversa da quella che ha dovuto rompere
i sigilli esterni; d’altro canto potrebbe però ancora
osservarsi che, così facendo, non sarebbe garantita
l’integrità complessiva della domanda di partecipazione
poiché il plico arriverebbe già aperto sulla scrivania dei
commissari e nessuno potrebbe assicurarne la corretta
formazione: ad esempio non sarebbe possibile arguire, a
posteriori, se tutte le buste richieste erano
originariamente presenti nel plico stesso.
Ecco allora che, a proposito della condivisibilità nel
merito della sentenza in commento, ci sia consentita qualche
perplessità, benché non si possa che aderire alla tesi per
cui appare senz’altro più rispondente all’interesse generale
far prevalere il principio sostanzialistico rispetto a
quello formalistico: sebbene la lex specialis non
contemplasse come da compiersi a pena d’esclusione la
menzione sul plico dell’oggetto (e dei lotti per i quali si
intendeva concorrere) della gara, ed a prescindere dalla
potenziale nullità ex art. 46, comma 1-bis, D.Lgs. 163/2006,
di una simile prescrizione eventualmente imposta, nondimeno
viene da chiedersi come la P.A. abbia potuto destinare senza
incertezze la documentazione a quella (e non ad altra)
procedura, con tutte le possibili conseguenze poc’anzi
paventate. A meno che non ci potessero essere dubbi sulla
sua riconducibilità a quella specifica selezione in quanto
la stazione appaltante, riconosciuta la provenienza del
plico da quell’impresa, sapeva già che quest’ultima avrebbe
potuto presentare un’offerta riferibile solo a quella gara,
come nel caso di procedure ristrette o negoziate ovvero,
allargando ulteriormente il campo delle ipotesi, che il
termine di scadenza previsto per la consegna delle domande
di partecipazione facesse presumere che il plico pervenuto
non potesse riferirsi che a quella stessa competizione. Ma
la vicenda decisa dal TAR Roma atteneva ad una procedura
aperta, indetta vieppiù non da un piccolo Comune bensì dalla
Regione Lazio che, si può immaginare, debba occuparsi
contemporaneamente di diverse procedure ad evidenza
pubblica, col risultato di aumentare il rischio di
confusione tra una gara e l’altra.
Sull’argomento si rinviene un precedente che, seppur ormai
molto risalente tanto da riguardare un caso concretizzatosi
ben prima dell’introduzione (avvenuta nel 2011) del comma
1-bis dell’art. 46 del Codice dei Contratti Pubblici e
perciò da prendere con parecchio beneficio di inventario
visto il radicalmente mutato panorama legislativo, rileva la
legittimità della richiesta di apposizione sull’esterno del
plico dell’oggetto della gara, adempimento che, però, era
stato previsto sotto pena di esclusione: “l’art. 8 del
capitolato speciale di gara stabilisce, a pena di
esclusione, che sul plico contenente l’offerta e la relativa
documentazione sia chiaramente apposto: l’oggetto della
gara, il lotto o i lotti di partecipazione, ed il nominativo
della società mittente. La clausola, lineare ed inequivoca,
non lascia adito a dubbi quanto al contenuto delle
indicazioni da apporre sul plico, di talché in ordine a tale
profilo deve escludersi l’applicabilità dell’invocato
principio del “favor partecipationis”, che, tenuto conto
della presenza di una espressa comminatoria di esclusione,
soccombe dinanzi al necessario rispetto della parità di
trattamento dei concorrenti” (TAR Toscana, Sez. II,
sent. n. 1587 del 06/11/2009).
Si può ad ogni modo affermare che la conclusione cui è
giunto il Collegio capitolino si segnala per la marcata
apertura verso la massima possibilità di consentire la
partecipazione alle procedure ad evidenza pubblica,
definendo non ostativa nemmeno la mancata indicazione della
gara d’appalto sulla parte esterna del plico contenente le
offerte, in quanto motivo di esclusione non contemplato
dalla normativa né rispondente ad uno specifica necessità di
protezione degli interessi sottesi all’azione delle PP.AA.,
così come enunciati dall’art. 46 del D.Lgs. 163/2006, pur
con tutte le riserve che si è ritenuto opportuno evidenziare
sopra (link a
www.altalex.com). |
APPALTI:
Subappalto, senza sentire l’azienda niente
revoca. TAR di Torino.
Anche se la stazione appaltante
valuta a sua discrezione l’affidabilità delle imprese in
gara, non può revocare un subappalto senza contraddittorio
per l’apertura di un’inchiesta penale a carico della
subappaltatrice poiché, nel confronto con la ditta, la
condotta contestata dai pm può risultare anche non grave per
l’appalto.
Il TAR Piemonte -sentenza
16.10.2015 n. 1474, II Sez.– ha annullato così la
revoca immediata e senza il fissato preavviso (articolo 7,
legge n. 241/1990) di un subappalto di lavori edili decisa
da un’azienda ospedaliera per una notizia di reato iscritta
a carico del legale rappresentante di una subappaltatrice
per il presunto smaltimento illecito di rifiuti pericolosi.
Per i giudici, «è ben possibile che l’instaurazione del
contraddittorio con i soggetti interessati permetta di
raggiungere una differente valutazione delle condotte di
inadempimento contrattuale», posto che «in via di principio,
le prime risultanze delle indagini preliminari non
consentono di attribuire con certezza all’impresa
subappaltatrice una condotta di «grave negligenza o
malafede», ai sensi dell'articolo 38, primo comma – lettera
f), del Codice dei contratti pubblici».
Come precisato,
«l’indefettibilità del contraddittorio discende, anche
nell’ambito degli appalti pubblici, dall’articolo 47,
paragrafo 2, della Carta dei diritti dell’Unione europea,
per effetto del quale il diritto di ogni individuo di essere
ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un
provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio è stato
elevato a principio comunitario, quale parte integrante del
“diritto ad una buona amministrazione”» (articolo Il Sole 24 Ore del 12.11.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
1. Invertendo l’ordine di prospettazione, ha carattere
assorbente ed è fondato il secondo ordine di censure, con
cui la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 7
della legge n. 241 del 1990.
L’Azienda, infatti, non ha consentito di controdedurre agli
addebiti emersi nel procedimento penale in ordine allo
smaltimento non autorizzato di rifiuti pericolosi da
cantiere nei cassoni di raccolta presenti all’interno
dell’area ospedaliera, né ha giustificato il mancato
esercizio del contraddittorio con ragioni d’indifferibilità
ed urgenza.
D’altronde, che vi fosse un’insopprimibile urgenza di
provvedere senza preavviso sembra da escludere: per
ammissione della stessa difesa dell’Amministrazione,
infatti, il subappalto sarebbe giunto a naturale scadenza
appena un mese dopo la revoca (il 20.03.2015).
Avendo presente che, in via di principio,
le prime risultanze delle indagini preliminari non
consentono di attribuire con certezza all’impresa
subappaltatrice una condotta di “grave negligenza o
malafede”, ai sensi dell’art. 38, primo comma – lett.
f), del Codice dei contratti pubblici, l’Amministrazione
avrebbe dovuto porre la ricorrente nelle condizioni di
giustificare i fatti accaduti o, quanto meno, di dimostrarne
la non gravità ai fini della perdita del requisito
soggettivo di capacità.
Proprio con riguardo alla causa di
esclusione prevista dalla lett. f) del primo comma dell’art.
38, è stato condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza
che l’intrinseca natura discrezionale della valutazione
rimessa alla stazione appaltante rende “vieppiù
censurabile l’omissione della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per l’applicazione
dell’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del
1990” (cfr.
TAR Puglia, Bari, sez. I, 04.04.2012 n. 659).
Ad avviso del Collegio, il vizio del contraddittorio non può
essere degradato come inidoneo all’annullamento degli atti
impugnati, in applicazione dell’art 21-octies, secondo
comma, della legge sul procedimento. Infatti,
al cospetto di una decisione della stazione
appaltante ampiamente discrezionale, avente ad oggetto
l’incidenza degli episodi pregressi di negligenza
sull’affidabilità dell’impresa, non incombe sulla parte
ricorrente l’onere di fornire la prova circa la rilevanza
del momento partecipativo, essendo invece vero il contrario.
Sul punto, l’Amministrazione resistente non ha fornito in
modo convincente la prova, seppur in chiave prognostica,
della inutilità a priori dell’apporto partecipativo delle
società subappaltatrici destinatarie della misura di
autotutela.
Con specifico riguardo alla fattispecie di esclusione
disciplinata dall’art. 38, primo comma – lett. f), del
Codice dei contratti pubblici, è ben possibile che
l’instaurazione del contraddittorio con i soggetti
interessati permetta di raggiungere una differente
valutazione delle condotte di inadempimento contrattuale. Ad
esempio, le imprese subappaltatrici avrebbero potuto rendere
giustificazioni in ordine all’effettivo riparto di
responsabilità tra tutti i soggetti presenti nel cantiere,
ai rapporti concretamente intercorsi con l’appaltatrice
Se.Me. s.r.l., all’individuazione del soggetto che ha
ordinato o consentito lo smaltimento illecito delle lane di
roccia e dei materiali isolanti nei cassoni di raccolta, e
così via.
Come affermato da autorevole dottrina,
l’indefettibilità del contraddittorio discende, anche
nell’ambito degli appalti pubblici, dall’art. 47, par. 2,
della Carta dei diritti dell’Unione Europea, per effetto del
quale il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima
che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento
individuale che gli rechi pregiudizio è stato elevato a
principio comunitario, quale parte integrante del “diritto
ad una buona amministrazione” ed in perfetta
corrispondenza con le garanzie discendenti dall’art. 6, par.
1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Con il
conseguente necessario adeguamento, innanzitutto in via di
interpretazione conforme, delle norme di diritto interno ed
in particolare degli artt. 21-octies e 21-nonies della legge
n. 241 del 1990, nelle fattispecie in cui l’Amministrazione
procedente non abbia rispettato gli obblighi partecipativi.
La Corte europea, infatti, ha affermato che il necessario
svolgimento di un procedimento in contraddittorio presuppone
non soltanto la facoltà per l’interessato di accedere al
fascicolo, ma anche il dovere per l’autorità procedente di
dare comunicazione d’ufficio all’interessato degli elementi
fattuali e giuridici rilevanti per consentirgli un
contraddittorio effettivo, tale da poter influire sull’esito
della decisione: in tal senso, non è consentita la
violazione delle regole poste a garanzia dei soggetti
coinvolti nel procedimento, anche se, in ipotesi, tale
violazione non abbia influito in concreto sull’esito della
decisione amministrativa
(cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 25.07.2000,
Mattoccia; Id., sent. 05.10.2000, APEH Uldozotteinek
Szovetsege).
Né può dubitarsi, alla luce della consolidata giurisprudenza
della Corte, circa l’attinenza dei procedimenti di
affidamento degli appalti pubblici ai “diritti e doveri
di carattere civile” richiamati dall’art. 6, par. 1,
della Convenzione (cfr., tra molte: Corte europea dei
diritti dell’uomo, sent. 10.07.1998, Tinnelly & Sons Ltd;
Id., sent. 21.09.2006, Arac; Id., sent. 11.12.2008,
Velted-98 AD; da ultimo TAR Piemonte, sez. II, 10.07.2015 n.
1212, in relazione a diversa causa di esclusione
disciplinata dall’art. 38 del Codice dei contratti
pubblici).
L’accoglimento del motivo determina di per sé l’annullamento
della deliberazione n. 125/2015 del 10.02.2015 (revoca in
autotutela dell’autorizzazione al subappalto tra la società
ricorrente e la Se.Me. s.r.l.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Canalizzazioni fognarie, Palazzo Spada: ancora vigenti le
norme tecniche del 1977. Le canalizzazioni fognarie devono
essere tenute distanti e al di sotto delle condotte di acqua
potabile.
“Il principio secondo cui le
canalizzazioni fognarie devono essere tenute distanti ed al
di sotto delle condotte di acqua potabile rappresenta a
tutt’oggi una indiscussa regola generale della buona
progettazione (la cui finalità è preordinata a scongiurare
che, in caso di rottura o di perdita delle tubazioni, i
reflui fognari possano raggiungere le condotte contenenti
gli altri sottoservizi poste a quote inferiori) e quindi si
tratta della precauzione in grado di evitare in radice il
grave pericolo di contaminazioni fognarie della rete idrica”.
Lo ha precisato la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 15.10.2015 n. 4770.
---------------
MASSIMA
Le norme tecniche previste dalla deliberazione
del Comitato Interministeriale del 04.02.1977 continuano ad
applicarsi anche dopo l'abrogazione della L. n. 319/1976,
per effetto del D.lgs. n. 152/1999, il cui art. 62, comma 7,
sancisce testualmente che, «per quanto non espressamente
disciplinato dal presente decreto, continuano ad applicarsi
le norme tecniche di cui alla suddetta delibera del Comitato
interministeriale per la tutela delle acque del 04.02.1977».
Né il quadro normativo è stato modificato dal D.lgs. n.
152/2006, che ha abrogato il D.lgs. n. 152/1999, in quanto
nel suddetto D.Lgs. n. 156 non è sancita alcuna testuale
abrogazione delle disposizioni tecniche di dettaglio, le
quali, essendo finalizzate a rendere operative la normativa
di garanzia e di salvaguardia di beni fondamentali
dell'ordinamento, nel cui ambito rientra anche la tutela
delle acque dall'inquinamento e del territorio, non possono
ritenersi tacitamente travolte dall’entrata in vigore della
nuova disciplina del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, salvi
i casi, che non ricorrono nella fattispecie in esame, in cui
lo jus superveniens non introduca altre norme tecniche
afferenti alla medesima fattispecie.
Ritiene al riguardo la Sezione che la perdurante vigenza
delle sopra richiamate disposizioni di natura tecnica –sulla
buona progettazione e sulla sicurezza nel posizionamento
delle canalizzazione fognaria- si possa desumere dalla
assenza di una chiara ed espressa loro successiva
abrogazione e dalla mancata introduzione di statuizioni
tecniche sostitutive in materia: accedendo alla
prospettazione della società appellante, si dovrebbe
ravvisare una vera e propria lacuna normativa, con
conseguente inadeguata tutela del diritto alla salute,
costituzionalmente tutelato, con una soluzione in contrasto
anche con la ratio del nuovo quadro normativo di tutela
delle acque e dell’ambiente (d.lgs. 252/2006, d.lgs. n.
121/2011, la direttiva comunitaria n. 2008/99, le
fattispecie penali di cui agli artt. 438-439-440-452-632-635
cod. pen.).
In altri termini, una interpretazione secundum
Constitutionem dell’attuale quadro normativo induce a
ritenere che siano ancora vigenti le disposizioni tecniche
in questione.
---------------
6.1- Con il primo motivo, parte appellante ha dedotto
l’erroneità della sentenza di primo grado per aver
dichiarato inammissibile sia il ricorso principale che i
motivi aggiunti, a seguito dell’accoglimento del ricorso
incidentale proposto dall’aggiudicataria.
In particolare con il motivo 2.3 del ricorso incidentale,
accolto dal TAR, l'ATI ACMAR aveva dedotto la violazione
delle previsioni di cui all'Allegato n. 4 della delibera del
04.02.1977 del Comitato interministeriale per la tutela
delle acque dall'inquinamento e delle connesse regole
generali di progettazione.
Infatti l'elaborato denominato «Quaderno profili altimetrici
servizi di progetto», concernente l’offerta progettuale
dell’Alma Cis, prevedeva l’ubicazione della fognatura delle
acque reflue al di sopra delle canalizzazioni relative ai
restanti servizi oggetto dell'appalto, ivi compresi quelli
relativi alla canalizzazione dell'acqua potabile in
violazione del suddetto allegato n. 4, che, per gli impianti
di fognatura, sancisce, al punto 8, che nel sottosuolo le
reti fognarie vanno realizzate in modo tale da evitare
«interferenze» con le reti di altri sottoservizi e che la
loro canalizzazione deve essere tenuta debitamente distante
ed al di sotto delle condotte di acqua potabile: una regola
corrispondente di buona amministrazione è contenuta anche
nel capitolo III, punto IV, della circolare del Ministero
dei Lavori Pubblici n. 11633 del 07.01.1974.
L’odierna appellante deduce invece che la citata
deliberazione del Comitato Interministeriale del 04.02.1977 non sarebbe più in vigore, in quanto va considerata
attuativa dell'art. 2 della L. 319/1976, abrogata dal D.lgs.
n. 152/1999, a sua volta abrogato dall'art. 175 del D.lgs.
n. 152/2006, e che in ogni caso anche nel caso di sua
integrale applicazione non si sarebbe dovuta disporre la sua
esclusione dalla gara.
6.2. Tale prospettazione non risulta fondata.
Infatti, le norme tecniche previste dalla suindicata
delibera continuano ad applicarsi anche dopo l'abrogazione
della L. n. 319/1976, per effetto del D.lgs. n. 152/1999, il
cui art. 62, comma 7, sancisce testualmente che, «per quanto
non espressamente disciplinato dal presente decreto,
continuano ad applicarsi le norme tecniche di cui alla
suddetta delibera del Comitato interministeriale per la
tutela delle acque del 04.02.1977».
Né il quadro normativo è stato modificato dal D.lgs. n.
152/2006, che ha abrogato il D.lgs. n. 152/1999, in quanto nel
suddetto D.Lgs. n. 156 non è sancita alcuna testuale
abrogazione delle disposizioni tecniche di dettaglio, le
quali, essendo finalizzate a rendere operative la normativa
di garanzia e di salvaguardia di beni fondamentali
dell'ordinamento, nel cui ambito rientra anche la tutela
delle acque dall'inquinamento e del territorio, non possono
ritenersi tacitamente travolte dall’entrata in vigore della
nuova disciplina del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006, salvi i
casi, che non ricorrono nella fattispecie in esame, in cui
lo jus superveniens non introduca altre norme tecniche
afferenti alla medesima fattispecie.
Ritiene al riguardo la Sezione che la perdurante vigenza
delle sopra richiamate disposizioni di natura tecnica –sulla buona progettazione e sulla sicurezza nel
posizionamento delle canalizzazione fognaria- si possa
desumere dalla assenza di una chiara ed espressa loro
successiva abrogazione e dalla mancata introduzione di
statuizioni tecniche sostitutive in materia: accedendo alla prospettazione della società appellante, si dovrebbe
ravvisare una vera e propria lacuna normativa, con
conseguente inadeguata tutela del diritto alla salute,
costituzionalmente tutelato, con una soluzione in contrasto
anche con la ratio del nuovo quadro normativo di tutela
delle acque e dell’ambiente (d.lgs. 252/2006, d.lgs.
n. 121/2011, la direttiva comunitaria n. 2008/99, le
fattispecie penali di cui agli artt. 438-439-440-452-632-635
cod. pen.).
In altri termini, una interpretazione secundum
Constitutionem dell’attuale quadro normativo induce a
ritenere che siano ancora vigenti le disposizioni tecniche
in questione.
6.3. Per completare la disamina della prima censura, resta
infine da esaminare il profilo più suggestivo, secondo cui,
anche a voler ritenere in vigore le regole desumibili dalla
suindicata delibera del 1977, quest’ultima, per gli impianti
di fognatura, prevede non solo la statuizione del punto 8),
secondo cui le canalizzazioni fognarie devono essere tenute
debitamente distanti ed al di sotto delle condotte di acqua
potabile, ma anche la statuizione del successivo punto 9,
che, come evidenziato dalla stessa appellante nel ricorso in
appello (pag. 18), sancisce che «quando per ragioni plano-altrimetriche non fosse possibile (tenere le condotte
al di sopra di quelle dell’acqua potabile), devono essere
adottati particolari accorgimenti al fine di evitare la
possibilità di interferenze reciproche».
Ad avviso dell’appellante, una lettura coordinata dei due
paragrafi renderebbe il divieto superabile con «l’adozione
di particolari accorgimenti», che la società Alma C.i.s.
deduce di aver adottato.
Ritiene la Sezione che, sotto il profilo normativo, tale
premessa deduzione è di per sé pienamente condivisibile, ma
non può comunque comportare l’accoglimento della censura,
dovendosi dare rilevanza al contenuto del progetto
presentato ed alle valutazioni formulate al riguardo
dall’Amministrazione, che non possono in quanto tali essere
sostituite da opposte valutazioni del Collegio.
Al riguardo, rileva il dato testuale del richiamato punto 9,
che attribuisce al posizionamento in deroga delle
canalizzazioni fognarie -al di sopra le altre condotte– un
carattere eccezionale e cioè soltanto «per ragioni
plano-altimetriche», evidenziate in grassetto dalla stessa
difesa dell’appellante nel ricorso in appello.
Il punto 9 pertanto ha un contenuto specifico di carattere
oggettivo e preclusivo, nel senso che non può essere
invocato unilateralmente (in sede amministrativa o
giurisdizionale) dal concorrente partecipante alla gara, che
ritenga –per una propria valutazione- di presentare
un’offerta progettuale con tali caratteristiche in deroga:
le «ragioni plano-altimetriche» possono essere ravvisate
solo ove siano prospettate all’amministrazione e questa le
abbia considerate effettivamente sussistenti.
Viceversa, l’appellante solo in giudizio –e per saltum- ha
rilevato la sussistenza di «difficoltà» plano altimetriche
per sostenere l'applicabilità della disposizione
derogatoria, senza però allegare nella sua progettazione
tecnica, in sede amministrativa, alcuna prova concreta della
sussistenza di ragioni obiettivamente ostative tali da
legittimare la collocazione delle condotte dell'acqua
fognaria ad un'altezza inferiore rispetto a quelle
dell'acqua potabile, tanto che l’amministrazione non ne ha
neppure ravvisato la sussistenza.
Inoltre, la riprova dell’insussistenza di tali «ragioni
plano-altimetriche» in senso oggettivo è data dal fatto che
l’aggiudicataria ha presentato un’offerta progettuale senza
necessità di avvalersi della deroga e che la stessa
appellante, oltre a non averne fatto alcun cenno in sede di
offerta progettuale, non ha neanche indicato alcuna altra
offerta di concorrenti, partecipanti alla gara, che avessero
presentato un progetto in deroga.
Sotto tale profilo, neppure risulta plausibile la
sussistenza di obiettive «ragioni plano-altimetriche»,
tali da giustificare la presentazione di un progetto basato
su una regola diversa da quella generale, disposta dal punto
8 della delibera del 1977.
6.4. Conclusivamente, il principio secondo cui le
canalizzazioni fognarie devono essere tenute distanti ed al
di sotto delle condotte di acqua potabile rappresenta a
tutt’oggi una indiscussa regola generale della buona
progettazione (la cui finalità è preordinata a scongiurare
che, in caso di rottura o di perdita delle tubazioni, i
reflui fognari possano raggiungere le condotte contenenti
gli altri sottoservizi poste a quote inferiori) e quindi si
tratta della precauzione in grado di evitare in radice il
grave pericolo di contaminazioni fognarie della rete idrica,
peraltro per opere da realizzare –nella specie- in zona
altamente sismica, trattandosi delle infrastrutture
nell'ambito urbano del centro storico della città di
L'Aquila a seguito dei gravi danni subiti a seguito del
devastante terremoto del 2009 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.10.2015 n. 4770 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ritiene che l’applicazione
della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale
e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica
a carico della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza
presentata a tal fine dalla parte privata ad essa
interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la
legalità violata, costituisce il contenuto che, in via
ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo
dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo
accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori
adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza
pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso
principio di buon andamento dell'azione amministrativa,
entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca
l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in
termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli
interessi pubblici cui è preposta.
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di
verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi
d’ufficio in una fase anteriore all'emissione dell'ordine di
demolizione. Si deve perciò ritenere che l'ordine di
demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica
di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e
comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la
fase esecutiva.
L'ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico- ricognitivo dell'abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso.
Pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Con una prima
censura si sostiene la illegittimità dell’ordine di
demolizione, in relazione alla violazione dell’articolo 34
del d.p.r. 380 del 2001, in quanto il Comune avrebbe dovuto
comminare la sanzione pecuniaria in relazione al pregiudizio
che la demolizione apporterebbe alla parte conforme al
titolo edilizio.
Tale censura è infondata.
La giurisprudenza ritiene che l’applicazione della sanzione
pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons. Stato,
sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013 ), e possa
essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico
della parte pubblica, ma a seguito di un'istanza presentata
a tal fine dalla parte privata ad essa interessata. In altri
termini, ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la
legalità violata, costituisce il contenuto che, in via
ordinaria, è tenuto ad assumere l'atto repressivo
dell'illecito, l’amministrazione è tenuta al solo
accertamento che l'opera sia abusiva, posto che ulteriori
adempimenti, relativi all'eseguibilità dell'ordine "senza
pregiudizio per la parte conforme" richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso
principio di buon andamento dell'azione amministrativa,
entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca
l'esigenza che essa sia strutturata normativamente in
termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli
interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del
2012).
Ne consegue che la parte pubblica non può essere
onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da
effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all'emissione
dell'ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che
l'ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di
una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece
segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse
durante la fase esecutiva (Tar Lazio I-quater n. 316 del
2014, 5277 del 2013; n. 762 del 2013).
L'ingiunzione di
demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del
procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e
presuppone solo un giudizio di tipo analitico- ricognitivo
dell'abuso commesso, mentre il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell'abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall'art. 33 comma 2, e 34 comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001)
può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine
(questa volta non indirizzato all'autore dell'abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell'Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in
totale difformità dal permesso di costruire o delle opere
edili costruite in parziale difformità dallo stesso;
pertanto; soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l'ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (Tar Lazio I-quater n. 3105 del 2012) .
Ne deriva l’infondatezza della censura relativa alla
violazione dell’articolo 34 del d.p.r. 380 del 2001, che
potrà essere eventualmente applicato dall’Amministrazione,
qualora ne ricorrano i presupposti, anche su istanza di
parte, nella fase esecutiva della demolizione
(TAR Lazio-Roma,
Sez. IV,
sentenza 14.10.2015 n. 11671 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il
concetto di pertinenza, sotto il profilo edilizio, sia
configurabile non solo quando vi sia un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, ma
anche una dimensione ridotta e modesta del manufatto
rispetto alla cosa cui esso inerisce e soprattutto priva di
carico urbanistico.
In particolare, quindi, viene esclusa la natura di
pertinenza quando sia realizzato un nuovo volume, essendo
ravvisabile la natura pertinenziale solo quando si tratti di
opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o
un porticato aperto da tre lati o di opere che comportino un
nuovo e modesto volume 'tecnico'.
Quanto alle ulteriori censure, proposte evidentemente
avverso il diniego di condono, si può prescindere dall’esame
dell’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa
comunale, in relazione alla evidente infondatezza delle
stesse.
La censura relativa alla violazione dell’art. 7 del d.l. del
23.01.1982 convertito nella legge n. 94 del 1982 è,
infatti, infondata, trattandosi in primo luogo del
riferimento ad una norma non più in vigore. Inoltre, la
giurisprudenza è costante nel ritenere che il concetto di
pertinenza, sotto il profilo edilizio, sia configurabile non
solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e
strumentale tra cosa accessoria e quella principale, cioè un
nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa
ad un uso pertinenziale durevole, ma anche una dimensione
ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso
inerisce e soprattutto priva di carico urbanistico. In
particolare, quindi, viene esclusa la natura di pertinenza
quando sia realizzato un nuovo volume, essendo ravvisabile
la natura pertinenziale solo quando si tratti di opere che
non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un
porticato aperto da tre lati o di opere che comportino un
nuovo e modesto volume 'tecnico' (Consiglio di Stato
n. 406 del 2015; n. 4290 del 2014)
(TAR Lazio-Roma,
Sez. IV,
sentenza 14.10.2015 n. 11671 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sindacati
non radicati? L'appalto viene annullato.
Deve essere annullata l'aggiudicazione dell'appalto se
l'offerta dell'impresa nella determinazione degli oneri
contributivi si rifà a contratti collettivi che non
risultano sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e
datoriali più radicate nella categoria in cui opera
l'impresa.
È quanto emerge dalla
sentenza
13.10.2015 n. 4699 della III Sez. del Consiglio di
stato.
Anomalia evidente
Devono considerarsi anomale perché troppo basse le offerte
che si discostano in modo evidente dai costi medi del lavoro
indicati nelle tabelle predisposte dal ministero in base ai
valori previsti dalla contrattazione collettiva.
L'offerta
deve, infatti, risultare nel suo complesso affidabile e
conveniente, al momento dell'aggiudicazione, e in quel
momento l'aggiudicatario deve dare garanzia di una seria
esecuzione del contratto. E quando la discordanza dagli
indici standard è forte bisogna dubitare della serietà
dell'offerta.
Nella specie è evidente che l'offerta
presentata dall'azienda è più conveniente per la stazione
appaltante, che ha evidenziato un risparmio di circa 4
milioni di euro per l'intera durata del contratto. Ma questo
non può giustificare le conclusioni raggiunte all'esito del
giudizio di anomalia: l'adeguatezza dell'offerta non può
essere valutata solo sulla sua ritenuta convenienza
economica e prescindendo dai suoi contenuti, ma implica
anche una rigorosa verifica della sua serietà e della sua
legittimità che nella fattispecie non risulta effettuata.
Gli oneri contributivi non sono infatti calcolati rispetto
al Ccnl «giusto».
Spese compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2015).
---------------
MASSIMA
6.- Tutto ciò premesso, considerato che la principale
censura formulata dall’appellante GPI riguarda la ritenuta
anomalia dell’offerta del RTI SDS che aveva presentato
un’offerta economica molto inferiore all’importo della gara
e alle offerte delle altre concorrenti per aver calcolato il
costo del lavoro sulla base di un contratto sottoscritto da
sigle sindacali non rappresentative,
si deve ricordare, in generale, che gli articoli 86 e 87 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici),
prevedono che l’Amministrazione, prima di procedere
all’aggiudicazione definitiva, debba effettuare una
valutazione sulla congruità complessiva dell’offerta
ritenuta migliore in presenza di determinati indicatori di
possibile anomalia dell’offerta, e possa procedere ad un
approfondimento sulla possibile anomalia anche in assenza di
tali indicatori.
L’offerta deve, infatti, risultare nel suo complesso
affidabile e conveniente, al momento dell’aggiudicazione, e
in tale momento l’aggiudicatario deve dare garanzia di una
seria esecuzione del contratto
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014).
6.1.- In particolare, l’art. 86 del codice dei contratti
pubblici individua, nei commi 1 e 2, distinti indici, a
seconda che il criterio di aggiudicazione sia quello del
prezzo più basso, ovvero, come nella fattispecie, quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per
l’individuazione delle offerte che sono sospettate di essere
anomale (cd. indicatori automatici di anomalia). In presenza
di tali indicatori la Stazione appaltante è quindi tenuta ad
attivare una verifica sulla possibile anomalia dell’offerta.
L’art. 86, al comma 3, con una clausola generale valida per
entrambe le ipotesi, stabilisce poi che la stazione
appaltante possa procedere in ogni caso alla valutazione
della congruità di ogni altra offerta che in base ad
elementi specifici appaia anormalmente bassa.
6.2.-
La scelta dell’Amministrazione di attivare in tali casi il
procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta è,
pertanto, ampiamente discrezionale e può, per questo, essere
sindacata davanti al giudice amministrativo solo per
manifesta illogicità o per la presenza di rilevanti errori
di fatto.
6.3.-
L’esercizio di tale facoltà comporta, pertanto, l’apertura
di un subprocedimento in contraddittorio con il concorrente
che ha presentato l’offerta ritenuta a rischio di anomalia,
che può concludersi con un giudizio di anomalia o di non
anomalia dell’offerta. Anche tale giudizio è ampiamente
discrezionale e può essere sindacato, in conseguenza,
davanti al giudice amministrativo solo per manifesta
illogicità o per la presenza di rilevanti errori di fatto.
7.- Tenuto conto del rilievo che in molti contratti ha il
costo del lavoro e tenuto conto delle esigenze di tutela dei
lavoratori, il legislatore ha aggiunto, all’art. 86, con
l’art. 1, comma 909, lettera a) della legge 27.12.2006, n.
296, il comma 3-bis che prevede che gli enti aggiudicatori
verifichino «che il valore economico sia adeguato e
sufficiente rispetto al costo del lavoro … il quale deve
essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto
all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o
delle forniture».
7.1.- Il Ministero del Lavoro è, quindi, incaricato della
predisposizione di apposite tabelle che tengono conto dei
valori economici previsti dalla contrattazione collettiva
stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale e
assistenziale, delle differenti aree territoriali e dei
diversi settori merceologici.
In esito all’istruttoria disposta da questa Sezione, il
Ministero del Lavoro ha fornito ampi ragguagli sulle
modalità con le quali in concreto tale funzione è
esercitata.
8.- Per effetto di tale ultima disposizione
il costo del lavoro è ritenuto indice di anomalia
dell’offerta quando non risultino rispettati i livelli
salariali che la normativa vigente –anche a base pattizia–
rende obbligatori.
Una determinazione complessiva dei costi basata su un costo
del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati
normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per
i lavoratori del settore può costituire, infatti, indice di
inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del
principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di
pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che
abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da
erogare.
8.1.- La giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha
peraltro precisato che
una anomalia dell’offerta non può essere automaticamente
desunta dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali,
richiamate dall’art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei
contratti pubblici, considerato che i costi medi del lavoro,
indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro,
in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva,
non costituiscono parametri inderogabili ma sono indici del
giudizio di adeguatezza dell'offerta che costituiscono
oggetto della valutazione dell’Amministrazione
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015).
8.2.- Si è quindi affermato che
devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si
discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro
indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro
in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva,
con la conseguenza che può ritenersi ammissibile un'offerta
che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia
eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei
lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione
collettiva.
Mentre occorre, perché possa dubitarsi della congruità
dell’offerta, che la discordanza sia considerevole ed
ingiustificata
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 3329 del 03.07.2015).
8.3.- Si è ulteriormente chiarito che
non possono non essere considerati, in sede di valutazione
delle offerte, aspetti particolari ed elementi che possono
variare da azienda ad azienda. Ai fini di una valutazione
sulla congruità dell’offerta, la stazione appaltante deve,
pertanto, tenere conto anche delle possibili economie che le
diverse singole imprese possono conseguire (ed anche con
riferimento al costo del lavoro), nel rispetto delle
disposizioni di legge e dei contratti collettivi
(Consiglio di Stato, sez. III, n. 1743 del 02.04.2015 cit.).
9.- Nella fattispecie, come emerge dagli atti, l’Azienda
Ospedaliera, aveva rilevato che fra la proposta formulata
dal RTI SDS, che aveva offerto uno sconto del 29,30 sulla
base d’asta, e gli altri concorrenti vi era un evidente
scostamento. Pur non ricorrendo la fattispecie prevista
dall’art. 86, comma 2, del codice dei contratti pubblici,
con la deliberazione n. 776 del 22.07.2014, ha quindi
ritenuto «opportuno valutare l’eventuale anomalia
dell’offerta ai sensi del comma 3 del medesimo art. 86 del
D. Lgs. 163/2006».
Con la stessa delibera l’Amministrazione ha quindi
individuato la Commissione prevista dall’art. 88, comma
1-bis, del codice dei contratti pubblici.
9.1.- Il RUP, nominato Presidente della Commissione, ha, in
conseguenza, invitato il concorrente a fornire le relative
giustificazioni, con particolare riferimento ai costi del
personale indicati nell’offerta.
9.2.- Nella seduta del 28.08.2014, la Commissione, viste le
giustificazioni trasmesse, ha ritenuto di dover approfondire
«l’aspetto riguardante le tabelle riportanti il costo
medio orario relativo ai contratti collettivi di lavoro
applicati dal RTI». La Commissione ha pertanto deciso di
verificare, presso il CNAI, la disponibilità di un documento
ufficiale con il costo del lavoro del settore terziario
relativo al contratto applicato dal RTI SDS, e di
richiedere, allo stesso RTI, un documento ufficiale con la
tabella del costo orario totale per il 4° e 5° livello (CNAI
Terziario).
La Commissione ha poi anche deciso di acquisire da un
professionista del settore un parere «in merito alla
correttezza della “Tabella costo orario totale 4° e 5°
livello (CNAI Terziario)” prodotta dal concorrente».
9.3.- Nella successiva seduta del 09.09.2014, la
Commissione, vista la risposta del RTI SDS, in data
05.09.2014 (con allegata una certificazione rilasciata dallo
studio di consulenza commerciale De Pace Francesco, revisore
legale), vista la nota del CNAI del 02.09.2014 e viste le
note trasmesse, in data 3 e 05.09.2014, dal rag. Ma.Sa.,
revisore ufficiale dei conti, esperto contabile ed iscritto
all’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili, ha ritenuto che «l’offerta formulata dal
concorrente non sia affetta da anomalia» (verbale n. 2
del 9 settembre 2014).
10.- Considerato che la Commissione non ha esplicitato, con
una propria motivazione, le ragioni del suo convincimento,
si deve evidenziare che il RTI SDS aveva chiarito, con nota
del 05.09.2014, che il contratto collettivo nazionale
applicato era il CCNL CNAI, settore Terziario e Servizi,
regolarmente depositato presso il Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro (CNEL), sul cui sito era
reperibile.
Il RTI SDS, dopo aver ricordato che per il detto CCNL non
esistono tabelle ufficiali di determinazione del costo
orario del lavoro, ha evidenziato che nel contratto sono
però espressamente riportate le tabelle retributive sulla
base delle quali, tenendo conto dell’incidenza degli altri
elementi retributivi e degli oneri previdenziali,
assicurativi, fiscali e assistenziali e delle ore di
effettivo lavoro (per le ferie, permessi ed assenze), ha
potuto determinare il costo orario aziendale.
Con successiva nota, sempre in data 05.09.2014, il RTI SDS
ha meglio precisato le modalità di determinazione del totale
delle ore annuali lavorate (1.821), calcolate sulla base
delle ore di ferie annuali (160), delle ore di permessi
annuali (16), delle ore annuali per festività (72) e
dell’incidenza delle altre ore non lavorate per malattie e
varie (19).
10.1.- La Commissione ha poi tenuto conto delle osservazioni
fatte pervenire dal rag. Ma.Sa., revisore ufficiale dei
conti, esperto contabile ed iscritto all’Ordine dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili, che, con nota del
03.09.2014, ha affermato che il costo paga base utilizzato
dagli iscritti CNAI è inferiore (nella misura poi meglio
specificata) a quello utilizzato dalle tabelle del contratto
collettivo della Confcommercio e prevede contributi per il “Fondo
Est” in misura inferiore a quelli previsti per il fondo
“Enmoa”.
Il rag. Ma.Sa. ha poi aggiunto che il contratto collettivo
della Confcommercio prevede anche la quattordicesima
mensilità, mentre il contratto CNAI esprime i valori in 13
mensilità.
Il rag. Sa. ha inoltre precisato che i conteggi INPS e INAIL
erano corretti (benché il conteggio INAIL evidenziasse
l’aliquota più bassa e con minima copertura rischi, da
verificare con una analisi del rischio infortuni reale) e
che il conteggio IRAP presentava una differenza poco
significativa.
10.2.- A seguito di richiesta del RUP di ulteriori
chiarimenti sul totale delle ore lavorate, pari (per il RTI
SDS) a 1821, il rag. Sa., con successiva mail del
05.09.2014, ha aggiunto che per il contratto Confcommercio
il totale delle ore lavorate era pari a 1720 annue.
11.- Così ricostruito il quadro normativo e fattuale e
tenuto conto delle risultanze dell’istruttoria compiuta, la
Sezione ritiene che il giudizio di anomalia condotto
dall’Azienda Ospedaliera e la conseguente aggiudicazione
della gara al RTI SDS non possano ritenersi esenti dalle
censure sollevate da GPI.
L’Azienda Ospedaliera ha, infatti, ritenuto congrua ed
affidabile un’offerta che prevedeva un ribasso di quasi il
30% sull’importo a base d’asta (notevolmente superiore al
ribasso offerto dalle altre imprese partecipanti alla gara),
per effetto dell’applicazione di un contratto collettivo che
prevede livelli retributivi decisamente inferiori rispetto a
quelli previsti dalle tabelle ministeriali di riferimento e
che risulta stipulato da associazioni non comparativamente
più rappresentative, come accertato all’esito
dell’istruttoria disposta da questa Sezione, nell’ambito di
un settore che è regolato dalla contrattazione collettiva e
nel quale sono presenti contratti, stipulati da soggetti
sindacali comparativamente maggiormente rappresentativi, che
sono stati tenuti in considerazione dalle tabelle
ministeriali di riferimento.
12.- In proposito, si deve, innanzitutto, evidenziare che,
come ha rilevato il Ministero del Lavoro all’esito di
un’accurata istruttoria, il CCNL CNAI, utilizzato dal RTI
SDS nella sua offerta, non può considerarsi siglato da
rappresentanze sindacali (dei datori di lavoro e dei
lavoratori) comparativamente più rappresentative (pagine 6
ed 8 della Relazione istruttoria).
12.1.- Tale (rilevante) circostanza non è stata peraltro
oggetto di una particolare attenzione nel giudizio di
anomalia effettuato dall’Azienda Ospedaliera resistente (e
non è stata nemmeno considerata dal TAR che ha ritenuto che
incombesse alla ricorrente GPI fornire la prova di tale
elemento).
Mentre tale circostanza doveva essere oggetto di particolare
attenzione nel giudizio di anomalia tenuto conto che, come
si è già prima ricordato,
l’art. 86, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici
non solo prevede che, nella predisposizione delle gare di
appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte, gli
enti aggiudicatori siano tenuti a verificare che il valore
economico dell’offerta sia adeguato e sufficiente rispetto
al costo del lavoro (e al costo relativo alla sicurezza), ma
stabilisce anche che il parametro di valutazione del costo
del lavoro è costituito dalle apposite tabelle redatte
periodicamente dal Ministro del lavoro «sulla base dei
valori economici previsti dalla contrattazione collettiva
stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed
assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle
differenti aree territoriali».
13. Nella fattispecie, mancando il giudizio di non anomalia
dell’offerta del RTI SDS di ogni motivazione, si può
ritenere, dall’esame degli atti sui quali il giudizio è
stato formulato, che l’Azienda Ospedaliera, in base agli
atti acquisiti e ai chiarimenti forniti dal proprio
consulente, ha ritenuto sufficiente rilevare che il
contratto CNAI, utilizzato dal RTI SDS, era esistente e
valido, perché depositato presso il CNEL, e che, quindi,
l’offerta presentata era congrua anche perché faceva
applicazione di tale contratto (pur avendo l’istruttoria
evidenziato differenze nel trattamento retributivo dei
lavoratori, non irrilevanti).
13.1.- Ma
tale giudizio non può ritenersi legittimo non essendo stata
fatta, come si è potuto accertare, alcuna concreta
valutazione sull’effettiva possibile applicazione in una
gara pubblica del contratto CNAI, sottoscritto da sigle
sindacali non maggiormente rappresentative, ed essendo
mancata anche un’effettiva comparazione dei costi indicati e
delle ore di lavoro stimate con le tabelle ministeriali
predisposte per il settore in questione, essendosi il rag.
Sa. limitato ad effettuare alcune comparazioni con il
contratto collettivo nazionale “Confcommercio”.
14.- Secondo l’Azienda Ospedaliera (e il resistente RTI SDS)
in Italia il datore di lavoro può peraltro liberamente
scegliere il CCNL da applicare ai rapporti di lavoro. Ed è
rispetto al contratto collettivo prescelto che può essere
condotto il giudizio di adeguatezza e sufficienza della
retribuzione e quindi può essere valutata la possibile
anomalia dell’offerta.
Ma, sebbene il contratto CNAI non possa ritenersi invalido,
come pure ha affermato l’appellante, tenuto conto che non vi
sono norme che ne prevedono espressamente la nullità o
l’inefficacia, è però evidente che il
vigente sistema normativo pone come parametro di
riferimento, per la valutazione della congruità degli oneri
per il lavoro del personale impiegato negli appalti
pubblici, i costi determinati dalle tabelle predisposte dal
Ministro del lavoro. E tali tabelle hanno come esclusivo
riferimento i valori economici previsti dalla contrattazione
collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi di entrambe le parti che lo sottoscrivono.
14.1.-
Il possibile utilizzo, nel settore pubblico, di contratti
collettivi di lavoro stipulati da sigle sindacali che non
hanno il sufficiente grado di rappresentatività (e che per
questo non sono considerati nella determinazione delle
citate tabelle ministeriali) costituisce pertanto
un’evidente anomalia del sistema.
15.- Peraltro, come anche il TAR ha evidenziato,
se si ammettono senza riserve offerte che sono formulate
facendo applicazione di costi del lavoro molto più
contenuti, oggetto di contratti collettivi di lavoro
sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi,
si determinano pratiche di dumping sociale perché
solo alcune imprese possono beneficiare di disposizioni che
giustificano un costo del lavoro inferiore.
Peraltro le altre aziende di quel settore, per essere
competitive e non essere estromesse dal mercato, soprattutto
in gare cd. labour intensive nelle quali è decisivo
il costo del lavoro, sarebbero costrette poi ad utilizzare
quegli stessi contratti collettivi che, anche se non
sottoscritti da rappresentanze dei sindacati maggiormente
rappresentativi, offrono trattamenti retributivi inferiori,
con una evidente alterazione del sistema.
15.1.-
Senza contare che in tal modo i lavoratori potrebbero
vedersi applicate, in modo sostanzialmente unilaterale,
condizioni di lavoro stabilite da sigle sindacali a loro del
tutto sconosciute.
15.2.- Peraltro,
considerato che in gare come quella in questione è previsto
il passaggio dei lavoratori già occupati da un datore di
lavoro ad un altro (art. 13 del bando), per la presenza
della cd. clausola sociale, se si ammettono senza riserve
offerte formulate facendo applicazione di costi del lavoro
molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di
lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente
rappresentativi, la competizione fra le imprese partecipanti
alla gara si svolgerebbe non sulla base di una migliore o
diversa articolazione del lavoro (e quindi sulle base di
caratteristiche proprie dell’impresa) ma in base ai diversi
costi del lavoro determinati dall’applicazione di diversi
contratti collettivi anche eventualmente sottoscritti da
sindacati non adeguatamente rappresentativi.
15.3.-
Ciò conferma la necessità che il costo del lavoro debba
avere come parametro di riferimento quello stabilito dalle
tabelle ministeriali del settore interessato che sono
calcolate sulla base della contrattazione collettiva
stipulata dai sindacati comparativamente più
rappresentativi.
16.- Sebbene, come ha sottolineato nella sua memoria
l’Azienda Ospedaliera resistente, la lex specialis di
gara non prescriveva, nella fattispecie, alcun obbligo per i
concorrenti di applicare al proprio personale un determinato
contratto collettivo, non può tuttavia convenirsi
sull’affermazione della stessa Azienda secondo la quale, in
conseguenza, era liberamente applicabile da parte del RTI
SDS il contratto CNAI.
16.1.- Il giudizio di anomalia avrebbe dovuto essere,
invece, particolarmente rigoroso perché il settore è
regolato da contratti collettivi nazionali di lavoro
stipulati da soggetti sindacali comparativamente
maggiormente rappresentativi, come è stato confermato
dall’istruttoria disposta da questa Sezione, e perché il
contratto CNAI non rientra fra quelli stipulati da soggetti
sindacali comparativamente maggiormente rappresentativi.
Mentre la procedura di verifica di anomalia condotta
dall’Azienda Ospedaliera ha permesso al RTI SDS di
giustificare i propri costi del lavoro sulla base di un CCNL
che, in virtù del chiaro disposto dell'art. 86, comma 3,
cit., non poteva essere impiegato come valido parametro di
riferimento e che presentava poi, come si è accertato,
diversi non irrilevanti scostamenti rispetto ai legittimi
parametri indicati.
17.-
E’ vero che, come si è prima ricordato, le tabelle
ministeriali, secondo la giurisprudenza amministrativa,
costituiscono solo un parametro di riferimento nella
valutazione di una possibile anomalia dell’offerta. Ma una
possibile differenza del costo del lavoro determinato (in
concreto) nell’offerta dal costo indicato nelle tabelle
ministeriali può essere giustificata dalle diverse
particolari situazioni aziendali e territoriali e dalla
capacità organizzativa dell’impresa che possono rendere
possibile, in determinati contesti particolarmente virtuosi,
anche una riduzione dei costi del lavoro.
Come si è già in precedenza ricordato, questa Sezione ha
affermato in proposito che
i costi indicati nelle tabelle ministeriali sono costi medi,
tipologici, e non possono non essere considerati, in sede di
valutazione delle offerte, aspetti che riguardano le singole
imprese (diverse per natura, caratteristiche, agevolazioni e
sgravi fiscali ottenibili). In conseguenza, ai fini della
valutazione della migliore offerta, si può tenere conto
anche delle possibili economie che le singole imprese
possono conseguire (anche con riferimento al costo del
lavoro), nel rispetto delle disposizioni di legge e dei
contratti collettivi
(Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1743 del 02.04.2015,
cit.).
17.1.-
La ritenuta possibile presentazione di offerte da parte di
imprese che affermano di utilizzare contratti collettivi che
non rientrano fra quelli stipulati da associazioni
maggiormente rappresentative risulta, invece, del tutto
estranea alle suddette valutazioni riguardanti le specifiche
caratteristiche dell’attività di impresa.
18.- Il resistente RTI SDS, nella sua memoria conclusiva, ha
sostenuto che anche la Corte Costituzionale, nella recente
sentenza n. 51 del 2015, ha ribadito il principio che i
contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative non hanno
efficacia erga omnes.
Ma se è vero che in tale sentenza la Corte ha affermato che
la censurata disposizione riguardante i soci lavoratori di
società cooperative (art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del
2007) non assegnava ai contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative efficacia erga omnes, in contrasto
con quanto statuito dall’art. 39 della Costituzione, la
stessa Corte ha poi affermato, dichiarando non fondata la
questione sollevata, che l’indicata disposizione,
nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio
di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive
nei settori in cui operano le società cooperative, «si
propone di contrastare forme di competizione salariale al
ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da
tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e
della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata
nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni
comparativamente più rappresentative».
Tali conclusioni sono del tutto coerenti con quanto ritenuto
dalla Sezione nel caso in esame.
19.- Si deve poi anche considerare che, come ha evidenziato
nelle sue memorie la FILCAMS CGIL, l’art. 1 del d.l. n. 338
del 09.10.1989 (Disposizioni urgenti in materia di evasione
contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di
sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento dei
patronati), convertito in legge, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 07.12.1989, n. 389, ha
previsto, al comma 1, che «la
retribuzione da assumere come base per il calcolo dei
contributi di previdenza e di assistenza sociale non può
essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da
leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle
organizzazioni sindacali più rappresentative su base
nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti
individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo
superiore a quello previsto dal contratto collettivo».
L’art. 2, comma 25, della legge n. 549 del 28.12.1995, ha
poi precisato che il predetto articolo 1 del decreto-legge
09.10.1989, n. 338, si interpreta nel senso che, in caso di
pluralità di contratti collettivi intervenuti per la
medesima categoria, la retribuzione da assumere come base
per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali
è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di
lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria.
Il legislatore ha, quindi, stabilito che i contratti
collettivi da considerare, per la determinazione degli oneri
contributivi, nel rispetto dell’art. 36 della Costituzione,
sono quelli sottoscritti dai sindacati dei lavoratori e dei
datori di lavoro comparativamente più rappresentativi nella
categoria, su base nazionale.
20.- Si deve poi aggiungere che il giudizio di non anomalia
effettuato dall’Azienda Ospedaliera resistente, come è
emerso dall’istruttoria compiuta, non può considerarsi
legittimo anche perché non irrilevanti (perché superiori al
6,5%) sono gli scostamenti dei livelli retributivi
considerati nelle tabelle ministeriali e il CCNL CNAI.
21.- Non può pertanto essere condivisa la sentenza appellata
che, nell’erroneo presupposto della non dimostrata carenza
di rappresentatività delle organizzazioni sindacali che
hanno sottoscritto il contratto CNAI, ha ritenuto non
viziato il giudizio di adeguatezza dell’offerta del RTI SDS.
22.- Del resto
se pure l’offerta del RTI SDS è chiaramente più conveniente
per l’Azienda Ospedaliera resistente, che ha evidenziato un
risparmio di circa 4 milioni di euro per l’intera durata del
contratto, tuttavia tale circostanza non può giustificare le
conclusioni raggiunte all’esito del giudizio di anomalia,
tenuto conto l’adeguatezza dell’offerta non può essere
valutata solo sulla sua ritenuta convenienza economica e
prescindendo dai suoi contenuti, ma implica anche una
rigorosa verifica della sua serietà e della sua legittimità
che, nella fattispecie, per i motivi esposti, non risulta
effettuata.
23.- In conclusione, per tutti gli esposti motivi, l’appello
deve essere accolto e,
in integrale riforma dell’appellata sentenza del TAR per la
Lombardia, Sezione staccata di Brescia, Sezione II, n. 1470
del 31.12.2014, deve essere annullato il giudizio di non
anomalia effettuato dall’Azienda Ospedaliera resistente
sull’offerta presentata dal RTI SDS e la conseguente
aggiudicazione allo stesso RTI della gara in questione.
Sono fatti salvi i successivi provvedimenti
dell’Amministrazione.
23.1.- Ai sensi degli articoli 121 e 122 del c.p.a., il
contratto eventualmente nelle more sottoscritto dall’Azienda
Ospedaliera con il RTI SDS deve ritenersi inefficace a
decorrere dal termine di 90 giorni dalla data della notifica
o comunicazione in via amministrativa, se anteriore, della
presente decisione. |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare l’aggiudicazione di un
appalto.
La pubblicazione della delibera di
aggiudicazione sul sito web della stazione appaltante non
costituisce comunque e di per sé sola forma di pubblicità
idonea a determinare la decorrenza del termine di
impugnazione.
Questo indirizzo si è formato con
riferimento ad impugnative nei confronti dei provvedimenti
di esclusione, laddove per quanto riguarda le aggiudicazioni
valgono i principi enunciati da Ap. n. 31 del 2012, in virtù
dei quali deve essere attribuita valenza decisiva alla
comunicazione ai sensi della disposizione speciale del
codice dei contratti pubblici da ultimo citata.
Con il motivo che
per esigenze logiche conviene esaminare in via prioritaria
Elcal eccepisce la tardività del ricorso introduttivo, in
quanto proposto quando il termine decadenziale –nella specie
da ritenersi decorrente dalla pubblicazione del
provvedimento di aggiudicazione sul sito web della stazione
appaltante– era ormai scaduto.
L’eccezione non merita positiva considerazione in quanto
–come del resto chiarito da questo Consiglio con la sentenza
n. 55 del 2015 opportunamente richiamata dalla appellata e
alle cui motivazioni si fa integrale rinvio per esigenze di
sinteticità– la pubblicazione della delibera di
aggiudicazione sul sito web della stazione appaltante non
costituisce comunque e di per sé sola forma di pubblicità
idonea a determinare la decorrenza del termine di
impugnazione.
Quindi la aggiudicataria non può affermare che la ricorrente
avesse avuto –per effetto di tale pubblicazione- piena
conoscenza dell’aggiudicazione in epoca anteriore alla
ricezione della comunicazione prevista dall’art. 79 del
codice degli appalti.
Fermo quanto sopra, ad avviso del Collegio il termine per
impugnare la delibera di aggiudicazione decorre in realtà,
in linea generale, soltanto dalla ricezione di tale
comunicazione da parte degli altri concorrenti.
Vero è che sul piano sistematico la prevalente
giurisprudenza amministrativa non annette carattere di
esclusività alle forme comunicative previste dall’art. 79,
statuendo che queste devono essere coordinate con le regole
generali sulla piena conoscenza enunciate dall'art. 41,
comma 2, cod. proc. amm..
Ma -come precisamente osservato- questo indirizzo si è
formato con riferimento ad impugnative nei confronti dei
provvedimenti di esclusione, laddove per quanto riguarda le
aggiudicazioni valgono i principi enunciati da Ap. n. 31 del
2012, in virtù dei quali deve essere attribuita valenza
decisiva alla comunicazione ai sensi della disposizione
speciale del codice dei contratti pubblici da ultimo citata
(cfr. V Sez. n. 5244 del 2014)
(C.G.A.R.S.,
sentenza 13.10.2015 n. 631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nell'adozione
dell'ordinanza comunale di
demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi
deve qualificarsi controinteressato in senso sostanziale
il vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera
abusiva sanzionata, circostanza che nella fattispecie
concreta ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406
direttamente interessato alla rimozione della recinzione de
qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in
quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo.
Altresì, il soggetto medesimo riveste in concreto anche la
natura di controinteressato in senso formale, ovvero
agevolmente identificabile, essendo il mappale espressamente
indicato nella planimetria allegata al provvedimento
impugnato ed essendo, inoltre, richiamato nello stesso
ricorso.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione e
rimessa in pristino dello stato dei luoghi n. 72/2015, prot.
n. 4794, in data 06/05/2015 emessa dal Servizio Urbanistica
del Comune di Cassola, notificata l'11/05/2015.
...
- Considerato che l’eccezione di inammissibilità per mancata
instaurazione del contradditorio sollevata dal Comune di
Cassola è fondata, in quanto il ricorso non è stato
notificato ad alcun controinteressato, mentre, alla luce
dell’orientamento giurisprudenziale (v. C.d.S., IV,
06.06.2011, n. 3380, V, 03.07.1995, n. 991), deve
qualificarsi controinteressato in senso sostanziale il
vicino di casa che sia direttamente leso dall’opera abusiva
sanzionata, circostanza che nella fattispecie concreta
ricorre, essendo il proprietario del mappale n. 406
direttamente interessato alla rimozione della recinzione de
qua e alla natura demaniale dell’area del mappale stesso, in
quanto la recinzione de qua incide sul suo fondo;
- Rilevato, altresì, come il soggetto medesimo rivesta in
concreto anche la natura di controinteressato in senso
formale, ovvero agevolmente identificabile, essendo il
mappale espressamente indicato nella planimetria allegata al
provvedimento impugnato ed essendo, inoltre, richiamato
nello stesso ricorso;
- Ritenuto pertanto che il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile, mentre le spese di lite possono essere
compensate, tenuto conto di alcune oscillazioni
giurisprudenziali in materia
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 12.10.2015 n. 1034 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Vincolo espropriativo, ok al rinvio
dell'indennizzo.
Nel caso in cui il vincolo espropriativo si ricolleghi
all'approvazione di un progetto preliminare è evidente che
l'Amministrazione intende effettivamente eseguire
l'intervento, per cui è legittimo che l'indicazione
dell'indennizzo sia rinviata alle successive ordinarie fasi
del procedimento espropriativo, e la motivazione è
sufficiente allorché il provvedimento dia conto
dell'interesse all'esecuzione dell'opera.
Lo hanno ribadito i giudici della III Sez. del TAR Puglia-Bari
con la
sentenza 08.10.2015 n. 1290.
Un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (si
veda: Consiglio di stato n. 1317/2015) sostiene che, invece,
nell'ipotesi ordinaria di semplice reiterazione di un
vincolo espropriativo decaduto è esigibile e doverosa
l'esternazione da parte dell'Amministrazione dell'attualità
delle ragioni d'interesse pubblico che la sorreggono, nonché
dell'assenza di eventuali soluzioni alternative, e la
previsione d'indennizzo, tale da rendere concreta e
tangibile la volontà dell'Amministrazione di provvedere
effettivamente alla realizzazione dell'opera pubblica.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici
amministrativi pugliesi, l'opera di viabilità pubblica, per
la quale sarebbe stato necessario prenotare nuovamente con
vincolo destinato all'esproprio alcune delle aree della
ricorrente, non risultava inserita in un programma o piano
di opere pubbliche, né oggetto di un progetto specifico.
E pertanto l'aver sottolineato la necessità di mantenere il
vincolo su alcuni suoli che ne erano già gravati, in
mancanza di iniziative specificamente programmate, risulta
essere secondo i giudici baresi, solo una conferma della
previsione di piano generale che attende di essere attuata e
alla quale non hanno fatto seguito strumenti esecutivi.
Perciò, alla luce dei principi sopra richiamati, la
reiterazione dei vincoli avrebbe dovuto essere assistita da
un motivazione rinforzata e circostanziata anche con
riferimento all'aspetto economico dell'operazione di
esproprio.
Ed, inoltre, nel caso di reiterazione di un vincolo
ablatorio, la valutazione di soluzioni alternative
implicanti una modifica dell'assetto precedentemente
divisato finalizzata alla salvaguardia dell'interesse
privato, è un'operazione doverosa (articolo ItaliaOggi
Sette del 30.11.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è in parte fondato.
1. E’ infatti ormai acquisito in giurisprudenza il principio
secondo il quale, “[….] mentre
nell'ipotesi ordinaria di semplice reiterazione di un
vincolo espropriativo decaduto è esigibile e doverosa
l'esternazione da parte dell'Amministrazione dell'attualità
delle ragioni d'interesse pubblico che la sorreggono, nonché
dell'assenza di eventuali soluzioni alternative, e la
previsione d'indennizzo, tale da rendere concreta e
tangibile la volontà dell'Amministrazione di provvedere
effettivamente alla realizzazione dell'opera pubblica, nel
caso in cui il vincolo espropriativo si ricolleghi
all'approvazione di un progetto preliminare è invece
evidente che l'Amministrazione intende effettivamente
eseguire l'intervento, per cui è legittimo che l'indicazione
dell'indennizzo sia rinviata alle successive ordinarie fasi
del procedimento espropriativo, e la motivazione è
sufficiente allorché il provvedimento dia conto
dell'interesse all' esecuzione dell'opera"
(C.d.S n. 1317/2015).
Nel caso in decisione, come fatto presente dalla ricorrente
e non contestato dalle parti resistenti, l’opera di
viabilità pubblica, per la quale sarebbe stato necessario
prenotare nuovamente con vincolo destinato all’esproprio
alcune delle aree della ricorrente, non risulta inserita in
un programma o piano di opere pubbliche, né oggetto di un
progetto specifico.
Ne consegue che
l’aver ribadito la necessità di mantenere il vincolo su
alcuni suoli che ne erano già gravati, in mancanza di
iniziative specificamente programmate, è solo una conferma
della previsione di piano generale che attende di essere
attuata da oltre trent’anni alla quale –è incontestato- non
hanno fatto seguito strumenti esecutivi.
Per questo, alla luce dei principi sopra richiamati,
la reiterazione dei vincoli avrebbe dovuto essere assistita
da un motivazione rinforzata e circostanziata anche con
riferimento all’aspetto economico dell’operazione di
esproprio.
Non è invece sufficiente
–anzi appare tautologico perché così il Comune si limita a
ribadire le scelte di PRG-
l’aver posto a fondamento della decisione “la necessità
di non sconvolgere la rete della viabilità primaria
contemplata nel PRG e ritenuta necessaria per il corretto
sviluppo urbanistico in via di evoluzione" unitamente al
fatto che la realizzazione della previsione di PRG "potrebbe
comportare il decongestionamento del traffico".
Il Comune infatti, lungi dal prevedere una possibile
concreta alternativa all’esproprio, ha escluso in radice
qualsiasi variante alla previsione di PRG ritenendo che,
qualunque fosse, non sarebbe stata percorribile perché
avrebbe comunque modificato la viabilità progettata nel PRG.
Si tratta all’evidenza di un ragionamento che enuncia
un’ovvietà: ogni modifica dello status quo altera
l’assetto precedente.
Ciononostante,
nel caso di reiterazione di un vincolo ablatorio, la
valutazione di soluzioni alternative implicanti una modifica
dell’assetto precedentemente divisato finalizzata alla
salvaguardia dell’interesse privato, è un’operazione
doverosa, che nel
caso in esame è mancata del tutto.
Invece la motivazione in rassegna descrive un sistema viario
in evoluzione e, senza spiegare se e quando i suoli della
ricorrente saranno impiegati, ipotizza che la loro
trasformazione potrebbe comportare un decongestionamento del
traffico con benefici per la sicurezza stradale e con
l’abbattimento delle emissioni inquinanti.
Si tratta anche in questo caso della mera enunciazione di
finalità astratte, non già dell’esternazione dell’interesse
pubblico concreto corrispondente hinc et inde al
sacrificio nuovamente imposto alla ricorrente e,
soprattutto, non altrimenti evitabile.
Deve pertanto disporsi l’annullamento della delibera del
Consiglio comunale n. 106/2011 con effetto caducante della
delibera della Giunta regionale n. 61/2013 che in essa ha il
suo presupposto unico e necessario. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Rifiuti, accessibili a pochi i formulari
identificativi.
Non sono accessibili a chiunque ne faccia richiesta i
formulari di identificazione dei rifiuti, di cui
all'articolo 193 del dlgs. n. 152 del 2006 (codice
dell'ambiente), compilati dal produttore, controfirmati dal
trasportatore e dal destinatario. In quanto l'acquisizione
di informazioni sulla tracciabilità dei rifiuti da parte di
un'impresa possono essere rilevanti per motivi
concorrenziali e per acquisire dati commerciali riguardanti
la società concorrente e non per la tutela dell'integrità
della matrice ambientale.
Questo è l'importante principio espresso dal Consiglio di
Stato -Sez. III- con la
sentenza 05.10.2015 n. 4636 e
sentenza 05.10.2015 n. 4637
sull'accesso ai documenti ambientali.
L'accesso ai documenti
ambientali (art. 5, dlgs 195 /2005) è possibile solo per gli
che concernono esclusivamente lo stato dell'ambiente (aria,
sottosuolo, siti naturali ecc.) e i fattori che possono
incidere sullo stato dell'ambiente (sostanze, energie,
rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla
sicurezza umana, con l'esclusione di tutti i fatti e i
documenti che non abbiano un rilievo ambientale.
L'art. 5
del dlgs 195/2005 prevede anche le ipotesi di esclusione
dell'accesso all'informazione ambientale, che, fra l'altro,
può essere negato nei casi di richieste manifestamente
irragionevoli avuto riguardo alle finalità di garantire il
diritto d'accesso all'informazione ambientale (lett. b del
primo comma), ovvero espresse in termini eccessivamente
generici.
In base alla predetta disciplina, sebbene
l'accesso all'informazione ambientale possa essere
esercitato da chiunque, senza la necessità di dimostrare uno
specifico interesse, ciò non toglie che la richiesta di
accesso non possa essere formulata in termini eccessivamente
generici e debba essere specificamente formulata con
riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori o alle
misure di cui ai numeri 2 e 3 dell'articolo 2 del dlgs
195/2005.
In conseguenza di quanto fotografato, l'istanza di
accesso, pur se astrattamente riguardante un'informazione
ambientale, non esime il richiedente dal dimostrare che
l'interesse che intende far valere è un interesse
ambientale, come qualificato dal dlgs 195/2005, ed è volto
quindi alla tutela dell'integrità della matrice ambientale,
non potendo l'ordinamento ammettere che di un diritto nato
con specifiche determinate finalità si faccia uso per scopi
diversi di tipo economico patrimoniale.
Nel caso di specie i
formulari dei quali si è chiesto l'accesso attengono al
trasporto dei rifiuti sanitari, i quali se non correttamente
smaltiti possono arrecare pregiudizi all'ambiente
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2015).
---------------
MASSIMA
4.- Al riguardo, si deve ricordare che l’art. 3, comma
1, del d.lgs. n. 195 del 2005, ha previsto un accesso
facilitato (rispetto a quello disciplinato dall’art. 22
della legge n. 241 del 1990) per le informazioni “ambientali”,
al fine di assicurare, per la rilevanza della materia, la
maggiore trasparenza possibile dei relativi dati.
L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 195 del 2005 prevede,
quindi, un regime di pubblicità tendenzialmente integrale
delle informazioni di carattere ambientale, sia per ciò che
concerne la legittimazione attiva, con un ampliamento dei
soggetti legittimati all’accesso, e sia per il profilo
oggettivo, prevedendosi un’area di accessibilità alle
informazioni ambientali svincolata dai più restrittivi
presupposti dettati in via generale dagli artt. 22 e segg.
della legge n. 241 del 1990.
4.1.- Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 195 del 2005,
per informazione ambientale si intende qualsiasi
informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora,
elettronica od in qualunque altra forma materiale
concernente:
1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria,
l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio, i siti
naturali, le zone costiere e marine, la diversità biologica
ed i suoi elementi costitutivi e le interazioni tra questi
elementi;
2) fattori quali le sostanze, l'energia, il rumore, le
radiazioni o i rifiuti, anche quelli radioattivi, le
emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell'ambiente, che
incidono o possono incidere sugli elementi dell'ambiente,
individuati al numero 1);
3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le
disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi
ambientali e ogni altro atto, anche di natura
amministrativa, nonché le attività che incidono o possono
incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente di cui
ai numeri 1) e 2), e le misure o le attività finalizzate a
proteggere i suddetti elementi.
4.2.-
Le informazioni cui fa riferimento la citata normativa
riguardante l’accesso concernono quindi esclusivamente lo
stato dell’ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali etc.)
ed i fattori che possono incidere sullo stato dell’ambiente
(sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla
salute e sulla sicurezza umana, con l’esclusione di tutti i
fatti ed i documenti che non abbiano un rilievo ambientale.
4.3.- L’art. 5 del d.lgs. n. 195 del 2005 prevede anche le
ipotesi di esclusione dell’accesso all’informazione
ambientale, che, fra l’altro, può essere negato nei casi di
richieste manifestamente irragionevoli avuto riguardo alle
finalità di garantire il diritto d'accesso all'informazione
ambientale (lett. b del primo comma), ovvero espresse in
termini eccessivamente generici.
5.- In base alla predetta disciplina,
sebbene l’accesso all'informazione ambientale possa essere
esercitato da chiunque, senza la necessità di dimostrare uno
specifico interesse, ciò non toglie che la richiesta di
accesso non possa essere formulata in termini eccessivamente
generici
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 16.02.2011, n. 996)
e debba essere specificamente formulata con riferimento alle
matrici ambientali ovvero ai fattori o alle misure di cui ai
numeri 2 e 3 del citato articolo 2 del d.lgs. n. 195 del
2005
(Consiglio di Stato, sez. IV, 20.05.2014, n. 2557).
In conseguenza,
l'istanza di accesso, pur se astrattamente riguardante
un'informazione ambientale, non esime il richiedente dal
dimostrare che l'interesse che intende far valere è un
interesse ambientale, come qualificato dal d.lgs. n. 195 del
2005, ed è volto quindi alla tutela dell’integrità della
matrice ambientale, non potendo l'ordinamento ammettere che
di un diritto nato con specifiche determinate finalità si
faccia uso per scopi diversi di tipo economico patrimoniale
(Consiglio di Stato, Sez. V, 15.10.2009 n. 6339).
6.- Considerato che, nella fattispecie, la domanda di
accesso formulata dall’appellante non si fonda su una
preoccupazione circa lo stato di matrici ambientali ma è
volta all’acquisizione di informazioni che possono essere
rilevanti per l’impresa per motivi concorrenziali e per
acquisire dati commerciali riguardanti la concorrente,
si deve ritenere corretto il diniego all’accesso formulato
dall’Amministrazione resistente e ritenuto legittimo dal TAR
per l’Abruzzo con la sentenza appellata.
Sebbene, infatti, i formulari dei quali si è chiesto
l’accesso attengono al trasporto di rifiuti sanitari, che se
non correttamente smaltiti possono arrecare pregiudizi
all’ambiente, non per questo si può ammettere che il diritto
di accesso disciplinato per il perseguimento di finalità
ambientali possa essere utilizzato per finalità del tutto
diverse (economico-patrimoniali) e con un inutile aggravio
dell’attività dell’Amministrazione. |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze
minime edifici: le norme
sulle distanze tra edifici ex art. 9 d.m. 1444/1968 non si
applicano ai lucernari.
A prescindere dall'ambito di operatività
dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è
dubbio come lo stesso non possa comunque trovare
applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve
intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali
dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci”.
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a
dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza
fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio
di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante
lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo
piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo
considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice
civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del
vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto
consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al
riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare
applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza
le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete
finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo
perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.
---------------
1. Con il primo mezzo di gravame gli appellanti deducono
l'erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto
che “l’invocato articolo nove del D.M. n. 1444/1968 vincola
le amministrazioni locali solo in sede di predisposizione
della normativa urbanistica e comunque lo stesso non
potrebbe trovare applicazione in quanto nella specie non
vengono in evidenza distanze tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti, e ciò perché non può considerarsi
parete finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente
solo perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”
.
Per un verso, infatti, assumono che le norme sulle distanze
tra edifici sono inderogabili e tale inderogabilità
atterrerebbe “ai rapporti tra privati, ai quali è precluso
di disporre convenzionalmente una distanza inferiore
rispetto quella prevista dall'art. 9 del D. M. 02/04/1968 o
dai regolamenti urbanistici locali”.
Per altro verso, sostengono poi gli appellanti che avuto
riguardo alla ratio della norma in questione, la stessa
dovrebbe ritenersi applicabile anche nel caso in cui la
parete antistante sia in realtà un tetto dotato di aperture
lucifere.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, a prescindere dall'ambito di operatività
dell’invocato art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, non v'è
dubbio come lo stesso non possa comunque trovare
applicazione nel caso di specie.
La norma, infatti, fissa la distanza minima che deve
intercorrere tra “pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti” .
Sul piano formale, quindi, la stessa fa espresso ed
esclusivo riferimento alle pareti finestrate, per tali
dovendosi intendere, secondo l'univoco e costante
insegnamento della giurisprudenza anche di questa Sezione,
unicamente “le pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono
semplici luci” (cfr. Cass. Civ. Sez. II 06.11.2012 n. 19092;
30.04.2012 n. 6604; Cons. Stato Sez. IV 04.09.2013;
12.02.2013 n. 844).
Nel caso di specie, viceversa, la parete finestrata da cui a
dire degli appellanti dovrebbe calcolarsi la distanza
fissata dalla richiamata normativa, è il tetto dell'edificio
di loro proprietà da cui prendono luce ed aria, mediante
lucernari di tipo velux, gli ambienti situati al primo
piano.
Sennonché i velux in questione non possono di certo
considerarsi “vedute” alla stregua dell'articolo 900 codice
civile -non consentendo né di affacciarsi sul fondo del
vicino (prospectio) né di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente (inspectio)-, ma semplici luci in quanto
consentono il solo passaggio dell'aria e della luce.
Pertanto, correttamente il primo giudice ha osservato al
riguardo, come già sopra segnalato, che l'invocato art. 9
del D.M. n. 1444 del 1968 non può comunque “trovare
applicazione in quanto nella specie non vengono in evidenza
le distanze tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, e ciò perché non può considerarsi parete
finestrata il tetto dell'abitazione del ricorrente solo
perché caratterizzato da sette finestre di tipo velux”.
Ne, al riguardo, possono assumere rilievo le invocate
disposizioni di cui all'art. 1 della legge regionale n. 12
del 1999, che mirano a promuovere il recupero dei sottotetti
a fini abitativi, imponendo fra l'altro un particolare
rapporto aeroilluminante.
Si tratta, infatti, di disposizioni preordinate a garantire
luce ed aria ai sottotetti resi abitabili e non ad
introdurre normativamente nuove tipologie di vedute in
aggiunta a quella codicistica e, come tali, del tutto
irrilevanti ai fini odiernamente considerati.
Inammissibile si appalesa poi l'ulteriore profilo di
censura, sviluppato nell'ambito del motivo in esame, con cui
gli appellanti assumono che la sentenza avrebbe omesso di
considerare che l'edificio che verrà ad essere costruito
dalla Casa di Riposo avrà un'altezza, per il fronte
prospiciente la loro proprietà, di metri 15,29 e che
conseguentemente ai sensi dell'articolo nove del D. M. n.
1444/1968, nel caso in cui il tetto in questione non fosse
qualificato come parete finestrata, si dovrebbe applicare la
distanza pari all'altezza del fronte dell'edificio più alto.
Infatti, non avendo costituito motivo di impugnazione nel
ricorso di primo grado, la doglianza non può essere proposta
per la prima volta nell'odierna sede di appello.
A ciò aggiungasi che si tratta comunque di censura priva di
fondamento, in quanto la maggiorazione della distanza fino a
raggiungere la misura corrispondente all'altezza del
fabbricato più alto prevista dal terzo comma dell’art. 9 ,
si applica evidentemente negli stessi casi in cui sono
prescritti i limiti di distanza indicati dal primo comma del
medesimo articolo e, nel caso delle zone C, solo a pareti
finestrate di edifici antistanti.
Il richiamato terzo comma, infatti, non prevede una
ulteriore ipotesi distinta da quelle indicate dai commi
precedenti, ma semplicemente una maggiorazione delle
distanze “come sopra computate”, vale a dire nelle stesse
ipotesi in cui i commi precedenti prevedono il rispetto di
una determinata distanza tra fabbricati
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.10.2015 n. 4628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
In generale, la qualifica di controinteressato in senso
processuale richiede un requisito formale, dato
dall’indicazione del nominativo nel provvedimento
amministrativo, e un requisito sostanziale, costituito dalla
“sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento
della situazione attuale definita dal provvedimento stesso”.
L’autore di un esposto o di una segnalazione
all’Amministrazione non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro l’annullamento in via
di autotutela di un provvedimento amministrativo, anche se
all’esposto e al suo autore la P.A. –come nel caso di
specie- faccia esplicito riferimento nel provvedimento
impugnato.
Infatti, l’annullamento adottato nell’esercizio
del potere di autotutela è provvedimento emesso per il
raggiungimento di finalità di pubblico interesse, rispetto
alle quali vanno considerati estranei i soggetti autori di
esposti o di segnalazioni, i quali potranno semmai
intervenire volontariamente “ad opponenudum” nel giudizio
non quali titolari di un interesse sostanziale alla
conservazione dell’atto impugnato ma quali portatori di un
interesse di mero fatto, mediato e riflesso.
---------------
Una serie di circostanze di fatto, che questa Sezione si è
fatta carico d’indicare nella motivazione della decisione,
che non consentivano di equiparare la posizione
del “soggetto segnalatore” “a quella del "generico vicino di
casa", trattandosi invece di soggetto che lamenta la lesione
del suo diritto di proprietà, che ha provveduto a denunciare
presunti abusi edilizi realizzati a suo danno e che è stato
chiamato ad esser parte dei procedimenti amministrativi
conclusi con i provvedimenti impugnati”, e dovendosi
ritenere applicabile “l’orientamento che distingue tra la
posizione del "generico vicino di casa" e quella del "vicino
che è stato danneggiato dalla esecuzione delle opere
edilizie realizzate (...). Non si tratta ... di un vicino
qualunque, ma di un soggetto che ha un interesse qualificato
a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un
diritto di proprietà (...)".
Nella medesima prospettiva
si è
affermato
che
il vicino assume la veste di controinteressato quando –come
nella vicenda all’esame- l'adozione del provvedimento
sanzionatorio, recante comunque il nominativo del controinteressato, sia stata “non solo sollecitata da un
esposto del vicino medesimo, ma anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi
dell’art. 7 e ss. della L. 07.08.1990 n. 241) parimenti
comunicante il nominativo del controinteressato predetto,
dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che
è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il
provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal
provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto
e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle
distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello
dell’attuale appellante), con la conseguente individuazione
della posizione obbligatoriamente inclusa nel
contraddittorio sia procedimentale che processuale”.
Ancora
negli stessi termini
si è ritenuto che -a fronte di una
“complessa vicenda amministrativa [che] nasce e si interseca
a seguito di un contenzioso tra privati in ordine alle
distanze tra edifici confinanti”, nella quale i
provvedimenti amministrativi che hanno condotto al giudizio
sono stati adottati a seguito di denuncia da parte dei
confinanti- questi assumano la veste di controinteressati
se siano “non solo ben noti, in fatto, ai ricorrenti ....
ma anche menzionati nei provvedimenti impugnati ovvero negli
atti dei procedimenti che hanno preceduto i provvedimenti
impugnati”.
---------------
4.1. Con il primo motivo l’appellante sostiene che la
motivazione della sentenza impugnata non sarebbe
giuridicamente corretta.
In generale, la qualifica di controinteressato in senso
processuale richiede un requisito formale, dato
dall’indicazione del nominativo nel provvedimento
amministrativo, e un requisito sostanziale, costituito dalla
“sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento
della situazione attuale definita dal provvedimento stesso”.
L’autore di un esposto o di una segnalazione
all’Amministrazione non assume necessariamente la veste di controinteressato nel giudizio contro l’annullamento in via
di autotutela di un provvedimento amministrativo, anche se
all’esposto e al suo autore la P.A. –come nel caso di
specie- faccia esplicito riferimento nel provvedimento
impugnato.
Infatti, l’annullamento adottato nell’esercizio
del potere di autotutela è provvedimento emesso per il
raggiungimento di finalità di pubblico interesse, rispetto
alle quali vanno considerati estranei i soggetti autori di
esposti o di segnalazioni, i quali potranno semmai
intervenire volontariamente “ad opponenudum” nel giudizio
non quali titolari di un interesse sostanziale alla
conservazione dell’atto impugnato ma quali portatori di un
interesse di mero fatto, mediato e riflesso.
Nella specie
non sarebbero ravvisabili posizioni di controinteresse in
senso proprio; gli autori della segnalazione non sarebbero
portatori di un interesse particolare e differenziato; a
nulla rileverebbe in contrario che nella determinazione di
annullamento in autotutela n. 14/2015 sia stato previsto di
notificare il provvedimento anche ai signori Ro.Ma. e Ro.Da., e ciò anche se gli autori
dell’esposto sono proprietari confinanti del destinatario
del provvedimento di annullamento d’ufficio del titolo a
edificare; la posizione dei signori Ro.Ma. e
Da. risulta incisa solo in modo indiretto e riflesso
dalla determina n. 14/2015 in quanto il provvedimento
impugnato dinanzi al Tar è stato emanato nell’esercizio del
potere di autotutela dell’Amministrazione; l’esposto è una
semplice notizia per l’Amministrazione, la quale attiva i
poteri che l’Ordinamento le attribuisce.
Di qui la necessità
di una pronuncia d’ammissibilità del ricorso di primo grado,
e la conseguente riproposizione dei motivi non esaminati dal
giudice di primo grado. Motivi di merito che sono fondati e
meritano di essere accolti, con conseguente riforma della
sentenza, accoglimento del ricorso di primo grado e
annullamento dell’atto impugnato.
4.2. La tesi dell’appellante, in quanto applicata al caso in
esame, non convince.
Va premesso che di recente la sezione (v. sentenza n. 3553
del 2015), pronunciandosi su una controversia contrassegnata
dall’impugnazione, in primo grado, di un’ordinanza di
demolizione e di ripristino di opere edilizie abusive (un
“locale deposito e ampliamento garage”), e di atti
presupposti di annullamento in autotutela di titoli edilizi
in sanatoria, emanati a seguito di un esposto di un
proprietario d’area adiacente, comproprietario di terreni
destinati a corte comune, ha riformato la sentenza con la
quale il Tar aveva giudicato ammissibile il ricorso,
nonostante l’omessa notificazione dell’atto introduttivo
all’autore dell’esposto, richiamando il principio
giurisprudenziale per cui “il vicino, anche se ha provocato
interventi repressivi o in via di autotutela, non assume la
veste di controinteressato nei ricorsi che il titolare della
concessione edilizia promuove avverso provvedimenti di
revoca e/o di annullamento d’ufficio
(Consiglio di Stato,
sez. IV, n. 6606 del 15.12.2011)”.
Questa Sezione, nel riformare la sentenza di primo grado
dichiarando inammissibile il ricorso al Tar, ha sì
riconosciuto come il principio richiamato nella decisione
appellata sia effettivamente consolidato, e come la
trasposizione alla materia edilizia dell’orientamento per
cui la qualità di controinteressato, cui il ricorso, a pena
d’inammissibilità, dev’essere notificato, come previsto
dall’art. 41, comma 2, del cod. proc. amm., va riconosciuta
soltanto a “chi dal provvedimento impugnato riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica, abbia indotto la
giurisprudenza a statuire che in sede di impugnazione di
provvedimenti sanzionatori "non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario
instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia
palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il
terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche
quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso"
(Cons. St., sez. IV, 06.06.2011 n. 3380; Id., sez. VI, 18.04.2005, n. 1773; sez. V,
03.07.1995, n. 991)”
(decisioni alle quali si potrebbero aggiungere le sentenze
Cons. Stato, sez. III, n. 6138 del 2014 e sez. V n.
6074/2011 e –con specifico riguardo a una impugnazione di
atto di annullamento d’ufficio di titolo edilizio- Tar
Campania–Salerno, sez. I, n. 1981/2013-n. di est.).
Nella decisione n. 3553/2015
si è tuttavia rimarcato come nella specie la sentenza di
primo grado non avesse tenuto conto di una serie di
circostanze di fatto, che questa Sezione si è fatta carico
d’indicare nella motivazione della decisione, che non consentivano di equiparare la posizione
del “soggetto segnalatore” “a quella del "generico vicino di
casa", trattandosi invece di soggetto che lamenta la lesione
del suo diritto di proprietà, che ha provveduto a denunciare
presunti abusi edilizi realizzati a suo danno e che è stato
chiamato ad esser parte dei procedimenti amministrativi
conclusi con i provvedimenti impugnati”, e dovendosi
ritenere applicabile “l’orientamento che distingue tra la
posizione del "generico vicino di casa" e quella del "vicino
che è stato danneggiato dalla esecuzione delle opere
edilizie realizzate (...). Non si tratta ... di un vicino
qualunque, ma di un soggetto che ha un interesse qualificato
a difendere la propria posizione giuridica di titolare di un
diritto di proprietà (...)"
(Cons. St., sez. VI, 29.05.2007, n. 2742, concernente, come nella specie, un
provvedimento in autotutela relativo ad una concessione
edilizia in sanatoria).
Nella medesima prospettiva
si è
affermato
(Cons. St., sez. IV, 13.07.2011, n. 4233)
che
il vicino assume la veste di controinteressato quando –come
nella vicenda all’esame- l'adozione del provvedimento
sanzionatorio, recante comunque il nominativo del controinteressato, sia stata “non solo sollecitata da un
esposto del vicino medesimo, ma anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi
dell’art. 7 e ss. della L. 07.08.1990 n. 241) parimenti
comunicante il nominativo del controinteressato predetto,
dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che
è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il
provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal
provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto
e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle
distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello
dell’attuale appellante), con la conseguente individuazione
della posizione obbligatoriamente inclusa nel
contraddittorio sia procedimentale che processuale”.
Ancora
negli stessi termini
si è ritenuto che -a fronte di una
“complessa vicenda amministrativa [che] nasce e si interseca
a seguito di un contenzioso tra privati in ordine alle
distanze tra edifici confinanti”, nella quale i
provvedimenti amministrativi che hanno condotto al giudizio
sono stati adottati a seguito di denuncia da parte dei
confinanti- questi assumano la veste di controinteressati
se siano “non solo ben noti, in fatto, ai ricorrenti ....
ma anche menzionati nei provvedimenti impugnati ovvero negli
atti dei procedimenti che hanno preceduto i provvedimenti
impugnati”
(Cons. St., sez. VI, 29.05.2012, n. 3212)….”
(così, testualmente, e in modo condivisibile, Cons. Stato,
sez. VI, n. 3553/2015, cit.).
Le sopra evidenziate circostanze di fatto che caratterizzano
la vicenda in esame –ha concluso la sezione col recentissimo
arresto- conducono a considerare la sussistenza, con
riguardo alla posizione dell’autore dell’esposto, “sia
dell’elemento "sostanziale" (titolarità di un interesse
analogo e contrario alla posizione legittimante del
ricorrente), sia dell’elemento "formale" (indicazione
nominativa nel provvedimento e partecipazione procedimentale
di colui che ne abbia un interesse qualificato alla
conservazione)…”, con conseguente riforma della sentenza e
dichiarazione d’inammissibilità del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.09.2015 n. 4582 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
C'è la multa nonostante i confini.
Sentenza.
L'automobilista che incappa in una controllo dei vigili
posizionati fuori dal centro abitato non può tentare di
annullare la multa evidenziando l'incompetenza territoriale
della polizia municipale. Dentro ai confini del comune
infatti i vigili urbani hanno sempre licenza di multare i
trasgressori alle regole stradali.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
la
sentenza 23.09.2015 n. 18824.
Un utente motorizzato è stato fermato da una pattuglia di
agenti baresi e sanzionato per eccesso di velocità.
L'interessato ha proposto con successo doglianze fino al
tribunale locale ma la Cassazione ha valorizzato l'attività
degli operatori di vigilanza.
La competenza sanzionatoria della polizia municipale è
estesa all'intero territorio comunale, indipendentemente
dalla effettiva proprietà del tratto stradale interessato al
controllo.
In pratica dunque a parte le autostrade la polizia locale
può operare ovunque per la vigilanza stradale. Purché
all'interno dei confini geografici dell'ente territoriale di
propria competenza
(articolo ItaliaOggi del 27.11.2015).
---------------
MASSIMA
2.2 — Tanto premesso, il ricorso è fondato e va accolto
con riguardo ad entrambi i motivi. Questa Corte ha avuto più
volte occasione di pronunciarsi sulla competenza della
Polizia Municipale, anche con riguardo all'accertamento
delle infrazioni al Codice della Strada, affermando il
condiviso principio di diritto, citato dallo stesso giudice,
ma disatteso nella sua applicazione concreta, secondo cui la
competenza della Polizia Municipale sussiste su tutto il
territorio comunale, indipendentemente dall'Ente
proprietario della strada.
Di recente tale principio è stato ribadito con la sentenza
del 2012 n. 484, peraltro citata dallo stesso
controricorrente (anche se probabilmente per errore, perché
si fa riferimento ad una decisione interlocutoria di rinvio
alla pubblica udienza, mentre con la sentenza in questione
il ricorso è stato definito).
Tale sentenza chiarisce con ampia argomentazione la
questione dibattuta. Per questo la relativa motivazione,
pienamente condivisa dal Collegio, viene di seguito
interamente trascritta: «Dalla sentenza impugnata emerge
che la violazione è stata accertata sul tratto della SS n.
106 ricadente nel territorio del Comune di Riace.
Si tratta di stabilire se la polizia municipale avesse la
competenza all'accertamento delle violazioni commesse su
detto tratto di strada. Al quesito deve darsi risposta
positiva.
Gli organi di polizia municipale, nel territorio di
competenza, sono abilitati a compiere legittimamente la loro
attività di accertamento istituzionale nell'ambito
dell'espletamento dei servizi di polizia stradale, senza che
abbia rilievo la circostanza relativa alla tipologia della
strada che attraversa lo stesso, e quindi ben possono
effettuare accertamenti e contestazioni di violazioni di
norme del codice della strada anche quando il tracciato su
cui si verifica l'infrazione sia una strada statale al di
fuori del centro abitato.
In proposito va osservato quanto segue. A norma della L. n.
689 del 1981, art. 13, comma 3, "all'accertamento delle
violazioni punite con la sanzione amministrativa del
pagamento di una somma di danaro possono procedere anche gli
ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria". L'art. 57
c.p.p., indica fra gli agenti e ufficiali di polizia
giudiziaria "le guardie dei comuni", con competenza
"nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza".
Secondo la L. 07.03.1986, n. 65, art. 5 (recante la legge
quadro sull'ordinamento della polizia municipale), il
"personale che svolge servizio di polizia municipale",
nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza, ha
funzioni di polizia stradale (comma 1, lett. h), in
correlazione con quanto stabilito dal codice della strada
vigente, dovendosi ritenere rinvio formale e non recettizio
quello contenuto in tale norma al codice della strada del
1959. In base al disposto della L n. 65 del 1986, art. 3,
gli addetti al servizio di polizia municipale esercitano le
loro funzioni istituzionali "nel territorio di competenza".
Questa disciplina generale, che identifica l'ambito
territoriale di competenza della polizia municipale con il
territorio comunale, e che caratterizza la polizia locale
per la dimensione territoriale comunale di esercizio delle
funzioni (Corte cost., sentenza n. 740 del 1988), trova un
puntuale riscontro nell'art. 12 C.d.S., che al comma 1,
lett. e), attribuisce l'espletamento dei servizi di polizia
stradale "ai Corpi e ai servizi di polizia municipale,
nell'ambito del territorio di competenza", ed è richiamata
dall'art. 22 reg. esec. C.d.S. del 1992, il quale dispone,
al comma 3, che "i servizi di polizia stradale sono
espletati dagli appartenenti alle amministrazioni di cui
all'art. 12, commi 1 e 2, del codice, in relazione agli
ordinamenti ed ai regolamenti interni delle stesse".
L'art. 11, comma 3, che in materia di servizi di polizia
stradale (inclusi la prevenzione e l'accertamento delle
violazioni in materia di circolazione stradale) li demanda
al Ministro dell'interno, con la sola salvezza delle
attribuzioni dei Comuni per quanto riguarda i centri
abitati, non attiene alla delimitazione della competenza
della polizia municipale in materia di servizi di polizia
stradale, ma alla direzione e predisposizione dei relativi
servizi, come è fatto palese dall'ultima parte del comma,
che riserva in ogni caso al Ministero il coordinamento dei
servizi.
Gli agenti ed ufficiali di polizia municipale, pertanto, in
conformità della regola generale stabilita dalla L. n. 689
del 1981, art. 13, in tema di accertamento delle sanzioni
amministrative pecuniarie, in quanto organi di polizia
giudiziaria con competenza estesa all'intero territorio
comunale, hanno il potere di accertare le violazioni in
materia di circolazione stradale punite con sanzioni
amministrative pecuniarie in tutto tale territorio, anche,
quindi, su strade statali al di fuori del centro abitato.
Ne deriva che, una volta stabilito che gli ufficiali e gli
agenti della polizia municipale hanno tale potere
nell'ambito dell'intero territorio comunale, gli
accertamenti di violazioni del codice della strada da essi
compiuti in tale territorio debbono ritenersi per ciò stesso
legittimi sotto il profilo della competenza dell'organo
accertatore, restando l'organizzazione, la direzione e il
coordinamento del servi io elementi esterni
all'accertamento, ininfluenti su detta competenza.
In questo senso il Collegio, nell'accogliere la censura,
intende dare continuità all'indirizzo costante di questa
Corte, espresso da Sez. 1, 01.03.2002, n. 3019, Sez. 2,
11.07.2006, n. 15688, Sez. 1, 19.10.2006, n. 22366, e da
ultimo ribadito da Sez. 2, 28.04.2011, n. 9497 e n. 9498».
Tali argomentazioni sono del tutto esaustive rispetto a
quelle proposte dalle parti nell'odierno giudizio. Val solo
la pena di ulteriormente osservare che il principio
affermato con la sentenza riportata (peraltro non massimato),
è stato ulteriormente confermato da questa Corte con la
sentenza del 2014 n. 6432, di questa sezione, resa in un
caso del tutto analogo, nonché anche dalla sentenza del 2013
n. 5023, della prima sezione, che ha affrontato il medesimo
problema sotto altro profilo, giungendo alle medesime
conclusioni.
In definitiva, occorre ancora una volta dare continuità
all'orientamento ormai consolidato di questa Corte, secondo
cui «Rientra nei compiti della polizia
municipale l'accertamento delle infrazioni al codice della
strada consumate nel territorio comunale, anche se fuori del
centro abitato, atteso che l'art. 11, terzo comma, cod. str.
-che demanda al Ministero dell'interno i servizi di polizia
stradale, con la sola salvezza delle attribuzioni dei comuni
per quanto concerne i centri abitati- attiene alla direzione
e predisposizione di tali servizi, nonché al loro
coordinamento, ma non alla delimita ione delle competenze
della polizia municipale, che è regolata dagli artt. 3, 4,
primo comma, n. 3, e 5 della legge 03.07.1986, n. 65 con
riferimento all'intero territorio dell'ente di appartenenza». |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulle soglie di rumorosità «vince» l’azienda già attiva.
No al blocco dell’esercizio, sì a nuovi sistemi di
isolamento
Consiglio di Stato/1. No alle regole «residenziali» se le
case sono state costruite dopo.
Non si possono
imporre soglie di rumorosità fissate per le zone
residenziali in aree dove sono già attive industrie, perché
queste ultime non possono rispettarle e sono costrette a
bloccarsi.
A chiarirlo è il Consiglio di Stato -sentenza
21.09.2015 n. 4405,
IV Sez.-, annullando un piano
di zonizzazione comunale che impediva l’esercizio di un
impianto di potabilizzazione “a ciclo continuo” in un’area
di interesse pubblico destinata anche ad attrezzature
tecnologiche (“F2” per il Piano regolatore generale).
Per il gestore, il Comune, dopo l’«ok» alla riconversione di
una confinante ex fabbrica in edificio residenziale, aveva
risolto illegittimamente il conflitto tra zonizzazione
urbanistica e acustica dell’area imponendovi classi
antirumore diverse in base alla normativa sui “Valori limiti
delle sorgenti sonore” (Dpcm 14.11.1997): in un’area
dove ricadeva lo stabilimento quella fissata anche per le
residenziali (III o “aree di tipo misto”); in un’altra
quella anche per le piccole industrie (IV o “aree di intesa
attività umana”).
In base alle norme, le “aree di tipo misto” sono «le aree
urbane interessate da traffico veicolare locale o di
attraversamento, con media densità di popolazione, con
presenza di attività commerciali, uffici con limitata
presenza di attività artigianali e con assenza di attività
industriali; aree rurali interessate da attività che
impiegano macchine operatrici», mentre le “aree di intensa
attività umana” quelle con «(…) intenso traffico veicolare,
con alta densità di popolazione, con elevata presenza di
attività commerciali e uffici, con presenza di attività
artigianali; le aree in prossimità di strade di grande
comunicazione e di linee ferroviarie; le aree portuali, le
aree con limitata presenza di piccole industrie».
Per i giudici, «il nodo problematico della vicinanza di una
zona residenziale di nuovo insediamento, probabilmente
effetto di una non lungimirante programmazione urbanistica
locale, non può (…) essere affrontato a livello acustico
imponendo all’attività industriale già esistente limiti di
rumorosità propri delle zone residenziali, tali da
determinarne la sostanziale impossibilità di esercizio, ma
attraverso prescrizioni puntuali finalizzate all’adozione
delle migliori tecnologie di isolamento acustico».
Nella specie, l’impianto «(…) deve considerarsi ai fini
della zonizzazione acustica un’attività industriale,
operando a ciclo ininterrotto per assicurare la continuità
dei servizi, grazie all’ausilio di potenti macchinari
inevitabilmente rumorosi. Essa non è dunque compatibile con
la classe III, che invece è propria di un territorio
mediamente urbanizzato in cui non esistono o non dovrebbero
esistere attività industriali» (articolo Il Sole 24 Ore del
05.11.2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi. Bocciature, basta il voto numerico.
Il voto numerico è sufficiente per bocciare il candidato al
concorso pubblico, senza ulteriori motivazioni. Il punteggio
esprime la valutazione della commissione sulla prova, che è
discrezionale e non può essere sindacata dal giudice, il
quale non può sostituirsi agli esaminatori.
È quanto emerge dalla
sentenza 16.09.2015 n. 11275, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Lazio-Roma, che entra in tuttavia contrasto con
le pronunce dello stesso tribunale capitolino, ad esempio
sull'esame per diventare avvocati, secondo cui la mancanza
di motivazione per la bocciatura è contraria ai principi Ue
di imparzialità dell'azione amministrativa laddove non
soddisfa i requisiti di trasparenza.
Niente da fare, dunque, per la ragazza che tentava di
entrare al corso della scuola di un corpo militare. Il
punteggio insufficiente attribuito alla sua prova scritta
basta e avanza per respingerla all'esame
(articolo ItaliaOggi del 28.11.2015).
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MASSIMA
- Considerato che il ricorso è incentrato esclusivamente
sulla censura inerente il difetto di motivazione del voto
numerico, in asserita violazione del generale obbligo di
motivazione di ogni provvedimento amministrativo sancito
dalla legge n. 241 del 1990;
- Considerato che le contestazioni sollevate dalla difesa di
parte ricorrente in sede di discussione dell’istanza
cautelare –dirette, in particolare, avverso il punteggio
attribuito con riferimento al criterio III, anche in
comparazione con gli elaborati di altri concorrenti– non
sono state ritualmente proposte nel ricorso o trasfuse in
motivi aggiunti;
- Ritenuto quindi, con riferimento alle censure ricorsuali
ritualmente proposte, che deve aversi riguardo al costante
orientamento della giurisprudenza amministrativa, cui il
Collegio ritiene di aderire, secondo cui
il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni
alle prove scritte o orali di un concorso pubblico esprime e
sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della
commissione tecnica stessa, contenendo in sé la sua
motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e
chiarimenti
(ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI,
02.04.2012, n. 1939), ciò rispondendo, tra l'altro, a
principi di economicità e proporzionalità dell'azione
amministrativa;
Trattasi di principio definito "diritto vivente"
dalla stessa Corte Costituzionale (sentenze 30.01.2009, n.
20, e 15.06.2011, n. 175), la quale ha sottolineato che
-quando il criterio prescelto dal legislatore per la
valutazione delle prove scritte nell'esame è quello del
punteggio numerico, costituente la modalità di formulazione
del giudizio tecnico-discrezionale finale espresso su
ciascuna prova, con indicazione del punteggio complessivo
utile per l'ammissione all'esame orale-
tale punteggio, già nella varietà della graduazione
attraverso la quale si manifesta, esterna una sintetica
valutazione che si traduce in un giudizio di sufficienza o
di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda
del parametro numerico attribuito al candidato, che non solo
stabilisce se quest'ultimo ha superato o meno la soglia
necessaria per accedere alla fase successiva del
procedimento valutativo, ma dà anche conto della misura
dell'apprezzamento riservato dalla commissione esaminatrice
all'elaborato e, quindi, del grado di idoneità o inidoneità
riscontrato;
Se, inoltre, il punteggio espresso deve trovare specifici
parametri di riferimento nei criteri di valutazione
contemplati dalla disciplina di concorso, nella fattispecie
in esame sono stati puntualmente indicati i criteri, dovendo
inoltre rilevarsi che il punteggio è
soggetto al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo solo ad externo, non potendo
sostituire il proprio giudizio a quello della commissione
esaminatrice, potendo tuttavia verificare la ricorrenza di
vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione
ictu oculi rilevabili
(Cons. Stato Sez. V, Sent., 03/06/2015, n. 2719),
essendo le valutazioni espresse dalle commissioni di
concorso, in relazione ai rispettivi e specifici ambiti di
competenza, espressione di discrezionalità tecnica,
suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale soltanto
per manifesta illogicità, violazione delle regole
procedurali, travisamento dei fatti
(Cons. Stato Sez. VI, 18.05.2015, n. 2505; Cons. Stato Sez.
V, 06.05.2015, n. 2269; TAR Lazio, Roma, sez. III, n.
11127/2008);
- Considerato che tali profili non sono stati dedotti negli
atti di parte ricorrente, potendo quindi la questione
giuridica relativa alla sufficienza o meno del voto numerico
a dare conto delle valutazioni espresse dalla commissione
essere risolta attraverso il richiamo al ricordato
consolidato orientamento della giurisprudenza formatasi sul
punto;
- Ritenuto, quindi, che, in ragione delle illustrate
considerazioni, preso atto della suscettibilità del ricorso
ad essere immediatamente definito nel merito con sentenza e
dato il relativo avviso alle parti, il ricorso deve essere
rigettato stante l’infondatezza della censura con lo stesso
proposta. |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Il diritto di difesa prevale sul segreto.
Diritto di difesa batte segreto industriale. Quando sorge
una controversia sulla procedura pubblica, l'azienda
partecipante ha diritto ad accedere agli atti di gara della
concorrente e la stazione appaltante non può rispondere
picche, nonostante l'opposizione della controinteressata,
secondo cui la sua offerta contiene informazioni riservate
di natura commerciale.
E ciò perché le esigenze dell'altra
azienda, che vuole vederci chiaro rivolgendosi al giudice,
prevalgono su quelle di tutela dei dati tecnici relativi
alla produzione.
È quanto emerge dalla
sentenza
11.09.2015 n. 1467, pubblicata dalla II Sez. del TAR Calabria-Catanzaro.
Vantaggio competitivo
Accolto il ricorso dell'azienda che si è vista attribuire un
punteggio di poco inferiore alla rivale. Sbaglia
l'amministrazione a negarle sia pure parzialmente l'accesso
all'offerta incriminata senza spiegare quale danno patirebbe
l'impresa controinteressata con la diffusione delle
informazioni richieste: riguardano infatti le
caratteristiche dei prodotti che sono oggetto di istruttoria
nella gara d'appalto.
Chi partecipa alle gare per
aggiudicarsi servizi pubblici, d'altronde, deve accettarne
le regole di trasparenza e imparzialità: prendere parte alla
procedura implica che il segreto industriale o commerciale
possa essere divulgato quando è impiegato per acquisire un
vantaggio competitivo; mentre l'azienda che richiede
l'accesso alle carte deve utilizzare i documenti acquisiti
esclusivamente per la cura e la difesa dei propri interessi
giuridici.
L'amministrazione paga le spese di giudizio
all'azienda
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2015).
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MASSIMA
3. - Va esaminata prioritariamente la questione
preliminare sollevata da Se. S.p.a.
Sostiene la controinteressata che Fa. S.p.a. aveva già
richiesto l’accesso alla documentazione tecnica in data
28.08.2014; l’11.09.2014 l’Azienda Sanitaria Provinciale di
Vibo Valentia aveva consegnato alla Fa. S.p.a. la
documentazione tecnica de qua, oscurata nelle parti
contenenti informazioni tecniche e commerciali riservate.
Alla reiterazione dell’istanza di accesso nel corso della
seduta del seggio di gara del 13.05.2015, l’amministrazione
avrebbe opposto un atto confermativo del precedente parziale
diniego. Il ricorso sarebbe, dunque, inammissibile.
Il Collegio è di contrario avviso.
Secondo l’insegnamento del Consiglio di Stato (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 05.03.2015, n. 1113, ma anche Cons. Stato,
Sez. IV, 14.05.2015, n. 2439),
il termine previsto dalla normativa per la proposizione del
ricorso in sede giurisdizionale avverso le determinazioni
dell'amministrazione sull'istanza di accesso, stabilito
dall'art. 116 c.p.a. in 30 giorni dalla conoscenza del
diniego o dalla formazione del silenzio significativo, è a
pena di decadenza: di conseguenza, la mancata impugnazione
del diniego nel termine non consente la reiterabilità
dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo
diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere
meramente confermativo del primo; viceversa, quando il
cittadino reiteri l'istanza di accesso in presenza di fatti
nuovi non rappresentati nell'istanza originaria o prospetti
in modo diverso la posizione legittimante all'accesso ovvero
l'amministrazione proceda autonomamente ad una nuova
valutazione della situazione, è certamente ammissibile
l'impugnazione del successivo diniego, perché a questo non
può attribuirsi carattere meramente confermativo del primo.
Orbene, nel caso di specie la Fa. S.p.a. ha reiterato
l’istanza di accesso dopo che si erano verificati nuovi
fatti (l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione
della gara in favore della Se. S.p.a., la rinnovazione della
gara, l’attribuzione alla ricorrente e alla
controinteressata di punteggi non eccessivamente distanti
tra di loro) e l’amministrazione ha rivalutato la richiesta,
svolgendo una specifica istruttoria (consistita nel
richiedere alla Se. S.r.l. la persistenza delle ragioni che
l’avevano precedentemente indotta a opporsi all’ostensione
dei documenti).
Il ricorso, dunque, è senza dubbio ammissibile.
4. - Esso è altresì fondato, e pertanto va accolto.
Le ragioni di tale decisione sono state già
condivisibilmente esplicitate dal Tribunale Amministrativo
Regionale per la Puglia, Sede di Bari, in una decisione resa
di recente tra le parti (TAR Puglia–Bari, Sez. I, ord.
23.12.2014, n. 1614).
In sostanza,
dal combinato disposto dei commi 5 e 6 dell’art. 13 d.lgs.
12.04.2006, n. 163, emerge che, in via generale, in materia
di affidamento di contratti pubblici, va riconosciuto il
diritto di accesso a tutti gli atti di gara e che esso è
consentito, se finalizzato all’esercizio del diritto di
difesa, anche a quelle “informazioni fornite dagli
offerenti nell’ambito delle offerte”.
Deve ritenersi, quindi, che nella comparazione tra il
diritto di difesa e il diritto di riservatezza, la
disciplina vigente dia prevalenza al diritto alla difesa,
tant’è che la deroga al diritto di accesso risulta limitata
alle informazioni fornite dagli offerenti nell’ambito delle
offerte “che costituiscono, secondo motivata e comprovata
dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”.
Nel caso di specie, manca un’indicazione concreta,
comprovata e comprensibile di quale possa essere il danno da
divulgazione dei dati tecnici richiesti, pertinendo gli
stessi a caratteristiche dei prodotti che devono poter
essere oggetto di valutazione oggettiva nel quadro
istruttorio di una gara pubblica.
La deroga all’accesso costituisce eccezione che va
debitamente comprovata dall’interessato e indubbiamente non
è idonea motivazione la circostanza che trattasi di
elaborati costituenti opera dell’ingegno e contenenti
informazioni e dati frutto del patrimonio di conoscenze ed
esperienze aziendali.
Questi caratteri, infatti, sono propri dell’offerta tecnica
di qualunque impresa e non giustificano di per sé il divieto
di divulgazione.
In conclusione, il diritto di accesso agli atti di una gara
di appalto deve essere riconosciuto anche quando vi è
l’opposizione di altri partecipanti controinteressati per la
tutela di segreti tecnici e commerciali, in quanto esso è
prevalente rispetto all’esigenza di riservatezza o di
segretezza tecnica o commerciale.
Peraltro, la partecipazione alle gare di appalto per
pubbliche forniture comporta l’accettazione implicita da
parte del concorrente delle regole di trasparenza ed
imparzialità che caratterizzano la selezione, fermo restando
l’obbligo tassativo per il richiedente l’accesso di
utilizzare i documenti acquisiti esclusivamente per la cura
e la difesa dei propri interessi giuridici.
Vi è, in altri termini, una inevitabile accettazione del
rischio di divulgazione del segreto industriale o
commerciale, ove quest’ultimo sia impiegato allo scopo di
acquisire un vantaggio competitivo all’interno di una gara
pubblica, proprio in dipendenza dei caratteri di pubblicità
e trasparenza che assistono quest’ultima.
5. - Il ricorso va pertanto accolto, e le spese di lite
debbono essere regolate tra le parti secondo il principio di
soccombenza. |
TRIBUTI: Poste
italiane, niente imposta di pubblicità.
Qualora le insegne d'esercizio installate dalla società
Poste italiane siano inferiori, complessivamente, ai cinque
metri quadrati, così come previsto per le attività
commerciali e di produzione di beni e servizi, non sono
soggette all'imposta di pubblicità.
Sono le motivazioni che si leggono nella
sentenza 23.08.2015 n. 106/1/15
emessa dalla Ctp di Sondrio.
Con un avviso di accertamento
per l'anno d'imposta 2014, il comune di Aprica, in provincia
di Sondrio, richiedeva l'imposta di pubblicità per le
insegne d'esercizio recanti la scritta «Poste italiane».
L'imposta di pubblicità, istituita dall'articolo 5 del dlgs
n. 507/1993, prevede una serie di riduzioni ed esclusioni
dall'imposta. Per quanto concerne le insegne di esercizi
commerciali e di produzione di beni e servizi, poi, la norma
stabilisce l'esclusione per le insegne di superficie
complessiva sino a cinque metri quadrati.
Si definisce
insegna di esercizio la scritta in caratteri alfanumerici,
completata eventualmente da simboli o da marchi, realizzata
e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata
nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle
pertinenze accessorie alla stessa attività.
Nell'atto
presentato, la società Poste italiane, ricorrente,
contestava il sistema di misurazione utilizzato dalla
società Aipa, delegata all'accertamento e alla riscossione
dal comune di Aprica; sosteneva anche l'esclusione
dall'imposta dei cartelli imputati, e produceva in giudizio
relazione tecnica e fotografie che dimostravano le
dimensioni delle insegne, di superficie e consistenza
inferiore ai cinque metri quadrati.
La Commissione ha
ritenuto fondato il ricorso e ha annullato l'accertamento.
«Il comma 1 dell'articolo 2-bis della legge n. 75 del 2002»,
osserva il Collegio, «ha esteso al canone per
l'installazione dei mezzi pubblicitari la stessa disciplina
che l'articolo 10 della legge 28.12.2001 n. 448».
La
norma in esame stabilisce che, analogamente a quanto
previsto dal citato articolo 10 della legge n. 448 del 2001,
il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle
attività commerciali e di produzione di beni o servizi che
contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si
riferiscono, per la superficie complessiva sino a cinque
metri quadrati».
Dopo aver rilevato che la ricorrente ha prodotto in giudizio
relazione tecnica e fotografie che attestano che la
superficie complessiva delle insegne non supera i cinque
metri quadrati, il Collegio provinciale ha accolto il
ricorso e annullato l'accertamento.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con ricorso depositato in data
03/12/2014 la società Poste
italiane spa, con sede in Roma impugnava l'avviso di
accertamento emesso da Aipa spa e notificato in data
30/09/2014, avente a oggetto il pagamento dell'imposta
comunale sulla pubblicità (comune di Aprica) per l'anno
2014, facendo presente che esso era palesemente illegittimo,
in quanto erroneamente erano stati ritenuti soggetti a
imposta di pubblicità le insegne di esercizio recanti la
scritta «Poste italiane» in base a un procedimento di
calcolo errato sella superficie fatto di arrotondamenti per
singole fattispecie cartelli indicanti il marchio «POSTE
ITALIANE», considerando che ai sensi del dlgs 507/1993 e
successive integrazioni e modificazioni detti cartelli sono
esclusi dall'imposta in questione.
La società Aipa non si costituiva in giudizio.
All'udienza del 07/07/2015 la Commissione ha deciso la
controversia come da dispositivo.
Ritiene la Commissione che il ricorso sia fondato e meriti
pertanto accoglimento.
E infatti, nella fattispecie in oggetto quanto contestato
nell'avviso di accertamento risulta del tutto illegittimo,
dato che le insegne pubblicitarie in questione, per la loro
superficie complessiva che è inferiore ai cinque metri
quadrati, non sono soggette all'imposta di pubblicità.
Infatti, il comma 1 dell'art. 2-bis della legge n. 75 del
2002 ha esteso il canone per l'installazione dei mezzi
pubblicitari la stessa disciplina che l'art. 10 della legge
28.12.2001 n. 448 ha dettato per le insegne di
esercizio di superficie fino a cinque metri quadrati. La
norma in esame stabilisce che, analogamente a quanto
previsto dal citato art. 10 della legge n. 448 del 2001, il
canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle
attività commerciali e di produzione di beni e servizi che
contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si
riferiscono, per la superficie complessiva fino a cinque
metri quadrati».
La ricorrente ha, si ripete, prodotto in giudizio relazione
tecnica e fotografie che dimostrano appunto che le insegne
in questione non superano la superficie complessiva di
cinque metri quadrati. Pertanto il ricorso va accolto con la
compensazione delle spese tra le parti, tenuto conto che l'Aipa
non si è costituita e quindi non ha contestato la fondatezza
del ricorso.
PQM
La Commissione accoglie il ricorso e dichiara le spese del
giudizio compensate tra le parti
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015). |
APPALTI:
Caos sito, paga p.a..
L'informatica è un mezzo, non un fine, specie nel mondo dei
lavori pubblici. L'offerta per partecipare all'appalto non
risulta mai inviata nell'ambito della procedura informatica
prescelta dall'amministrazione e l'impresa viene esclusa
dalla gara. E invece no: i rischi del malfunzionamento della
piattaforma, infatti, devono ricadere sulla stazione
appaltante perché l'interesse pubblico è ampliare il più
possibile la platea dei partecipanti alla procedura,
all'insegna della libera competizione: quando si verifica un
inconveniente, allora, la stazione appaltante deve mettere
in campo il rimedio procedimentale del soccorso istruttorio.
È quanto emerge dalla
sentenza
28.07.2015 n. 1094, pubblicata dalla I Sez. del TAR Puglia-Bari.
Accolto il ricorso dell'azienda estromessa dalla procedura
anche se la sua offerta risulta depositata nei server della
piattaforma informatica indicata per la gara. E la p.a. paga
perché è nell'interesse organizzativo dello stesso ente
rimediare a eventuali inconvenienti
(articolo ItaliaOggi del 24.11.2015).
---------------
MASSIMA
... nel merito, il ricorso è fondato e, pertanto, deve
essere accolto.
La Pubblica Amministrazione non ha tenuto in adeguato conto
il principio del favor partecipationis nonché il dovere, su
di essa incombente, di leale cooperazione tra privato e P.A..
Deve anzitutto evidenziarsi in fatto che, come attestato
dalla p.e.c. EmPulia del 22.05.2015, nel caso di specie,
l’intera offerta della ricorrente -comprensiva sia della
documentazione amministrativa, sia dell’offerta tecnica che
di quella economica- risultava salvata sui server della
piattaforma del sistema EmPulia, di cui il Comune di
Molfetta si era avvalso per la gestione della parte
telematica della ricezione delle domande.
Nel suo contenuto rilevante ai fini della gara in questione,
la domanda era dunque pienamente entrata nella sfera di
disponibilità della Pubblica Amministrazione e solo per una
anomalia tecnica non altrimenti identificata la ricorrente
non era riuscita a perfezionarne l’invio secondo le
articolate modalità previste all’art. 20 del bando di gara.
Su una fattispecie del tutto assimilabile, il Consiglio di
Stato ha di recente evidenziato che “il
rischio inerente alle modalità di trasmissione (della
domanda di partecipazione a gara ndr.) non può far carico
che alla parte che unilateralmente aveva scelto il relativo
sistema e ne aveva imposto l’utilizzo ai partecipanti; e se
rimane impossibile stabilire se vi sia stato un errore da
parte del trasmittente, o piuttosto la trasmissione sia
stata danneggiata per un vizio del sistema, il pregiudizio
ricade sull’ente che ha bandito, organizzato e gestito la
gara.” (cfr.
Cons. Stato, Sez. III, 25.01.2013, n. 481).
Il Collegio ritiene di condividere integralmente questa
impostazione giurisprudenziale,
evidenziando anzitutto, in linea generale, come le procedure
informatiche applicate ai procedimenti amministrativi
debbano collocarsi in una posizione necessariamente servente
rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per
problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato
svolgimento dei rapporti fra privato e Pubblica
Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni, nei
reciproci rapporti.
Dalla natura meramente strumentale dell’informatica
applicata all’attività della Pubblica Amministrazione
discende altresì il corollario dell’onere per la P.A. di
doversi accollare il rischio dei malfunzionamenti e degli
esiti anomali dei sistemi informatici di cui la stessa si
avvale, essendo evidente che l’agevolazione che deriva alla
P.A. stessa, sul fronte organizzativo interno, dalla
gestione digitale dei flussi documentali, deve essere
controbilanciata dalla capacità di rimediare alle
occasionali possibili disfunzioni che possano verificarsi,
in particolare attraverso lo strumento procedimentale del
soccorso istruttorio
(art. 46 D.Lgs. n. 163/2006 e art. 6 L. n. 241/1990).
L’essere entrata comunque in possesso della documentazione
relativa all’offerta di gara caricata dalla ricorrente sui
server di EmPulia imponeva alla Pubblica Amministrazione un
onere di attivazione, volto a sanare, se del caso, le mere
anomalie di invio che avevano reso impossibile la spedizione
della domanda con le modalità previste dal bando, anche alla
luce della significativa complessità di dette procedure di
cui al già citato art. 20 del bando.
È infatti dato giuridico pacifico quello secondo cui debba
prevalere “la necessità di garantire,
nelle gare pubbliche, la più ampia partecipazione possibile
di concorrenti; tale principio generale è applicabile, in
particolare, alle domande che, pur se con profili di
difformità formale, rispetto alle prescrizioni del bando,
risultino comunque oggettivamente idonee ad essere valutate
dalla Commissione giudicatrice, stante l’obbligo di una
leale cooperazione fra Amministrazione e concorrenti”
(cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. V, 03.06.2010, n.
3486).
In definitiva,
l’ampliamento della platea dei soggetti partecipanti alla
gara deve essere considerato un interesse pubblico primario
nelle procedure di evidenza pubblica e deve essere garantito
a prescindere dalle problematiche tecnico informatiche in
cui possa eventualmente cadere la singola domanda di
partecipazione, in virtù di un onere di leale cooperazione
rafforzato fra privato e P.A. che deve essere ravvisato ogni
qualvolta quest’ultima si avvalga di mezzi informatici per
la gestione, nel proprio interesse organizzativo, di dette
procedure.
In conclusione, pertanto, il ricorso deve essere accolto, in
quanto fondato nel merito delle censure svolte avverso i
provvedimenti gravati. |
TRIBUTI: Pertinenze,
no Imu pur se accatastate a sé.
Le aree pertinenziali non sono autonomamente assoggettabili
all'Ici (e oggi all'Imu), costituendo le stesse parte
integrante del fabbricato cui sono asservite. Non rileva,
all'uopo, il fatto che la pertinenza risulti accatastata
separatamente, né tantomeno che il contribuente non abbia
manifestato l'asservimento nell'apposita dichiarazione,
necessitando solamente che il rapporto pertinenziale risulti
dai fatti e dalla destinazione effettiva. Può ritenersi,
quindi, sufficiente dimostrare che il terreno sia
durevolmente asservito al fabbricato mediante recinzione in
muratura (costituendone, in siffatto modo, giardino
d'ornamento), circostanza che può comprovarsi mediante
appositi riscontri fotografici da allegare in atti.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 24.07.2015 n. 414/04/15
della Ctp di Varese.
Il collegio tributario richiama l'articolo 2, comma 1, del
dlgs n. 504/1992, secondo cui, ai fini Ici, per fabbricato
si intende l'unità immobiliare, considerandosi parte
integrante dello stesso l'area che ne costituisce
pertinenza. Tale regola, si legge nella sentenza, vale anche
per l'Imu, in quanto la nuova normativa richiama le
disposizioni contenute nel citato articolo 2.
In tal senso, non può ritenersi fattispecie ostativa
l'autonomo accatastamento del terreno, poiché la pertinenza
si deve individuare secondo un criterio meramente fattuale,
rispondendo alla definizione dettata dal codice civile,
sotto l'aspetto oggettivo (articolo 817, comma 1, del codice
civile, «sono pertinenze le cose destinate in modo durevole
a servizio o a ornamento di un'altra cosa»), e soggettivo
(articolo 817, comma 2, «la destinazione può essere
effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi
ha un diritto reale sulla medesima»).
Non rilevano, dunque,
le risultanze catastali, ma prevale la destinazione
fattuale. Per la stessa ragione, neppure il fatto di non
aver manifestato tale situazione (di pertinenza)
nell'apposita dichiarazione Ici può precludere la riduzione
fiscale.
Nel caso di specie, il giudice varesino ha ritenuto
sufficiente l'analisi di una rassegna fotografica, da cui
risultava che il terreno, affermato come pertinenza del
fabbricato, fosse effettivamente ricompreso in un'unica
recinzione muraria, rappresentando il giardino a ornamento
dell'abitazione. L'avviso di accertamento emesso dall'ente
comunale, quindi, è stato annullato, con condanna della
parte soccombente al pagamento delle spese di giudizio.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione osserva che, ai sensi dell'art. 2,
comma 1, dlgs 30/12/1992 n. 504 (istituzione dell'imposta
comunale sugli immobili), «ai fini dell'imposta di cui
all'art. 1 per fabbricato si intende l'unità immobiliare
iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio
urbano, considerandosi parte integrante del fabbricato
l'area occupata dalla costruzione e quella che ne
costituisce pertinenza».
Secondo la disposizione richiamata
le aree pertinenziali non sono dunque autonomamente
assoggettabili a Ici, costituendo le stesse «parte
integrante» dell'immobile principale a cui sono asservite.
Diventa quindi rilevante, ai fini della corretta
applicazione dell'imposta, individuare esattamente le aree
che possono essere considerate pertinenziali a un
fabbricato.
[omissis] Eventuali disposizioni adottate dagli enti locali
in merito all'individuazione e definizione delle fattispecie
imponibili ai fini Ici, e in contrasto con la disciplina
normativa vigente (nel caso di specie, il citato dlgs n.
504/1992), sono dunque da ritenersi illegittime. Ciò è stato
confermato dalla corte di Cassazione, che ha avuto modo di
occuparsi, più volte, dell'annoso problema
dell'individuazione delle pertinenze ai fini Ici, e in
particolare delle aree che devono essere considerate pertinenziali ad un fabbricato ai sensi dell'art. 2, comma
1, dlgs 504/1992.
In particolare, nella sentenza n. 15739/2007
la Suprema corte, in coerenza con un proprio consolidato
orientamento, si è così espressa: «secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza di questa corte, in tema
di Ici, il dlgs 504 del 1992, art. 2, il quale esclude
l'autonoma tassabilità delle aree pertinenziali, fonda
l'attribuzione alla cosa della qualità di pertinenza sul
criterio fattuale e cioè sulla destinazione effettiva e
concreta della cosa al servizio od ornamento di un'altra,
senza che assume rilievo la distinta iscrizione in catasto
della pertinenza e del fabbricato».
Le stesse regole valgono
per l'Imu: infatti, nulla cambia con la disciplina della
nuova imposta locale rispetto all'Ici, atteso che anche per
l'Imu vengono richiamate le disposizioni contenute negli
articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. La
Commissione osserva in sintesi che quando si tratta di
pertinenza di un fabbricato, non contano le risultanze
catastali mala destinazione di fatto.
Il rapporto pertinenziale deve emergere dallo stato dei
luoghi: nel caso di specie l'effettiva e durevole
destinazione dell'area a servizio o ornamento
dell'abitazione è comprovata dalla rassegna fotografica agli
atti, da cui risulta che il giardino è asservito al
fabbricato in modo durevole, mediante recinzione in
muratura. Occorre infine aggiungere che l'intassabilità del
bene deve essere riconosciuta anche in assenza di
esposizione nella dichiarazione iniziale, da parte del
contribuente
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.11.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: Come
affermato dalla più recente giurisprudenza in materia, la
lettera della disposizione ex art. 167, comma 4, dlgs
42/2004 e, soprattutto, la sua “ratio”, sono volte a
stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio che
comporta la possibilità di rilascio ex post
dell’autorizzazione paesaggistica, al fine di sanare
interventi già realizzati, soltanto per gli abusi di minima
entità, tali da determinare già in astratto, per le loro
stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente
contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene
tutelato.
La disposizione in esame, pertanto, deve essere interpretata
in coerenza con il suo tenore letterale che, come reso
evidente dall’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o”,
considera ostativa al conseguimento della sanatoria la
circostanza che le opere realizzate in assenza di previa
autorizzazione paesaggistica si caratterizzino (solamente)
per l’avvenuta creazione di superfici utili.
---------------
La giurisprudenza amministrativa ha precisato che in ambito
paesaggistico la nozione di superficie utile deve essere
intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli
spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un
aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto
considerando l’impatto dell’intervento sull’originario
assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova
superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare
stabilmente la vincolata conformazione originaria del
territorio.
In questo senso, il divieto di realizzare “superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”
si estende anche a quelli che non sono considerati
normalmente rilevanti secondo le norme che regolano
l'attività edilizia (con riferimento anche ai volumi
interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
---------------
Nel caso di specie, appare evidente che la realizzazione di
una tettoia sorretta da pilastri di ferro determina
pienamente una nuova superficie utile, trattandosi di
intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene
protetto.
---------------
Il ricorso è infondato alla stregua delle considerazioni che
seguono.
L’art. 167 del D.Lgs. 22/01/2004, n. 42 -Codice dei beni
culturali e del paesaggio– prevede al comma 4, che “L'autorità
amministrativa competente accerta la compatibilità
paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei
seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi
dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.”
Come affermato dalla più recente giurisprudenza in materia
(TAR Campania, Salerno, 03.03.2015, n. 468; TAR Liguria,
sez. I, 14.03.2015, n. 281; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
27.08.2014, n. 2263) la lettera della richiamata
disposizione e, soprattutto, la sua “ratio”, sono
volte a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio
che comporta la possibilità di rilascio ex post
dell’autorizzazione paesaggistica, al fine di sanare
interventi già realizzati, soltanto per gli abusi di minima
entità, tali da determinare già in astratto, per le loro
stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente
contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene
tutelato.
La disposizione in esame, pertanto, deve essere interpretata
in coerenza con il suo tenore letterale che, come reso
evidente dall’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o”,
considera ostativa al conseguimento della sanatoria la
circostanza che le opere realizzate in assenza di previa
autorizzazione paesaggistica si caratterizzino (solamente)
per l’avvenuta creazione di superfici utili.
Non colgono, dunque, nel segno le censure con le quali la
ricorrente evidenzia l’avvenuta “conformazione” delle
opere residuate dopo la demolizione disposta dal Comune
(tettoia /veranda e modifiche alla recinzione della corte di
pertinenza dell’immobile) alle comunicazioni edilizie del 12
gennaio e del 21.03.2011 a sensi della LR n. 4/2003, essendo
tale rilievo del tutto inconferente nella fattispecie di
causa, dove non è in contestazione la regolarità
urbanistico-edilizia delle opere in questione, bensì la
sussistenza dei presupposti per l’accertamento di
compatibilità paesaggistica della tettoia costruita
abusivamente in zona soggetta a vincolo.
Peraltro ciò è quanto emerge sia dall’impugnato
provvedimento della Soprintendenza, nel quale è specificato
che le opere non sono mai state autorizzate dalla
Soprintendenza, sia da quanto espressamente dichiarato dalla
parte ricorrente con riferimento alla nota del Comune n.
19558/2011, con la quale l’UTC comunale ha precisato che la
tettoia/veranda, conforme a quanto previsto dall’art. 20 LR
n. 472003, non costituisce superficie utile e volumetria
valutabile “ai fini urbanistici/edilizi”, e non anche
ai fini della compatibilità paesaggistica, tanto è vero che
il Comune ha contestualmente richiesto il rilascio del nulla
osta per cui oggi è causa.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha precisato che
in ambito paesaggistico la nozione di superficie utile deve
essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non
limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di
provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto
piuttosto considerando l’impatto dell’intervento
sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità
della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a
modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria
del territorio (TAR Veneto, sez. II, 06.11.2014, n. 1367;
TAR Molise, 19.12.2012, n. 761).
In questo senso, il divieto di realizzare “superfici
utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente
realizzati” si estende anche a quelli che non sono
considerati normalmente rilevanti secondo le norme che
regolano l'attività edilizia (con riferimento anche ai
volumi interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
Nel caso di specie, appare evidente che la realizzazione di
una tettoia sorretta da pilastri di ferro determina
pienamente una nuova superficie utile, trattandosi di
intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene
protetto.
Pertanto, non sussistendo i presupposti previsti dall’art.
167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, il diniego di nulla
osta paesaggistico aveva, nella fattispecie, carattere
assolutamente vincolato; ciò che consente di respingere
altresì la censura di difetto di motivazione
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza che in altri procedimenti vi possa
essere stata una non corretta valutazione delle opere sanate
non legittima la pretesa alla ripetizione di una non
corretta valutazione della compatibilità paesaggistica delle
opere abusive, posto che, se anche l'Amministrazione avesse
tenuto un comportamento illegittimo con riferimento ad altra
fattispecie, non per questo deve ritenersi obbligata a
continuare a tenere comportamenti illegittimi; né il
destinatario del provvedimento di diniego può giovarsi delle
illegittimità allo stato ancora non sanzionate commesse da
altri.
Deve inoltre tenersi conto che quand'anche alcuni progetti
possano sembrare simili tra loro, è in ogni caso diverso
l’impatto che ciascuno di essi esercita sul paesaggio.
---------------
Parte ricorrente lamenta, infine, disparità di trattamento,
con particolare riferimento all'avvenuto rilascio di
provvedimenti favorevoli di condono per manufatti simili ed
ubicati nella medesima zona.
La doglianza è infondata.
La circostanza che in altri procedimenti vi possa essere
stata una non corretta valutazione delle opere sanate non
legittima la pretesa alla ripetizione di una non corretta
valutazione della compatibilità paesaggistica delle opere
abusive, posto che, se anche l'Amministrazione avesse tenuto
un comportamento illegittimo con riferimento ad altra
fattispecie, non per questo deve ritenersi obbligata a
continuare a tenere comportamenti illegittimi; né il
destinatario del provvedimento di diniego può giovarsi delle
illegittimità allo stato ancora non sanzionate commesse da
altri.
Deve inoltre tenersi conto che quand'anche alcuni progetti
possano sembrare simili tra loro, è in ogni caso diverso
l’impatto che ciascuno di essi esercita sul paesaggio (Cons.
Stato, 11.09.2013, n. 4497; 05.03.2014, n. 1059; 01.04.2014,
n. 1559)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 19.05.2015 n. 1346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Non si può «rubare» il pianerottolo. Abusi
edilizi. Negata la concessione in sanatoria.
Il condòmino che ha spostato
abusivamente il portoncino d’ingresso della propria
abitazione in corrispondenza del muro esterno, inglobando
una porzione dell’andito antistante l’unità immobiliare di
sua esclusiva proprietà, non può ottenere la concessione in
sanatoria se non è in grado di dimostrare il diritto di
proprietà esclusiva dello spazio incorporato.
È questo il
chiarimento contenuto nella motivazione della
sentenza 05.05.2015 n. 208 del
TAR Friuli Venezia Giulia.
Nel caso in questione una condòmina, senza chiedere un
permesso edilizio e il consenso degli altri condòmini,
sposta il portoncino d’ingresso della propria abitazione in
corrispondenza dell’antistante muro esterno del piccolo
andito che conduceva al pianerottolo.
Successivamente la condòmina presenta domanda di condono
dell’abuso edilizio ma riceve un netto rifiuto dal parte del
Comune, che rilevava come lo spazio interessato dalle opere
sia un bene comune condominiale: di conseguenza è costretta
a rivolgersi al Tar per l’annullamento del provvedimento con
cui le era stata negata la sanatoria.
Nel ricorso la condòmina, facendo leva sullo stato oggettivo dei luoghi,
mette in evidenza come altri due condòmini abbiano collocato
il portoncino d’ingresso in corrispondenza del muro esterno
dell’andito, occupando parte del relativo spazio, per
destinarlo all’uso esclusivo. In ogni caso la stessa
condòmina ritiene decisivo il fatto che le quote millesimali
relative agli appartamenti dei condòmini che hanno
realizzato la sua stessa modifica non differiscono da quelle
delle unità immobiliari dei restanti partecipanti che non
hanno spostato l’ingresso.
Tutte queste considerazioni sono state ritenute irrilevanti
dai giudici amministrativi, che respingono il ricorso.
Secondo il Tar, infatti, l’andito è parte integrante del
pianerottolo comune, di cui costituisce una continuazione,
con la conseguenza che il condòmino titolare
dell’appartamento che vi si affaccia può utilizzarlo in modo
più intenso ma non può certo incorporarlo, neppure
parzialmente nella proprietà esclusiva.
Il bene si presume
comune salvo che il singolo condominio con titolo idoneo (ad
esempio il primo atto di trasferimento di un’unità
immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro
soggetto o il regolamento condominiale «contrattuale»,
accettato da tutti nei rogiti di acquisto) dimostri di
esserne titolare esclusivo o provi la destinazione dello
spazio al servizio esclusivo del suo appartamento o dimostri
di averlo posseduto in via esclusiva per il tempo necessario
all’usucapione.
Al contrario, non è rilevante che altri condòmini abbiano commesso lo stesso abuso (articolo Il Sole 24 Ore del 10.11.2015).
---------------
MASSIMA
Il ricorso non è fondato.
L’art. 1117, comma 1, pt. 1), del c.c.
stabilisce, invero, chiaramente che gli anditi “sono
oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole
unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a
godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo”.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha dimostrato in alcun
modo di poter vantare la titolarità esclusiva dell’andito in
questione, ma si è limitata unicamente a produrre
documentazione atta a dimostrare che altri due condomini
dell’edificio hanno occupato il relativo spazio,
destinandolo ad uso esclusivo, a seguito del collocamento
del portoncino d’ingresso in corrispondenza del muro esterno
dell’andito. Non è dato, però, sapere quando e in base a
quale titolo tale spostamento sia avvenuto.
Nulla prova, infatti, la circostanza –enfatizzata dalla
ricorrente- che nelle tabelle allegate all’originario
contratto di compravendita (rep. 4626 del 25.09.1962, notaio
Cipolla) siano riportati gli stessi millesimi sia agli
alloggi nei quali il portoncino d’ingresso è collocato
all’esterno (unità immobiliari n. 22 e n. 58,
rispettivamente del sesto e del quindicesimo piano
dell’immobile) che a quelli nei quali è collocato
all’interno dell’andito.
Anzi, il numero irrisorio di appartamenti che godono di
questo spazio “aggiuntivo” rispetto alla pressoché
totalità di unità immobiliari dello stabile ove il
portoncino d’ingresso è collocato in corrispondenza del muro
interno dell’andito induce unicamente a interrogarsi sulla “regolarità”
o meno dell’intervento eseguito dai proprietari delle unità
dianzi indicate e della conseguente occupazione da parte dei
medesimi di uno spazio, di norma, comune e che, come si
evince dagli elaborati progettuali prodotti, tale era stato
concepito da chi aveva realizzato l’immobile, in quanto, al
pari delle scale e relativi pianerottoli, costituente
struttura funzionalmente essenziale del fabbricato.
Del pari, privi di pregio s’appalesano, inoltre, gli
elementi sui quali la ricorrente richiama l’attenzione al
fine di dimostrare la destinazione dell’andito a esclusiva
pertinenza delle singole unità o l’invocato stato oggettivo
dei luoghi, idoneo, a suo avviso, ad escluderne l’uso
collettivo.
L’andito in questione non pare, infatti, avere specifica
destinazione al servizio dell’appartamento di proprietà
esclusiva che vi si affaccia, né essere stato posseduto
dalla ricorrente per il tempo e il modo necessario
all’usucapione.
Nulla prova, inoltre, il fatto che lo spazio sovrastante
l’andito sia di proprietà esclusiva della ricorrente.
Vero è, invece, che l’andito è tutt’uno col
pianerottolo comune, di cui costituisce una
continuazione/estensione, e i singoli proprietari delle
unità immobiliari, pur realizzandovi un utilizzo più intenso
rispetto agli altri condomini, non possono escludere il
diritto di questi ultimi di farne parimenti uso e alterare
la destinazione del bene stesso, laddove non dimostrino di
averne titolo.
Nel caso di specie, tale prova non è stata, però, fornita.
Sicché, in mancanza di elementi idonei ad
escludere l’operatività della presunzione di cui all’art.
1117 c.c., il diniego opposto non pare censurabile nemmeno
laddove il Comune evidenzia la mancanza di qualsiasi
consenso da parte degli altri condomini alla sottrazione, da
parte della ricorrente, del bene in questione all’uso comune
e al suo inglobamento all’interno dell’unità immobiliare di
sua esclusiva proprietà.
Al riguardo, pare, infatti, sufficiente ricordare che,
ai sensi dell’art. 1118, comma 2, c.c. “il
condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti
comuni”.
In definitiva, gli anditi in questione non
possono essere incorporati negli appartamenti di proprietà
esclusiva dei singoli condomini, in quanto tale
incorporazione costituisce appropriazione del possesso
esclusivo di una parte comune in danno degli altri
condomini.
Sulla scorta delle considerazioni dianzi svolte, il ricorso
va, dunque, rigettato. |
URBANISTICA - TRIBUTI: La
lottizzazione richiede l’«attività» del cedente.
Terreni. Le differenze tra il caso in cui la destinazione
edificatoria dipende dal Prg e quello in cui c’è un’azione
del proprietario.
Non conta la pura e semplice divisione
delle aree. La previsione secondo cui costituiscono redditi
diversi le plusvalenze realizzate tramite lottizzazioni di
terreni o l’esecuzione di opere intese a renderli
edificabili e la successiva vendita dei terreni e degli
edifici (articolo 67, comma 1, lettera a, del Tuir), si
riferisce a quelle fattispecie in cui -conformemente alla
nozione urbanistica di lottizzazione- si verifica non il
mero frazionamento dei terreni, ma qualsiasi utilizzazione
del suolo che, indipendentemente dal frazionamento fondiario
e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione,
contemporanea o successiva, di una pluralità di edifici a
scopo residenziale, turistico o industriale e, di
conseguenza, comporti la predisposizione delle opere di
urbanizzazione che occorrono per le necessità primarie e
secondarie dell’insediamento.
È il principio affermato dalla Ctr Basilicata, Sez. 2, nella
sentenza 04.05.2015 n. 331/2/15
(presidente Genovese, relatore Morlino).
La vicenda
In relazione a una compravendita di terreni oggetto di
lottizzazione (perché interessati alla realizzazione di
opere di urbanizzazione per un insediamento destinato a zona
artigianale o industriale), l’ufficio accertava a carico del
cedente una maggiore plusvalenza tassabile in base
all’articolo 67, comma 1, lettera b), del Tuir, nel
presupposto che l’operazione riguardasse un terreno
suscettibile di utilizzazione edificatoria secondo gli
strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione.
Il contribuente presentava ricorso al giudice tributario,
affermando l’illegittima applicazione della lettera b), in
luogo della lettera a) della stessa norma, perché
l’operazione riguardava delle particelle interessate alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione richieste dalla
destinazione artigianale/industriale della relativa area
comunale e cioè di terreni lottizzati. Dopo un primo grado
di giudizio favorevole alla società, l’ufficio proponeva
appello.
La Ctr ha confermato le conclusioni dei giudici di primo
grado, affermando che l’errata individuazione della norma
applicabile alla fattispecie (cioè l’articolo 67, comma 1,
lettera a), del Tuir e non la lettera b) dello stesso
articolo) è tale da rendere nullo l’atto di accertamento
notificato al contribuente.
Le due situazioni
I giudici d’appello hanno chiarito che la fattispecie
prevista dalla lettera a), richiedendo la lottizzazione o
l’esecuzione di opere intese a rendere edificabili i
terreni, presuppone un comportamento attivo da parte del
cedente, essendo a tal fine necessario che il venditore,
prima dell’alienazione del terreno, abbia messo in atto una
qualche attività di tipo tecnico diretta a rendere possibile
la sua utilizzazione a scopo edificatorio.
Viceversa, la
fattispecie prevista dall’articolo 67, comma 1, lettera b),
del Tuir, disciplinando le plusvalenze realizzate tramite
cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di
utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici
vigenti, concerne quelle realizzate non in virtù di
un’attività produttiva del proprietario o del possessore, ma
per l’avvenuta destinazione edificatoria in sede di
pianificazione urbanistica (articolo Il Sole 24 Ore del 09.11.2015). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Il diritto di accedere ai documenti
amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne
visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti
ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della
seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del
diniego di accesso.
---------------
I ricorrenti hanno formulato l’istanza di accesso per cui è
causa nell’esercizio del munus pubblicum al quale sono stati
eletti.
E, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale,
dal quale il Collegio non vede ragione per discostarsi, «i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul
consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere
di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che,
diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di
controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale».
Il Tribunale ritiene nondimeno di ricordare che il diritto
di accesso è individuale, sicché non può essere negato per
il solo fatto di essere già stato accordato ad altro
soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a
mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a
conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo.
...
per l'annullamento
della nota del Comune di Ovaro prot. n. 344/2015 del
09.01.2015 a firma del Responsabile dell'Ufficio, relativo a
diniego di estrazione di copia di atti e documenti in
assenza di motivazione, a seguito dell'accesso effettuato
dal Consigliere comunale ai sensi dell'art. 43 D.Lgs. n.
267/2000;
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
Come ricordato dal patrocinio dei ricorrenti, il diritto di
accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il
diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre
copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il
solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra
gli estremi del diniego di accesso (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. I, ordinanza n. 1140/2015; TAR Puglia–Bari,
Sez. II, sentenza n. 1664/2012).
Peraltro, i ricorrenti hanno formulato l’istanza di accesso
per cui è causa nell’esercizio del munus pubblicum al quale
sono stati eletti.
E, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, dal quale il Collegio non vede ragione
per discostarsi, «i consiglieri comunali hanno un non
condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano
essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò
anche al fine di permettere di valutare -con piena
cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto
consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non
può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie
richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando,
sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente,
attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni
del consigliere comunale» (così, TAR Sicilia–Palermo,
Sez. I, sentenza n. 77/2015; nello stesso senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 4525/2014).
La richiesta del Comune di motivare le ragioni della
richiesta di copia dei documenti visionati, se pur
formalmente non è atto di diniego, costituisce comunque atto
lesivo delle prerogative dei consiglieri, e come tale
legittimante la dispiegata azione.
Per quanto sopra esposto, l’atto è altresì illegittimo,
essendo gli uffici comunali tenuti a fornire quanto
richiesto dai consiglieri comunali.
Quanto alle altre circostanze rappresentate dalla difesa
comunale nell’atto di costituzione, esse rappresentano una
non consentita integrazione postuma del diniego e come tali
sono irrilevanti (cfr., TAR Piemonte, Sez. I, sentenza
n. 1676/2014).
Il Tribunale ritiene nondimeno di ricordare che il diritto
di accesso è individuale, sicché non può essere negato per
il solo fatto di essere già stato accordato ad altro
soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a
mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a
conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo
(cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n.
2834/2014).
In definitiva il ricorso viene accolto, e per l’effetto si
ordina al Comune di Ovaro di fornire ai consiglieri
ricorrenti copia dei documenti di cui alla richiesta
manoscritta di data 10.12.2014 (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 10.04.2015 n. 176 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per costante giurisprudenza, l’acquiescenza a un
provvedimento amministrativo, che ne preclude
l'impugnazione, può essere ravvisata solo in presenza di una
volontà univoca di accettarne gli effetti.
---------------
La
buona fede, intesa in senso etico come requisito della
condotta, costituisce un cardine della disciplina legale
delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio
dovere giuridico, violato non soltanto quando una delle
parti agisce con dolo in pregiudizio dell’altra ma anche
quando il comportamento non sia improntato alla diligente
correttezza e al senso di solidarietà sociale.
In particolare nella fase che precede la formazione del
vincolo contrattuale, sorgono in capo ai futuri contraenti
specifici obblighi di lealtà e correttezza nello svolgimento
delle trattative, i quali sono particolarmente valorizzati
dalla giurisprudenza amministrativa nella costruzione
dogmatica della responsabilità pre-contrattuale, per cui se
l’amministrazione recede dalle trattative instaurate fino al
punto di suscitare in capo all’impresa il legittimo
affidamento nella conclusione del contratto, detta condotta
contrasta con le regole di probità e diligenza di cui
all’art. 1337 del c.c. e può generare un’obbligazione
risarcitoria.
Al contempo, anche l’interpretazione del contratto è
governata dal principio di buona fede (art. 1366 del c.c.),
come obbligo di lealtà che impone di non suscitare e non
speculare su falsi affidamenti e non contestare ragionevoli
aspettative generate nella controparte.
---------------
L’istituto giuridico della presupposizione
viene definito come “obiettiva
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un
espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai
contraenti nella formazione del loro consenso come
presupposto condizionante la validità e l'efficacia del
negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui
venir meno o verificarsi è del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde
-integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione
dell'uno o dell'altro”.
Al di là delle possibili definizioni, la suddetta condizione
implicita deve essere rigorosamente provata.
Anche questo Tribunale ha sottolineato che per
parlarsi di presupposizione si deve essere in presenza di un
fatto considerato dalle parti come rilevante, seppur non
enunciato in modo espresso nel regolamento contrattuale di
che trattasi.
---------------
... per l’accertamento DELLA DECADENZA DI U.C. ALBINOLEFFE
DALLA CONCESSIONE PER L’UTILIZZO E LA GESTIONE DELLO STADIO
“ATLETI AZZURRI D’ITALIA”, DI CUI ALLA CONVENZIONE
STIPULATA TRA LE PARTI IL 07/02/2012;
e per l’annullamento DELLA NOTA COMUNALE 29/06/2012,
RECANTE IL NULLA OSTA ALL’UTILIZZO DELLO STADIO PREDETTO
ANCHE PER LA STAGIONE SPORTIVA 2012/2013.
...
2. Deve, inoltre, essere affrontata l’eccezione in rito
sollevata dalla controinteressata. La stessa ha in
particolare dedotto l’inammissibilità del gravame per
implicita rinuncia alla domanda presentata, dato che in
occasione di una recente rizollatura del campo di gioco la
Società ricorrente ha coinvolto Albinoleffe invitandola
formalmente a confermare l’impegno a sostenere la metà del
costo (nota 14/02/2013 – doc. 12), e dunque pretendendo
l’attuazione dello stesso rapporto che in questa sede
intende considerare sciolto.
L’eccezione è priva di fondamento.
2.1 Per costante giurisprudenza,
l’acquiescenza a un
provvedimento amministrativo, che ne preclude
l'impugnazione, può essere ravvisata solo in presenza di una
volontà univoca di accettarne gli effetti
(cfr. sentenza sez
I – 28/12/2012 n. 2022).
Nella fattispecie, come correttamente ha rilevato la Società
ricorrente, il sollecito è stato inoltrato “ferme
restando le domande formulate e le azioni intraprese per
accertare e dichiarare la decadenza di U.C. Albinoleffe
S.r.l. dalla convenzione con il Comune di Bergamo per la
gestione dello stadio”, per cui dal tenore dello scritto
non può certo evincersi la volontà precisa ed univoca di
condividere ed accettare la decisione del Comune di
proseguire il rapporto concessorio con entrambe le Società.
3. Nel merito la pretesa è infondata.
L’azione giurisdizionale si fonda sui seguenti rilievi:
• la causa della concessione (di beni e servizi) risiede
nello svolgimento dei campionati italiani di vertice (serie
A e serie B), per cui il declassamento verificatosi è causa
di inefficacia del rapporto instaurato;
• il corrispettivo è ancorato allo svolgimento delle
competizioni in serie A e in serie B, ed è regolato il
passaggio tra queste categorie, mentre la retrocessione in
Lega Pro o in serie inferiori non è in alcun modo
contemplata, circostanza che comprova l’estraneità alle
finalità della concessione (diversamente opinando avremmo
una concessione ad oggetto indefinito);
• la limitazione dell’uso dell’impianto obbedisce ad
intuitive regole di esperienza e ragionevolezza, poiché il
campo da gioco è performante se non ospita troppo
frequentemente partite;
• l’interpretazione secondo buona fede e correttezza impone
di ritenere che l’iscrizione in serie A o B sia il
presupposto stesso della concessione, poiché rende possibile
la prestazione di interesse pubblico per la quale è stata
attribuita;
• il nulla osta comunale all’utilizzo dello stadio malgrado
il declassamento –rilasciato senza coinvolgere la
ricorrente– urta contro il canone pubblicistico del giusto
procedimento e contro il principio civilistico per cui le
clausole contrattuali possono essere modificate soltanto con
il consenso di tutti i contraenti;
• Albinoleffe ha perso il titolo di preferenza perché non è
squadra della città, e il Comune avrebbe dovuto al limite
indire una procedura a evidenza pubblica per
l’individuazione dell’ulteriore gestore.
3.1 Ritiene il Collegio utile, ai fini della decisione,
soffermarsi proprio sul canone di buona fede invocato dalla
parte ricorrente, recentemente approfondito dalla Sezione
nella sentenza 18/04/2013 n. 363.
Nella pronuncia si afferma che <<La
buona fede, intesa in senso etico come requisito della
condotta, costituisce un cardine della disciplina legale
delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio
dovere giuridico, violato non soltanto quando una delle
parti agisce con dolo in pregiudizio dell’altra ma anche
quando il comportamento non sia improntato alla diligente
correttezza e al senso di solidarietà sociale
(Corte di Cassazione, sez. III civile – 11/02/2005 n. 2855).
In particolare nella fase che precede la formazione del
vincolo contrattuale, sorgono in capo ai futuri contraenti
specifici obblighi di lealtà e correttezza nello svolgimento
delle trattative, i quali sono particolarmente valorizzati
dalla giurisprudenza amministrativa nella costruzione
dogmatica della responsabilità pre-contrattuale, per cui se
l’amministrazione recede dalle trattative instaurate fino al
punto di suscitare in capo all’impresa il legittimo
affidamento nella conclusione del contratto, detta condotta
contrasta con le regole di probità e diligenza di cui
all’art. 1337 del c.c. e può generare un’obbligazione
risarcitoria (cfr.
Consiglio di Stato, ad. plen. – 05/09/2005 n. 6).
Al contempo, anche l’interpretazione del contratto è
governata dal principio di buona fede (art. 1366 del c.c.),
come obbligo di lealtà che impone di non suscitare e non
speculare su falsi affidamenti e non contestare ragionevoli
aspettative generate nella controparte>>.
3.2 In base alla convenzione stipulata dalle tre parti, il
bene patrimoniale indisponibile è concesso in gestione a
entrambe le Società fino ad un termine predeterminato, ossia
il 30.06.2015. Nessuna clausola del testo sottoscritto
contempla –quale motivo di risoluzione– la permanenza delle
squadre nelle massime categorie del campionato italiano
(serie A o serie B).
L’art. 3 del contratto, peraltro, nel collegare la
risoluzione del rapporto al verificarsi di taluni eventi
–sopravvenuti motivi di interesse pubblico, modifiche dello
statuto sociale delle Società affidatarie del servizio,
mutamento sostanziale non autorizzato dello scopo del
contratto, casi di legge, scioglimento delle Società– nulla
afferma a proposito dell’eventuale retrocessione di
Albinoleffe (ovvero di Atalanta) in Lega Pro. La riflessione
che consegue è l’impossibilità di aggiungere una causa
ulteriore di risoluzione del vincolo negoziale oltre a
quelle tassativamente previste dalla legge o dal contratto.
Né soccorre, a favore della prospettazione della ricorrente,
la modalità di calcolo del corrispettivo –effettivamente
determinato prendendo in considerazione la disputa del
campionato di serie A ovvero di serie B– trattandosi della
quantificazione del canone per l’utilizzo dell’impianto, che
è stato ancorato alla situazione di fatto esistente al
momento delle stipulazione (all’epoca Atalanta era in serie
A e Albinoleffe in serie B).
3.3 La posizione illustrata dalla difesa di Atalanta evoca
l’istituto giuridico della presupposizione.
L’istituto viene definito come “obiettiva
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un
espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai
contraenti nella formazione del loro consenso come
presupposto condizionante la validità e l'efficacia del
negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui
venir meno o verificarsi è del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde
-integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione
dell'uno o dell'altro”
(cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 30/04/2012 n.
6612; sez. II civile – 20/12/2011 n. 27781).
Al di là delle possibili definizioni, la suddetta condizione
implicita deve essere rigorosamente provata.
3.4 Anche questo Tribunale (cfr. sentenza sez. I –
26/03/2012 n. 478) ha sottolineato che per
parlarsi di presupposizione si deve essere in presenza di un
fatto considerato dalle parti come rilevante, seppur non
enunciato in modo espresso nel regolamento contrattuale di
che trattasi.
Nella fattispecie, tuttavia, non affiora alcun elemento,
anche indiziario, idoneo a rivelare una comune condivisione
della clausola escludente correlata alla retrocessione in
una serie inferiore alla “B”.
Non avalla siffatta conclusione il paventato utilizzo “eccessivo”
del campo di gioco, dato che il numero di partite (con 2
squadre coinvolte) resta il medesimo se Albinoleffe disputa
un campionato inferiore. Anche la dedotta estraneità di
Albinoleffe dalla città di Bergamo appare superata
dall’avvenuto trasferimento di sede autorizzato dalla FIGC
con provvedimento presidenziale 05/06/2012.
Infine, l’invocato interesse pubblico all’espletamento della
prestazione sportiva non è automaticamente vanificato dalla
retrocessione in una serie inferiore, dato che la
competizione cui partecipa una squadra vede mantenuto il
coinvolgimento degli sportivi alla medesima affezionati.
3.5 Da ultimo, occorre sottolineare che il Comune ha dato
conto del fatto che Albinoleffe ha sempre onorato gli
impegni contrattualmente assunti, mentre le rimostranze
espresse dall’Atalanta nella memoria finale (ove provate)
potranno al più giustificare un’azione civilistica per la
restituzione di quanto indebitamente corrisposto anche per
la parte dovuta dalla controinteressata.
In secondo luogo, peraltro, in caso di estromissione il
Comune beneficerebbe di introiti inferiori, dato che
Atalanta ha manifestato una disponibilità generica a
rinegoziare il contratto e ad integrare il canone, ma senza
impegnarsi sul quantum (cfr. nota ricorrente
05/07/2012 – doc. 4 amministrazione).
In conclusione, la pretesa è infondata e deve essere
respinta, cosicché viene meno l’interesse del Comune ad una
pronuncia sulla domanda riconvenzionale proposta
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 11.06.2013 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Appartiene alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la
gestione degli impianti sportivi, che rientrano nel
patrimonio indisponibile del Comune: essi sono destinati ad
un pubblico servizio –essendo finalizzati a soddisfare
proprio l'interesse dell'intera collettività alle discipline
sportive– e possono essere trasferiti nella disponibilità
dei privati perché ne facciano un uso ben determinato solo
mediante concessione amministrativa.
Con particolare riguardo alla
concessione a terzi di uno stadio comunale, anche la Corte
di Cassazione
ha affermato che si tratta di un impianto che
appartiene al patrimonio indisponibile del Comune ai sensi
dell'art. 826, ultimo comma, del c.c., e di conseguenza
–qualora sia messo a disposizione di privati con
provvedimento autoritativo unilaterale per determinati usi–
le controversie relative al rapporto concessorio restano
devolute al giudice amministrativo.
---------------
... per l’accertamento DELLA DECADENZA DI U.C. ALBINOLEFFE
DALLA CONCESSIONE PER L’UTILIZZO E LA GESTIONE DELLO STADIO
“ATLETI AZZURRI D’ITALIA”, DI CUI ALLA CONVENZIONE
STIPULATA TRA LE PARTI IL 07/02/2012;
e per l’annullamento DELLA NOTA COMUNALE 29/06/2012,
RECANTE IL NULLA OSTA ALL’UTILIZZO DELLO STADIO PREDETTO
ANCHE PER LA STAGIONE SPORTIVA 2012/2013.
...
La ricorrente censura la condotta assunta dal Comune di
Bergamo, il quale avrebbe dovuto dichiarare la
controinteressata decaduta dalla concessione per l’utilizzo
e la gestione dello stadio “Atleti Azzurri d’Italia”.
1. La lite deve essere decisa da questo Tribunale.
Il
rapporto tra l’Ente locale e le due Società sportive si
configura, infatti, come
concessione di un
bene pubblico (lo
stadio di Bergamo), ed appartiene alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la
controversia avente ad oggetto la gestione degli impianti
sportivi, che rientrano nel patrimonio indisponibile del
Comune: essi sono destinati ad un pubblico servizio –essendo
finalizzati a soddisfare proprio l'interesse dell'intera
collettività alle discipline sportive– e possono essere
trasferiti nella disponibilità dei privati perché ne
facciano un uso ben determinato solo mediante concessione
amministrativa
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 06/02/2013 n. 698, che ha
affrontato una causa afferente ad impianti dedicati al
nuoto).
1.1 Con particolare riguardo alla
concessione a terzi di uno stadio comunale, anche la Corte
di Cassazione
(cfr. sez. unite civili – 23/07/2001 n. 10013)
ha affermato che si tratta di un impianto che
appartiene al patrimonio indisponibile del Comune ai sensi
dell'art. 826, ultimo comma, del c.c., e di conseguenza
–qualora sia messo a disposizione di privati con
provvedimento autoritativo unilaterale per determinati usi–
le controversie relative al rapporto concessorio restano
devolute al giudice amministrativo
(per un’applicazione concernente un impianto sportivo si
veda anche TAR Puglia Lecce Sez. III, 22.04.2010, n. 977).
In verità, la Corte di Cassazione e il TAR
Lecce hanno fatto applicazione del previgente art. 5, comma
1, della L. 06/12/1971 n. 1034, ma oggi una disposizione
sostanzialmente analoga è racchiusa nell’art. 133, comma 1,
lett. b), del Codice del processo amministrativo.
1.2 Nella specie affrontata, peraltro, l’atto di concessione
ha pacificamente ad oggetto il bene pubblico “stadio”
e non direttamente un servizio pubblico, come emerge dagli
elementi essenziali della convenzione: la stessa prevede la
fissazione di un canone variabile come corrispettivo per il
bene dato in godimento e in gestione, impone alle
concessionarie di provvedere alla custodia dell’impianto,
nonché agli interventi di manutenzione ordinaria e alla cura
del terreno di gioco, ed ammette infine l’autorizzazione a
terzi a fini ricreativi (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. I
– 29/04/2009 n. 358; a contrario TAR Lombardia Brescia, sez.
II – 02/05/2012 n. 732, dove si è ravvisata una concessione
di pubblico servizio in quanto l’attività equestre “da
promuovere in tutti i suoi aspetti anche con iniziative di
carattere educativo e sociale ed azioni mirate al recupero
dei disabili (art. 1 convenzione) assume una rilevanza
fondamentale e preponderante, mentre la messa a disposizione
di mezzi e strutture è strumentale all’erogazione del
servizio”)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 11.06.2013 n. 559 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che l’istituto
della presupposizione trova applicazione
in ambito privatistico, risolvendosi in una situazione (di
diritto o di fatto) tenuta presente dai contraenti in sede
di manifestazione del consenso come presupposto
condizionante degli impegni assunti, pur in assenza di un
riferimento testuale nelle clausole contrattuali.
---------------
La società ricorrente lamenta l’indebita pretesa del Comune
della somma di 2.182.424,28 € a titolo di costo di
costruzione per gli interventi di realizzazione
dell’interporto Bergamo-Montello.
1. Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione in rito
sollevata dalla difesa comunale, la quale sostiene la
sopravvenuta carenza di interesse alla definizione del
gravame, a suo avviso unicamente focalizzato sulla mancanza
del titolo di proprietà del terreno che è stato poi
conseguito in forza del formale decreto di esproprio.
1.1 L’eccezione è infondata. Le doglianze di parte
ricorrente ricoprivano un orizzonte più ampio, estendendosi
al (prospettato) compito del Comune di verificare i
requisiti di conformità tecnica e di fissare i termini di
inizio e fine lavori, oltre al rispetto delle intese tra le
parti che ad avviso di Sibem imponevano di concordare i
profili tecnici e temporali di attuazione dell’intervento
(comprese le modalità operative afferenti alla liquidazione
del contributo di costruzione).
2. Nel merito, con ampio e articolato motivo di gravame la
ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione
dell’art. 11 della L. 241/1990 (in relazione all’accordo
02/10/2003), l’eccesso di potere per difetto dei
presupposti, la contraddittorietà e violazione delle
pattuizioni, dato che l’opera non poteva essere
immediatamente realizzata senza la preventiva acquisizione
della proprietà delle aree, e per questo l’intesa ha
vincolato le parti a definire le modalità tecniche e
temporali di attuazione degli interventi: ciò si evincerebbe
anche dal promemoria 19/11/2003, per cui il Comune non
poteva assumere alcun atto autoritativo ma doveva concordare
i tempi di pagamento.
Si duole inoltre della violazione e falsa applicazione degli
artt. 11 e 16 del D.P.R. 380/2001, dell’art. 19 della L.r.
9/2001, dell’art. 10 della L. 241/1990, dell’eccesso di
potere per illogicità, dato che il legislatore regionale
connette all’approvazione della Conferenza l’effetto
sostitutivo di ogni titolo abilitativo, ma ciò non implica
automaticamente la possibilità di dare corso alle opere
programmate, e quindi l’insorgenza dell’obbligo di immediata
corresponsione del contributo: l’art. 4 della L. 10/1977 (ed
oggi l’art. 11 del DPR 380) stabiliscono che il permesso di
costruire sia rilasciato a chi ha la disponibilità giuridica
delle aree, e nella specie il soggetto promotore ne è privo;
inoltre l’art. 19 della L.r. 9/2001 va coordinato con la
normativa edilizia, e dunque occorre un successivo atto
ricognitivo dell’amministrazione che prenda atto
dell’utilizzabilità dei suoli e racchiuda le date di inizio
ed ultimazione dei lavori (tenuto conto che il cronoprogramma fissa soltanto l’inizio – cfr. doc. 2).
Dette asserzioni sono parzialmente condivisibili.
2.1 In linea con quanto anticipato in sede cautelare
(ordinanza n. 22/2005), ad avviso del Collegio la produzione
degli effetti sostitutivi del permesso di costruire –sancita
dall’art. 19 della legge regionale 9/2001– era ancorata alla
realizzazione del presupposto di fatto della materiale
disponibilità delle aree oggetto di intervento.
2.2 E’ certo infatti che l’art. 19, comma 7, della L.r.
9/2001 statuisce che “Il provvedimento finale conforme
alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza
di servizi sostituisce ad ogni effetto, le autorizzazioni,
le concessioni, i nullaosta, i pareri e gli atti di assenso
comunque denominati di competenza delle amministrazioni
partecipanti, o comunque invitate a partecipare, a detta
conferenza, produce le eventuali variazioni agli strumenti
urbanistici comunali difformi ed è immediatamente esecutivo”.
Al contempo, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 “Il
permesso di costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”
(comma 1) mentre l’art. 12 dispone che “Il permesso di
costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”. L’art. 16,
comma 1, infine prevede che … “il rilascio del permesso
di costruire comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate
nel presente articolo”.
2.3 Dal complesso delle disposizioni richiamate si ricava
che la deliberazione della Giunta regionale 17/10/2003 n.
7/14644 ha realizzato l’effetto sostitutivo di tutti gli
atti di assenso previsti dalla legge e necessari per
l’adozione del provvedimento finale.
Nell’ottica
dell’abbreviazione dei tempi procedimentali, la Conferenza
di servizi cd. “decisoria" è un modulo procedimentale
a paternità plurima che attua il principio del coordinamento
all’interno del sistema amministrativo, rispondendo alle
esigenze di celerità e concentrazione delle procedure.
Tuttavia è incontroverso che al momento dell’adozione del
provvedimento citato parte ricorrente non avesse ancora
acquisito la proprietà delle aree, come del resto si evince
dalla lettura del verbale della Conferenza (in particolare
nel commento alla nota del Comune di Albano S. Alessandro e
nelle prescrizioni).
2.4 Ebbene detto evento è ad avviso del
Collegio assimilabile ad una presupposizione.
E’ noto che l’istituto trova applicazione
in ambito privatistico, risolvendosi in una situazione (di
diritto o di fatto) tenuta presente dai contraenti in sede
di manifestazione del consenso come presupposto
condizionante degli impegni assunti, pur in assenza di un
riferimento testuale nelle clausole contrattuali.
Nella fattispecie in esame, pur regolata dal diritto
pubblico e dalle norme già richiamate,
è evidente che
l’assenza di un titolo giuridico in grado di legittimare il
possesso delle aree necessarie per il compimento degli
interventi precludeva l’adempimento di qualsiasi altra
obbligazione assunta da Sibem. Il perfezionamento delle
procedure espropriative era pertanto indispensabile per
rimuovere un impedimento (giuridico e materiale)
all’esecuzione delle opere.
Si deve affermare pertanto, in ossequio ai principi di leale
collaborazione e buona fede che connotano i rapporti tra
soggetti pubblici e privati,
che gli obblighi assunti da Sibem e trasfusi nell’accordo del 02/10/2003 fossero
operativi a condizione che la sopravvenienza di circostanze
impreviste (ossia gli ostacoli al regolare iter
espropriativo) non sconvolgesse l’assetto di interessi
(pubblici e privati) programmato con le procedure sino a
quel momento intraprese.
3. Non sono viceversa degne di apprezzamento le ulteriori
deduzioni della ricorrente.
L’evento dedotto nella condizione inespressa era l’unico in
grado di paralizzare –in via eccezionale e provvisoria–
l’efficacia degli impegni convenzionalmente assunti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 12.12.2012 n. 1940 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla localizzazione dell’attività imprenditoriale di
cui parte ricorrente è titolare, non può certo venire in
considerazione –al fine di legittimare la sollecitazione
del sindacato giurisdizionale– il criterio della c.d. vicinitas, ovvero dell’insistenza nel medesimo ambito
geografico, sì da consentire la reazione in sede
giurisdizionale avverso interventi suscettibili di immutarne
la configurazione.
Tale criterio, come ampiamente noto,
è stato in
giurisprudenza sviluppato –e costantemente affermato, sia
pur con progressive puntualizzazioni del relativo ambito
espansivo ai fini del riconoscimento della posizione
legittimante– in materia edilizia ed urbanistica, al fine
di riconoscere al soggetto insediato in un particolare
contesto la facoltà di insorgere nei confronti
dell’espansione dello jus aedificandi suscettibile di
compromettere l’equilibrio dell’area.
Va
osservato che anche gli orientamenti come
sopra maturati in ambito urbanistico/edilizio (ai quali va,
con evidenza, annesso un ampliamento delle potenzialità
reattive in sede giurisdizionale, sull’unico presupposto
dell’attualità dell’insediamento abitativo o produttivo
all’interno di un particolare contesto topografico) hanno
sottolineato come il criterio della vicinitas, seppur idoneo
a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisca
comunque gli ulteriori profili dell'interesse concreto
all'impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e
documentata delle facoltà dominicali del ricorrente.
In tale contesto, se pure all’acclarata configurazione del
criterio stesso accede, secondo un insegnamento
giurisprudenziale, l’esclusa immanenza di un onere di
ostensione della prova in ordine all'effettività del danno
subendo,
deve, diversamente, rimarcarsi come maggiori profili di
persuasività siano rinvenibili nel convincimento che
valorizza, ai fini del riconoscimento della legittimazione
ad agire, la dimostrata consistenza di una pregiudizievole
alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio
per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Altrimenti, una ampliata latitudine applicativa del medesimo
criterio della vicinitas, finirebbe per veicolare
l'introduzione di una azione popolare con riveniente
esondazione della postulazione di tutela verso un modello di
giurisdizione oggettiva: imponendosi, al contrario, la
necessaria verifica in ordine alla sussistenza di un
interesse giuridicamente qualificato e differenziato del
ricorrente, in considerazione del durevole rapporto
esistente tra la sua proprietà e l'area interessata
all'intervento e, conseguentemente, la dimostrazione di un
pregiudizio concreto alle facoltà dominicali.
---------------
Va escluso che possano trovare giuridica
protezione posizioni la cui insorgenza trovi fondamento in
una mera presupposizione, ovvero nella configurazione ex
ante della persistenza di particolari condizioni (nella
fattispecie: il casello autostradale di Dolo-Mirano) che
avevano indotto la parte all’esercizio di attività negoziale
(acquisto ed insediamento del complesso ricettivo-alberghiero).
La prospettazione di parte ricorrente evoca, appunto,
la
figura civilistica della presupposizione, ovvero di quella
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) tenuta in considerazione –pur in mancanza di un
espresso riferimento nelle clausole contrattuali– dai
contraenti nella formazione del loro consenso come
presupposto condizionante la validità e l'efficacia del
negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui
venir meno o verificarsi è del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde –integrandolo– all'oggetto di una specifica obbligazione
dell'uno o dell'altro.
---------------
La sollecitazione del sindacato giurisdizionale, esclusa la sottoponibilità
all’adito organo di giustizia di una generalizzata ed
indifferenziata controllabilità dell’operato della Pubblica
Amministrazione, comunque postula la dimostrata esistenza e
consistenza di una posizione giuridica qualificata e
differenziata, nonché di un pregiudizio ad essa riveniente
per effetto dell’esercizio del potere amministrativo.
Altrimenti, viene a delinearsi un modello di azione
popolare, ovvero la configurazione di un controllo
giurisdizionale di tipo oggettivo, che l’ordinamento conosce
in fattispecie tassativamente delineate; e che è, con ogni
evidenza, insuscettibile di esportazione alle controversie
che, diversamente, necessitano di essere veicolate dalla
obbligata ostensione di una posizione legittimante
vivificata dalla dimostrata sussistenza/consistenza di un
interesse soggettivizzato.
---------------
1. Ciò preliminarmente posto, entrambi i riuniti ricorsi si
rivelano inammissibili per carenza di legittimazione attiva.
Come evidenziato in narrativa, la ricorrente Rosa s.r.l. è
titolare di un complesso ricettivo, alberghiero e di
ristorazione posto nel Comune di Mirano, a ridosso della
zona industriale di Mirano e Pianiga, lungo il tratto della
viabilità ordinaria contigua al casello Dolo–Mirano della
A4.
Nel sostenere che tale complesso sarebbe stato realizzato a
seguito della verifica della permanenza del suindicato
casello autostradale (ancorché nella nuova forma di barriera
a seguito della realizzazione del Passante di Mestre), la
parte si duole che, in sede di realizzazione del c.d.
“Passante di Mestre”, l’originaria collocazione di una
barriera all’altezza del preesistente casello di Dolo-Mirano
avrebbe subito, nel quadro di sopravvenute modificazioni
progettuali, una diversa collocazione: per l’effetto venendo
a configurarsi una situazione suscettibile, in ragione dei
mutati flussi di traffico, di condurre ad una contrazione
del potenziale bacino di clientela.
In altri termini, l’atteggiarsi dell’interesse dalla
ricorrente fatto valere in giudizio rivestirebbe valenza
tendenzialmente “conservativa” (nella misura in cui le
potenzialità recettive del complesso del quale la medesima è
titolare sarebbero asseritamente compromesse per effetto del
venir meno del casello, o quanto meno della barriera
autostradale di che trattasi), con ricadute “oppositive”
sulla ridelineata (ed avversata) ri-configurazione degli
accessi al tratto viario in discorso.
Nel sostenere di mutuare la propria posizione legittimante
dalla circostanza di aver acquistato il suindicato complesso
ricettivo solo in seguito alla (e per effetto della)
verifica della permanenza del predetto casello autostradale
(ancorché nella nuova forma di barriera), le modificazioni
dell’originaria conformazione del tratto autostradale (a
fronte delle quali il casello stesso non è previsto, con
tramutamento del casello provvisorio di Vetrego in casello
definitivo) determinerebbero, secondo la prospettazione di
parte, un effetto decettivo sui potenziali flussi di
clientela, cagionando –conseguentemente– un detrimento di
carattere patrimoniale che la parte, appunto, ha inteso
scongiurare opponendosi alle modificazioni della
regolamentazione degli accessi al tratto autostradale di che
trattasi.
Appare evidente, dai sintetizzati tratti che connotano
l’affermata posizione legittimante di Rosa s.r.l., che la
parte evoca, a fondamento della sostenuta presenza di un
interesse giuridicamente qualificato:
- non soltanto una situazione di mero fatto (rappresentata
dalla collocazione del complesso ricettivo in un particolare
tratto del percorso autostradale);
- ma anche l’insorgenza di un pregiudizio, ricongiunto alla
modificata collocazione del casello, rispetto al progetto
originario, che si rivela, peraltro, affatto indimostrato.
Quanto alla localizzazione dell’attività imprenditoriale di
cui parte ricorrente è titolare, non può certo venire in
considerazione –al fine di legittimare la sollecitazione
del sindacato giurisdizionale– il criterio della c.d. vicinitas, ovvero dell’insistenza nel medesimo ambito
geografico, sì da consentire la reazione in sede
giurisdizionale avverso interventi suscettibili di immutarne
la configurazione.
Tale criterio, come ampiamente noto,
è stato in
giurisprudenza sviluppato –e costantemente affermato, sia
pur con progressive puntualizzazioni del relativo ambito
espansivo ai fini del riconoscimento della posizione
legittimante– in materia edilizia ed urbanistica, al fine
di riconoscere al soggetto insediato in un particolare
contesto la facoltà di insorgere nei confronti
dell’espansione dello jus aedificandi suscettibile di
compromettere l’equilibrio dell’area.
Nel rilevare come, quanto alla dedotta vicenda contenziosa,
non venga in considerazione un interesse siffatto –atteso
che le doglianze ampiamente articolate dalla parte
ricorrente si diffondono, oltre che sulla sostanza del
potere commissariale nella fattispecie esercitato, anche su
presunte illegittimità alla base delle modificazioni
progettuali del tracciato autostradale oggetto di
contestazione– va osservato che anche gli orientamenti come
sopra maturati in ambito urbanistico/edilizio (ai quali va,
con evidenza, annesso un ampliamento delle potenzialità
reattive in sede giurisdizionale, sull’unico presupposto
dell’attualità dell’insediamento abitativo o produttivo
all’interno di un particolare contesto topografico) hanno
sottolineato come il criterio della vicinitas, seppur idoneo
a supportare la legittimazione al ricorso, non esaurisca
comunque gli ulteriori profili dell'interesse concreto
all'impugnazione, costituito dalla lesione effettiva e
documentata delle facoltà dominicali del ricorrente (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 24.01.2011 n. 485 e 29.12.2010 n. 9537).
In tale contesto, se pure all’acclarata configurazione del
criterio stesso accede, secondo un insegnamento
giurisprudenziale, l’esclusa immanenza di un onere di
ostensione della prova in ordine all'effettività del danno
subendo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.08.2010, n. 5819),
deve, diversamente, rimarcarsi come maggiori profili di
persuasività siano rinvenibili nel convincimento che
valorizza, ai fini del riconoscimento della legittimazione
ad agire, la dimostrata consistenza di una pregiudizievole
alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio
per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Altrimenti, una ampliata latitudine applicativa del medesimo
criterio della vicinitas, finirebbe per veicolare
l'introduzione di una azione popolare con riveniente
esondazione della postulazione di tutela verso un modello di
giurisdizione oggettiva: imponendosi, al contrario, la
necessaria verifica in ordine alla sussistenza di un
interesse giuridicamente qualificato e differenziato del
ricorrente, in considerazione del durevole rapporto
esistente tra la sua proprietà e l'area interessata
all'intervento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.11.2009
n. 7490) e, conseguentemente, la dimostrazione di un
pregiudizio concreto alle facoltà dominicali (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 24.01.2011 n. 485).
2. Se la breve rassegna di orientamenti in materia
urbanistico/edilizia, della quale si è precedentemente dato
conto, persuade della persistente obbligatorietà
dell’indagine sull’interesse concreto dalla parte deducibile
in giudizio –e, con esso, in ordine alla consistenza ed
attualità del pregiudizio lamentato a fronte di una
situazione giuridica soggettiva della quale la parte stessa
vanti la titolarità– la medesima sistematica interpretativa
induce ad escludere che, quanto alla posizione (pretesamente)
legittimante della quale Rosa s.r.l. assume di essere
destinataria, sia ammissibile l’evocazione della tutela
giurisdizionale.
Innanzitutto,
va escluso che possano trovare giuridica
protezione posizioni la cui insorgenza trovi fondamento in
una mera presupposizione, ovvero nella configurazione ex
ante della persistenza di particolari condizioni (nella
fattispecie: il casello autostradale di Dolo-Mirano) che
avevano indotto la parte all’esercizio di attività negoziale
(acquisto ed insediamento del complesso ricettivo-alberghiero).
La prospettazione di parte ricorrente evoca, appunto,
la
figura civilistica della presupposizione, ovvero di quella
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) tenuta in considerazione –pur in mancanza di un
espresso riferimento nelle clausole contrattuali– dai
contraenti nella formazione del loro consenso come
presupposto condizionante la validità e l'efficacia del
negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui
venir meno o verificarsi è del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde –integrandolo– all'oggetto di una specifica obbligazione
dell'uno o dell'altro (cfr.,
ex multis, Cass. civ., Sez. III,
25.05.2007 n. 12235).
L’insediamento e l’avvio di un’attività imprenditoriale in
una particolare collocazione topografica lungo il tracciato
del Passante, infatti, avrebbe fatto seguito all’affidamento
(peraltro non ingenerato da alcuna formale determinazione
della competente Amministrazione; ma fondato su
un’elaborazione progettuale che quest’ultima, al ricorrere
dei necessari presupposti, ben avrebbe potuto,
successivamente, modificare) in ordine alla persistenza del
suindicato casello autostradale:
- non soltanto ingenerando un affidamento nella “stabilità”
dell’organizzazione dei flussi di accesso al tracciato
viario
- ma determinando, anche, una (inespressa) condizione alla
prestazione del consenso al momento del perfezionamento
degli atti negoziali prodromici alla realizzazione del
complesso ricettivo di che trattasi.
Se le ragioni precedentemente esposte potrebbero legittimare
eventuali reazioni in sede civile (al ricorrere, ovviamente,
dei necessari presupposti), non è invero riconoscibile in
capo all’odierna parte ricorrente alcuna titolarità di
azione a contestare nella presente sede giurisdizionale,
sull’esclusivo fondamento sopra descritto, la diversa
collocazione dell’accesso autostradale di che trattasi.
E ciò non soltanto in quanto la mera localizzazione
dell’insediamento alberghiero in prossimità dell’ex casello
non integra, ex se riguardata, la titolarità di alcuna
posizione giuridicamente tutelabile ai fini della
sollecitazione del sindacato giurisdizionale (dovendosi, in
proposito, richiamare quanto esposto al precedente punto
1.), ma anche in ragione della omessa ostensione di alcun
corredo dimostrativo in ordine al pregiudizio che la parte
risentirebbe per effetto della mutata collocazione del
casello di che trattasi.
Il lamentato detrimento di carattere commerciale riveniente
dallo spostamento del casello stesso, viene infatti a
collocarsi nel quadro di una prospettazione meramente
assertiva, priva di alcun conforto, anche meramente
indiziario, in ordine alla consistenza del pregiudizio che
la parte si limita –invero, apoditticamente– ad allegare,
fuori dall’assolvimento di un (invece necessario) onere
probatorio.
3. Se quanto precedentemente esposto persuade il Collegio
della carenza di legittimazione attiva della parte,
ulteriori ragioni asseverative dell’esposto convincimento
sono argomentabili dall’esclusa configurabilità di una
posizione legittimante al ricorso nel quadro di una mera
verifica di legittimità dell’operato dell’Amministrazione.
È appena il caso di rammentare come la sollecitazione del
sindacato giurisdizionale, esclusa la sottoponibilità
all’adito organo di giustizia di una generalizzata ed
indifferenziata controllabilità dell’operato della Pubblica
Amministrazione, comunque postuli la dimostrata esistenza e
consistenza di una posizione giuridica qualificata e
differenziata, nonché di un pregiudizio ad essa riveniente
per effetto dell’esercizio del potere amministrativo.
Altrimenti, viene a delinearsi un modello di azione
popolare, ovvero la configurazione di un controllo
giurisdizionale di tipo oggettivo, che l’ordinamento conosce
in fattispecie tassativamente delineate; e che è, con ogni
evidenza, insuscettibile di esportazione alle controversie
che, diversamente, necessitano di essere veicolate dalla
obbligata ostensione di una posizione legittimante
vivificata dalla dimostrata sussistenza/consistenza di un
interesse soggettivizzato.
Che parte ricorrente, fuori dalla dimostrata configurabilità
di un interesse della specie, abbia inteso invece promuovere
un sindacato sulla latitudine espansiva del potere pubblico
relativamente alla regolamentazione dei flussi di
accesso/uscita sul tratto autostradale in discorso, è
dimostrato –ad ulteriore comprova della già rilevata
insussistenza di un interesse individualizzato e
giuridicamente tutelabile– dagli ultimi sviluppi offerti
dalla vicenda contenziosa all’esame.
Con memorie per entrambi i ricorsi depositate in giudizio il
12.05.2012, l’Avvocatura Generale dello Stato ha esposto
che:
- il 10.06.2011 la Commissione statale VIA–VAS ha
espresso parere favorevole sulla nuova soluzione progettuale
riguardante il casello di Dolo–Pianiga, con abbandono
dell’originaria previsione dell’arretramento della barriera
di Mestre–Villabona;
- a tale parere non ha tuttavia fatto seguito la
localizzazione urbanistica dell’opera, in ragione dell’avvio
di un complessivo riesame della viabilità dell’area, anche
in considerazione di nuovi interventi infrastrutturali
progettati e/o programmati dalla Regione Veneto e da ANAS.
- il Ministero dell’Ambiente, con proprio parere, ha
recepito il parere della Commissione VIA–VAS relativo al
progetto preliminare della “Nuova Romea”;
- il Commissario delegato ha conferito al Contraente
Generale incarico al fine di predisporre un progetto
preliminare per uno svincolo che preveda la realizzazione
delle sole direttrici da e per Mestre/Venezia, all’interno
di aree già di competenza autostradale (tale “semisvincolo”,
in particolare, dovrebbe risultare affiancato
“funzionalmente” all’esistente casello di Vetrego; e
consentire una “razionalizzazione” dei flussi in ingresso ed
in uscita dalla A57, nel tratto compreso fra Roncoduro e
Vetrego.
A fronte delle (pur succintamente) illustrate
sopravvenienze, parte ricorrente, nell’insistere per l’invio
a decisione delle controversie come sopra riunite, ha
nondimeno escluso che l’interesse ai ricorsi sia venuto
meno; o, in ogni caso, che la ridelineazione, in fieri,
dell’assetto viario dell’area potesse consentire ulteriori
approfondimenti, preordinati alla verifica di ragionevoli
profili di preservazione delle ragioni patrimoniali che la
parte stessa ha asserito essere state sacrificate per
effetto della ridelineata allocazione degli accessi
autostradali.
Nell’escludere che possa darsi ammissibilmente ingresso ad
una postulazione che pretenda, sulla base di un indimostrato
(e, forse, indimostrabile) pregiudizio, il mantenimento
dell’originaria collocazione di un casello, la rivendicata
persistenza di interesse dimostra la postulazione di una
posizione pretensiva alla sindacabilità delle scelte
dell’Amministrazione di carattere generale/organizzativo
(sia pure con riferimento alla regolazione degli accessi
autostradali nel tratto viario in esame): alla quale, fuori
dalla dimostrata immanenza di un interesse giuridicamente
apprezzabile, l’ordinamento non può fornire tutela.
La richiesta sindacabilità di un complesso di interventi (di
carattere necessariamente generale) aventi ad oggetto la
disciplina/regolamentazione dei flussi di traffico veicolare
nel quadro di una pluralità di direttrici stradali
strettamente interconnesse, postula infatti, come
precedentemente osservato, l’esistenza e l’immanenza
dell’interesse alla sollecitazione del controllo
giurisdizionale –necessariamente parametrata sulla (e
perimetrata dalla) sussistenza/consistenza del pregiudizio
del quale la parte assume di essere portatrice– che nel
caso di specie la parte non ha in alcun modo corredato di
conforto dimostrativo: precludendo quindi, inevitabilmente,
l’ammissibilità del pur sollecitato sindacato nell’adita
sede giudiziale.
4. Le condotte considerazione inducono il Collegio a
ribadire l’anticipato convincimento in ordine alla carenza,
in capo alla parte ricorrente, della necessaria posizione
legittimante ai fini della sollecitazione del sindacato
giurisdizionale: alla quale, inevitabilmente, accede la
declaratoria di inammissibilità dei riuniti ricorsi
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 14.06.2012 n. 5478 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nella
prevalente giurisprudenza anche di legittimità, la
presupposizione viene definita come obiettiva situazione
di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in
considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento
nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione
del loro consenso come presupposto condizionante la validità
e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o
inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto
indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non
corrisponde integrandolo all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro.
Al di là delle possibili definizioni, la
suddetta condizione implicita deve essere provata.
--------------
11. Con l'ottavo motivo i ricorrenti deducono il vizio di
omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. e il vizio di omessa
motivazione in relazione al fatto che il giudice di appello
non si sarebbe pronunciato sul motivo di appello avente ad
oggetto la nullità del contratto per difetto di causa in
applicazione dell'istituto della presupposizione sul
rilievo che le parti si sarebbero determinate a contrarre
sul presupposto della non edificabilità dei terreni e
neppure si sarebbe pronunciato sulla richiesta di
risoluzione del contratto per eccessiva onerosità
sopravvenuta. 12. Nella prevalente
giurisprudenza anche di legittimità, la presupposizione
viene definita come obiettiva situazione di fatto o di
diritto (passata, presente o futura) tenuta in
considerazione -pur in mancanza di un espresso riferimento
nelle clausole contrattuali- dai contraenti nella formazione
del loro consenso come presupposto condizionante la validità
e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o
inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto
indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non
corrisponde integrandolo all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro
(v. Cass. 23/09/2004 n. 19144; Cass., 04/03/2002, n. 3052).
Al di là delle possibili definizioni, la
suddetta condizione implicita deve essere provata,
mentre nel caso di specie non esiste alcuna prova in merito
alla presupposizione e pertanto il motivo è
inammissibile perché il ricorrente non ha interesse al
rilievo della mancata pronuncia sulla presupposizione,
inoltre implicitamente rigettata dal giudice di appello il
quale ha escluso che fosse dimostrato che le parti non
avrebbero concluso il contratto se avessero avuto cognizione
della edificabilità della particella
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.04.2012 n. 6612). |
URBANISTICA:
E’ infondato il secondo
motivo di ricorso, incentrato su un presunto superamento
delle clausole della convenzione urbanistica conclusa fra la
ricorrente e il Comune a seguito della decisione, assunta
nella competente sede ministeriale, di non realizzare il
nuovo Palazzo di giustizia.
In tal senso, la ricorrente invoca, se pure
senza nominarlo, l’istituto, di creazione dottrinale e
giurisprudenziale, della cd. presupposizione, secondo
il quale si dovrebbe ritenere che un accordo contrattuale
non è più vincolante allorquando muti il complesso delle
circostanze la cui supposizione, pur non dedotta nella
manifestazione negoziale, sia stata determinante nella
decisione di concluderlo.
Nel caso di specie, il contratto in questione sarebbe la
scrittura privata autenticata Notaio ... 17.10.2001 rep. n.
63802 racc. n. 28061, con le successive integrazioni e
modificazioni; la presupposizione
che modificandosi lo avrebbe caducato, almeno quanto alla
previsione dei parcheggi, sarebbe appunto la sorte del
progetto del nuovo edificio giudiziario.
Al riguardo, peraltro, è sufficiente osservare che
per parlarsi di presupposizione si deve
essere in presenza di un fatto considerato dalle parti come
rilevante, ma non enunciato in modo espresso nel regolamento
contrattuale di che trattasi.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza
07.06.2010 n. 101/10 prot. n. 19241/10, con la quale il
Dirigente dello settore sportello unico servizi edilizia del
Comune di Mantova ha ordinato fra gli altri alla odierna
ricorrente di non effettuare i lavori di cui alla d.i.a.
01.04.2010, consistenti in opere di nuova costruzione di un
edificio con autorimessa interrata e tre piani fuori terra
con destinazione d’uso residenza speciale all’interno del
comparto C2/2 del piano particolareggiato “Fiera – Catena”;
...
6. Il ricorso è peraltro infondato nel merito. Di esso, è
infondato anzitutto il primo motivo, fondato su una lettura
dell’art. 5 delle NTA al PRG che, in sintesi estrema, dopo
la scadenza dell’efficacia di un piano attuativo, rimette
alla volontà dei privati interessati la scelta dei servizi
da realizzare nell’area interessata. Tale lettura, ad avviso
del Collegio, risulta infatti non condivisibile.
Come detto in narrativa, l’art. 5 citato prevede che alla
scadenza del relativo termine di efficacia “le aree
comprese nei piani attuativi sono soggette alle disposizioni
dettate per la zona omogenea di appartenenza, fatte salve le
prescrizioni per le infrastrutture ed i servizi” (v. per
il testo completo doc. 5 Comune, estratto NTA). Si tratta
allora di interpretare tale disposto.
7. In proposito, è allora noto che dottrina e giurisprudenza
applicano anche all’atto amministrativo le regole relative
alla interpretazione negoziale di cui agli artt. 1362 e ss.
c.c., in quanto le stesse siano espressione di principi
logici, prima che giuridici: sul punto, in generale si veda
C.d.S. sez. VI 10.01.2007 n. 37.
Risultano in particolare applicabili i canoni di cui
all’art. 1367, per cui l’atto nel dubbio va interpretato nel
senso in cui possa avere qualche effetto, anziché in quello
in cui non ne avrebbe alcuno, e di cui all’art. 1369, per
cui l’atto va inteso nel senso ritenuto più conveniente alla
propria natura e al proprio oggetto: su tale ultimo punto,
v. sempre la citata C.d.S. 37/2007.
8. Applicando tali principi al caso di specie, si deve
allora affermare in primo luogo che l’art. 5 delle NTA in
parola prevede una sorta di ultrattività dei piani
attuativi, i quali, quand’anche sia scaduto il termine di
legge previsto per la loro efficacia, sono tenuti per fermi
dallo strumento urbanistico di livello superiore quanto alle
previsioni di “infrastrutture” e di “servizi”.
In proposito, si deduce allora secondo logica che tale
previsione sarebbe del tutto inutile se si volesse
interpretare come rinvio alla generale potestà del Comune di
localizzare in una data area servizi pubblici; essa invece,
per avere un significato, va riferita a servizi già
individuati nella loro particolarità, i quali non possono
che essere quelli già a suo tempo previsti dal piano
attuativo, in ossequio alla regola dell’art. 1367 c.c..
9. Al medesimo risultato si perviene poi, come correttamente
evidenziato dalla difesa del Comune (memoria 22.10.2010, p.
9, terzo paragrafo, anche per altra via, ovvero ricordando
che il potere di pianificazione rispetto ai servizi pubblici
medesimi spetta in prima battuta al Comune –oppure, in casi
particolari qui non ricorrenti, all’ente territoriale di
livello superiore- e non certo al privato.
Sarebbe pertanto assurdo, e in tal senso contrario alla
regola dell’art. 1369, ritenere in via interpretativa che
tale potere passi in mano al privato per il mero fatto della
scadenza di validità di uno strumento attuativo, e consenta
in tal caso al privato stesso una libera scelta in ordine ai
servizi da realizzare.
Deve pertanto tenersi ferma la necessità di realizzare
nell’area in questione i servizi previsti dal pregresso
piano attuativo, tra i quali 9.300 mq di parcheggi,
costituenti come detto in narrativa la quota minima prevista
(cfr. doc. 3 Comune, cit.).
10. E’ a sua volta infondato il secondo motivo di ricorso,
incentrato su un presunto superamento delle clausole della
convenzione urbanistica conclusa fra la ricorrente e il
Comune a seguito della decisione, assunta nella competente
sede ministeriale, di non realizzare il nuovo Palazzo di
giustizia.
In tal senso, la ricorrente invoca, se pure
senza nominarlo, l’istituto, di creazione dottrinale e
giurisprudenziale, della cd. presupposizione, secondo
il quale si dovrebbe ritenere che un accordo contrattuale
non è più vincolante allorquando muti il complesso delle
circostanze la cui supposizione, pur non dedotta nella
manifestazione negoziale, sia stata determinante nella
decisione di concluderlo.
Nel caso di specie, come ben si comprende, il contratto in
questione sarebbe la scrittura privata autenticata Notaio
Nicolini 17.10.2001 rep. n. 63802 racc. n. 28061 (doc. 7
Comune, cit.), con le successive integrazioni e
modificazioni; la presupposizione
che modificandosi lo avrebbe caducato, almeno quanto alla
previsione dei parcheggi, sarebbe appunto la sorte del
progetto del nuovo edificio giudiziario.
11. Al riguardo, peraltro, è sufficiente osservare che
per parlarsi di presupposizione si deve
essere in presenza di un fatto considerato dalle parti come
rilevante, ma non enunciato in modo espresso nel regolamento
contrattuale di che trattasi:
in tal senso, per tutte, Cass. civ. sez. II 18.09.2009 n.
20245.
Ciò non ricorre nel caso di specie, in cui, come si è detto
in narrativa, le parti hanno espressamente preso in esame il
punto, ed hanno convenuto, in buona sostanza, che la
realizzazione ovvero non realizzazione del Palazzo di
giustizia si considerasse irrilevante sull’assetto di
interessi previsto dalla convenzione, e in particolare sulla
necessità di realizzare la quota minima di parcheggi.
Tale è, all’evidenza, il senso della clausola già riportata
per cui “la superficie lorda del Palazzo di giustizia è
stimata in fase di pianificazione in mq 40.000, ma le
previsioni relative a tale opera pubblica, seppure
necessariamente produttive di effetti rispetto alle
edificazioni da realizzare nel comparto C/2, sono escluse
dalla presente convenzione e rinviate a successive
determinazioni comunali”, clausola seguita, come
evidenziato in premesse, dall’obbligo di realizzare comunque
i più volte citati 9.300 mq di spazi parcheggio, previsti
appunto come quota minima nel piano attuativo (cfr. sempre
doc. 3 Comune, cit.)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2012 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La "presupposizione" è
configurabile quando, da un lato, una obiettiva
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai
contraenti nella formazione del loro consenso -pur in
mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole
contrattuali- come presupposto condizionante la validità e
l'efficacia del negozio (cosiddetta condizione non
sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il venir
meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto
indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non
corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro.
---------------
Orbene, l'interpretazione del contratte), consistendo in
un'operazione di accertamento della volontà dei contraenti,
si risolve in un'indagine di fatto riservata al giudice di
merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione
soltanto per inadeguatezza della motivazione o per
violazione delle regole ermeneutiche, che deve essere
specificamente indicata in modo da dimostrare -in relazione
al contenuto del testo contrattuale- l'erroneo risultato
interpretativo cui per effetto della predetta violazione è
giunta la decisione, che altrimenti sarebbe stata con
certezza diversa la decisione: la deduzione deve essere,
altresì, accompagnata dalla trascrizione integrale del testo
contrattuale in modo da consentire alla Corte di Cassazione,
che non ha diretto accesso agli atti, di verificare la
sussistenza della denunciata violazione decisività.
Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di
legittimità la critica della ricostruzione della volontà
negoziale operata dal giudice di merito che si traduca
esclusivamente nella prospettazione di una diversa
valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso
esaminati: occorre ricordare che per sottrarsi al sindacato
di legittimità, l'interpretazione data dal giudice di merito
ad un contratto non deve essere l'unica interpretazione
possibile, o la migliore in astratto, ma una delle
possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di
una clausola contrattuale sono possibili due o più
interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva
proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di
merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse
stata privilegiata l'altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).
Nella specie, il ricorso difetta di autosufficienza laddove
non e trascritto il testo integrale del contratto, non
specifica il canone interpretativo violato in relazione alle
singole clausole e non dimostra il diverso risultato
interpretativo al quale si sarebbe con certezza pervenuti
ove fossero state rispettati i criteri ermeneutici: come si
è detto, le doglianze si risolvono nella formulazione di una
soggettiva interpretazione del contratto in contrapposizione
con quella accolta dalla sentenza impugnata.
D'altra parte, la sentenza ha correttamente escluso che
potesse configurarsi nella specie l'istituto della
presupposizione, avendo ritenuto -come si è detto- che
il rilascio della concessione era stato dalle parti previsto
quale oggetto della obbligazione posta a carico del
committente, atteso che la "presupposizione"
è configurabile quando, da un lato, una obiettiva
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai
contraenti nella formazione del loro consenso -pur in
mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole
contrattuali- come presupposto condizionante la validità e
l'efficacia del negozio (cosiddetta condizione non
sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il venir
meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto
indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non
corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro.
Pertanto, non si configura la "presupposizione"
in un contratto di fornitura e posa in opera di materiali
con riferimento all'ipotesi di mancato rilascio della
concessione edilizia, ove tale situazione di diritto
presupposta sia stata espressamente prevista e sia stato
posto nell'accordo stesso a carico del committente un
preciso obbligo di attivarsi per ottenerla
(Cass. 19144/2004) (Corte di Cassazione, Sez. II
civile, civile,
sentenza 20.12.2011 n. 27781). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza pacifica, "sono realizzabili con denuncia di
inizio attività (D.I.A.) gli interventi di ristrutturazione
edilizia di portata minore, ovvero che comportano una
semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le
diverse parti dell'immobile, e con conservazione della
consistenza urbanistica iniziale, classificabili
diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia
descritti dall'art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001,
che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal
precedente con aumento delle unità immobiliari, o modifiche
del volume, sagoma, prospetti e superfici, e per i quali è
necessario il preventivo permesso di costruire".
---------------
Secondo la giurisprudenza di questa Corte la "sanatoria
prevista dall'art. 37 del DPR 06.06.2001 n. 380 può essere
chiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in
assenza o in difformità della denuncia di inizio attività
(DIA), previsti dall'art. 22, commi primo e secondo, del DPR
citato e non è estensibile anche agli interventi edilizi di
cui al comma terzo della richiamata disposizione per i quali
la DIA si pone quale titolo abilitativo alternativo al
permesso di costruire (cd. super DIA), applicandosi in tale
ultima ipotesi la sanatorio mediante procedura di
accertamento di conformità di cui all'art. 36 del medesimo
DPR".
---------------
3) Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1) I Giudici di merito hanno accertato (sul punto concorda
anche la sentenza di primo grado) che le opere realizzate in
difformità del progetto approvato consistevano in un diverso
posizionamento dei pilastri, in quanto ai confini ovest e
nord risultava inferiore ai cinque metri dal confine, ed in
un ampliamento del piano interrato con aumento della
superficie (cfr. pag. 1 sent. Trib. e pag. 3 sent. app.).
Sulla base di tale accertamento in fatto la Corte
territoriale, disattendendo le conclusioni cui era
inopinatamente pervenuto il primo giudice, ha,
correttamente, escluso che siffatte "difformità"
fossero assentibili con una DIA in corso d'opera.
L'art. 22, comma 2, DPR 380/2001 stabilisce, invero, che "sono
realizzabili mediante denuncia di inizio attività le
varianti a permesso di costruire che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano
la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano
la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali
prescrizioni contenute nel permesso di costruire".
Ma, nel caso di specie, sia per l'aumento della superficie
del piano interrato che per il diverso posizionamento del
fabbricato in violazione delle distanze minime previste
dallo strumento urbanistico, non era consentito il ricorso
al regime autorizzatorio della DIA.
Per giurisprudenza pacifica, "sono realizzabili con
denuncia di inizio attività (D.I.A.) gli interventi di
ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che
comportano una semplice modifica dell'ordine in cui sono
disposte le diverse parti dell'immobile, e con conservazione
della consistenza urbanistica iniziale, classificabili
diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia
descritti dall'art. 10, comma 1, lett. c), DPR n. 380/2001,
che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal
precedente con aumento delle unità immobiliari, o modifiche
del volume, sagoma, prospetti e superfici, e per i quali è
necessario il preventivo permesso di costruire" (cfr.
ex multis Cass. pen., sez. 3, 23.01.2007 n. 1893).
Altrettanto ineccepibilmente la Corte territoriale ha
ritenuto che non potesse neppure farsi ricorso alla DIA in
sanatorio ex art. 37 DPR 380/2001.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, la "sanatoria
prevista dall'art. 37 del DPR 06.06.2001 n. 380 può essere
chiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in
assenza o in difformità della denuncia di inizio attività
(DIA), previsti dall'art. 22, commi primo e secondo, del DPR
citato e non è estensibile anche agli interventi edilizi di
cui al comma terzo della richiamata disposizione per i quali
la DIA si pone quale titolo abilitativo alternativo al
permesso di costruire (cd. super DIA), applicandosi in tale
ultima ipotesi la sanatorio mediante procedura di
accertamento di conformità di cui all'art. 36 del medesimo
DPR" (cfr. ex multis Cass. pen., sez. 3, n. 28048
del 19.05.2009).
E si è visto come l'intervento realizzato in difformità del
progetto autorizzato non fosse assentibile con DIA (ai sensi
dei commi 1 e 2 dell'art. 22 cit.) sia per l'aumento della
superficie del piano interrato che per il diverso
posizionamento dei pilastri.
Ha rilevato, infine, la Corte territoriale, da un lato, che
l'eliminazione postuma delle difformità non escludeva la
configurabilità dell'illecito e, dall'altro, che anche per
la sanatoria ex art. 37, comma 4, DPR 380/2001 è, comunque,
necessario che "l'intervento realizzato risulti conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento dell'intervento, sia al momento della presentazione
della domanda"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.11.2011 n. 47437 - udienza). |
URBANISTICA: Le clausole
inserite in un contratto stipulato per atto pubblico o in
forma pubblica amministrativa, ancorché si conformino alle
condizioni poste da uno dei contraenti, non possono
considerarsi come “predisposte” dal contraente medesimo ai
sensi dell’art. 1341 cod. civ. e, pertanto, pur se
vessatorie, non richiedono approvazione specifica per
iscritto, in quanto la particolare forma contrattuale
rivestita dall’accordo esclude la necessità di una
approvazione siffatta.
---------------
Le restanti questioni concernono l’invocata risoluzione
della convenzione. Sennonché, quanto alla c.d.
“presupposizione”, non trova riscontro alcuno la tesi
secondo cui l’accordo era stato stipulato sulla base
dell’inespressa condizione del non verificarsi dell’ipotesi
dell’ampliamento della “tangenziale” fino ad invadere l’area
di ubicazione dell’impianto; al contrario, la previsione di
cui all’art. 7 della convenzione evidenzia come di una
simile eventualità si fosse tenuto conto, regolandone gli
effetti.
---------------
... per la declaratoria di nullità ed inefficacia dei patti
n. 5, 6 e 7 della convenzione stipulata tra il Comune di
Parma e la società ricorrente in data 08.02.2001, rep. n.
33358;
- di risoluzione, anche per eccessiva onerosità, della
convenzione suindicata;
- per l’annullamento della determinazione dirigenziale n. DD/2005-458
del 01.03.2005, recante la fissazione dell’indennità
provvisoria di esproprio;
-
del decreto di esproprio n. 69573 in data 13.05.2005
dell’area individuata al NCT di S. Lazzaro P.se al fg. 33,
mapp. 19 e 23, finalizzato alla realizzazione del progetto
di svincolo a livelli sfalsati con la via Budellungo.
...
Allo scopo di conseguire il titolo edilizio necessario alla
temporanea realizzazione di un impianto di distribuzione di
carburante in via Budellungo di S. Lazzaro P.se per una
superficie di mq. 4.000, entro un’area ubicata in fascia di
rispetto stradale disciplinata dall’art. 13 delle norme di
attuazione del p.r.g., la società ricorrente stipulava con
il Comune di Parma, in data 08.02.2001, la convenzione
rep. n. 33358, della durata di anni 18. Successivamente, in
data 08.03.2001, la ditta otteneva il rilascio della
concessione edilizia e l’autorizzazione ad esercitare
l’attività di erogazione del carburante, venendo poi i
relativi lavori terminati in data 24.06.2003 e quindi
avviata l’attività.
In séguito, il Comune di Parma
comunicava alla ricorrente che, per effetto
dell’approvazione del progetto preliminare relativo alla
realizzazione del sottopasso di via Budellungo (delib. giunt.
n. 1188 del 16.10.2003), si dava inizio al procedimento
amministrativo per l’approvazione del progetto definitivo
dei lavori, che avrebbero coinvolto anche l’area di
proprietà della ditta (v. nota prot. n. 129923 del 04.11.2003), in un primo tempo esclusa dalla procedura
espropriativa ma poi, in ragione della variazione del
progetto dell’opera pubblica derivante della sopraggiunta
necessità di rispettare tassative norme tecniche prescritte
dall’ANAS e dal d.m. 5 novembre 2001, interessata da un
intervento tale da comportare addirittura la necessità di
rimozione dell’impianto di distribuzione di carburante e
quindi la cessazione dell’attività.
Infine,
l’Amministrazione comunale determinava l’indennità
provvisoria di esproprio in € 16.345,00 (determinazione
dirigenziale n. DD/2005-458 del 01.03.2005), obiettando
alla ditta che alle maggiori somme invocate a titolo di
indennizzo si opponevano gli accordi racchiusi negli artt.
5, 6 e 7 della convenzione dell’08.02.2001; indi,
veniva emanato il decreto di esproprio (n. 69573 del 13.05.2005).
Ritenendo illegittime le determinazioni assunte dall’ente
locale e, in via subordinata, nulli i patti della
convenzione sulla cui base il Comune di Parma aveva fondato
la quantificazione dell’indennizzo, e comunque meritevole
della declaratoria di risoluzione la convenzione stessa per
esserne venuto meno un presupposto oltre che per l’eccessiva
onerosità sopravvenuta, la società ricorrente ha adito il
giudice amministrativo.
Assume erroneamente interpretata la
convenzione laddove ai patti 5, 6 e 7 prevede la rinuncia ad
eventuali indennizzi risarcitori, nel senso che detta
rinuncia dovrebbe intendersi riferita solo alla fase
temporale coincidente con la scadenza naturale della
convenzione –e cioè al diciottesimo anno dalla stipula–,
non anche all’ipotesi di acquisizione dell’area da parte
dell’Amministrazione intervenuta in un momento antecedente;
lamenta che, in violazione del patto n. 7 della convenzione,
il decreto di esproprio non sia stato preceduto dal
preavviso di un anno dell’avvio della procedura ablatoria;
denuncia la nullità e/o inefficacia dei patti 5, 6 e 7 della
convenzione –ove da interpretare nel senso preteso
dall’Amministrazione– per indeterminatezza ed
indeterminabilità dell’oggetto (art. 1346 cod.civ.), per
contrasto con la disposizione di natura imperativa di cui
all’art. 32, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, ma anche
con la prescrizione generale di cui all’art. 11 della legge
n. 241 del 1990, per carenza di causa negoziale in assenza
di interessi meritevoli di tutela (art. 1322 cod.civ.), per
trattarsi di clausole vessatorie ex art. 1341 cod.civ. e
quindi necessitanti di una specifica approvazione per
iscritto; invoca, in via subordinata, la dichiarazione di
risoluzione della convenzione in applicazione del principio
della presupposizione (nella considerazione comune alle
parti che, per la sua particolare collocazione e distanza
dalla viabilità, la stazione di servizio non avrebbe potuto
mai essere danneggiata nel caso di ampliamento della strada)
o per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cod.civ.
(per l’intervenuto sconvolgimento dell’equilibrio economico
della convenzione e del suo sinallagma funzionale).
Di qui
la richiesta di declaratoria di nullità ed inefficacia dei
patti n. 5, 6 e 7 della convenzione e, in via subordinata,
di risoluzione della convenzione medesima, nonché di
annullamento della determinazione dirigenziale n. DD/2005-458
del 01.03.2005 e del decreto di esproprio n. 69573 in
data 13.05.2005.
Si è costituito in giudizio il Comune di Parma, resistendo
al gravame.
L’istanza cautelare della società ricorrente veniva respinta
dalla Sezione alla Camera di Consiglio del 07.06.2005 (ord.
n. 176/2005).
All’udienza del 29.06.2011, ascoltati i rappresentanti
delle parti, la causa è passata in decisione.
Il ricorso è infondato.
Una prima questione attiene alla portata interpretativa
dell’art. 7 della convenzione (“Nel caso invece che il
Comune si dovesse trovare nella necessità di dover disporre
dell’area, si dovrà avviare regolare procedura di esproprio,
comunicata con preavviso scritto, a mezzo raccomandata A.R.,
non inferiore ad un anno (1 anno), fermo restando la
rinuncia da parte della ditta di ogni indennità sia in
ordine alle predette attrezzature ed impianti che ai lavori
di rimozione, nonché in ordine all’avviamento commerciale”),
in quanto la società ricorrente ritiene che la rinuncia alle
indennità riguardi unicamente l’esproprio intervenuto alla
scadenza naturale della convenzione, in coerenza con le
fattispecie di cui all’art. 5 (“La ditta Saccomandi &
Malagoli S.p.A. ed i successivi aventi causa, si impegnano
fin da ora a rendere libera da persone e cose, l’area su cui
è costruita la stazione di servizio per la distribuzione di
carburante, e quindi a rimuovere a propria cura e spese
tutte le attrezzature ed impianti esistenti, alla scadenza
della presente convenzione che ha durata diciottennale a
partire dalla data di stipula, rinnovabile un anno prima
della scadenza su espressa richiesta degli interessati”) e
all’art. 6 (“La ditta Saccomandi & Malagoli S.p.A.
intestataria della richiesta di concessione edilizia,
dichiara di rinunciare sin da ora ad eventuali indennità sia
in ordine alle predette attrezzature ed impianti che ai
lavori di rimozione, nonché in ordine all’avviamento
commerciale”), mentre l’Amministrazione comunale ritiene, al
contrario, che l’ipotesi regolata dall’art. 7 includa
qualsiasi situazione di apprensione coattiva dell’immobile,
anche se anteriore alla scadenza naturale della convenzione.
In quest’ultimo caso, naturalmente, ove pure non fossero
ancora trascorsi i prescritti diciotto anni, nulla
spetterebbe alla ditta, se non il valore del terreno
espropriato.
Il Collegio è dell’avviso che siano corrette le conclusioni
del Comune di Parma.
In effetti, dopo avere disciplinato la
fattispecie del ripristino dello stato dei luoghi al momento
della naturale scadenza del rapporto (artt. 5 e 6), la
convenzione si occupa del caso in cui l’Amministrazione
debba acquisire l’area per esigenze pubbliche e, senza alcun
riferimento alla propria «scadenza», introduce l’obbligo del
preavviso scritto e ribadisce la rinuncia della ditta alle
indennità, rinuncia che sarebbe stato del tutto superfluo
richiamare se l’art. 7 avesse preso unicamente a riferimento
la fase temporale successiva alla naturale conclusione del
rapporto –per avervi già provveduto il precedente art. 6–,
mentre la disposizione di cui all’art. 7 regola una
fattispecie del tutto distinta dall’altra, e ciò, come si è
detto, si ricava anche dal mancato riferimento alla
«scadenza» della convenzione.
Del resto, se è pur vero che,
dovendosi fare applicazione alle convenzioni urbanistiche
dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. cod.civ. (v.,
ex multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 18.05.2011 n. 1281),
non ci si può arrestare al tenore
letterale delle parole ma occorre tenere conto degli
ulteriori elementi all’uopo previsti, nulla tuttavia ha in
concreto addotto la società ricorrente per dimostrare che da
altre espressioni contenute nella convenzione o dal
comportamento complessivo delle parti si dovesse desumere un
diverso significato di dichiarazioni negoziali che si
presentano in sé chiare e non bisognose di approfondimenti
interpretativi; in particolare,
non v’è ragione di
richiamarsi all’interpretazione di buona fede di cui
all’art. 1366 cod.civ. –in quanto l’esigenza di far
prevalere il significato che il destinatario può
ragionevolmente intendere secondo il criterio di affidamento
dell’uomo medio appare pienamente coerente nella fattispecie
con una interpretazione della convenzione che carichi sul
privato gli oneri legati alla rimozione degli impianti e
alla cessazione dell’attività, in qualunque momento avvenuti
(non a caso l’art. 2 della convenzione vincola la ditta agli
obblighi previsti “… per tutta la sua durata come meglio
precisato agli artt. 5, 6 e 7 …”)–, né v’è motivo di
invocare il significato meno gravoso per l’obbligato ai
sensi dell’art. 1371 cod. civ. –per operare invero tale
principio in via del tutto subordinata quando l’accordo
rimanga oscuro nella sua portata–.
Né, poi, convince la doglianza imperniata sulla carenza del
«preavviso» considerato dall’art. 7 della convenzione,
nell’assunto –a dire della società ricorrente– che la
comunicazione ivi imposta riguarderebbe una formalità
diversa dal mero avviso ex art. 7 della legge n. 241 del
1990, già insito nell’ordinamento e quindi inutilmente
ribadito nella convenzione.
Sennonché –osserva il Collegio– lungi dal duplicare gli adempimenti previsti dalla legge
n. 241 del 1990, è evidente che l’esigenza da soddisfare era
quella di una comunicazione effettuata con congruo anticipo,
onde consentire al privato di disporre di un adeguato
periodo di tempo per curare i propri interessi; non v’è,
dunque, una differenza di contenuti tra la comunicazione ex
art. 7 della legge n. 241 del 1990 e quella di cui all’art.
7 della convenzione, tant’è che appare adeguato allo scopo
l’avviso nella fattispecie inviato alla ricorrente il 04.11.2003, anche perché risulta che lo stesso ha
rispettato il termine di un anno fissato dalla convenzione.
Quanto, poi, all’invocata nullità, per indeterminatezza ed
indeterminabilità dell’oggetto (art. 1346 cod.civ.), del
patto convenzionale consistente nella rinuncia alle
indennità derivanti dalla rimozione delle attrezzature e
dalla cessazione dell’attività commerciale, osserva il
Collegio che in realtà si tratta di oggetto determinabile
attraverso il riferimento al tipo di impianto che il
ricorrente aveva chiesto venisse assentito; risulta, quindi,
assolta nella circostanza la fondamentale esigenza, sottesa
alla disposizione di cui all’art. 1346 cod.civ., che il
contraente, al momento dell’accordo, sia a conoscenza
dell’impegno che egli in concreto assume, seppure in
relazione a fatti il cui accadimento non è certo.
Né un
profilo di nullità scaturisce dall’asserita incompatibilità
con l’art. 32 del d.P.R. n. 327 del 2001 (in tema di
determinazione dell’indennità di espropriazione) e con
l’art. 11 della legge n. 241 del 1990 (in tema di indennizzo
spettante al privato che subisca pregiudizio dal recesso
unilaterale dell’Amministrazione dall’accordo), in quanto
quelli del privato sono pur sempre diritti disponibili e
quindi ben possono costituire oggetto di rinuncia.
Né,
ancora, convince l’assunto per cui una simile rinuncia
implicherebbe la carenza di «causa», per non realizzare
interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico (art. 1322, comma 2, cod.civ.); invero, come è
noto, la valutazione di meritevolezza non deve essere
effettuata ex post sulla base del risultato economico
concretamente conseguito, ma ex ante sulla base della
struttura negoziale astratta posta in essere dalle parti,
sicché occorre accertare che lo schema astratto persegua un
interesse meritevole di tutela e non che tale schema sia
sicuramente conveniente per entrambe le parti, con la
conseguenza che la libera scelta del privato di accollarsi
nella fattispecie i costi di chiusura anticipata
dell’attività commerciale rispetto alla naturale scadenza
della convenzione, in presenza di un’eventuale sopraggiunta
esigenza di acquisizione dell’area alla mano pubblica per la
salvaguardia di interessi di carattere generale, si raccorda
con la peculiare localizzazione dell’impianto di
distribuzione di carburante in fascia di rispetto stradale
posta a margine del tracciato di una “tangenziale” ancora in
corso di realizzazione e potenzialmente interessata da un
ampliamento di sede, ovvero si tratta di vicenda che
l’accordo delle parti mira a regolare attraverso la
distribuzione degli oneri tra le stesse in misura tale da
non lasciare al privato solo i vantaggi economici
dell’operazione e da non far gravare unicamente
sull’Amministrazione comunale le spese legate al possibile
intervento pubblico sull’area temporaneamente utilizzata
dalla ditta.
Né, infine, ha ragione il ricorrente nel
richiamarsi all’art. 1341, comma 2, cod. civ. e alla pretesa
inefficacia delle clausole in esame perché non oggetto di
specifica approvazione per iscritto; indipendentemente,
infatti, dalla correttezza o meno delle qualificazione delle
stesse come «vessatorie», va fatto rinvio a quel consolidato
orientamento giurisprudenziale secondo cui le clausole
inserite in un contratto stipulato per atto pubblico o in
forma pubblica amministrativa, ancorché si conformino alle
condizioni poste da uno dei contraenti, non possono
considerarsi come “predisposte” dal contraente medesimo ai
sensi dell’art. 1341 cod. civ. e, pertanto, pur se
vessatorie, non richiedono approvazione specifica per
iscritto, in quanto la particolare forma contrattuale
rivestita dall’accordo esclude la necessità di una
approvazione siffatta (v., tra le altre, Cass. civ., Sez. I,
21.09.2004 n. 18917).
Le restanti questioni concernono l’invocata risoluzione
della convenzione. Sennonché, quanto alla c.d.
“presupposizione”, non trova riscontro alcuno la tesi
secondo cui l’accordo era stato stipulato sulla base
dell’inespressa condizione del non verificarsi dell’ipotesi
dell’ampliamento della “tangenziale” fino ad invadere l’area
di ubicazione dell’impianto; al contrario, la previsione di
cui all’art. 7 della convenzione evidenzia come di una
simile eventualità si fosse tenuto conto, regolandone gli
effetti.
Quanto, invece, all’eccessiva onerosità di cui
all’art. 1467 cod. civ., appare assorbente di ogni altra
considerazione la circostanza che si trattava di rischio
esplicitamente assunto dalla parte, sì da esulare
dall’ambito di operatività della norma, che fa riferimento
agli accadimenti estranei all’ordinario svolgimento della
tipologia di contratto prescelta e al cui rischio neppure
implicitamente la parte si è sottoposta.
In conclusione, il ricorso va respinto
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 13.09.2011 n. 275 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Un
cittadino aveva venduto al Comune un
suo vasto terreno (mq. 159.375) al prezzo unitario di lire
800 a mq. sul presupposto -inespresso ma chiaro- che le aree
sarebbero state dal Comune destinate a interventi di ERP,
come per vero precisato nelle anteriori delibere.
Tuttavia, a stipula avvenuta, il terreno era stato
lottizzato e destinato a vendita a privati al prezzo
unitario di lire 2.500 a mq, sicché l'appellante ha riferito
che i contratti, per effetto del venir meno della
presupposizione, dovevano essere annullati ed il Comune
comunque condannato al ristoro dei danni.
Va premesso che la
statuizione della Corte di Appello è stata resa in sede di
rinvio dalla sentenza rescindente di questa Corte n.
4293/1997 che, nei ravvisare il menzionato grave vizio di
motivazione, ha portato ad emergere
in diritto l'obbligo del Comune di seguire le proprie
delibere e pertanto ha attribuito rilevanza oggettiva al
vincolo assunto implicitamente con il contraente privato,
escludendo che l'autonomia dell'Amministrazione potesse
incidere in senso "risolutorio" sull'affidamento creato nel
contraente privato.
La predetta sentenza ha infatti affermato che "il
Comune, una volta acquisite, sia pure con uno strumento
negoziale, aree inserite in un piano di localizzazione non è
libero "di diversamente determinarsi" in ordine alla loro
utilizzazione, essendo vero al contrario che essa deve
avvenire nel rispetto delle indicazioni del piano e delle
norme dettate al riguardo dal legislatore. Ciò spiega perché
la difesa del Comune si sia premurata di porre in evidenza
che la mancata destinazione delle aree al programma
costruttivo originariamente individuato nell'ambito delle
finalità connesse all'applicazione dell'art. 51 della legge
n. 865/1971 sia stata determinata dal mancato conseguimento
del finanziamento statale preventivato, e quindi per fatti
ad esso non imputabili".
Un successiva diversa opinione di questa
Corte ha posto in evidenza la base solo soggettiva della
finalità espressa nel contratto di compravendita e la
legittimità di un suo mutamento per ragioni di pubblico
interesse (Cass.
17698/2007 e 5390/2006): il caso che occupa
resta ovviamente regolato dalla diversa connotazione del
principio di diritto formulato dalla sentenza del 1997.
---------------
... sul ricorso iscritto al n. 12287 R.G. dell'anno 2005
proposto da:
Comune di Orgiano, ...
contro
Vi.St., Vi.An., Vi.Fi., Ru.Cl. ...
avverso la sentenza n. 567 della Corte d'Appello di Venezia
depositata il 01.04.2004 ...
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 23.10.1982 Lu.Be. convenne innanzi al
Tribunale di Venezia il Comune di Orgiano riferendo che
aveva venduto al Comune stesso in data 26.12.1972 un
suo vasto terreno (mq. 159.375) al prezzo unitario di lire
800 a mq. e sul presupposto -inespresso ma chiaro- che le
aree sarebbero state dal Comune destinate a interventi di
ERP, come per vero precisato nelle anteriori delibere, che
nondimeno, a stipula avvenuta, il terreno era stato
lottizzato e destinato a vendita a privati al prezzo
unitario di lire 2.500 a mq, che pertanto i contratti, per
effetto del venir meno della presupposizione, dovevano
essere annullati ed il Comune comunque condannato al ristoro
dei danni, che in tal senso concludevano.
Costituitosi il Comune, il Tribunale, con sentenza
24.04.1988, rigettò la domanda escludendo che fosse entrata
nel contratto, a livello di presupposizione, la destinazione
a ERP delle aree acquisite dal Comune e la Corte di Appello
rigettò il gravame della Bertoli condividendo le tesi del
Comune di Orgiano.
Deceduta la Be., l'erede Lu.Fr.Vi. propose ricorso per
cassazione denunziando, con un primo motivo, la violazione
degli arti. 1362 e 1363 c.c. e 51 legge 865 del 1971 e
ribadendo con un secondo mezzo la disattesa richiesta di
retrocessione.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 4293 del 1997 accolse
il primo motivo, assorbito il secondo, sul rilievo per il
quale, destinate le aree a interventi di ERP e tal
destinazione valendo quale dichiarazione di pubblica utilità
ex art. 51 della legge 865 del 1971, doveva ritenersi
viziata da incongruità ed illogicità la motivazione della
sentenza di appello che non aveva dato ragione della
rilevanza nel contratto di compravendita 26.12.1972 delle
anteriori delibere e determinazioni di destinazione delle
aree ad interventi di ERP.
La causa è stata quindi riassunta dal Vicariotto e,
costituitosi il Comune, la Corte di Appello di Trento, in
sede di rinvio, con sentenza 01.04.2004 ha dichiarato
risolti i contratti preliminare e definitivo inter partes
per effetto della presupposizione comune venuta meno
successivamente, ed ha quindi condannato il Comune a
risarcire il danno patito dalla stipulante e determinato in
€ 119.280 oltre rivalutazione ISTAT dal 1972 alla decisione
ed interessi legali sulla somma annualmente rivalutata.
In motivazione la Corte di merito ha ravvisato l'intento del
Comune, volto a destinare le aree compromesse in vendita ad
interventi di ERP, nelle delibere 27.01.1972 e 25.06.1972 e
nella precisazione dell'intento di ricorrere a finanziamento
statale ex art. 64 legge 865/1971 commisurato alla indennità
di espropriazione, ed ha escluso che la parte privata
ignorasse tale delibera (debitamente pubblicata) o che di
essa rilevassero eventuali vizi per mancata copertura
finanziaria, ed ha pertanto ricavato dalla comune
consapevolezza di tale destinazione delle aree una vera e
propria presupposizione.
Ha quindi soggiunto che, incontestata la diversa
destinazione e non avveratasi la condizione inespressa, il
contratto andava incontro alla risoluzione o, nella
impossibilità di operarla per la avvenuta destinazione a
edilizia privata delle aree, alla condanna del Comune al
risarcimento dei danni, che, alla stregua delle corrette
stime dell'area in lire 2.300 a mq., andava liquidato nella
somma di € 119.280 al 26.12.1972, oltre ai successivi
accessori.
Per la cassazione di tale sentenza il Comune di Orgiano ha
proposto ricorso notificato il 06.05.2005 agli eredi di
Lu.Vi. ed articolato su sei motivi, ai quali si sono opposti
i predetti eredi con controricorso del 14.06.2005.
Entrambi i difensori hanno depositato memorie e discusso
oralmente il ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il Collegio che il ricorso debba essere rigettato,
nessuna delle censure sulle quali esso si fonda meritando di
essere condivisa.
Va premesso che la statuizione della Corte di Appello è
stata resa in sede di rinvio dalla sentenza rescindente di
questa Corte n. 4293/1997 che, nei ravvisare il menzionato
grave vizio di motivazione, ha portato ad
emergere in diritto l'obbligo del Comune di seguire le
proprie delibere e pertanto ha attribuito rilevanza
oggettiva al vincolo assunto implicitamente con il
contraente privato, escludendo che l'autonomia
dell'Amministrazione potesse incidere in senso "risolutorio"
sull'affidamento creato nel contraente privato.
La predetta sentenza ha infatti affermato che "il
Comune, una volta acquisite, sia pure con uno strumento
negoziale, aree inserite in un piano di localizzazione non è
libero "di diversamente determinarsi" in ordine alla loro
utilizzazione, essendo vero al contrario che essa deve
avvenire nel rispetto delle indicazioni del piano e delle
norme dettate al riguardo dal legislatore. Ciò spiega perché
la difesa del Comune si sia premurata di porre in evidenza
che la mancata destinazione delle aree al programma
costruttivo originariamente individuato nell'ambito delle
finalità connesse all'applicazione dell'art. 51 della legge
n. 865/1971 sia stata determinata dal mancato conseguimento
del finanziamento statale preventivato, e quindi per fatti
ad esso non imputabili".
Un successiva diversa opinione di questa
Corte ha posto in evidenza la base solo soggettiva della
finalità espressa nel contratto di compravendita e la
legittimità di un suo mutamento per ragioni di pubblico
interesse (Cass.
17698/2007 e 5390/2006): il caso che occupa
resta ovviamente regolato dalla diversa connotazione del
principio di diritto formulato dalla sentenza del 1997.
Può quindi procedersi all'esame dei singoli motivi.
Con il primo motivo il Comune si duole del fatto che
sia stata ravvisata la condizione inespressa comune ad
entrambe le parti nelle delibere del 1972 che non è prova
fossero dalla Bertoli in alcun modo conosciute, ancorché
fossero conoscibili.
Il motivo è del tutto infondato: la valutazione per la quale
dalla conoscibilità delle delibere è dato presumere la sua
conoscenza è immune da vizi logici, applicandosi senza alcun
dubbio detta presunzione semplice ad una vendita di un
terreno da un privato ad un Comune che non poteva non agire
per scopi "palesi" e nella piena ed agevole
accessibilità del contraente agli atti presupposti.
Gli elementi afferenti il sol "tardivo" riferimento a
dette delibere da parte della Be. (udienza del 16.12.1983)
attengono ad una circostanza priva di rilievo, in quanto
espressiva di una strategia processuale e non indicativa di
una "ignoranza" delle scelte comunali all'atto della
compravendita risalente a più di dieci anni innanzi.
Con il secondo motivo si lamenta lacuna argomentativa
sulle ragioni della mancata realizzazione della condizione
inespressa.
Il motivo è inammissibile per assoluta genericità, non
essendo prospettato con la doverosa precisione il rilievo
del preteso silenzio motivazionale.
Con il terzo motivo si lamenta la esclusione di
rilevanza delle ragioni (invalidità della prima delibera per
assenza di finanziamento) che impedirono la realizzazione
della situazione presupposta.
La doglianza appare inammissibile: la rilevanza delle
ragioni sopravvenute ed impeditive è stata rettamente
esclusa dalla Corte di Appello ed era stata esclusa del
resto, dal quadro degli elementi valutabili, dalla sentenza
rescindente la quale ha ricostruito ut supra i dati
presupposti ed ha ricavato (come rammentato in premessa) un
inespresso ma inemendabile vincolo di buona fede del Comune
alla destinazione dei fondi acquistati.
E' invero affatto inammissibile porre oggi, e comunque
riproporlo all'indomani della sentenza del 1997 di questa
Corte, il problema della assenza di legittimità delle
delibere del 1972: la sentenza rescindente, in accoglimento
di un motivo afferente la assenza di motivazione sulla
sussistenza della presupposizione, ha negato implicitamente
che a configurare detta condizione inespressa facessero
ostacolo ragioni di nullità degli impegni oggetto di
presupposizione, posto che, evidentemente, il Comune non
aveva prospettato tali ragioni quali elementi ostativi alla
verifica in fatto della presupposizione stessa.
Con il quarto motivo si esprime dissenso dalla
individuazione nelle pregresse delibere delle ragioni per
far ritenere esistente la presupposizione (la previsione di
una estensione superiore a quella del fondo Be. e l'impegno
a richiedere contributo pari al solo 25% dell'importo). Si
lamenta ancora che la sentenza non abbia dato risposta alle
osservazioni poste dalla difesa del Comune nella
conclusionale del 05.03.2003.
Sotto il primo profilo la doglianza è inammissibile perché
non evidenzia vizi logici ma espone solo dissenso dalle non
persuasive valutazioni. Sotto il secondo profilo la
doglianza è affatto carente di autosufficienza, tentando di
onerare questa Corte del compito di leggere gli atti per
rinvenire ...nella conclusionale menzionata questioni alle
quali la sentenza impugnata non avrebbe dato esaustiva
risposta.
Con il quinto motivo si enumerano sei punti di
censura alla CTU, le cui conclusioni furono ad avviso del
Comune ricorrente acriticamente recepite dalla Corte: il
motivo è radicalmente inammissibile:
A) da un canto perché appunta le sue espressioni di dissenso
sulla CTU e non sulla sentenza che, lungi dal recepirla
acriticamente, ha dedicato alla stima le pagine 15 e 16;
B) dall'altro canto perché non deduce di avere posto tali
rilievi alla Corte stessa, ricevendone risposta omessa o
illogica, ma tali rilievi formula puramente e semplicemente
a carico della CTU, in tal guisa confessando pienamente che
trattasi di rilievi affatto nuovi e pertanto in questa sede
irricevibili.
Rigettato il ricorso, graveranno sul Comune ricorrente le
spese del giudizio sostenute dai controricorrenti (in
solido).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il Comune di Orgiano a
corrispondere ai controricorrenti in solido per spese di
giudizio la somma di € 8.200 (di cui € 200 per esborsi)
oltre a spese generali e ad accessori di legge (Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 11.03.2011 n. 5875). |
URBANISTICA: Il
punto di causa è se il Comune nuovo proprietario delle aree
a standard (acquisite gratuitamente) possa -o meno- fare
sulle stesse quello che vuole ignorando gli accordi e cioè
le convenzioni stipulate al tempo col privato ora ex
proprietario.
Pacifica la doglianza che sorregge il ricorso, vale a dire
un lamentato inadempimento comunale quanto all’impegno alla
realizzazione nel comparto di interesse di standards
urbanistici siccome pretermessa essa realizzazione dalla
successiva previsione contenuta nella variante generale di
PRG di ubicazione in loco del palazzo di giustizia, va
puntualizzato che ad essi standards di lotto il Comune si
era obbligato in apposita convezione col privato
proprietario di aree che le aveva cedute gratuitamente
all’Ente locale perché vi fossero realizzati gli standards
urbanistici (strade, parcheggi, verde, ecc).
A fronte di ciò
non pare revocabile in dubbio che si
controverti sul comportamento dell’amministrazione e/o
comunque suoi atti (variante generale al PRG) in tema di uso
del territorio.
Tale essendo l’oggetto del contendere, in
tema di giurisdizione sovviene l’art. 34 del d.lgs.
31.03.1998 che devolve alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo i comportamenti ed i provvedimenti
delle amministrazione pubblica in materia di urbanistica ed
edilizia e che viene a riguardare la totalità degli aspetti
dell’uso del territorio, nessuno escluso.
---------------
Le convenzioni urbanistiche ben rientrano nel modello
procedimentale di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990
(accordi sostitutivi del provvedimento) con lo scopo di
definire il contenuto sostanziale di un accordo pianificatorio territoriale tra l’autorità pubblica ed il
privato contraente.
Orbene
è noto che le controversie in tema di formazione,
conclusione ed esecuzione di essi accordi sono riservate
(vedi 5° comma di esso art. 11 legge 241) alla giurisdizione
esclusiva del G.A..
La conclusione è che deve parlarsi solo
ed esclusivamente di giurisdizione del G.A. e non del G.O.,
sia che si faccia applicazione dell’art. 34 del d.lgs. n.
80/1998 come modificato dalla legge 205/2000, sia che si
faccia riferimento all’art. 11 (comma 5) legge 241; tra le
due citate norme entrambe conferenti col problema che ne
occupa, v’è questa differenziazione, che appare da subito ad
una loro semplice lettura: nella prima la giurisdizione
viene individuata per materia con riferimento agli atti
della p.a.; nella seconda viene stabilita non per materia ma
in virtù della tipologia dell’atto che è fonte del
rapporto,vale a dire l’accordo.
---------------
Il punto di causa è se il Comune nuovo
proprietario delle aree possa o meno fare sulle stesse
quello che vuole ignorando gli accordi e cioè le convenzioni
stipulate al tempo col privato ora ex proprietario in cui aveva assunto
l’obbligo di realizzarvi gli standards di comparto
(il ricorrente nel suo atto introduttivo si esprime a
riguardo in termini di “urbanizzazione generale”);
di poi l’Ente locale con la variante generale al PRG
ha deciso di realizzarvi un edificio destinato a palazzo di
giustizia.
La tesi del ricorrente, da cui poi muove tutto il gravame, è
che al quesito dianzi espresso non si possa che dare una
risposta negativa; essa tesi non viene però condivisa dal
Collegio.
Se è vero che le convenzioni urbanistiche
hanno natura contrattuale, e di conseguenza deve opinarsi
non consentita la modifica autoritativa degli obblighi
determinati anche col consenso del privato, deve però
ritenersi
che essa convenzione sia un contratto di natura
peculiare talché sarebbero comunque possibili variazioni
introdotte in virtù della iniziativa di parte pubblica e
questo in sede di emanazione di un nuovo strumento
urbanistico generale, implicando quest’ultimo la revisione
generale dell’intero assetto urbanistico del territorio
comunale.
Si è pure detto che il contrattualismo nella lettura della
Cassazione non giunge sino al punto di riconoscere che la
convenzione vincoli la p.a. a conservare l’assetto
urbanistico previsto dalla convenzione stessa; v’è cioè la
possibilità di un riedizione del potere pianificatorio da
parte dell’Ente pubblico da esercitarsi, perché non debordi
nell’arbitrio, in sede di esame e definizione di
problematiche di ordine generale quale può essere, ad
esempio, la revisione dell’assetto del territorio: in tali e
limitati casi di riesercizio del potere, la posizione
soggettiva del cittadino è di interesse legittimo e non di
diritto soggettivo.
---------------
Nel caso all’esame si contesta dal ricorrente che nella
nuova pianificazione urbanistica generale (variante al PRG)
che ha portato ad allocare in zona il palazzo di giustizia,
sia carente una motivazione specifica che sopporti la scelta
pianificatoria assunta in deroga all’obbligo convenzionale.
Anche la particolare censura non regge.
Osservato che la essa opera, ripetesi:
palazzo degli uffici giudiziari, non è poi completamente
avulsa da una sua invece possibile ricomprensibilità
nell’ambito delle urbanizzazioni secondarie (al pari per
esempio di un edificio destinato ad istruzione secondaria),
giova richiamare principi giurisprudenziali in materia di
motivazione delle scelte pianificatorie e loro sindacabilità
giurisdizionale, alla stregua dei quali le
determinazione assunte all’atto dell’adozione di PRG ovvero
di variante al piano medesimo, costituiscono apprezzamenti
di merito sottratti al sindacato di legittimità salvo che
non siano inficiate da errori di fatto ob abnormi
illogicità, e non necessitano di apposita motivazione oltre
a quella che si può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico discrezionali seguiti nell’impostazione del piano
e/o della variante generale.
Va comunque osservato ed a favore della legittimità della
individuata allocazione che il Comune viene
a prevedere la ubicazione del palazzo di giustizia in area
ormai di sua proprietà, il che ben può sorreggere la scelta
pianificatoria effettuata perché in tal modo non si viene a
gravare sulle casse comunali per l’esproprio di un suolo di
proprietà di altri ove andare ad ubicare l’opera di
interesse collettivo a farsi.
---------------
... per l'annullamento della delibera della G.R. 10.05.2001
n. 527 pubblicata sul B.U.R.P. n. 96 del 04.07.2001 con cui
è stata approvata in via definitiva la variante al piano
regolatore generale di Molfetta, nella parte in cui destina
ad uffici giudiziari le aree cedute dal ricorrente per
destinarle a standards; nonché di ogni altro atto connesso
presupposto o consequenziale a quello impugnato con
particolare riferimento –ed ove occorra- alle delibere di
C.C. Molfetta n. 127 del 26.09.1996 di adozione e delib.
Comm. Molfetta n. 92 del 22.03.2001 ed ad altri eventuali
atti dell’Amministrazione comunale, non noti, con i quali si
è provveduto a variare la destinazione in uffici giudiziari
delle aree cedute dal ricorrente;
...
FATTO
Con atto notificato e depositato rispettivamente in data 18
sett. e 27 sett. del 2001
il ricorrente <proprietario di
aree facenti parte dell’UMI (unità minima di intervento)
numero 7 e 3 del comparto edificatorio denominato “Lotto
Due” del Comune di Molfetta e che ebbe a stipulare insieme
ad altri proprietari delle aree convenzioni col Comune con
cui cedeva gratuitamente delle aree perché fossero destinate
ad urbanizzazione generale e nel contempo altre aree
onerosamente perché fossero destinate ad edilizia economica
e popolare (in particolare, detratto il suolo di sedime e
pertinenza dei fabbricati da realizzarsi, cedeva al Comune
gratuitamente il 60% della sua proprietà ed a titolo oneroso
il rimanente 40%)>
ha provveduto ad impugnare la delibera regionale in epigrafe meglio indicata di
approvazione della variante al PRG nella parte in cui
destina ad uffici giudiziari le aree cedute dal ricorrente
per destinarle a standards; nel contempo svolge azione di
condanna per risarcimento danni che assume derivantigli per
violazione da parte comunale delle convenzioni sottoscritte.
A sostegno dell’azione impugnatoria deduce violazione della
motivazione specifica in merito a motivi di interesse
pubblico che deve assistere la possibilità di derogare ad un
obbligo convenzionalmente assunto in precedenza dovendosi
fornire spiegazione sul perché non sia stata individuata
altra zona libera nell’ambito del territorio comunale.
In ordine al’azione risarcitoria, richiama giurisprudenza
della Cassazione (Cass. Sez. unite n. 1917 del 09.03.1990)
che abilita il privato ad essa azione a seguito di
inadempimento del Comune per obblighi nascenti da
convenzioni urbanistiche previo annullamento dell’atto che
generava tale lesione, significando che essa azione va ora
proposta dinanzi al G.A. stante la modifiche legislative di
cui all’art. 34 d.lgs. n. 80/1998 recepite dalla legge
205/2000.
Si è costituito in giudizio il Comune opponendosi al’avverso
gravame di cui, in via preliminare, ha eccepito, oltre alla
sua intempestività, difetto di giurisdizione in capo
all’adito G.A. e ciò a favore di quella del G.O.,
evidenziando pure una carenza interesse del privato (che già
come nella specie ha ricevuto il corrispettivo della c.e.) e
comunque un suo difetto di legittimazione a dolersi del
fatto che l’amministrazione abbia deciso una diversa
utilizzazione dell’area già cedutale dal privato in virtù di
apposite convenzioni.
Nel merito la difesa comunale ha fatto presente che le
scelte effettuate dall’amministrazione in sede di adozione
di PRG o sua variante generale si appartengono a sue
specifici apprezzamenti di merito che in quanto tali non
necessitano di puntuale motivazione, come si assume ex
adverso, oltre a quella che si evince dai criteri
generali eseguiti nell’impostazione del piano.
Parte ricorrente con memoria ha provveduto a contestare le
avverse eccezioni, ribadendo da un lato la giurisdizione del
G.A. e rivendicando il proprio interesse essendosi il Comune
sottratto agli obblighi di dotare il comparto di standards
(verde pubblico, parcheggi, strade) e ribadendo che il
Comune ancorché nuovo proprietario delle aree, non può fare
sulle stesse quello che vuole, ignorando una lottizzazione
già operativa.
DIRITTO
Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di rito
sollevate dal resistente Comune.
Sulla giurisdizione osserva
questo Collegio che essa si appartiene all’adito G.A. e non
al G.O..
Pacifica la doglianza che sorregge il ricorso, vale a dire
un lamentato inadempimento comunale quanto all’impegno alla
realizzazione nel comparto di interesse di standards
urbanistici siccome pretermessa essa realizzazione dalla
successiva previsione contenuta nella variante generale di
PRG di ubicazione in loco del palazzo di giustizia, va
puntualizzato che ad essi standards di lotto il Comune si
era obbligato in apposita convezione col privato
proprietario di aree che le aveva cedute gratuitamente
all’Ente locale perché vi fossero realizzati gli standards
urbanistici (strade, parcheggi, verde, ecc).
A fronte di ciò
non pare revocabile in dubbio che si
controverti sul comportamento dell’amministrazione e/o
comunque suoi atti (variante generale al PRG) in tema di uso
del territorio. Tale essendo l’oggetto del contendere, in
tema di giurisdizione sovviene l’art. 34 del d.lgs.
31.03.1998 che devolve alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo i comportamenti ed i provvedimenti
delle amministrazione pubblica in materia di urbanistica ed
edilizia e che viene a riguardare la totalità degli aspetti
dell’uso del territorio, nessuno escluso (Cass. Civile Sez.
Unite n. 494 del 04.07.2000).
Sotto altro profilo e sempre al fine di individuare il
giudice fornito di giurisdizione, aggiunge il Collegio che
le convenzioni urbanistiche ben rientrano nel modello
procedimentale di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990
(accordi sostitutivi del provvedimento) con lo scopo di
definire il contenuto sostanziale di un accordo pianificatorio territoriale tra l’autorità pubblica ed il
privato contraente –cfr. a riguardo Cass. Sez. unite
01.07.2009 n. 15388-; si discuteva in quel caso di una
convenzione di lottizzazione diretta a disciplinare il
successivo rilascio di concessioni edilizie in esecuzione
concordata tra le parti di opere di urbanizzazione; la
fattispecie esaminata dalla Cass., in essa decisione, è ben
sovrapponibile al caso in esame atteso che più volte lo
stesso ricorrente nei suoi scritti difensivi viene a parlare
di “convenzioni di lottizzazione” in riferimento alle
due convenzioni stipulate col Comune con atti notarili del
10.02.1988 rep. n. 1347 e n. 1350, del cui inadempimento si
discute.
Orbene
è noto che le controversie in tema di formazione,
conclusione ed esecuzione di essi accordi sono riservate
(vedi 5° comma di esso art. 11 legge 241) alla giurisdizione
esclusiva del G.A.. La conclusione è che deve parlarsi solo
ed esclusivamente di giurisdizione del G.A. e non del G.O.,
sia che si faccia applicazione dell’art. 34 del d.lgs. n.
80/1998 come modificato dalla legge 205/2000, sia che si
faccia riferimento all’art. 11 (comma 5) legge 241; tra le
due citate norme entrambe conferenti col problema che ne
occupa, v’è questa differenziazione, che appare da subito ad
una loro semplice lettura: nella prima la giurisdizione
viene individuata per materia con riferimento agli atti
della p.a.; nella seconda viene stabilita non per materia ma
in virtù della tipologia dell’atto che è fonte del
rapporto,vale a dire l’accordo.
Passando ora ad esaminare l’eccezione di carenza di
interesse e della stessa legittimazione- in capo al
ricorrente al presente gravame (eccezione che muove dal
presupposto che il privato ha avuto a contropartita della
cessione della sua area la concessione edilizia e quindi non
avrebbe più altro da pretendere), ne rileva il il Collegio
la infondatezza. Infatti esso interesse (che si ritiene dal deducente completamente assente) non può invece del tutto
escludersi in quanto nei confronti del lottizzante
compartista si era quantomeno creato un affidamento
all’esecuzione di opere di urbanizzazione su dette aree,
giusta –lo si ripete- apposita convenzione, anche
trascritta, il che determina una posizione qualificata e
differenziata di esso ex proprietario rispetto agli altri
cittadini, e quindi una sua legittimazione ad impugnare gli
atti del Comune che esso impegno vengono a disattendere.
Va pure reietta l’eccezione di tardività del gravame,
sollevata da parte resistente in base alla considerazione
che il Comune già in precedenza (vedi delibera n. 482/88)
aveva adottato una variante al PRG, rimasta al tempo e nel
tempo inoppugnata. Orbene essa precedente variante non può
costituire un valido precedente con le conseguenze che il
deducente ne fa discendere in tema di tempestività
dell’odierna impugnativa, poiché aveva ricevuto il parere
negativo del C.U.R. (parere n. 63/97 relativo all’adunanza
del 27.11.1997) e quindi non aveva ricevuto alcuna
approvazione regionale (sul punto non è seguito atto di
smentita del Comune).
Sgombrato il campo dalle varie eccezioni di rito, nel merito
il gravame all’esame non si presenta fondato.
Il punto di causa è se il Comune nuovo
proprietario delle aree possa o meno fare sulle stesse
quello che vuole ignorando gli accordi e cioè le convenzioni
stipulate al tempo col privato ora ex proprietario in cui,
come più volte detto, aveva assunto
l’obbligo di realizzarvi gli standards di comparto
(il ricorrente nel suo atto introduttivo si esprime a
riguardo in termini di “urbanizzazione generale”);
di poi l’Ente locale con la variante generale al PRG
ha deciso di realizzarvi un edificio destinato a palazzo di
giustizia.
La tesi del ricorrente, da cui poi muove tutto il gravame, è
che al quesito dianzi espresso non si possa che dare una
risposta negativa; essa tesi non viene però condivisa dal
Collegio.
Se è vero che le convenzioni urbanistiche
hanno natura contrattuale, e di conseguenza deve opinarsi
non consentita la modifica autoritativa degli obblighi
determinati anche col consenso del privato, deve però
ritenersi –come
affermato dalla giurisprudenza amministrativa che si è
interessata del problema (CdS Sez. V, 04.01.1993)-
che essa convenzione sia un contratto di natura
peculiare talché sarebbero comunque possibili variazioni
introdotte in virtù della iniziativa di parte pubblica e
questo in sede di emanazione di un nuovo strumento
urbanistico generale, implicando quest’ultimo la revisione
generale dell’intero assetto urbanistico del territorio
comunale.
Si è pure detto che il contrattualismo nella lettura della
Cassazione non giunge sino al punto di riconoscere che la
convenzione vincoli la p.a. a conservare l’assetto
urbanistico previsto dalla convenzione stessa; v’è cioè la
possibilità di un riedizione del potere pianificatorio da
parte dell’Ente pubblico da esercitarsi, perché non debordi
nell’arbitrio, in sede di esame e definizione di
problematiche di ordine generale quale può essere, ad
esempio, la revisione dell’assetto del territorio: in tali e
limitati casi di riesercizio del potere, la posizione
soggettiva del cittadino è di interesse legittimo e non di
diritto soggettivo.
Nel caso all’esame si contesta dal ricorrente che nella
nuova pianificazione urbanistica generale (variante al PRG)
che ha portato ad allocare in zona il palazzo di giustizia,
sia carente una motivazione specifica che sopporti la scelta
pianificatoria assunta in deroga all’obbligo convenzionale.
Anche la particolare censura non regge.
Osservato che la essa opera, ripetesi:
palazzo degli uffici giudiziari, non è poi completamente
avulsa da una sua invece possibile ricomprensibilità
nell’ambito delle urbanizzazioni secondarie (al pari per
esempio di un edificio destinato ad istruzione secondaria),
giova richiamare principi giurisprudenziali in materia di
motivazione delle scelte pianificatorie e loro sindacabilità
giurisdizionale, alla stregua dei quali le
determinazione assunte all’atto dell’adozione di PRG ovvero
di variante al piano medesimo, costituiscono apprezzamenti
di merito sottratti al sindacato di legittimità salvo che
non siano inficiate da errori di fatto ob abnormi
illogicità, e non necessitano di apposita motivazione oltre
a quella che si può evincere dai criteri generali di ordine
tecnico discrezionali seguiti nell’impostazione del piano
e/o della variante generale.
Va comunque osservato ed a favore della legittimità della
individuata allocazione che il Comune viene
a prevedere la ubicazione del palazzo di giustizia in area
ormai di sua proprietà, il che ben può sorreggere la scelta
pianificatoria effettuata perché in tal modo non si viene a
gravare sulle casse comunali per l’esproprio di un suolo di
proprietà di altri ove andare ad ubicare l’opera di
interesse collettivo a farsi.
In conclusione l’azione impugnatoria va respinta, il che
porta anche alla reiezione della pure svolta azione
risarcitoria, in quanto allo stato è carente la
dimostrazione della illegittimità del provvedimento che
costituisce necessario presupposto per l’applicazione della
norma di cui all’art. 2043 del cod. civ..
L’intero ricorso va quindi rigettato. Spese come da
dispositivo e secondo la regola della soccombenza
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 31.01.2011 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA - VARI:
In materia contrattuale, affinché sia
configurabile la fattispecie della c.d. "presupposizione" (o
condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del
contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto,
considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in
sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto
imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo
verificarsi o venire meno dipenda da circostanze non
imputabili alle parti stesse.
Il relativo accertamento, esaurendosi sul piano propriamente
interpretativo del contratto, costituisce una valutazione di
fatto, riservata, come tale, al giudice del merito ed
incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi
logici o giuridici.
---------------
La prima censura concerne vizi di motivazione e
violazione dell'art. 2722 c.c., artt. 184 e 356 c.p.c.: il
ricorrente torna a sostenere che il contratto era
caratterizzato dalla presupposizione che al promissario
acquirente fosse erogato un mutuo da parte di un istituto di
credito, circostanza non trasferita espressamente in una
clausola, ma ben presente al promittente venditore.
A tal fine deduce che aveva dedotto prove testimoniali, che
sarebbero state utili ad accertare l'esistenza della
presupposizione, ma che il giudice d'appello si era limitato
a confermare quanto ritenuto dal giudice di primo grado.
Il secondo motivo denuncia violazione degli artt.
1183 e 1453 c.c. dell'art. 112 c.p.c. e vizi di motivazione.
Il ricorrente lamenta che non si sia proceduto a comparare
gli inadempimenti delle parti, facendo derivare la
risoluzione del contratto dalla sua mancata partecipazione
(dopo aver ricevuto diffida) alla stipula del definitivo,
mentre in precedenza un appuntamento presso altro notaio era
risultato vano perché parte dei. terreni non era intestata
al G., che aveva promesso in vendita terreni non suoi.
Il giudice d'appello, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto
determinare, come richiestogli, la data del rogito ai sensi
dell'art. 1183 c.c. atteso che "l'esistenza della dedotta
presupposizione faceva sì che il termine di adempimento
fosse a favore del C., in quanto proprio esso G. aveva
inutilmente concluso un preliminare di compravendita, senza
possedere la titolarità parziale dei diritti in esso dedotti".
Entrambe le doglianze, che è possibile trattare
congiuntamente per il legame che lo stesso ricorrente ha
loro impresso, sono infondate.
I giudici d'appello hanno già affrontato e risolto le
questioni poste dal C. e in particolare l'esistenza di una
presupposizione secondo la quale l'acquisto del terreno "sarebbe
stato subordinato all'erogazione del mutuo da parte della
banca" (sentenza appello pag. 4), e l'imputabilità del
ritardo di un anno nella stipula al fatto che "una parte
dei terreni non risultava intestata al venditore" (pag.
5).
La sentenza ricostruisce la vicenda negoziale ricordando che
dopo la regolarizzazione catastale, avvenuta il (OMISSIS),
era venuto meno ogni motivo di ritardo nei pagamento; che il
convenuto ne era stato informato (vengono citati i documenti
14 e 15, contro i quali nulla è stato dedotto in ricorso);
che il (OMISSIS) ora stata inoltrata diffida ad adempiere e
che il legale del C. aveva risposto con una lettera
dilatoria, inidonea a giustificare la mancata stipula, con
conseguente risoluzione ex art. 1454 c.c..
Il Collegio d'appello ha quindi considerato, per un duplice
ordine di motivi, "assolutamente superflue" le prove
orali volte a dimostrare la presupposizione. In primo luogo
perché la esistenza e l'effetto della presupposizione non
erano stati opposti neppure in occasione della diffida ad
adempiere. In secondo luogo perché l'evento relativo alla
concessione del mutuo si era ormai verificato, come
attestato dal documento 13 dell'appellato.
Orbene, i motivi di ricorso, sopra riassunti, non si sono
fatti carico di criticare l'apparato argomentativo della
sentenza e di spiegare per qual motivo, il promissario
acquirente, già nel possesso dei beni, a fronte della
regolarizzazione formale della proprietà già avvenuta da un
anno, nel (OMISSIS) non avesse opposto l'esistenza della
presupposizione, invocata nel successivo giudizio.
Dai documenti 14 e 15 la Corte territoriale aveva tratto
prova della inesistenza di ostacoli alla vendita sin dal
(OMISSIS), circostanza che risulta non confutata in ricorso.
Par intenti, non è stato negato che la disponibilità della
banca ad erogare il mutuo fosse stata conseguita già da
tempo e che quindi l'evento dedotto come presupposizione si
era già avverato, secondo quanto risultante da un documento,
il n. 13, che parte ricorrente non ha riportato né
analizzato, come invece era indispensabile per inficiare la
validità del convincimento tratto dalla Corte.
Si badi in proposto che l'indagine volta a stabilire se una
determinata situazione sia stata tenuta presente dai
contraenti nella formulazione del consenso secondo lo schema
della presupposizione, si colloca sul piano propriamente
interpretativo del contratto, e costituisce, pertanto, una
valutazione di fatto, riservata, come tale, al giudice del
merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da
vizi logici o giuridici (Cass. 14629/2001).
La prova della pattuizione della presupposizione è stata
affidata da parte ricorrente, con la censura per vizio di
motivazione, alla richiesta di ammissione ed espletamento
delle prove testimoniali. respinte dai giudici di merito. La
richiesta è però doppiamente incongrua. Un primo rilievo che
le si oppone è che con essa la parte istante non si è fatta
carico di criticare le motivazioni svolte dalla sentenza
impugnata, che imponevano di spiegare:
a) la
novità della tesi della presupposizione, mai dedotta nel
lungo rapporto intrecciatosi prima che fossero adite la vie
legali;
b)
per qual motivo la disponibilità della banca
a erogarle il mutuo fosse stata ritirata dall'istituto di
credito, circostanza rilevante e decisiva per escludere che
il mancato avveramento della presupposizione non fosse ad
essa imputabile, come richiesto dalla configurazione
dell'istituto (cfr. Cass. 6631/2006 e Cass. 19144/2004,
14629/2001 per le quali il venir meno o il verificarsi dalla
presupposizione deve essere del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti).
Ai giudici d'appello, in sostanza, è apparso evidente che
quand'anche la presupposizione fosse stata pattuita, essa
aveva trovato avveramento con la dichiarata disponibilità
della banca a erogare il mutuo nel (OMISSIS). Per dimostrare
la persistente attualità della condizione, la parte istante
doveva quindi dimostrare che le successive vicende che
avevano portato alla successiva mancata erogazione
(nonostante la lunga attesa del venditore) non lo erano
imputabili.
Parte ricorrente non offre neppure in questa sede
indicazioni utili a superare la rilevanza del cd.
avveramento. Né le prove testimoniali avrebbero raggiunto lo
scopo, perché qui cade il secondo rilievo che impedisce di
accogliere la censura - non indicavano la motivazione data
dalla banca al rifiuto di nuova erogazione (capo 4) e
miravano a far affermare al teste l'esistenza della
condizione, chiedendogli in sostanza un giudizio sul
contenuto di una pattuizione che non era stata riportata in
contratto, benché fosse di tale enorme rilevanza da
contraddire sia l'avvenuta consegna anticipata dei terreni,
sia il mancato richiamo di essa per i tre anni in cui si era
dipanata la vicenda.
Bene ha fatto quindi la Corte territoriale a ritenere
superflue le prove orali dedotte, che per la loro
incompletezza e genericità non avrebbero scalfito le tesi
accolte in motivazione.
E' quindi priva di pregio la censura relativa alla mancata
comparazione degli inadempimenti delle parti: il rinvio del
rogito nel (OMISSIS) per provvedere alla regolarizzazione
dell'intestazione al promittente venditore fu infatti
concordemente accettato e non risulta che vi sia nesso di
causalità tra detto rinvio e il rifiuto della banca, nel
(OMISSIS), di dar corso alla deliberata concessione del
mutuo. La Corte d'appello ha chiaramente fatto riferimento a
una risposta meramente dilatoria del legale del ricorrente a
fronte delle sollecitazioni a comparire davanti al notaio.
La circostanza, non specificamente confutata con l'esame del
relativo documento (l'accesso al quale è precluso alla Corte
trattandosi di denuncia di vizio in indicando), conferma la
irrilevanza causale, nello svolgersi della vicenda, del
rinvio del rogito del (OMISSIS), al quale peraltro, a suo
tempo, se si fosse trattato di inadempienza, il promissario
acquirente avrebbe potuto reagire chiedendo la risoluzione
del contratto.
Il rigetto dei profili esaminati del ricorso comporta
l'assorbimento della censura relativa all'omessa pronunci a
sulla fissazione del termine per la stipula ai sensi
dell'art. 1183 c.c., che avrebbe avuto senso solo in caso di
insussistenza dell'inadempimento di parte acquirente e
accoglimento del ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 18.09.2009 n. 20245). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo
le disposizioni contenute nel P.T.P., sono consentiti, tra
l''altro, interventi di ristrutturazione edilizia che non
comportino incrementi dei volumi edilizi esistenti e nei
limiti dettati dal precedente art. 7 (art. 12). In tale zona
risulta comunque vietato <<qualsiasi intervento che comporti
incremento dei volumi esistenti… gli attraversamenti di
elettrodotti o di altre infrastrutture aeree… la
coltivazione delle cave…l’ampliamento delle grotte e delle
cavità esistenti>> (art. 12, comma 3).
Come rilevato in precedenti decisioni giurisprudenziali
“l’indicata normativa, nell’ammettere alcuni limitatissimi
interventi nella zona in questione, non consente invece, in
modo rigoroso, la possibile realizzazione di nuovi volumi o,
comunque, di nuove opere edilizie, tra cui rientrano quelle
opere che si configurano come volumi rilevanti ai fini
paesaggistici, senza che al riguardo sia dato distinguere
tra volumi esterni (ritenuti non consentiti anche ove si
tratti di volumi tecnici) e volumi interrati".
Occorre infatti, a tal riguardo, distinguere il concetto di
volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume
rilevante ai fini paesaggistici. Difatti, lo stesso volume
che a fini edilizi -per le sue caratteristiche- può non
essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo
fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto
volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici può
assumere una diversa rilevanza, ove si ritenga che determini
una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le
norme di tutela vogliono impedire.
Ed infatti le norme di tutela -al fine di salvaguardare la
sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali-
possono ben vietare anche la realizzazione di un volume
edilizio tecnico od interrato, ritenuti irrilevanti secondo
le norme che regolano l’attività edilizia.
Ne consegue, per restare al caso in esame, che anche la
realizzazione di volumi sotterranei (ai quali in ogni caso,
come descritto nella stessa relazione tecnica-agronomica
agli atti, avrebbero dovuto affiancarsi interventi “esterni”
quali la realizzazione di terrazze di contenimento, rampe e
scale oltre naturalmente alla rampa di accesso ed al suo
conseguente muro di contenimento laterale) determinano opere
rilevanti ai fini paesaggistici e come tali si pongono in
contrasto con quelle disposizioni volte ad impedire la
realizzazione di nuove strutture stabili rilevanti ai fini
paesaggistici.
---------------
Anche il Consiglio di Stato sul punto ha precisato che il
divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini
di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume, ed è stato ritenuto che costituisce opera valutabile
come aumento di volume anche la realizzazione di un garage
interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto <<ogni tipo di
volume determina una alterazione dello stato dei luoghi:
proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela
vogliono impedire>>.
---------------
5.- Si può quindi passare al merito delle censure sollevate
avverso il provvedimento della Soprintendenza impugnato.
Con il primo ed il secondo motivo la ricorrente sostiene
l’illegittimità del decreto indicato in epigrafe (per la
violazione dell’articolo 159 del decreto legislativo
22.01.2004 n. 42 e dell’articolo 12, nn. 3 e 4 del Piano
Territoriale Paesistico di Posillipo), in quanto la
Soprintendenza ha ritenuto vietata in zona RUA la
realizzazione di nuovi volumi anche interrati, malgrado sia
evidente che questi non arrecano pregiudizio ai valori
paesaggistici, non sussistendo ingombro visivo.
Peraltro, questa era l’interpretazione della norma ritenuta
compatibile con il PTP sia dall’amministrazione comunale che
dalla stessa Soprintendenza, fino al parere reso
dall’Avvocatura in data 08.05.2008.
Inoltre il provvedimento impugnato contraddittoriamente
richiamerebbe un principio richiamato nell’art. 12 punto 3
riguardo agli “interventi ammissibili” per affermare
che il progetto approvato dal Comune di Napoli
contrasterebbe con la norma del Piano paesistico in quanto
<<non è orientato alla ricostruzione del verde secondo
l’applicazione di principi fitosociologici che rispettino i
processi dinamico-evolutivi e di potenzialità delle
vegetazioni delle aree>>, laddove invece i “divieti e
le limitazioni” sono contenuti nel punto 4 del citato
art. 14.
6.- Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente,
non risultano fondate.
Il P.T.P. dell’area di Posillipo, approvato con D.M.
14.12.1995 (in G.U. n. 47 del 26.02.1996), sottopone infatti
a disposizioni di tutela particolarmente rigorose una delle
aree di maggiore rilevanza, sotto il profilo naturalistico,
ambientale e paesistico della città di Napoli.
Secondo le disposizioni contenute nel P.T.P., anche nelle
aree R.U.A., di Recupero urbanistico edilizio e di Restauro
paesistico-ambientale, in cui è collocata l’area in
questione, sono consentiti, oltre agli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e
risanamento conservativo, di bonifica e ripristino
ambientale del sistema vegetale, previsti in generale
dall’art. 9, solo interventi volti alla conservazione del
verde agricolo residuale, per la ricostituzione del verde,
per la riqualificazione di strade, piazze e marciapiedi
nonché interventi di ristrutturazione edilizia che non
comportino incrementi dei volumi edilizi esistenti e nei
limiti dettati dal precedente art. 7 (art. 12).
In tale zona risulta comunque vietato <<qualsiasi
intervento che comporti incremento dei volumi esistenti… gli
attraversamenti di elettrodotti o di altre infrastrutture
aeree… la coltivazione delle cave…l’ampliamento delle grotte
e delle cavità esistenti>> (art. 12, comma 3).
Come rilevato in precedenti decisioni giurisprudenziali “l’indicata
normativa, nell’ammettere alcuni limitatissimi interventi
nella zona in questione, non consente invece, in modo
rigoroso, la possibile realizzazione di nuovi volumi o,
comunque, di nuove opere edilizie, tra cui rientrano quelle
opere che si configurano come volumi rilevanti ai fini
paesaggistici, senza che al riguardo sia dato distinguere
tra volumi esterni (ritenuti non consentiti anche ove si
tratti di volumi tecnici) e volumi interrati".
Occorre infatti, a tal riguardo, distinguere il concetto di
volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume
rilevante ai fini paesaggistici. Difatti, lo stesso volume
che a fini edilizi -per le sue caratteristiche- può non
essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo
fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto
volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici può
assumere una diversa rilevanza, ove si ritenga che determini
una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le
norme di tutela vogliono impedire.
Ed infatti le norme di tutela -al fine di salvaguardare la
sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali-
possono ben vietare anche la realizzazione di un volume
edilizio tecnico od interrato, ritenuti irrilevanti secondo
le norme che regolano l’attività edilizia.
Ne consegue, per restare al caso in esame, che anche la
realizzazione di volumi sotterranei (ai quali in ogni caso,
come descritto nella stessa relazione tecnica-agronomica
agli atti, avrebbero dovuto affiancarsi interventi “esterni”
quali la realizzazione di terrazze di contenimento, rampe e
scale oltre naturalmente alla rampa di accesso ed al suo
conseguente muro di contenimento laterale) determinano opere
rilevanti ai fini paesaggistici e come tali si pongono in
contrasto con quelle disposizioni volte ad impedire la
realizzazione di nuove strutture stabili rilevanti ai fini
paesaggistici.
6.- Anche il Consiglio di Stato sul punto ha precisato che
il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai
fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume (Consiglio di. Stato, Sezione IV, n. 102 del 1997),
ed è stato ritenuto che costituisce opera valutabile come
aumento di volume anche la realizzazione di un garage
interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto <<ogni tipo
di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi:
proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela
vogliono impedire>> (Consiglio di Stato sentenza n. 2388
dell’11.05.2005 citata).
A ciò si deve aggiungere che le rigorosissime norme di
tutela che si sono richiamate (artt. 9 e 12, punto 3 del
P.T.P.) non consentono nel territorio di Posillipo (tanto in
zona RUA che di PI) nemmeno “l’ampliamento delle grotte e
delle cavità esistenti”, concetto che da questa stessa
sezione è stato interpretato in senso assolutamente
restrittivo con riferimento a “qualsiasi modificazione,
alterazione, modifica di destinazione d’uso”, anche non
comportante aumento di volume (TAR Napoli, IV sez. n. 21568
del 29.12.2008): a maggior ragione, quindi, si deve ritenere
vietata anche la creazione di nuovi volumi, benché
sotterranei.
7. In pratica, fatti salvi i limitati interventi che si sono
sommariamente indicati, nell’area in questione, come già
affermato da questo TAR con la sentenza n. 494 del
27.01.2004, adottata in un’altra vicenda riguardante la
realizzazione di un parcheggio interrato (decisione poi
confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2388
dell’11.05.2005; per una questione analoga riguardante
l’area di San Martino si veda anche la sentenza di questa
Sezione n. 492 del 27.01.2004, poi confermata dal Consiglio
di Stato con la sentenza della VI Sezione n. 6756 del
29.11.2005), sono vietate tutte quelle opere che determinano
un’alterazione dello stato dei luoghi e, per quel che qui
interessa, è vietato qualsiasi intervento che comporti la
manomissione e l’alterazione delle superfici destinate a
verde (aree vegetazionali naturali), atteso che l’art. 12 al
punto 3 espressamente vieta- oltre agli attraversamenti di
elettrodotti o di altre infrastrutture aeree- addirittura
anche “il taglio e l’espianto della vegetazione arbustiva
di macchia mediterranea spontanea, fatta eccezione per le
sole ipotesi in cui le essenze arboree siano interessate da
affezioni fitopatologiche –per motivi di sicurezza della
ulteriore vegetazione esistente- quando sia strettamente
necessario “per gli scavi e il restauro di monumenti antichi
da parte delle competenti Soprintendenze” (art. 12 del
P.T.P.).
Nel caso in esame, è la stessa Relazione tecnico-agronomica
(all. 9 del ricorso) a chiarire –a nulla rilevando che si
tratti di vegetazione che non presenta nessun carattere di
pregio storico-botanico- che “la flora esistente sarà
mantenuta (solo) ove possibile”, nel senso che ove
l’effettuazione degli scavi comporti –come è logico- la
distruzione della vegetazione esistente, il progetto ne
avrebbe comportato, nell’intenzione della ricorrente, la
ricostituzione secondo l’originaria consistenza.
Inoltre, per la parte “non interessata dal manufatto in
progetto”, le pratiche di sistemazione avrebbero
riguardato “una messa a regime della flora esistente per
correggerne la sostanziale fittezza”, con previsione
anche di “incremento e sostituzione di piante, per la
realizzazione di percorsi fruibili dai visitatori”,
interventi non ammissibili ai sensi del punto 4 dell’art. 12
del PTP che in zona RUA ammette esclusivamente “interventi
volti alla conservazione del verde agricolo residuale” ed
espressamente vietati ai sensi del punto 3 che vieta “il
taglio e l’espianto di alberi di alto fusto e della
vegetazione arbustiva di macchia mediterranea spontanea”.
8. In relazione a quanto esposto, si deve pertanto ritenere
che, come sostenuto dalla Soprintendenza per i Beni
Architettonici ed il Paesaggio di Napoli e Provincia,
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di
Napoli in favore del ricorrente per la realizzazione del
parcheggio interrato, ai sensi dell’art. 159 del decreto
legislativo 22.01.2004 n. 42, risultasse viziata per la
mancata osservanza delle indicate disposizioni del P.T.P.
dell’area di Posillipo, con la conseguente illegittimità
della stessa autorizzazione per violazione di legge.
Legittimamente, pertanto, la Soprintendenza ne ha disposto
l’annullamento sulla base del potere di annullamento
d'ufficio per motivi di legittimità, riconosciuto al
Ministero per i Beni Culturali, ai sensi dell'art. 159,
d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (ex multis: TAR Puglia Lecce,
sez. I, 17.04.2008, n. 1141, TAR Campania Napoli, sez. VII,
05.02.2008, n. 551)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 04.03.2009 n. 1267 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’approvazione del nuovo piano cave e la
previsione all’interno dello stesso della possibilità di
estrarre materiale per almeno 3.000.000 mc configurano una presupposizione comune, ossia, secondo la
definizione accettata in giurisprudenza,
una condizione non
sviluppata o inespressa (in questo caso di diritto), avente
carattere oggettivo, a cui è subordinata la persistenza
degli effetti derivanti dal contratto.
---------------
...
per l'adempimento dell’atto unilaterale d’obbligo sottoscritto da Consorzio
dell’Isola, Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl in data 05.12.2003;
...
1. La vicenda in esame si colloca nella transizione dal
vecchio piano cave della Provincia di Bergamo (approvato
dalla Regione con DCR n. 4/1731 del 09.11.1989 e con DCR n. 4/1968 del 21.03.1990) al nuovo piano in itinere
(adottato dalla Provincia con DCP n. 16 del 16.03.2004,
approvato dalla giunta regionale con DGR n. 8/1547 del 22.12.2005 e trasmesso al consiglio regionale per
l’approvazione definitiva).
2. Occorre premettere subito che in base all’art. 10, comma 4,
della LR 08.08.1998 n. 14 il piano cave per i settori
sabbia, ghiaia e argille ha validità massima di 10 anni a
decorrere dalla data di esecutività. Il successivo art. 42,
commi 2 e 3, della medesima legge stabilisce però che i piani
approvati dalla Regione nella vigenza della precedente
disciplina conservano efficacia sino all’esecutività dei
nuovi piani e costituiscono la base per l’autorizzazione da
parte delle province dell’attività estrattiva nei limiti
della disponibilità residua di materiale nonché per
l’approvazione di nuovi progetti di gestione produttiva
all’interno dei singoli ambiti estrattivi.
3. Il piano cave del 1990 (esecutivo dal 02.05.1990) ha
individuato tra gli altri l’ambito estrattivo BP8g situato
nel territorio dei Comuni di Calusco d’Adda, Medolago e
Solza all’interno del Parco Adda Nord. Nel suddetto ambito
(avente superficie pari a 42 ettari, di cui 26 destinati
allo scavo e 16 come area residua) era prevista l’estrazione
di sabbia e ghiaia per una produzione massima di 600.000 mc
all’anno e di 6.000.000 mc nel decennio 1985-1994. Al
termine dell’utilizzazione come cava era previsto il
recupero dell'area per usi naturalistici e agricoli.
4. La Regione con DCR n. 6/555 del 09.04.1997 ha
approvato la revisione del piano cave del 1990 per il
settore sabbia e ghiaia. La superficie dell’ambito
estrattivo BP8g è stata aumentata a 51,5 ettari, la
produzione massima annua è stata confermata in 600.000 mc,
mentre la produzione complessiva del periodo 1995-2000 è
stata fissata in 2.750.000 mc.
Al termine dell’attività
estrattiva è prevista la destinazione agricola e
naturalistica con fruizione pubblica. Una novità importante,
che costituisce il centro della presente controversia, è
data dall’aggiunta di una prescrizione in base alla quale
l’autorizzazione dell’attività estrattiva è subordinata a
un’intesa da definire attraverso una conferenza di servizi
tra gli enti e gli organi interessati.
5. L’ambito estrattivo BP8g è coltivato dal Consorzio
dell’Isola, costituito nel 1977 dalle ditte Beton Villa spa
e Cava dell’Isola srl. Queste società sono proprietarie di
un’area di circa 450.000 mq ricompresa nell’ambito
estrattivo.
6. Dopo la revisione del piano cave del 1997 il Consorzio
dell’Isola ha presentato alla Provincia in data 09.07.1997 una domanda di autorizzazione al proseguimento
dell’attività estrattiva di sabbia e ghiaia e una
contestuale domanda di concessione mineraria per due mappali
di proprietà di terzi, precisamente il mappale n. 968 nel
Comune di Calusco d’Adda e il mappale n. 449 nel Comune di
Solza.
Le richieste avevano come oggetto una quantità di
materiale pari a 1.700.000 mc. La Provincia ha avviato una
procedura per raggiungere un accordo tra le parti pubbliche
e private nel rispetto di quanto stabilito dalla revisione
del piano cave del 1997. La metodologia utilizzata consiste
nella ricerca di un’intesa tra le parti pubbliche (nella
forma dell’accordo di programma) preceduta da una conforme
dichiarazione di volontà dei privati mediante atti
unilaterali d’obbligo e seguita dal richiamo di questi atti
all’interno delle convenzioni aventi ad oggetto l’attività
estrattiva.
7. La prima dichiarazione finalizzata al raggiungimento di
una posizione condivisa è l’atto unilaterale d’obbligo
sottoscritto dalle ditte del Consorzio dell’Isola il 29.07.1998. Tale atto è stato poi modificato con
dichiarazioni del 09.12.1998 e del 16.03.1999.
Tenendo conto delle modifiche sopravvenute il contenuto
degli obblighi assunti dai privati può essere sintetizzato
nel seguente schema:
a) la zona di scavo è puntualmente
delimitata (con indicazione dei relativi mappali);
b) la
quantità massima di materiale estraibile è determinata in
complessivi 4.700.000 mc: di questi 1.700.000 mc sono
oggetto della richiesta di autorizzazione già presentata il
09.07.1997 e i restanti 3.000.000 mc si intendono
autorizzabili in un secondo momento (per il rilascio della
prima autorizzazione è fissato il termine indicativo del 31.03.1999 e lo stesso termine vale per il rilascio della
concessione mineraria riguardante i due mappali di proprietà
di terzi, con la specificazione che in ogni caso gli atti
autorizzativi non possono ritardare di oltre 30 mesi dalla
stipula dell’accordo di programma);
c) l’attività estrattiva
deve comunque terminare entro il 30.06.2006;
d) le ditte
del Consorzio dell’Isola si impegnano a cedere gratuitamente
ai Comuni tutte le aree di loro proprietà inserite
nell’ambito estrattivo BP8g al momento del rilascio
dell’autorizzazione relativa all’escavazione di 1.700.000 mc
conservando il diritto di usufrutto sino al termine
dell’attività estrattiva e comunque non oltre il 30.06.2006;
e) il trasferimento della nuda proprietà è sottoposto
a una condizione risolutiva costituita dal rilascio
dell’autorizzazione all’escavazione di 3.000.000 mc entro il
31.03.2002: in caso contrario ai Comuni è riservata la
scelta tra la retrocessione delle aree e l’acquisizione
definitiva delle stesse al prezzo di espropriazione;
f) gli
impianti devono essere completamente smantellati entro il 30.06.2010 previo ripristino ambientale del sito.
La
dichiarazione del 16.03.1999 precisa che i termini
indicati nell’atto unilaterale d’obbligo si intendono
prorogati sino alla definizione dei procedimenti
autorizzativi dell’attività di escavazione.
8. L’intesa tra le parti pubbliche è stata raggiunta con
l’accordo di programma stipulato in data 17.03.1999 dai
Comuni di Calusco d’Adda, Medolago e Solza, dalla Provincia,
dalla Regione e dal Consorzio del Parco Adda Nord. Questo
accordo non è stato sottoscritto né dal Consorzio dell’Isola
né dalle ditte che ne fanno parte.
La finalità dichiarata
dagli enti pubblici è di ottenere la cessazione
dell’attività di escavazione (che i Comuni considerano una
fonte di rischio ambientale) entro un termine certo
assicurando nel contempo alle ditte del Consorzio dell’Isola
la possibilità di estrarre una congrua quantità di materiale
(stimata dal Consorzio del Parco Adda Nord precisamente in
3.000.000 mc, che si aggiungono alla quantità di 1.700.000
mc già prevista dal piano cave del 1990).
Il bilanciamento
di interessi è definito negli stessi termini esposti
nell’atto unilaterale d’obbligo (v. sopra al punto 7), con
la precisazione che il rilascio dell’autorizzazione per lo
scavo di 3.000.000 mc presuppone l’adeguamento del piano
cave e del piano del Parco Adda Nord. Vi è difformità nella
previsione relativa allo smantellamento degli impianti (per
il quale è indicato il termine finale del 31.12.2008).
9. La procedura per il rilascio dell’autorizzazione allo
scavo di 1.700.000 mc è proseguita con la sottoscrizione da
parte del Consorzio dell’Isola di tre distinte (ma analoghe)
convenzioni con i Comuni di Calusco d’Adda (20 maggio 1999),
Medolago (21.05.1999) e Solza (04.05.1999). Tali
convenzioni, previste dall’art. 15 della LR 14/1998 quali
condizioni necessarie per il rilascio dell’autorizzazione,
riportano l’elenco delle aree da scavare e il contributo
spettante ai Comuni per le spese collegate alla presenza
delle cave.
Nella medesima convenzione (per quanto riguarda
il Comune di Medolago) e in atti separati (per gli altri due
Comuni) il Consorzio dell’Isola ha inoltre assunto obblighi
ulteriori (versamenti di somme una tantum, realizzazione di
strade e piste ciclabili, costruzione di impianti sportivi).
In data 28.05.1999 è stata stipulata anche una
convenzione con il Consorzio del Parco Adda Nord.
10. L’autorizzazione allo scavo di 1.700.000 mc è stata
rilasciata dalla Provincia in due parti: una prima
autorizzazione annuale per 480.000 mc con DGP n. 828 del 12
ottobre 1999 (a cui si aggiunge la concessione mineraria
triennale riguardante lo sfruttamento dei mappali n. 968 e
449 di proprietà di terzi) e una seconda autorizzazione per
1.220.000 mc con determinazione dirigenziale n. 1284 del 13.06.2001. In realtà quest’ultimo provvedimento indica un
quantitativo superiore (1.340.000 mc) perché si è tenuto
conto del materiale non utile (120.000 mc) scavato sulla
base della prima autorizzazione.
Essendo ormai scaduto (in
data 2 maggio 2000) il vecchio piano cave la seconda
autorizzazione è stata rilasciata in regime transitorio
sulla base di quanto previsto dall’art. 42, comma 2, della LR
14/1998. Il termine finale della seconda autorizzazione è
stato fissato al 02.05.2003 per quanto riguarda
l’attività di estrazione e al 02.05.2005 per gli
interventi di ripristino ambientale. Con determinazione
dirigenziale n. 2950 del 07.10.2002 il termine per
l’estrazione è stato prorogato al 20.09.2003, e il
termine per il ripristino ambientale è stato prorogato al 20.09.2005.
11. Benché con il rilascio delle autorizzazioni riguardanti
lo scavo di 1.700.000 mc si fosse realizzato il presupposto
per il trasferimento delle aree ai Comuni secondo quanto
previsto dall’atto unilaterale di impegno del 29.07.1998
e dall’accordo di programma (v. sopra ai punti 7 e 8) le
parti non hanno proceduto in questo senso ma hanno
ridefinito i reciproci rapporti prendendo come riferimento
la successiva fase di escavazione.
12. Precisamente, in data 20.12.2002 il Consorzio
dell’Isola ha chiesto alla Provincia, ancora in regime
transitorio, l’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc
quale prima parte del quantitativo di 3.000.000 mc previsto
dall’accordo di programma.
Al fine di ottenere la predetta autorizzazione (nonché la
proroga della concessione mineraria relativa al mappale n.
968) il Consorzio dell’Isola e le ditte che lo compongono
hanno sottoscritto in data 05.12.2003 un’integrazione
all’atto unilaterale d’obbligo con il seguente contenuto:
a)
l’escavazione complessiva di 3.000.000 mc (suddivisa in due
blocchi rispettivamente di 1.225.000 mc e di 1.775.000 mc)
deve essere conclusa entro il 31.12.2008;
b) rimane
confermato l’impegno delle ditte del Consorzio dell’Isola a
cedere gratuitamente ai Comuni tutte le aree di loro
proprietà inserite nell’ambito estrattivo BP8g (di cui è
riportato l’elenco);
c) tuttavia la cessione è graduata
diversamente: tutte le aree sono cedute entro 15 giorni dal
rilascio dell’autorizzazione all’escavazione di 1.225.000 mc
(e dalla proroga della concessione mineraria relativa al
mappale n. 968) ma per una parte (aree elencate al paragrafo
2.1) la cessione è a titolo definitivo mentre per la
restante parte (aree elencate al paragrafo 2.2) è sottoposta
a condizione risolutiva;
d) tale condizione è costituita dal
rilascio dell’autorizzazione all’escavazione di 1.775.000 mc
entro il 31.12.2006: se la condizione non si realizza
ai Comuni è riservata la scelta tra la retrocessione e
l’acquisizione definitiva al prezzo di espropriazione; e) il
diritto di usufrutto si conserva (su tutte le aree) fino al
31.12.2008 per quanto riguarda l’attività estrattiva e
prosegue fino al 31.12.2010 per gli interventi di
ripristino ambientale.
13. L’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 è stato
recepito dai Comuni attraverso le successive convenzioni
stipulate con il Consorzio dell’Isola ai sensi dell’art. 15
della LR 14/1998. La sottoscrizione è avvenuta
rispettivamente il 15.12.2003 (Comuni di Calusco
d’Adda e Solza) e il 16.12.2003 (Comune di Medolago).
Le convenzioni riportano l’elenco delle aree da scavare e il
contributo spettante ai Comuni per le spese collegate alla
presenza delle cave. Anche in questo caso come già nel 1999
il Consorzio dell’Isola ha assunto obbligazioni ulteriori,
nella medesima convenzione (per quanto riguarda il Comune di Medolago) e in atti separati (per gli altri due Comuni): si
tratta di versamenti di somme una tantum e della
realizzazione di opere di urbanizzazione e di manutenzione
della viabilità comunale.
14. La Provincia con determinazione dirigenziale n. 1291 del
06.04.2004, preso atto della stipula delle convenzioni
con i Comuni, ha autorizzato lo scavo di 1.225.000 mc e la
proroga della concessione mineraria relativa al mappale n.
968 (in entrambi i casi è stato dato termine fino al 31.12.2004 per l’estrazione e fino al 31.12.2006
per il recupero ambientale). Con determinazione dirigenziale
n. 4579 del 03.12.2004 questi termini sono stati così
prorogati: fino al 07.10.2006 per l’estrazione e fino al 07.10.2008 per il recupero ambientale.
15. L’autorizzazione allo scavo del restante quantitativo di
1.775.000 mc non è mai stata rilasciata. Il ritardo può
essere addebitato alla situazione di incertezza causata
dalla mancanza del nuovo piano cave, che seppure adottato
nel 2004 (v. sopra al punto 1) non è ancora stato
definitivamente approvato. Nel piano in itinere l’ambito
estrattivo BP8g è stato mantenuto con la denominazione di
ATEg31.
La superficie prevista è di 58,5 ettari con una
produzione consentita di 3.500.000 mc nel decennio di
validità. Quale destinazione finale è ancora prevista quella
agricola e naturalistica con fruizione pubblica (da
ripristinare entro il 2010). Tra le prescrizioni è inserito
un richiamo all’accordo di programma del 17.03.1999 e al
successivo aggiornamento: in particolare si precisa che nel
totale dei 3.500.000 mc consentiti sono compresi i 500.000
mc scavati dopo il 31.12.2002 e i 3.000.000 mc
previsti dall’accordo di programma.
Il Consorzio dell’Isola
ha presentato osservazioni alla Regione il 19.04.2006 e
il 25.05.2006 chiedendo tra l’altro l’ampliamento
dell’ambito estrattivo a 63,1 ettari, l’eliminazione di ogni
riferimento all’accordo di programma del 17.03.1999 e al
relativo aggiornamento, e l’eliminazione della data del 2010
quale termine ultimo tanto per l’escavazione quanto per il
recupero ambientale. Al momento della decisione della
presente controversia è in corso l’istruttoria in sede
consiliare.
16. I Comuni con nota del 12.05.2004 (e successivi
solleciti del 05.07.2005, 23.09.2005, 18.11.2006, 23.11.2006 e 24.11.2006) hanno chiesto al
Consorzio dell’Isola di cedere le aree indicate nell’atto
unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 (v. sopra al punto
12) essendosi verificato il presupposto consistente nel
rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc e
nella proroga della concessione mineraria relativa al
mappale n. 968. Il Consorzio dell’Isola e le ditte che lo
compongono hanno però rifiutato preferendo attendere il
nuovo piano cave.
17. Al fine di ottenere la cessione delle suddette aree i
Comuni di Calusco d’Adda, Medolago e Solza hanno presentato
ricorso con atto notificato il 22.12.2006 e depositato
il 04.01.2007. In particolare i Comuni chiedono che sia
accertato l’obbligo di cessione gratuita sorto in seguito al
rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.225.000 mc e
alla proroga della concessione mineraria relativa al mappale
n. 968, e che sia pronunciata una sentenza ai sensi
dell’art. 2932 cc. che tenga luogo del contratto di
cessione.
Il Consorzio dell’Isola e le società Beton Villa spa e Cava
dell’Isola srl si sono costituiti in giudizio chiedendo la
reiezione delle domande dei ricorrenti sia in rito (per
difetto di giurisdizione) sia nel merito, e proponendo a
loro volta tre domande:
a) annullamento, risoluzione o
dichiarazione di nullità dell’atto unilaterale d’obbligo del
05.12.2003;
b) annullamento o dichiarazione di nullità
delle convenzioni del 1999 e del 2003 con le quali il
Consorzio dell’Isola ha assunto obblighi ulteriori nei
confronti dei Comuni;
c) condanna dei Comuni a restituire
gli importi spesi o versati dal Consorzio dell’Isola e dalle
ditte componenti sulla base delle suddette convenzioni
(somma stimata in € 1.128.549,03 per il Comune di Calusco
d’Adda, € 905.070,19 per il Comune di Medolago, e €
223.295,39 per il Comune di Solza) oltre a interessi e
rivalutazione.
18. Per quanto riguarda la giurisdizione si osserva che
l’atto unilaterale d’obbligo del 05.12.2003 ridefinisce
il contenuto del precedente atto unilaterale del 29.07.1998, il quale a sua volta è richiamato nell’accordo di
programma del 17.03.1999. Quest’ultimo è stato previsto
dalla revisione del piano cave del 1997 quale condizione per
le successive autorizzazioni provinciali allo scavo.
Gli
atti unilaterali sono richiamati anche nelle convenzioni del
1999 e del 2003 tra il Consorzio dell’Isola e i Comuni
ricorrenti in vista del rilascio delle autorizzazioni
provinciali. Risulta quindi evidente che gli atti
unilaterali sono dichiarazioni di volontà inserite in un più
ampio quadro negoziale che integra le premesse e il
contenuto dei provvedimenti amministrativi riguardanti
l’attività estrattiva.
Si sottolinea al riguardo che il principale obbligo previsto
negli atti unilaterali, ossia l’impegno a cedere le aree di
proprietà da parte delle ditte che compongono il Consorzio
dell’Isola, è strutturato in due forme: a) cessione gratuita
nel caso di rilascio dell’autorizzazione allo scavo
dell’intera quantità di materiale preventivata; b) cessione
onerosa (con corrispettivo pari all’indennità di
espropriazione) nel caso di autorizzazione parziale.
La possibilità di cedere a prezzo di espropriazione è una
facoltà prevista dall’art. 14, comma 3, della previgente LR 30.03.1982 n. 18 per il caso in cui il piano cave stabilisca
una destinazione finale di tipo pubblico (come nel caso in
esame): il contenuto puntuale di tale facoltà è poi rimesso
agli accordi tra le parti. A sua volta l’art. 15, comma 2,
della LR 14/1998 disciplina la possibilità per le parti di
convenire la cessione dell’area di escavazione una volta
esaurito il giacimento.
Gli atti unilaterali e il quadro negoziale in cui gli stessi
si collocano rappresentano un’applicazione particolare delle
suddette norme, e dunque si inseriscono pienamente nella
categoria degli accordi integrativi di cui all’art. 11 della
legge 07.08.1990 n. 241. Per questi accordi la
giurisdizione amministrativa riguarda non soltanto la
formazione e la conclusione ma anche l’esecuzione.
19. Passando al merito, occorre approfondire il meccanismo
di scambio tra le parti.
Come si è visto sopra ai punti 7 e 12, mentre il primo atto
unilaterale (29.07.1998) prevedeva la cessione gratuita
al momento del rilascio dell’autorizzazione allo scavo di
1.700.000 mc sotto la condizione risolutiva costituita dal
rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 3.000.000 mc
entro il 31.03.2002, nel secondo atto unilaterale (05.12.2003) la cessione segue all’autorizzazione allo
scavo di 1.225.000 mc (e alla proroga della concessione
mineraria relativa al mappale n. 968) ma la condizione
risolutiva (costituita dal rilascio dell’autorizzazione allo
scavo di 1.775.000 mc entro il 31.12.2006) riguarda solo una
parte delle aree (quelle elencate al paragrafo 2.2).
In
entrambi i casi la cessione delle aree è collegata alla
prosecuzione dell’escavazione nella fase transitoria.
L’elemento che differisce (a parte i riferimenti temporali)
è unicamente la misura delle aree che sono soggette
all’eventualità della retrocessione o dell’acquisto a prezzo
di espropriazione (tutte le aree nel primo atto unilaterale,
solo una parte nel secondo).
Poiché si tratta di
quantitativi di sabbia e ghiaia di cui si dispone in via
anticipata rispetto al nuovo piano cave, che rappresenta la
cornice regolatoria indispensabile per ratificare
l’escavazione già avvenuta e per individuare il limite delle
nuove autorizzazioni, si può ritenere che le parti abbiano
negoziato sul presupposto che il nuovo piano cave consenta
l’escavazione di materiale per almeno 3.000.000 mc.
Risulta infatti chiaro l’intento delle parti di raggiungere
un equilibrio economico basato sullo scambio tra la
consumazione del territorio per un valore economico
corrispondente a 3.000.000 mc di materiale (oltre al
quantitativo di 1.700.000 già garantito dal vecchio piano
cave) e l’acquisto gratuito al patrimonio comunale delle
aree per la successiva fruizione pubblica.
Il trasferimento
della proprietà prima che sia verificata la possibilità di
estrarre l’intero quantitativo di 3.000.000 mc sulla base
del nuovo piano cave creerebbe una distorsione non
bilanciata dalla clausola di retrocessione, sia perché la
retrocessione è prevista per una parte soltanto delle aree
sia perché può essere sostituita a scelta dei Comuni con il
pagamento del prezzo di espropriazione (che rappresenta un
valore indennitario non coincidente con il valore di
mercato).
Senza un’adeguata provvista di materiale nel nuovo piano
cave non è quindi possibile rispettare l’equilibrio
economico voluto dalle parti.
Per questo motivo
l’approvazione del nuovo piano cave e la
previsione all’interno dello stesso della possibilità di
estrarre materiale per almeno 3.000.000 mc configurano una presupposizione comune, ossia, secondo la
definizione accettata in giurisprudenza
(v. Cass. civ. Sez. II 14 agosto 2007 n. 17698; Cass. civ.
Sez. III 25 maggio 2007 n. 12235; Cass. civ. Sez. III 24
marzo 2006 n. 6631), una condizione non
sviluppata o inespressa (in questo caso di diritto), avente
carattere oggettivo, a cui è subordinata la persistenza
degli effetti derivanti dal contratto.
20. Occorre precisare che il nuovo piano cave può
condizionare sotto il profilo dell’efficacia ma non può
travolgere la sistemazione di interessi voluta dalle parti,
che si radica nella disciplina del vecchio piano e ha dato
origine a posizioni ormai cristallizzate. L’eventuale
speranza dei privati che il nuovo piano cave contenga una
disciplina più favorevole rimane una semplice riserva
mentale e non consente agli stessi di sottrarsi agli
obblighi assunti, i quali formano la legge speciale
dell’ambito estrattivo in questione.
Pertanto non è
condivisibile la tesi del Consorzio dell’Isola e delle
società Beton Villa spa e Cava dell’Isola srl secondo cui
gli atti unilaterali e l’accordo di programma sarebbero
destinati a rimanere senza effetti in mancanza del nuovo
piano cave e verrebbero comunque sostituiti dallo stesso una
volta entrato in vigore.
Sotto il primo profilo è vero che nell’accordo di programma
si precisa che il rilascio dell’autorizzazione per lo scavo
di 3.000.000 mc presuppone l’adeguamento del piano cave (v.
sopra al punto 8) ma questa clausola non è mai stata intesa
dalle parti come una condizione sospensiva, e in effetti a
ciascun atto unilaterale sono seguite le autorizzazioni
provinciali allo scavo (v. sopra ai punti 10 e 14) e così il
Consorzio dell’Isola ha potuto estrarre dapprima un
quantitativo di materiale pari a 1.700.000 mc e poi un altro
pari a 1.225.000 mc.
Poiché il comportamento delle parti è
un parametro di interpretazione dei contratti (art. 1362
cc.) risulta chiaro che nella rappresentazione comune il
nuovo piano cave non è la condizione per effettuare
l’escavazione ma l’atto amministrativo che accertando
definitivamente la quantità massima di materiale scavabile
consolida la composizione di interessi già definita.
21. Più in dettaglio per quanto riguarda le conseguenze del
nuovo piano cave, escluso che lo stesso possa sciogliere le
parti dai vincoli assunti convenzionalmente, occorre
distinguere: a) il caso in cui sia prevista una quantità di
materiale inferiore a quella presupposta dalle parti; b) il
caso in cui tale quantità coincida; c) il caso in cui sia
prevista una quantità superiore.
Nella prima ipotesi sarebbe impossibile autorizzare per
intero lo scavo di 1.775.000 mc e dunque sarebbe necessario
avviare nuove trattative per ridefinire l’acquisizione delle
aree da destinare alla fruizione pubblica tenendo conto del
quantitativo di materiale scavabile. Nella seconda ipotesi
vi sarebbe il consolidamento puro e semplice delle
statuizioni delle parti.
Infine nella terza ipotesi vi
sarebbe parimenti il consolidamento degli impegni assunti
dalle parti e sorgerebbe la necessità di disciplinare in
separata sede lo scavo della quantità eccedente e il regime
delle eventuali aree non prese in considerazione dalle
parti.
22. Gli altri elementi previsti dagli atti unilaterali,
dall’accordo di programma e dalle convenzioni finalizzate
all’escavazione devono essere interpretati all’interno del
quadro generale sopra delineato. In particolare la
tempistica deve essere letta tenendo conto sia
dell’evoluzione dei rapporti tra le parti sia dei ritardi
della procedura autorizzativa derivanti a cascata dalla
mancata approvazione del nuovo piano cave.
Della possibilità
di ritardi le parti erano consapevoli fin dall’inizio, come
risulta dalle specificazioni sul carattere indicativo dei
termini e dalla dichiarazione del 16.03.1999 che
chiarisce il significato del primo atto unilaterale (v.
sopra al punto 7). Dunque è irrilevante tanto il fatto che
la procedura autorizzativa non si sia conclusa nei termini
previsti dal primo atto unilaterale quanto il fatto che non
sia ancora stata autorizzata l’escavazione dell’ultimo
blocco di materiale pari a 1.775.000 mc.
Con riguardo in particolare a quest’ultima circostanza si
ribadisce che il superamento del termine del 31.12.2006 non incide sull’accordo nel suo complesso ma sulla
retrocessione (oltretutto parziale) delle aree, la quale
rimane una facoltà dei Comuni ricorrenti in alternativa al
pagamento di un prezzo pari all’indennità di espropriazione.
23. Interpretando l’accordo secondo buona fede (art. 1366
cc.) si deve ritenere che se non viene rispettato il termine
per il rilascio dell’autorizzazione allo scavo devono essere
correlativamente differiti i termini per la conclusione
dell’attività estrattiva e per il ripristino ambientale.
Poiché le parti hanno definito un intervallo minimo di 2
anni tra l’ultimo giorno utile per il rilascio
dell’autorizzazione (31.12.2006) e il completamento
dell’escavazione (31.12.2008), nonché un intervallo di
altri 2 anni per gli interventi di ripristino ambientale (31.12.2010), i medesimi intervalli devono essere
riconosciuti a partire dalla data della futura
autorizzazione allo scavo di 1.775.000 mc.
L’equilibrio
economico viene in questo modo salvaguardato secondo
l’intenzione comune delle parti garantendo a ciascuna il
conseguimento del proprio interesse (come descritto sopra al
punto 19) ma seguendo una diversa modulazione temporale (che
peraltro potrebbe essere ridefinita dal nuovo piano cave o
da ulteriori accordi tra le parti). In questa ricostruzione
l’unico adempimento che rimane privo di un termine preciso è
il rilascio dell’autorizzazione allo scavo di 1.775.000 mc.
Si tratta però di un elemento integrabile secondo i principi
generali (art. 1183 cc.) tenendo conto delle circostanze già
utilizzate dalle parti nella definizione dei reciproci
rapporti, e quindi considerando da un lato l’esigenza del
Consorzio dell’Isola di proseguire senza soluzione di
continuità nell’estrazione e dall’altro l’esigenza di
verificare se effettivamente il piano cave in itinere
consenta l’autorizzazione di un tale quantitativo
(circostanza che appare probabile sulla base dello schema
attualmente disponibile: v. sopra al punto 15). Pertanto
l’autorizzazione dovrà essere rilasciata entro un termine
ragionevole (in considerazione degli adempimenti istruttori)
a partire dall’entrata in vigore del nuovo piano cave.
24. Le questioni circa la validità dell’atto unilaterale
d’obbligo del 05.12.2003 e degli obblighi aggiuntivi
assunti mediante le convenzioni del 1999 e del 2003 (v.
sopra ai punti 9 e 13) non possono essere esaminate in
questa sede come azioni perché non è stato instaurato il
contraddittorio mediante ricorso incidentale (v. CS Sez. V
31.01.2001 n. 353) ma devono essere prese in
considerazione come eccezioni di merito astrattamente idonee
a impedire l’accoglimento del ricorso. Peraltro gli
argomenti del Consorzio dell’Isola e delle società Beton
Villa spa e Cava dell’Isola srl non sono condivisibili.
Gli atti unilaterali e le predette convenzioni non sono atti
posti in essere al di fuori dei principi dell’ordinamento:
al contrario (come si è visto sopra al punto 18) fanno parte
del procedimento autorizzativo e sono uno strumento
legittimamente utilizzabile per garantire il conseguimento
di finalità pubbliche. Non si tratta neppure di atti
annullabili per violenza ai sensi dell’art. 1434 cc. o per
minaccia ex art. 1438 cc. con riguardo al rischio di
cessazione dell’attività estrattiva.
In concreto le parti,
attraverso contatti che si sono protratti nel tempo, hanno
raggiunto un bilanciamento di interessi basato su una stima
attendibile delle potenzialità estrattive del sito
(contestata solo ex post nel presente giudizio dai
resistenti, che affermano ora la presenza di riserve
illimitate). A fronte dell’interesse economico collegato
all’escavazione doveva necessariamente essere tutelato
l’interesse pubblico alla conservazione del territorio, che
costituisce una causa legittima di limitazione delle
aspettative dei cavatori. Non vi è stato quindi alcun abuso
da parte delle amministrazioni ma la semplice attuazione
della regia pubblica prevista dalla revisione del piano cave
del 1997 (v. sopra al punto 4).
Per quanto riguarda poi gli impegni ulteriori rispetto a
quelli previsti dall’art. 15 della LR 14/1998 si osserva che
valgono in proposito considerazioni analoghe a quelle svolte
dalla giurisprudenza circa la legittimità delle convenzioni
urbanistiche contenenti per i privati oneri maggiori di
quelli previsti ex lege (v. CS Sez. IV 28.07.2005 n.
4015; TAR Brescia 10.01.2007 n. 2).
Nei settori dove i privati consumano risorse di interesse
pubblico (sotto questo profilo non vi è differenza tra il
territorio, l’ambiente o il materiale estrattivo) la ricerca
di un punto di equilibrio tra interessi privati e pubblici
passa normalmente attraverso atti negoziali nei quali la
definizione dei rispettivi obblighi e vantaggi è lasciata
alla disponibilità delle parti. Pertanto le somme spese o
versate sulla base delle convenzioni del 1999 e del 2003 non
sono ripetibili.
25. Tenendo conto delle considerazioni svolte ai punti
precedenti la domanda dei Comuni ricorrenti, che ha come
oggetto una sentenza ex art. 2932 cc., non può essere
accolta integralmente. Occorre precisare che l’azione ex
art. 2932 cc. ha un duplice contenuto, accertativo e
costitutivo. L’accertamento del diritto è pregiudiziale alla
pronuncia che tiene luogo del contratto e comporta l’esame
della validità e dell’efficacia del negozio posto a
fondamento della domanda (v. Cass. civ. Sez. II 28.05.2007
n. 12398).
Per questa parte il ricorso risulta fondato, in quanto è
stato accertato che il Consorzio dell’Isola e le ditte che
lo compongono sono obbligati a cedere gratuitamente ai
Comuni ricorrenti tutte le aree di loro proprietà indicate
nell’atto unilaterale del 05.12.2003. Alla pronuncia di
accertamento non può tuttavia essere associata quella
costitutiva. Come si è visto sopra ai punti 19 e 21
l’equilibrio economico definito dalle parti può essere
mantenuto solo qualora il nuovo piano cave consenta
l’escavazione di almeno 3.000.000 mc.
La presenza di questa presupposizione non consente di
emettere una sentenza che produca gli effetti del contratto,
in quanto fino all’entrata in vigore del nuovo piano cave
non vi è la certezza legale della quantità di materiale
scavabile. Peraltro la pronuncia di accertamento e quella
costitutiva possono essere scisse, anche quando
l’accertamento riguardi un diritto condizionato (nel caso in
esame la presupposizione opera analogamente a una condizione
risolutiva).
Si osserva in proposito che la giurisprudenza considera
ammissibile l'azione di accertamento di un diritto
sottoposto a condizione in quanto, anche per il diritto
condizionato, l'interesse ad agire deriva dalla sussistenza
di un oggettivo stato di incertezza che l'attore ha
interesse a rimuovere (v. Cass. civ. lav. 19.02.2000
n. 1936).
26. In conclusione è accertato il diritto dei Comuni
ricorrenti a ottenere la cessione gratuita di tutte le aree
indicate nell’atto unilaterale del 05.12.2003 ma è
respinta la richiesta di una sentenza che produca gli
effetti del contratto. Di conseguenza il Consorzio
dell’Isola e le ditte che lo compongono dovranno effettuare
direttamente la cessione gratuita, nel temine stimato
congruo di 120 giorni dall’entrata in vigore del nuovo piano
cave, una volta verificato che lo stesso contiene una
provvista di volumetria di almeno 3.000.000 mc.
La
complessità di alcune questioni consente l’integrale
compensazione delle spese tra le parti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.09.2008 n. 1132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Allorquando un privato venda un immobile con
l'obbligo del comune acquirente di destinarlo alla
realizzazione di un centro scolastico e, successivamente, il
comune ne modifichi la destinazione urbanistica e lo ceda a
privati per realizzare insediamenti residenziali e terziari,
non ricorrono i presupposti per dichiarare risolto il
contratto, sotto il profilo della presupposizione, per il
venir meno di un presupposto tenuto presente dai contraenti
nella formazione del loro consenso e condizionante
l'esistenza ed il permanere del vincolo negoziale.
Ciò poiché la compravendita costituisce momento attuativo di
una convenzione urbanistica che non priva il comune del
potere di imprimere alle aree (interessate da una anteriore
cessione) una diversa destinazione, la quale è situazione
dipendente dalla volontà dello stesso comune.
----------------
Nel resto è sufficiente rilevare che, secondo l'accertamento
risultante dalla decisione impugnata, la
compravendita rappresentava il momento attuativo di una
convenzione urbanistica che, come questa Corte ha avuto più
volte occasione di affermare
(cfr.: Cass. civ., sez. 2^, sent. 28.08.2000, n. 11208;
Cass. civ., sez. 1^, sent. 08.06.1995, n. 6482),
non priva il Comune del potere di imprimere una
diversa destinazione alle aree interessate da una anteriore
cessione, e non lo strumento negoziale attraverso il quale,
in presenza di un piano di localizzazione e, in ogni caso,
di una dichiarazione di pubblica utilità, il privato
soggiace al diritto del Comune di acquisire la proprietà
della superficie con conseguente assenza di libertà
dell'ente di determinarsi diversamente in ordine alla sua
utilizzazione
(cfr.: Cass. civ., sez. 1^, sent. 15.05.1997, n. 4293).
Esattamente, quindi, la decisione di
secondo grado, dopo avere premesso, in applicazione di
principi ripetutamente affermati da questa Corte,
che la presupposizione nel contratto di una futura
situazione, di fatto o di diritto, ricorre quanto, pur in
mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle relative
clausole, la stessa è stata tenuta presente dai contraenti
nella formazione del loro consenso come presupposto avente
valore determinante ai fini dell'esistenza e del permanere
del vincolo contrattuale, e la sua esistenza, cessazione e
verificazione abbia carattere obiettivo, in quanto sia del
tutto indipendente dall'attività o dalla volontà dei
contraenti e non costituisca oggetto di una loro specifica
obbligazione (cfr.: Cass. civ., sez. 3^, sent. 24.03.2006,
n. 6631; Cass. civ., sez. 2^, sent. 23.09.2004, n. 19144;
Cass. civ., sez. 1^, sent. 21.11.2001, n. 14629),
ha escluso la sussistenza in concreto di una ipotesi
di presupposizione essendo la conservazione od il mutamento
della destinazione dell'area una variabile esterna al
contratto in quanto dipendente dalla volontà del Comune
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.08.2007 n. 17698). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Presupposizione, causa, differenze, motivi,
differenze.
Presupposizione – causa – differenze – motivi –
differenze – criteri di interpretazione contrattuale –
comportamento delle parti.
La presupposizione non è prevista
da alcuna norma di legge, ma costituisce un principio
dogmatico (di matrice tedesca), che viene costantemente
definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto
(passata, presente o futura) tenuta in considerazione -pur
in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole
contrattuali- dai contraenti nella formazione del loro
consenso come presupposto condizionante la validità e
l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o
inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto
indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non
corrisponde -integrandolo- all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro.
A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante
solamente laddove se ne individui un autonomo e specifico
rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi -essenziali o accidentali- del contratto.
A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa
ricondursi fatti e circostanze ascrivibili alla causa, nel
senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio
significato di causa concreta, quale interesse che
l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare: i cd.
presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano
dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e
pertanto appunto la causa dello stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di
invalidità del contratto (e su tale piano, diversamente che
in passato, da una parte della dottrina viene ora
propriamente ricondotto il classico esempio del balcone
affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento
riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso
realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla
causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con
la venuta meno della medesima, per la conseguente invalidità
del negozio).
Alla presupposizione non possono essere propriamente
ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare
la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono
a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto
conseguentemente ridondando sul diverso piano
dell'inadempimento.
La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto
dall'acquirente costituisce invero una qualità giuridica
dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè
trattisi di qualità dovuta) rileva sul piano
dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di
inadempimento (ad es. la perdita della qualità di
edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della
P.A., con conseguente impossibilità della prestazione
legittimante la risoluzione del contratto).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le
circostanze presi in considerazione dalle parti vengano
specificamente dedotti in contratto come condizione di
efficacia, giacché a parte il rilievo che non vi sarebbe
altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente
figura, la presupposizione costituisce fenomeno
oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i
fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti
specificamente dedotti in una clausola condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno a fortiori tenuti
i motivi, quali meri impulsi psichici alla stipulazione
concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva
interna della parte, esulano dal contenuto del contratto,
laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il
contratto è funzionaiizzato a realizzare, concorrendo
pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi
sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al
riguardo in rilievo l'istituto della presupposizione,
giacché l'interesse comune integra appunto la causa concreta
del contratto.
Come correttamente osservato in dottrina, alla
presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di
categoria unificante assumente specifico significato laddove
nell'ambito delle circostanze giuridicamente influenti sul
contratto ad essa si riconducano, quali presupposti
oggettivi, fatti e circostanze che, pur non attenendo alla
causa del contratto o al contenuto della prestazione,
assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse,
ma con relativo riconoscimento da parte dell'altra)
un'importanza determinante ai fini della conservazione del
vincolo contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere -come detto- dedotte
specificamente quale condizione del contratto, e pertanto
rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed
oggettivo presupposto di efficacia in base al significato
proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri
legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per
il mantenimento del vincolo contrattuale (es. l'ottenimento
dello sperato finanziamento).
Il relativo difetto legittima allora le parti non già a
domandare una declaratoria di invalidità o di inefficacia
del contratto, né a chiederne la risoluzione per
impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c., art. 1463 c.c. e
ss.) della prestazione, bensì all'esercizio del potere di
recesso (anche qualora il presupposto obiettivo del
contratto sia già in origine inesistente o impossibile a
verificarsi).
Nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione
continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su
di se il rischio degli eventi che alterino il valore
economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti
rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi
pertanto da ciascun contraente presente al momento della
stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua
della dovuta diligenza.
Per interpretare correttamente la volontà contrattuale delle
parti, bisogna considerare anche il comportamento.
---------------
MASSIMA
Sotto il primo profilo il ricorrente in particolare si duole
che la corte di merito abbia escluso, violando la legge ed
illogicamente motivando, la ricorrenza nel caso della figura
della presupposizione, da rinvenirsi
allorquando "una determinata situazione
di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa
ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione
del loro consenso -pur in mancanza di un espresso
riferimento ad essa nelle clausole contrattuali come
presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non
sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine:
1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti;
2) che l'evento supposto sia stato assunto come certo nella
rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione
differisce dalla condizione);
3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente
cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui
verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e
volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo,
all'oggetto di una specifica obbligazione
(Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass.
21.11.2001 n. 14629).
Sicché la "presupposizione è ...
configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che
le parti abbiano inteso concluderlo soltanto
subordinatamente all'esistenza di una data situazione di
fatto che assurga a presupposto comune e determinante della
volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la
caducazione del contratto stesso, ancorché a tale
situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia
fatto espresso riferimento"
(Cass. 09.11.1994, n. 9304)".
Orbene, la presupposizione
-vale anzitutto osservare- non è invero
prevista da alcuna norma di legge, ma costituisce un
principio dogmatico (di matrice tedesca) contestato da gran
parte della dottrina, che vi ravvisa una condizione non
sviluppata del negozio o un motivo non assurto a clausola
condizionale, ma accolto in giurisprudenza anche di
legittimità, ove viene costantemente definita come obiettiva
situazione di fatto o di diritto (passata, presente o
futura) tenuta in considerazione -pur in mancanza di un
espresso riferimento nelle clausole contrattuali- dai
contraenti nella formazione del loro consenso come
presupposto condizionante la validità e l'efficacia del
negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui
venir meno o verificarsi è del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde
-integrandolo- all'oggetto di una specifica obbligazione
dell'uno o dell'altro
(v. Cass., 23/09/2004, n. 19144; Cass., 04/03/2002, n. 3052;
Cass., 21/11/2001, n. 14629; Cass., 08/08/1995, n. 8689).
Va al riguardo ulteriormente precisato che,
come posto in rilievo da una parte della dottrina,
la presupposizione costituisce in realtà un fenomeno
articolato, cui vengono ricondotti fatti e circostanze sia
di carattere obiettivo che valorizzati dalla volontà delle
parti.
A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante
solamente laddove se ne individui un autonomo e specifico
rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi -essenziali
o accidentali- del contratto.
A tale stregua deve pertanto escludersi che
possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili
alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione
nel suo proprio significato di causa concreta, quale
interesse che l'operazione contrattuale è diretta a
soddisfare (cfr.
Cass., 08/05/2006, n. 10490).
I cd. presupposti causali assumono infatti
rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica
l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa dello
stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di
invalidità del contratto (e su tale piano, diversamente che
in passato, da una parte della dottrina viene ora
propriamente ricondotto il classico esempio del balcone
affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento
riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso
realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla
causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con
la venuta meno della medesima, per la conseguente invalidità
del negozio).
Alla presupposizione non possono essere propriamente
ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare
la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono
a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto
conseguentemente ridondando sul diverso piano
dell'inadempimento.
La circostanza che il bene sia idoneo
all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una
qualità giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso
(in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva sul piano
dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di
inadempimento (ad
es. la perdita della qualità di edificabilità del terreno
promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente
impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione
del contratto: cfr. Cass., 19/03/1981, n. 1635).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in
cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle
parti vengano specificamente dedotti in contratto come
condizione di efficacia, giacché a parte il rilievo che non
vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e
differente figura, la presupposizione costituisce fenomeno
oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i
fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti
specificamente dedotti in una clausola condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno
a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi
psichici alla stipulazione concernenti interessi che,
rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano
dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati
divengono viceversa interessi che il contratto è
funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad
integrarne la causa concreta. Ed anche se essi sono comuni
ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in
rilievo l'istituto della presupposizione, giacché
l'interesse comune integra appunto la causa concreta del
contratto.
Come correttamente osservato in dottrina,
alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo
rilievo di categoria unificante assumente specifico
significato laddove nell'ambito delle circostanze
giuridicamente influenti sul contratto ad essa si
riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e
circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto
o al contenuto della prestazione, assumono (per entrambe le
parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo
riconoscimento da parte dell'altra) un'importanza
determinante ai fini della conservazione del vincolo
contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere -come detto- dedotte
specificamente quale condizione del contratto, e pertanto
rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano
specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al
significato proprio del negozio determinato alla stregua dei
criteri legali d'interpretazione, assumenti valore
determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale
(es. l'ottenimento dello sperato finanziamento).
Il relativo difetto legittima allora le parti non già a
domandare una declaratoria di invalidità o di inefficacia
del contratto, né a chiederne la risoluzione per
impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c., art. 1463 c.c. e
ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass.,
22/09/1981, n. 5168 ), bensì all'esercizio del potere di
recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del
contratto sia già in origine inesistente o impossibile a
verificarsi).
Nel caso di specie il ricorrente, che non ha esercitato il
recesso, non deduce la violazione della causa o dell'oggetto
o della condizione del contratto, ma lamenta invero
l'erroneità della ravvisata esclusione di rilevanza nel caso
proprio della specifica figura della presupposizione,
dolendosi che la corte di merito non abbia accolto il
prospettato riverberarsi sul relativo profilo causale.
Sul piano della validità del contratto, dunque. Ovvero,
secondo ulteriore ed alternativa impostazione, su quello
della inefficacia del contratto laddove i fatti e le
circostanze che la integrano determinano l'eccessiva
onerosità sopravvenuta della prestazione.
Orbene, va al riguardo affermato che in base al significato
del contratto -accertato facendo esercizio dei poteri loro
spettanti- i giudici del merito hanno invero escluso,
dandone congrua motivazione, che nel caso le parti abbiano
assegnato rilievo, quale specifico presupposto oggettivo,
all'idoneità al normale funzionamento dell'impianto di
depurazione in questione.
A fronte della questione già in sede di gravame di merito
oggetto di censura da parte dell'allora appellante Comune,
la corte d'appello ha infatti al riguardo posto in rilievo
che "la semplice lettura delle premesse e dell'art. 2 del
contratto evidenzia come, a fronte dell'impegno dell'Ilva
spa di trasferire al Comune la proprietà di un consistente
appezzamento di terreno di sua proprietà e di garantirne il
funzionamento, l'Ente locale avesse assunto l'obbligo di
fornire alla società, ripartiti uniformemente in un
ventennio, duecento milioni di metri cubi di acqua trattata
e depurata nell'impianto realizzando "o eventualmente
proveniente in tutto o in parte da altre fonti sostitutive"
con le modalità ed alle condizioni nel contratto in seguito
elencate".
Altresì sottolineando essere "evidente come una
tale prospettazione dei reciproci obblighi, con l'aggiunta
nel quadro complessivo della fornitura costante di ossigeno
al depuratore a prezzo di costo, accollasse al Comune il
rischio di avvenimenti successivi che per malfunzionamento
dell'impianto determinassero il ricorso per la fornitura di
acqua a risorse esterne a quelle offerte dal depuratore e,
quindi, in realtà attribuissero al Comune l'onere di
apprestare e realizzare un impianto idoneo ad evitare il
verificarsi di una tale onerosa eventualità ... infatti,
sebbene alle condizioni che saranno in seguito meglio
illustrate, la fornitura di acqua sostitutiva si presentava
in contratto non come subordinata, ma, semplicemente, come
alternativa a quella depurata".
Se ne è quindi tratto che "l'impianto, nell'esclusivo
interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle
obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere
realizzato anche in funzione di prevedibili scarichi abusivi
industriali che, per la zona in cui il medesimo era
collocato e per la rete di fognature che avrebbe dovuto
fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione
diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua
realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di
Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare
il fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi ...
cioè il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed
anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a
quella depurata, dimostrava così di essere ben consapevole
che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi
abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere,
avesse determinato il malfunzionamento del depuratore
impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso
non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione
del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole
aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine
appare significativo osservare come in un apposito paragrafo
(punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate
le caratteristiche chimico-fisiche minime dell'acqua da
fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato
posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la
tubatura idonea a permettere la consegna uniforme dell'acqua
proveniente da fonti sostitutive".
Il rischio della fornitura sostitutiva, si sottolinea
nell'impugnata sentenza, era stato cioè assunto come rischio
ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva
attribuirsi, in ogni caso, alla società conferente il
terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante
dal malfunzionamento dell'impianto di depurazione. Tanto più
che, comunque, nulla prova la natura inusuale o meglio
straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti
verificatisi, né in se stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, né nelle
loro dimensioni, mentre in tale contesto (tra l'altro i
malfunzionamenti sembrano essere iniziati nel 1985 e
proseguiti a partire dal 1989) non vi sono in causa elementi
minimi idonei che consentano di affidare ad un tecnico
l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con
adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la
predetta situazione continuando a fornire acqua depurata
idonea ad usi industriali.
Tale interpretazione della corte di merito risulta invero
correttamente operata e congruamente motivata, in conformità
ai principi più sopra richiamati, da essa con tutta evidenza
emergendo come l'idoneità dell'impianto di depurazione al
normale funzionamento nella specie in realtà inerisca alla
qualità giuridica del bene. A tale stregua, pertanto, quale
presupposto intrinseco della prestazione
dall'Amministrazione comunale nel caso contrattualmente
assunta, il cui difetto se del caso diversamente rileva,
alla stregua di quanto sopra esposto, sul piano
dell'inadempimento.
La censura del ricorrente non può trovare d'altro canto
accoglimento nemmeno riguardando l'inidoneità al normale
funzionamento del depuratore de quo sotto il profilo
dell'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Va al riguardo anzitutto esclusa
l'ammissibilità della prospettazione dell'eccessiva
onerosità sopravvenuta della prestazione quale conseguenza
del venir meno della presupposizione.
Pur se in passato da questa Corte in effetti non sempre
respinta (v. Cass., 17/05/1976, n. 1738), va al riguardo
osservato che -come in dottrina non si e invero mancato di
porre in rilievo- il riferimento alla
presupposizione viene a far inammissibilmente ridondare
l'eccessiva onerosità sul piano dell'interpretazione del
contratto, laddove essa viceversa rileva a prescindere dalla
volontà delle parti, quale rimedio dall'ordinamento concesso
in reazione all'alterazione non già dei presupposti
specifici (valorizzati appunto dalla presupposizione) bensì
dei presupposti generici del contratto, subordinandone cioè
il mantenimento alla persistenza delle normali condizioni di
mercato e di vita sociale su di esso incidenti.
L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione
(diversamente dalla più sopra evocata impossibilità
sopravvenuta della prestazione, quale rimedio
all'alterazione del cd. sinallagma funzionale che rende
irrealizzabile la causa concreta) non incide sulla causa del
contratto, non impedendo l'attuazione dell'interesse con
esso concretamente perseguito, ma trova diversamente
fondamento nell'esigenza di contenere entro limiti di
normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione,
salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo
eccezionale aggravamento economico derivante da gravi cause
di turbamento dei rapporti socio-economici.
Mentre nei contratti a titolo gratuito
l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il
valore originario della prestazione ed il valore successivo,
trattandosi come nella specie di contratto oneroso(pennuta),
l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i
valori delle prestazioni, laddove una prestazione non trova
più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva
(v. Cass., 13/02/1995, n. 1559).
Atteso un tanto, risponde invero a
principio recepito che, per poter ai sensi dell'art. 1467
c.c. determinare la risoluzione del contratto a prestazioni
corrispettive ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad
esecuzione differita, l'eccessiva onerosità sopravvenuta
della prestazione deve essere determinata dal verificarsi di
avvenimenti straordinari ed imprevedibili.
Il carattere della straordinarietà è di natura obiettiva,
qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi
(come la frequenza, le dimensioni, l'intensità, ecc.)
suscettibili di misurazione, tali pertanto da consentire,
attraverso analisi quantitative, classificazioni quantomeno
di ordine statistico
(v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/02/2001, n. 2661;
Cass., 09/04/1994, n. 3342).
Il carattere della imprevedibilità deve
essere valutato secondo criteri obiettivi, riferiti ad una
normale capacità e diligenza media, avuto riguardo alle
circostanze concrete del caso sussistenti al momento della
conclusione del contratto
(v. Cass., 13/02/1995, n. 1559), non
essendo invero sufficiente l'astratta possibilità
dell'accadimento.
L'accertamento da parte del giudice di merito della
sussistenza o meno dei caratteri di straordinarietà ed
imprevedibilità degli eventi che hanno determinato
l'eccessiva onerosità di una delle prestazioni corrispettive
previste in contratti ad esecuzione differita spetta
peraltro al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di
legittimità in presenza di congrua motivazione
(v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/02/2001, n.
2661).
Orbene, il Comune ricorrente basa la propria odierna
impugnazione sulla distinzione tra meri "casi eccezionali
specificamente previsti" di variazione e "impossibilità
assoluta di effettuare la depurazione dell'acqua con le
pattuite caratteristiche" quale fattore di alterazione
dell'"equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi
appunto di permuta)".
A parte il rilievo che nell'adombrare siffatta
prospettazione omette di considerare che il mutamento di
valore concerne nel caso entrambe le prestazioni, laddove in
presenza di contratto come nella specie oneroso l'aggravio
consiste -come sopra esposto- nella sopravvenuta
sproporzione tra i valori delle prestazioni corrispettive, e
non già nella sopravvenuta sproporzione tra il valore
originario ed il valore successivo della singola prestazione
(viceversa rilevante per i contratti a titolo gratuito),
dovendo pertanto considerarsi non solamente il valore della
prestazione a suo carico in ragione del diverso costo
dell'acqua oggetto di fornitura ma anche il valore dei beni
immobili ricevuti in permuta con relativa valutazione
comparativa in ragione dei rispettivi attualizzati valori
che non risulta nel caso invero compiuta, va osservato che
diversamente da quanto dal medesimo lamentato la corte di
merito ha invero esaminato e specificamente disatteso
l'argomento secondo cui si sia nel caso trattato di un
evento imprevedibile.
Nel sottolineare che il fenomeno dell'allaccio abusivo di
scarichi era al contrario senz'altro prevedibile, a
fortiori per chi -come appunto l'odierno ricorrente- è
addirittura investito ex lege della funzione pubblica
di controllare e monitorare nonché regolare in concreto gli
interventi in materia, anche avvalendosi dei poteri di
competenza quale soggetto di diritto pubblico ("da ciò
consegue come l'impianto, nell'esclusivo interesse dello
stesso Comune e nell'ambito delle obbligazioni dedotte a suo
carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione
di prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona
in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature
che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito
della previsione diligente di chiunque avesse dovuto
interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un
soggetto come il Comune di Genova, incaricato per legge di
fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente
degli scarichi abusivi"), non configurandosi invero al
riguardo il pericolo di commistione di funzione e di ruoli
paventato dal ricorrente, la corte di merito ha invero posto
in rilievo come nel caso le parti abbiano espressamente
preso in considerazione l'eventualità del non corretto
funzionamento dell'impianto di depurazione, specificamente
prevedendo in contratto una prestazione sostitutiva ("il
Comune, consapevole che l'Italsider non intendeva correre
alcun rischio relativo a inadeguatezze dell'impianto di
depurazione, circa l'entità e la qualità dell'acqua da
ricevere in contropartita della cessione del terreno, se ne
è accollato totalmente il carico anche economico, chiedendo
un contributo del 30%, come subito dopo nel contratto
specificato, nel solo caso in cui il ricorso a fonti
sostitutive fosse reso necessario da cause di forza maggiore
consistenti in eventi naturali, tra cui pacificamente non
rientrano gli scarichi abusivi di cui si tratta;
... dunque, non essendo indicati limiti al minor rendimento
ed essendo anzi addirittura prevista la continuità
dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore
e per i casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali,
non sembra sostenibile, di fronte all'obbligo inderogabile
di rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno
per l'Italsider, la tesi per cui possa ritenersi caso
eccettuato od imprevedibile quello di inidoneità permanente
dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di un
evento tra l'altro così prevedibile come quello degli
scarichi abusivi, sia pure di rilievo").
Costituisce d'altro canto principio recepito in
giurisprudenza di legittimità quello per il quale nei
contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione
continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su
di se il rischio degli eventi che alterino il valore
economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti
rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi
pertanto da ciascun contraente presente al momento della
stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua
della dovuta diligenza (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989).
Orbene, in esplicazione dei poteri ad essi spettanti i
giudici di merito hanno nel caso accertato essere stato tale
fenomeno invero contrattualmente previsto e regolato "il
Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per la
totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella
depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un
qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi
era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse
determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo
l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe
potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto,
pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico
della sua prestazione ... a questo fine appare significativo
osservare come in un apposito paragrafo") (punto C dell'art.
5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche
chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto
A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del
Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a
permettere la consegna "uniforme" dell'acqua proveniente da
fonti sostitutive ... cioè il rischio della fornitura
sostitutiva era stato assunto come rischio ordinario del
contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in
ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una
parte dell'onere economico derivante dal mal-funzionamento
dell'impianto di depurazione ... d'altra parte e comunque,
nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed
imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, né in
se stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti,
riferibili agli anni 1990-1991, né nelle loro dimensioni
...".
Né può d'altro canto nella specie assegnarsi in qualche modo
rilievo alla tesi dottrinaria secondo cui la sopravvenienza
di circostanze pur prevedibili rende comunque eccessivamente
gravosa, e pertanto inesigibile, l'adempimento della
prestazione, giacché come si è al riguardo da altra parte
della dottrina correttamente obiettato si viene in tal caso
a vertere in tema d'inadempimento, e non già di alterazione
dell'economia contrattuale (Corte di Cassazione, Sez. III
civile,
sentenza 25.05.2007 n. 12235 - link a
www.altelax.com). |
ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA:
La cessione volontaria costituisce un contratto
c.d. ad oggetto pubblico che si inserisce necessariamente
nell'ambito del procedimento di espropriazione, che
l'espropriando ha il diritto di convenire in seguito ad un
subprocedimento predisposto dalla L. n. 865 del 1971, art.
12 e ad un prezzo pur esso predeterminato in base a criteri
inderogabili stabiliti dalla legge del tempo, che costui può
soltanto accettare (o rifiutare); e che ha anche l'effetto
di porre termine al procedimento, eliminando la necessità
dell'emanazione del decreto di espropriazione (richiesto,
invece, nel caso di mancata accettazione dell'offerta) e
dello svolgimento del subprocedimento di determinazione
dell'indennità definitiva.
Da qui gli elementi costitutivi indispensabili per
configurarla e che valgono altresì a differenziarla dalla
compravendita di diritto comune:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un
procedimento espropriativo del quale, dunque, la cessione
costituisce un momento avente la funzione di conseguirne il
risultato peculiare (acquisizione della proprietà
dell'immobile all'espropriante) con uno strumento
alternativo di natura privatistica;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo
della dichiarazione di P.U. dell'opera realizzanda, ma anche
del subprocedimento di determinazione dell'indennità da
parte dell'espropriante che deve essere da quest'ultimo
offerta e dall'espropriando accettata (puramente e
semplicemente) con la sequenza e le modalità previste dal
menzionato art. 12;
c) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo deve
correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge
stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per
la sua espropriazione, dai quali non è possibile in alcun
modo discostarsi.
---------------
La presupposizione è configurabile solo quando dal contenuto
del contratto risulti che le parti abbiano inteso
concluderlo subordinatamente all'esistenza di una data
situazione di fatto che assurga a presupposto della volontà
negoziale, la mancanza del quale provoca la caducazione del
contratto, ancorché a tale situazione comune ad entrambi i
contraenti non si sia fatto nell'atto espresso riferimento;
l'indagine diretta all'identificazione della sussistenza di
una presupposizione costituisce accertamento riservato
all'apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in
sede di legittimità, se sorretto da una motivazione immune
da vizi logici e giuridici (nella specie, la S.C. ha
giudicato incensurabile la sentenza impugnata, che aveva
ritenuto non ravvisare ipotesi di presupposizione, in
relazione ad una compravendita, nella destinazione a
edilizia scolastica di un immobile acquistato da un Comune,
non trattandosi di base obiettiva influente sull'assetto
degli interessi delle parti, corrispondendo invece allo
scopo soggettivo per cui l'amministrazione acquirente,
previo esperimento della procedura di evidenza pubblica, si
era determinata alla stipulazione del contratto).
...
2. Con il primo motivo del ricorso, C.A., deducendo
violazione della L. n. 2359 del 1865, art. 13 e 39, della L.
n. 17 del 1962, art. 2, L. n. 1063 del 1962, art. 7, L. n.
1358 del 1964, art. 2, L. n. 1 del 1978, n. 1, nonché delle
Leggi Rag. Lombarda n. 40 del 1974, censura la sentenza
impugnata per aver respinto la domanda di retrocessione per
mancanza di un contratto di cessione volontaria e di un
procedimento espropriativo senza considerare:
a) che sussisteva una valida dichiarazione di P.U.
dell'opera da realizzare, contenuta nel D.P.R. Lombarda
21.12.1977, ancora valido al tempo della cessione perché il
termine di 36 mesi da esso previsto riguardava soltanto
l'inizio dei lavori ed aveva quindi natura meramente
ordinatoria;
b) che il termine di decadenza della dichiarazione di P.U.
introdotto dalla L. n. 1 del 1978, art. 1, non era
applicabile a fattispecie espropriative previste da
normative speciali, quali la Legge reg. Lombardia n. 40 del
1974;
c) che in data 12.12.1979, in cui era ancora in corso il
predetto termine di 36 mesi, l'amministrazione comunale
aveva approvato il primo programma pluriennale di attuazione
del piano di fabbricazione del comune, relativo agli
interventi da attuare nel triennio 1979/1981, comprendente
l'acquisizione dell'ex Convento ubicato nell'immobile in
questione;
d) che in data 30.06.1981 era stato definitivamente
approvato il P.R.G. del comune di Chiavenna; per cui
l'inclusione di un'area privata in detto piano che ne
contemplava la destinazione alla realizzazione di edifici
scolastici, assumeva comunque valore di dichiarazione di
P.U.;
e) che tanto nel decreto sindacale di accesso nell'immobile
in data 22.10.1981, quanto in ogni altro atto del comune e
nello stesso rogito notarile si dava atto della procedura
espropriativa in corso;
f) che il prezzo della cessione corrispondeva a quello di
legge essendo stato individuato tenendo conto del valore
venale del terreno già edificato ed in misura sicuramente
inferiore, come accertato dalla consulenza tecnica
espletata, al prezzo di mercato dell'epoca.
2.1. Il motivo è del tutto inconsistente.
Il ricorrente muove infatti dal presupposto che la cessione
dell'immobile prevista dalla L. n. 865 del 1971, art. 12,
comma 1, e L. n. 359 del 1992, art. 5-bis, si distingua
dalla vendita di cui agli art. 1470 cod. civ. e segg., solo
sotto un profilo temporale, funzione del momento in cui sia
stata stipulata rispetto alla dichiarazione di P.U., nel
senso che se questo momento è successivo, essa debba
ritenersi compiuta "in costanza di procedura
espropriativa" (pag. 15) ed assumere sempre e comunque
tale nomen iuris piuttosto che quello di
compravendita; e quanto al prezzo, che la differenza sia
meramente quantitativa nel senso che soltanto nella vendita
di diritto comune -e non anche nella cessione- esso possa o
debba raggiungere il valore di mercato dell'immobile.
Ragion per cui anche in questo grado del giudizio ha
incentrato le proprie difese sull'asserita preesistenza di
una dichiarazione di P.U., prospettata come ancora valida ed
efficace, alla data (01.12.1981) del rogito notarile che ne
ha operato il trasferimento; e sulla non corrispondenza del
prezzo di cessione convenuto tra le parti nella misura di L.
420.000.000 all'effettivo valore commerciale del bene
asseritamene stimato dalla consulenza eseguita nel giudizio
di primo grado nel maggior importo di L. 795.000.000, perciò
solo qualificando il contratto di cessione volontaria
conclusa nell'ambito di detta procedura ablativa ed
invocando il diritto di ottenere la chiesta retrocessane
dell'immobile per essersi verificati i presupposti dalla L.
n. 2359 del 1865, art. 63, della mancata esecuzione
dell'opera pubblica programmata e della scadenza dei termini
assegnati dalla dichiarazione di P.U..
Sennonché questa Corte fin dalle pronunce meno recenti ha
specificato che la cessione volontaria
costituisce un contratto c.d. ad oggetto pubblico che si
inserisce necessariamente nell'ambito del procedimento di
espropriazione, che l'espropriando ha il diritto di
convenire in seguito ad un subprocedimento predisposto dalla
L. n. 865 del 1971, art. 12 e ad un prezzo pur esso
predeterminato in base a criteri inderogabili stabiliti
dalla legge del tempo, che costui può soltanto accettare (o
rifiutare); e che ha anche l'effetto di porre termine al
procedimento, eliminando la necessità dell'emanazione del
decreto di espropriazione (richiesto, invece, nel caso di
mancata accettazione dell'offerta) e dello svolgimento del
subprocedimento di determinazione dell'indennità definitiva
(Cass. 17102/2002; 8970/2001; 14901/2000).
Da qui gli elementi costitutivi
indispensabili per configurarla e che valgono altresì a
differenziarla dalla compravendita di diritto comune:
a) l'inserimento del contratto nell'ambito di un
procedimento espropriativo del quale, dunque, la cessione
costituisce un momento avente la funzione di conseguirne il
risultato peculiare (acquisizione della proprietà
dell'immobile all'espropriante) con uno strumento
alternativo di natura privatistica;
b) la preesistenza nell'ambito del procedimento non solo
della dichiarazione di P.U. dell'opera realizzanda, ma anche
del subprocedimento di determinazione dell'indennità da
parte dell'espropriante che deve essere da quest'ultimo
offerta e dall'espropriando accettata (puramente e
semplicemente) con la sequenza e le modalità previste dal
menzionato art. 12;
c) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo deve
correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge
stabiliti per la determinazione dell'indennità spettante per
la sua espropriazione, dai quali non è possibile in alcun
modo discostarsi
(Cass. 24589/2005; 11435/1999; 4759/1996; 2513/1994).
In conformità a questi principi, risultava già decisivo per
escludere la ricorrenza di una cessione volontaria quanto
accertato dalla sentenza impugnata (pag. 10) in merito a
queste ultime due condizioni, che cioè l'amministrazione
comunale non aveva determinato l'indennità provvisoria di
espropriazione di cui al ricordato dalla L. n. 865 del 1971,
art. 12 e non l'aveva offerta ai C. che conseguentemente non
avevano potuto accettarla; e, per converso, che il prezzo di
vendita era stato concordato tra le parti con contratto
preliminare del 27.10.1961 -e poi recepito nel rogito
definitivo dell'1 dicembre successivo- in seguito a perizia
estimativa stragiudiziale, eseguita per incarico del comune
con riferimento al valore venale dell'immobile: senza alcuna
correlazione, dunque, con i parametri di stima
dell'indennità allora costituiti dalla L. n. 385 del 1980,
che ne aveva reintrodotto la determinazione sia pure a
titolo provvisorio, e con salvezza espressa di conguaglio,
in base ai valori tabellari di cui alla L. n. 865 del 1971,
art. 16.2.2.
Il C. non ha, infatti, contentato alcuna di dette
circostanze, che ha anzi confermato nel ricorso (pag. 25 e
segg.) ove ha riferito di averle prospettate fin dall'atto
introduttivo del giudizio (pag. 3, 4, 9), per cui divengono
del tutto ininfluenti le considerazioni sulla dedotta non
corrispondenza del prezzo di vendita -determinato dalle
parti al di fuori della procedura ablativa e dei criteri
inderogabili dalla stessa predisposti- con quelli effettivi
di mercato praticati nel 1981 nel comune di Chiavenna per
immobili aventi caratteristiche analoghe.
Ma perde soprattutto di rilievo il dibattito riproposto nel
ricorso, sull'esistenza di una procedura ablativa in corso
alla data del rogito notarile, che il comune ha escluso in
radice ravvisando nel D.Pr. Regione Lombardia 21.12.1977 la
mera individuazione, conforme alla previsione della L.R. n.
40 del 1974, art. 9 (da cui secondo lo stesso ricorrente e
la sentenza impugnata era disciplinata la realizzazione
dell'opera pubblica), delle aree all'interno del territorio
comunale da adibire ad edilizia scolastica: poi seguita nel
termine di 36 mesi concesse dal provvedimento dalla
specificazione delle relative opere nel successivo programma
pluriennale di attuazione del 12.12.1979 che ha indicato
anche l'edificio scolastico da realizzare sul terreno del
C.. E che, per converso quest'ultimo non è riuscito a
dimostrare neppure nel ricorso attribuendo al termine in
questione efficacia meramente acceleratoria di previsione
della sola data di inizio "dei lavori e delle eventuali
espropriazioni" posto che l'assunto comporterebbe
addirittura la nullità della dichiarazione di P.U. ravvisata
dalla sentenza impugnata nel provvedimento suddetto, in
quanto priva dei termini finali della L. n. 2359 del 1865,
ex art. 13, per il loro compimento e perché l'omissione non
potrebbe considerarsi integrata e sanata neppure dagli atti
e dai provvedimenti successivi indicati dal ricorrente
(Cass. Sez. un. 9532/2004; 460/1999; 11351/1998).
D'altra parte, non può giovargli neanche l'addebito rivolto
alla sentenza impugnata di non aver collegato i
provvedimenti urbanistici adottati dal comune di Chiavenna
nel triennio 1979-1981 ed individuato nel loro succedersi la
localizzazione dell'opera scolastica programmata dal comune,
anzitutto, perché in mancanza del progetto richiesto della
L.R. n. 40 del 1974, art. 10, non e ravvisabile alcuna
(nuova) dichiarazione di P.U. (per il principio di tipicità
dei provvedimenti amministrativi non ricavabile da atti
dell'amministrazione, rivolti per legge a finalità diverse).
E, soprattutto per il fatto obbiettivo che quest'ultima
costituisce soltanto il presupposto (pur indispensabile) per
l'insorgenza del potere ablativo; per cui era necessario
altresì documentare che il procedimento oltre ad essere
iniziatoci era svolto ed era stato portato a compimento con
le modalità ed i contenuti richiesti dalla L. n. 865 del
1971, art. 12, per configurare la conclusione del contratto
di cessione volontaria.
Laddove lo stesso C. li ha ulteriormente e definitivamente
esclusi trascrivendo nel ricorso la delibera consiliare
28.10.1981, n. 103, con cui il comune sul presupposto che
l'immobile in questione avesse una destinazione pubblica
specifica ex art. 42 Cost., e potesse dunque essere
sottoposto ad espropriazione, rinveniva l'opportunità e la
convenienza di provvedere al suo acquisto diretto dai
proprietari mediante un negozio di diritto comune e senza
necessità di ricorso a pur possibili procedure
espropriative.
3. Con il secondo motivo, il ricorrente, deducendo
violazione degli artt. 1321 e segg., art. 1325, 1467 e 1418,
cod. civ. , nonché dei principi in materia di
presupposizione, addebita alla sentenza impugnata di aver
escluso la nullità del contratto e comunque la risoluzione
di esso per essere mancata o venutamene la presupposizione
sulla quale le parti lo avevano fondato, senza considerare:
a) l'intero sviluppo procedimentale della vicenda dal quale
risulta che la realizzazione di opere di edilizia scolastica
nel centro di Chiavenna aveva costituito il presupposto
comune che aveva indotto le parti a stipulare la vendita;
b) che ogni atto posto in essere dall'amministrazione
evidenziava e confermava l'esistenza del fine pubblico
dell'utilizzazione suddetta; che contestare siffatte
circostanze significherebbe addebitare al comune di
Chiavenna un comportamento contrario al principio di buona
fede, a sua volta causa di invalidità contrattuale;
c) che il fatto presupposto non aveva potuto realizzarsi per
il venir meno di alcuni dati obbiettivi esterni alla volontà
del comune, quali la modificazione legislativa delle
competenze comunali nella materia a favore delle Province;
d) che egli, infine, non aveva denunciato la contrarietà del
contratto a norme imperative, bensì la nullità della
cessione per assenza di causa, ove fosse stata accertato il
difetto della situazione presupposta già al momento della
conclusione del negozio.
Anche questo motivo è del tutto infondato.
3.1. Al riguardo il collegio deve rilevare, anzitutto, che
quando sulla controversia sia intervenuta sentenza
d'appello, questa si sostituisce completamente alla sentenza
di primo grado, anche se sia interamente confermativa della
precedente; e quindi, che tanto la portata della decisione,
quanto le situazioni di fatto e di diritto che devono
ritenersi accertate vanno desunte esclusivamente in base ai
criteri ed ai limiti della nuova motivazione della sentenza
di appello (Cass. 15185/2003; 14892/2000).
Sicché avendo la Corte di Appello respinto le domande
subordinate del C. di risoluzione e di nullità del contratto
di vendita fondate sull'asserita presupposizione che
l'immobile dovesse essere destinato ad edilizia scolastica,
per aver ritenuto che non ne ricorrevano gli elementi
costitutivi -che detta destinazione si sostanziasse in un
presupposto obbiettivo, essendo invece imputabile al
comportamento stesso dell'acquirente- nessun rilievo può
essere attribuito:
a) alle circostanze che sarebbero risultate pacifiche nel
procedimento di primo grado, quali le dichiarazioni
dell'amministrazione comunale sull'esistenza della
dichiarazione di P.U. e di un procedimento espropriativo in
atto;
b) agli accertamenti al riguardo che sarebbero stati
compiuti dalla sentenza del Tribunale, peraltro non
riportata nel ricorso, anche con riferimento ai vantaggi di
natura fiscale che avrebbero indotto il comune ad acquistare
il terreno (circostanza questa riportata dalla decisione
impugnata come mera "prospettazione dell'appellante",
e poi ritenuta ininfluente con riguardo alla ratio
decidendi recepita: pag. 12).
E devono, del pari, dichiararsi inammissibili i tentativi
del ricorrente di ampliare il thema decidendum,
nonché la causa petendi dell'originaria domanda
subordinata con la prospettazione di asseriti comportamenti
del comune comprovanti naia fede durante l'esecuzione del
contratto, nonché, ancor prima, durante le trattativa al
fine di mutare l'intendimento originario dei C. di non
vendere l'immobile (pag. 34); o rivolti a trarli in errore
sulla situazione urbanistica e sulla destinazione
pubblicistica di questo, o addirittura a coartarne la
volontà che li indusse alla conclusione del rogito notarile
(pag. 32).
E di conseguenza gli addebiti mossi alla decisione di non
averli esaminati e valorizzati, in quanto il vizio di omessa
pronuncia o di omesso esame di punti decisivi (Cass.
10156/2004; 3692/2003) non è configurabile con riguardo a
deduzioni estranee al thema della presupposizione,
nonché a circostanze prive di qualsiasi rapporto di
causalità logica con le situazioni che il ricorrente era
tenuto a dimostrare per confermarne la ricorrenza nel
contratto di vendita.
3.2. La presupposizione,
infatti, come già rilevato dalla Corte di Appello,
è configurabile solo quando dal contenuto del
contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo
subordinatamente all'esistenza di una data "situazione di
fatto" che assurga a presupposto della volontà
negoziale, la mancanza del quale comporta appunto la
caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione
comune ad entrambi i contraenti (ed indipendente, nel suo
verificarsi, dalla volontà dei medesimi) non si sia fatto,
nell'atto, espresso riferimento
(Cass. 19563/2004; 19144/2004; 14629/2001).
L'istituto, pertanto, estende la sua
configurazione generica tanto al campo della condizione come
a quello del presupposto in quanto l'evento può essere
presente, passato o futuro; ma si specifica rispetto all'uno
e all'altra in quanto la sua esistenza non risulta da una
dichiarazione, ma dalle stesse circostanze di fatto che i
contraenti abbiano tenuto presente come premessa implicita
del consenso, indipendentemente dalla loro volontà, onde la
presupposizione viene sistematicamente intesa a guisa di una
condizione inespressa.
E l'indagine diretta a stabilire se una determinata
situazione sia stata dai contraenti, nella formulazione del
consenso, tenuta presente secondo il delineato schema si
esaurisce sul piano propriamente interpretativo del
contratto, costituisce, anch'essa, una valutazione di fatto
riservata al Giudice del merito; ed è incensurabile sede di
legittimità ove immune di vizi logici e giuridici
(Cass. 3083/1998; 191/1995).
In ottemperanza a questi principi la sentenza impugnata con
motivazione che non presta il fianco a censura, ha escluso
che la destinazione del complesso immobiliare dei C. ad uso
di edilizia scolastica abbia rappresentato una base
obiettiva influente sull'assetto degli interessi delle
parti, corrispondendo, invece, allo scopo soggettivo che
aveva mosso l'amministrazione acquirente alla conclusione
del contratto; e sul quale anche dopo il rogito avrebbe
potuto incidere soltanto il comportamento di quest'ultima.
E la Corte deve rilevare che si trattava dello scopo imposto
all'autorità comunale direttamente dalla legge che non
poteva perciò mancare né nel suddetto negozio, né come
evidenziato dallo stesso ricorrente, nei provvedimenti
amministrativi che lo hanno preceduto, individuando esso
l'interesse pubblico specifico cui deve essere preordinato
qualsiasi atto della pubblica amministrazione sia esso di
natura pubblicistica, che come nel caso concreto, di diritto
Comune; e che nella fattispecie era necessario al comune per
legittimare l'intero procedimento amministrativo nonché il
negozio di esso conclusivo per l'acquisizione dell'immobile
C. (cfr. del R.D. n. 383 del 1934, art. 284 nonché alla L.
n. 142 del 1990, art. 56, secondo cui la determinazione a
contrarre deve indicare tra l'altro "il fine che con il
contratto si intende perseguire").
E' noto, infatti, che l'attività della P.A.
anche quando meramente discrezionale non e mai libera (come
quella dei privati), ma rivolta comunque a conseguire nel
caso concreto l'interesse collettivo generale, nonché fra i
diversi fini pubblici perseguibili nell'ambito di un
medesimo potere attribuitole, lo speciale interesse
collettivo che sta alla base del particolare compito
amministrativo da attuare nel caso specifico, che, attenendo
dunque all'aspetto funzionale di ogni atto dalla stessa
compiuto, rappresenta lo scopo ultimo inerente al potere
pubblico esercitato nel caso concreto ed è perciò immanente
all'atto da compierei nel duplice senso che esso non può
mancare e non essere esplicitato nelle forme previste
dall'evidenza pubblica nell'atto medesimo, e che,
costituendone la specifica funzione istituzionale, neppure
l'autorità amministrativa che lo ha adottato può
discostarsene.
Questa regola,
ricorrente con maggior rigore negli atti amministrativi
incidenti sulla proprietà privata, come le espropriazioni
per P.U. la cui legittimità è subordinata dallo stesso art.
42 Cost. alla sussistenza di cause tipiche di pubblica
utilità (fra cui appunto la realizzazione di opere
pubbliche), non viene meno allorquando
l'amministrazione per la realizzazione delle medesima
finalità, ricorra agli strumenti giuridici che sono
ordinariamente propri dei soggetti privati, quale è
certamente il contratto di compravendita, in quanto anche in
tal caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte, solo
l'attività negoziale, per tutto quel che riguarda la
disciplina dei rapporti che dalla stessa scaturiscono,
rimane assoggettata ai principi ed alle regole del diritto
comune.
Ma non per questo cessano le interferenze delle norme di
diritto pubblico attinenti in particolare alla formazione ed
estrinsecazione delle sue determinazioni che si concludono
con la delibera a contrarre, nonché all'individuazione
dell'interesse pubblico specifico da realizzare nella
fattispecie costituito proprio dalla destinazione del
terreno da acquisire con il contratto alla realizzazione di
opere di edilizia scolastica del comune, perciò da non
confondere, come
ha fatto il ricorrente (pag. 38 - 39), con
l'esistenza di un (valido) procedimento di espropriazione e
con le rappresentazioni soggettive delle parti in merito ad
essa, per tale ragione non esaminate dalla Corte di Appello.
Il che del resto
trova conferma proprio nelle considerazioni con cui costui
ha ricordato che detta finalità specifica si trova espressa
in tutti indistintamente gli atti amministrativi attraverso
cui si era svolto il procedimento rivolto a conseguire
l'acquisizione suddetta (cui si potrebbero aggiungere anche
i provvedimenti anteriori indicati dalla sentenza impugnata,
quali il menzionato D.P.R. Lombardia 21.12.1977), fino alla
delibera consiliare n. 183 del 1981, di approvazione del
ricorso al contratto di compravendita; che pur si sono
concretati in attività interna alla stessa amministrazione,
meramente preparatoria e perciò inidonea ad incidere
sull'assetto degli interessi del ricorrente, ai quali è
rimasta necessariamente estranea.
Ed ha riferito, altresì, che pur dopo la stipula del rogito
-in cui si riaffermava che l'acquisto dell'immobile era
finalizzato alla realizzazione di opere di edilizia
scolastica (pag. 29)- l'amministrazione comunale con
delibera n. 83 del 1987 aveva manifestato l'intendimento di
provvedere alla costruzione dell'edificio scolastico, non
potuto realizzare perché la L.R. n. 23 del 1996, aveva
trasferito il relativo compito alle Province: in tal modo
ribadendo che la destinazione del terreno C. ad edilizia
scolastica sia prima del contratto di compravendita, che in
occasione della stipula dell'atto ed anche successivamente
aveva costituito non già una situazione obbiettiva di fatto
esterna al contratto di compravendita; bensì un interesse
primario specifico della amministrazione comunale,
sussistente già prima di detto negozio, ribadito in
occasione della stipula dell'atto e da essa continuato a
perseguire anche successivamente fino alla perdita della
relativa competenza istituzionale per effetto delle
sopravvenute disposizioni legislative di cui si è detto.
3.3. Tutto ciò non comporta che il proprietario del bene non
sia pur esso titolare di un interesse a che l'autorità
comunale persegua effettivamente il fine istituzionale
dichiaratole che non possa denunciarne le eventuali
deviazioni, nonché più a monte, i profili di illegittimità
in cui sia incorsa nella scelta del proprio immobile in
luogo di altri, per realizzarlo o nell'applicazione delle
leggi statali e regionali invocate, nella materia
dell'edilizia scolastica.
Ma trattandosi comunque di un interesse legittimo, tanto le
menzionate violazioni di legge quanto i possibili sviamenti
dal fine suddetto, possono essere fatti valere soltanto
davanti agli organi giurisdizionali amministrativi.
4. Con il terzo motivo, deducendo violazione degli
artt. 180 e 183 cod. proc. civ., il C. si duole che la Corte
di Appello abbia confermato la declaratoria di
inammissibilità della domanda di annullamento del contratto
di vendita per errore o dolo, malgrado:
a) non corrispondesse al vero che egli l'aveva formulata
nell'udienza di trattazione, perché proposta già
nell'udienza di prima comparazione di cui all'art. 180 cod.
proc. civ.;
b) essa traeva origine dal fatto nuovo e diverso dedotto dal
comune nella comparsa di costituzione, costituito dal
riconoscimento di aver utilizzato espressioni atte a
dichiarare l'esistenza di un procedimento ablativo, non
corrispondenti alla realtà, essendo state utilizzate onde
ottenere agevolazioni fiscali a vantaggio della stessa
amministrazione;
c) si trattava in ogni caso di un nuovo e diverso fatto
giuridico, ben più rilevante di un'eccezione in senso
proprio, perché immutava i termini della controversia ed
attribuiva all'attore il diritto di avvalersi del disposto
dall'art. 183 cod. proc. civ., comma 4.
La doglianza è infondata.
Anche con riguardo a questa censura il Collegio deve
ribadire che non possono assumere rilevanza per le
considerazioni esposte nel motivo precedente
l'interpretazione della sentenza di primo grado da parte
della decisione impugnata, né le ragioni per le quali la
domanda in esame era stata considerata tardiva e, quindi,
inammissibile dal Tribunale; o il riferimento di detto
Giudice al momento processuale in cui sarebbe stata
effettivamente formulata.
Così come qualsiasi disputa sul contenuto effettivo di dette
ragioni, in quanto la decisione di primo grado non e
soggetta al controllo di legittimità ed il ricorso per
Cassazione deve dirigersi esclusivamente contro la sentenza
di appello. La quale ha confermato l'inammissibilità della
richiesta di annullamento del contratto di vendita ex artt.
1427, 1429 e 1439 cod. civ. , perché non proposta nell'atto
di citazione (come ha sempre riconosciuto lo stesso C.); e
perché non rientrante nello spazio di ammissibilità delle
domande nuove consentite all'attore dall'art. 183 cod. proc.
civ., fino alla prima udienza di trattazione.
Siffatta statuizione e le ragioni che la sostengono
risultano conformi alla giurisprudenza di questa Corte
secondo cui:
a) il quarto comma dell'art. 183 cod. proc. civ., nella
vigente formulazione, consente all'attore di proporre nella
prima udienza di trattazione domande nuove e diverse
rispetto a quella originariamente proposta solo ove trovino
giustificazione nella domanda riconvenzionale o nelle
eccezioni avanzate dal convenuto;
b) tale limitata deroga, è rivolta a tutelare la parta
attrice, a fronte di iniziative difensive della parte
convenuta che mutino i termini oggettivi della controversia,
o comunque introducano nel processo ulteriori questioni;
c) la deroga suddetta, non può essere estesa alle semplici
controdeduzioni del convenuto volte a contestare le
condizioni dell'azione; ma deve intendersi riferita
all'eccezione in senso stretto, e postula che rispetto ad
essa la nuova domanda o la nuova eccezione dell'attore
devono presentarsi come consequenziali: e quindi
configurarsi come una controiniziativa necessaria per
replicare all'eccezione medesima (Cass. 14581/2004;
12545/2004; 3991/2003).
Nel caso concreto, invece, ad entrambe le (originarie)
domande del ricorrente -quella principale di retrocessione
dell'immobile (ovvero di declaratoria di impossibilità della
stessa per la sua avvenuta irreversibile trasformazione) e
quella di risoluzione o di nullità del contratto di vendita
per il venir meno della dedotta presupposizione- il comune
di C. si è limitato a replicare che ne difettavano i
presupposti sopra evidenziati a proposito di ciascuna di
esse, ed a sollecitare l'esercizio da parte del Giudice del
potere-dovere di riscontrare la ricorrenza delle condizioni
e dei requisiti necessari per l'accoglimento delle domande
della controparte senza eccepire alcun fatto estintivo,
modificativo o impeditivo della situazione di fatto e di
diritto relativa ad ognuna, né formulare a maggior ragione
richieste riconvenzionali; per cui il dibattito si è
incentrato unicamente sulla sussistenza delle condizioni
suddette, affermate dal C. e contestate dal comune.
E la Corte di Appello le ha respinte proprio per aver
accertato che tra le parti non era
intercorsa alcuna cessione volontaria (requisito
indispensabile per l'operatività della L. n. 2359 del 1865,
art. 63); e che non poteva qualificarsi "presupposizione"
insita nel contratto di compravendita, per mancanza di tutti
i presupposti dell'istituto elaborati da dottrina e
giurisprudenza, la destinazione o utilizzazione scolastica
dell'immobile menzionata nell'atto.
Pertanto, qualunque possa essere stata la valutazione del
comune in ordine "alle prospettazioni ed alle
dichiarazioni formali, contenute nelle delibere e negli atti
comunali antecedenti e concomitanti al rogito", è certo
che la stessa non ha comportato l'allegazione di una
situazione giuridica diversa, con mutamento del fatti
affermati dall'attore, ma ha assunto carattere strumentale
di deduzione difensiva onde illustrare l'infondatezza dei
menzionati fatti costitutivi delle domande e del diritto
dedotto dalla controparte: non ha modificato il thema
decidendum da questa proposto che si è incentrato
esclusivamente su di essi.
E non è stata presa in considerazione dalla motivazione
della decisione impugnata sulla quale non ha influito sotto
nessun profilo; tant'è che il ricorrente le ha ripetutamente
mosso l'addebito di non aver esaminato le asserite
conseguenze pregiudizievoli che tali espressioni gli
avrebbero arrecato (cfr. p. 3.1).
La domanda di annullamento dal contratto per errore o dolo
ha conclusivamente introdotto una richiesta nuova per
causa petendi e natura, oltre che entità, del petitum,
solo fattualmente ed occasionalmente collegata dal
ricorrente alle dette contestazioni e difese del convenuto,
nel senso della sua proposizione in via meramente
aggiuntiva, subordinata ed alternativa per il caso di
accoglimento delle deduzioni in questione e di
consequenziale reiezione delle sue originarie domande, per
cui del tutto correttamente la Corte Territoriale l'ha
considerato estranea all'ambito di applicazione dell'art.
183 cod. proc. civ. , comma 4, e ne ha confermato
l'inammissibilità (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 11.03.2006 n. 5390). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La presupposizione è configurabile
quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di
diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia
stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del
loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad
essa nelle clausole contrattuali come presupposto
condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd.
condizione non sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il
venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del
tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e
non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro.
Si tratta, quindi, di una determinata
situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, che
non deve corrispondere all'oggetto di un'obbligazione
assunta dai contraenti.
---------------
L'istituto civilistico della
presupposizione ricorre quando una determinata
situazione di fatto o di diritto, di carattere obiettivo, si
verifichi o meno in maniera del tutto indipendente
dall'attività e dalla volontà dei contraenti e non
costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione, ma
possa comunque ritenersi tenuta presente dagli stessi nella
formazione del loro consenso come presupposto comune avente
valore determinante ai fini del permanere del vincolo
contrattuale; e non anche quando la situazione di fatto
-come nel caso di specie- sia rimessa alle scelte volontarie
discrezionali dell'amministrazione nel perseguimento del
pubblico interesse.
---------------
Nel merito il ricorso è infondato.
La convenzione stipulata il 21.05.1998 individua gli
immobili concessi in uso alla Sias (punto a dell’art. 1
della Convenzione), mentre le altre aree (punto d) “sono
escluse dalla presente concessione e rimangono a
disposizione dei Comuni comproprietari; le aree suddette
verranno concesse in uso alla Sias s.p.a. in occasioni di
manifestazioni di particolare importanza, in numero non
superiore a cinque l’anno, salvo ulteriori richieste della
Sias, da autorizzarsi preventivamente da parte dei Comuni
comproprietari”.
E’ evidente dunque che tutte queste aree sono nella piena
disponibilità dell’Amministrazione comunale, che ne
riconosce il diritto della Sias all’uso solo nei periodi di
manifestazioni sportive, come nel caso del Gran premio di
Formula 1. Solo in tali casi, la Sias ha, quindi, diritto di
regolamentarne l’uso da parte di terzi anche con recinzioni,
all’evidenza mobili, in quanto possono restare solo per il
tempo necessario alla preparazione e allo svolgimento delle
cinque manifestazioni annuali di cui alla convenzione, salvo
ulteriori autorizzazioni.
Rispetto ai cancelli, la convenzione prevede espressamente
che “tutti gli accessi attuali saranno mantenuti per le
manifestazioni di particolare importanza. Al di fuori di
tali manifestazioni, resta inteso che l’apertura e la
chiusura del Parco verranno disciplinate
dall’Amministrazione del Parco. La Sias in tal caso dovrà
utilizzare l’ingresso di Santa Maria delle Selve”.
Tale ultimo accesso, pacificamente, non è interessato
dall’intervento; rispetto agli altri accessi la Sias, in
base alla convenzione, ha diritto di regolamentarli solo
nelle manifestazioni di particolare importanza, in quanto in
tutti gli altri periodi dell’anno gli accessi sono di
competenza dell’Amministrazione del Parco.
In particolare poi l’intervento per cui è causa, essendo
stato eliminato l’intervento sull’ingresso relativo al
passaggio tra il Bosco Principe Umberto e l’area cd. del
Golf, prevede la rimozione solo del cancello dell'ingresso
pedonale cd Mirabello.
Le argomentazioni della società ricorrente per cui le
recinzioni esistenti sarebbero state pertinenze del bene in
concessione è priva di fondamento.
Le recinzioni non possono considerarsi una pertinenza.
Infatti, considerate le recinzioni come bene mobile, si
devono ritenere un bene cd. accessorio, il quale una volta
incorporato al suolo perde la sua individualità, che è
propria, invece, del bene pertinenziale.
Le pertinenze, infatti, da distinguersi sia dalle cose
composte sia dalle universalità di cose, si inquadrano nel
concetto di aggregazione funzionale e non strutturale di
cosa a cosa; al contrario costituisce parte integrante di
una cosa quella che è necessaria per la sua stessa esistenza
e che, pertanto, assurge a requisito della sua struttura,
mancando il vincolo di subordinazione tra l'"accessorium"
e il principale, richiesto dall'art. 817 c.c., con la
conseguenza che in questi casi è esclusa la natura
pertinenziale.
La circostanza che le recinzioni, che avevano delimitato in
un tempo passato le aree in concessione alla Sias, quando il
rapporto convenzionale era regolato diversamente, siano
state mantenute, non può far sorgere alcun diritto in capo
al concessionario, essendovi una esplicita regolamentazione
nella convenzione successiva alla posa delle recinzioni.
Anche la tesi che vi sarebbe una presupposizione ovvero una
condizione implicita tenuta presente dalla parti al momento
della stipulazione della convenzione è priva di fondamento.
La presupposizione è configurabile
quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di
diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia
stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del
loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad
essa nelle clausole contrattuali come presupposto
condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd.
condizione non sviluppata o inespressa), e, dall'altro, il
venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del
tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e
non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro
(Cassazione civile, sez. II, 23.09.2004, n. 19144).
Si tratta, quindi, di una determinata
situazione di fatto o di diritto, esterna al contratto, che
non deve corrispondere all'oggetto di un'obbligazione
assunta dai contraenti.
Nel caso di specie, la problematica relativa alla disciplina
degli accessi e alle recinzioni è stata infatti
espressamente regolata nella convenzione attribuendo alla
Sias il potere di regolamentare tali chiusure in
concomitanza con le manifestazioni sportive.
L'istituto civilistico della
presupposizione ricorre quando una determinata
situazione di fatto o di diritto, di carattere obiettivo, si
verifichi o meno in maniera del tutto indipendente
dall'attività e dalla volontà dei contraenti e non
costituisca oggetto di una loro specifica obbligazione, ma
possa comunque ritenersi tenuta presente dagli stessi nella
formazione del loro consenso come presupposto comune avente
valore determinante ai fini del permanere del vincolo
contrattuale; e non anche quando la situazione di fatto
-come nel caso di specie- sia rimessa alle scelte volontarie
discrezionali dell'amministrazione nel perseguimento del
pubblico interesse
(cfr. Consiglio Stato, sez. V, 29.07.2003, n. 4312).
Nel caso di specie, il mantenimento delle recinzioni e la
chiusura dei cancelli sono del tutto incompatibili con
l’assetto dei rapporti tra le parti come definito dalla
convenzione.
Ciò è confermato anche dalla clausola che prevede
espressamente l’obbligo per la Sias di aprire al pubblico la
zona denominata “Bosco Bello” (autodromo) nel periodo
dell'anno in cui l’impianto non viene normalmente utilizzato
per le manifestazioni sportive (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 16.12.2005 n. 5006 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La cessione gratuita di un'area
all'amministrazione concedente, per l'esecuzione di opere di
urbanizzazione, non trova il suo corrispettivo (e la sua
causa) nella effettiva realizzazione di quelle opere, ma,
per l'appunto, soltanto nel rilascio della concessione
edilizia, senza che il privato stipulante possa pretendere
l'annullamento della convenzione nel caso che
l'Amministrazione concedente, per qualunque motivo, decida
una diversa utilizzazione dell'area (il che può avvenire
anche per sopravvenute esigenze di pubblico interesse e,
comunque, nei limiti del legittimo esercizio della potestà
discrezionale dell'amministrazione di modificare i programmi
urbanistici).
---------------
Il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione
alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al
fine di realizzazione di opere di urbanizzazione.
---------------
Le convenzione edilizie non privano il Comune del potere di
imprimere una diversa destinazione alle aree dalle stesse
interessate.
Tale orientamento si è manifestato con riferimento ad
ipotesi in cui il Comune aveva impresso una diversa
destinazione alle aree con riferimento alle quali, nelle
convenzioni urbanistiche, era stata prevista la possibilità
di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di non
estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la
cessione al Comune da parte del privato in previsione della
realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione.
---------------
Contro tale decisione Vi.Ce. proponeva appello, che veniva
rigettato dalla Corte di appello di Palermo con sentenza del
16.04.1997, con la seguente motivazione: “Ed
invero, l'esame in punto di fatto dei problemi insorti
riguardo alla realizzazione della strada prevista sull'area
ceduta ai Comune convenuto dall'appellante, appare in
definitiva alquanto ridondante, rispetto all'affermazione da
parte dei primi giudici, del principio di diritto relativo
alla ininfluenza della effettiva utilizzazione dell'area da
parte del Comune convenuto secondo le previsioni della
convenzione stipulata tra le parti ex art. 10 L. 765/1967.
Le convenzioni urbanistiche, infatti, hanno natura
contrattuale (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. V 04.01.1993 n.
14) e costituiscono uno dei possibili modi in cui si esprime
il principio della normale onerosità della concessione
edilizia per il privato richiedente.
In questo ordine di principi, la cessione
gratuita di un'area all'amministrazione concedente, per
l'esecuzione di opere di urbanizzazione, non trova quindi il
suo corrispettivo (e la sua causa) nella effettiva
realizzazione di quelle opere, ma, per l'appunto, soltanto
nel rilascio della concessione edilizia, senza che il
privato stipulante possa pretendere l'annullamento della
convenzione nel caso che l'Amministrazione concedente, per
qualunque motivo, decida una diversa utilizzazione dell'area
(il che può avvenire anche per sopravvenute esigenze di
pubblico interesse e, comunque, nei limiti del legittimo
esercizio della potestà discrezionale dell'amministrazione
di modificare i programmi urbanistici).
Semmai, come bene rileva il Tribunale, solo il mancato
esercizio dell'attività edificatoria assentita, potrebbe
incidere sulla causa della convenzione (cfr. TAR di Sicilia
sez. II Catania, 17.06.1994 n. 1306), ma si tratta di un
profilo del tutto diverso, questo sì incidente
sull'interesse del richiedente, e che nella specie concorre
ad escludere la fondatezza delle domande, avendo il Cerami
invece realizzato le opera previste nella concessione
edilizia rilasciatagli dal Comune.”.
...
La Corte di appello, infatti, ha ritenuto superfluo
approfondire la questione della destinazione assunta dalla
striscia di terreno per cui è causa a seguito del
provvedimento dell'Assessore al Territorio ed ambiente, in
quanto il Comune rimane libero di dare una
diversa destinazione alle aree acquisite in sede di
convenzioni urbanistiche al fine di realizzazione di opere
di urbanizzazione.
...
Va, infine, rilevato che questa S.C. ha avuto più volte
occasione di affermare che le convenzione
edilizie non privano il Comune del potere di imprimere una
diversa destinazione alle aree dalle stesse interessate
(sent. 09.03.1990 n. 1917; 25.07.1980 n. 4833).
Tale orientamento si è manifestato con
riferimento ad ipotesi in cui il Comune aveva impresso una
diversa destinazione alle aree con riferimento alle quali,
nelle convenzioni urbanistiche, era stata prevista la
possibilità di sfruttamento edilizio, ma non vi è ragione di
non estenderlo anche alle aree la cui cessione è prevista la
cessione al Comune da parte del privato in previsione della
realizzazione sulle stesse di opere di urbanizzazione
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 28.08.2000 n. 11208). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza di questa Corte è costante
nell'affermare che le convenzioni di lottizzazione di cui
alla legge 06.08.1967 n. 765 (che ha innovato l'art. 28
della legge 17.08.1942 n. 1150) costituiscono contratti di
natura peculiare, che lasciano integra, nonostante eventuali
patti contrari, la potestà pubblicistica del comune in
materia di disciplina del territorio e di regolamentazione
urbanistica, ivi compresa la facoltà di liberarsi dal
vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze sopravvenute
e, quindi, a maggior ragione, per l'obbligatorio adeguamento
a modifiche normative (come nel caso di specie, in cui la
delibera del Comune convenuto è stata determinata dalla
necessità di adeguarsi agli standards urbanistici imposti
dal D.M. n. 1444 del 1968).
---------------
1. - Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione
e falsa applicazione di norme di diritto (art. 42 Cost.,
artt. 1321, 1322, 1323, 1362, 1372 C.C.) e vizi di
motivazione su un punto decisivo della controversia (il
sinallagma contrattuale).
I ricorrenti censurano l'impugnata sentenza perché, pur
avendo ritenuto che la convenzione di lottizzazione è un
contratto e quindi che nel momento iniziale il sinallagma è
sorto per concorde volontà di entrambe le parti, ha poi
ritenuto che nel momento funzionale dello stesso esso è
venuto meno legittimamente per volontà di una sola della
parti.
I ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata non motiva
perché sia legittima la caduta del sinallagma nel momento
funzionale.
2. - Il motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza di questa Corte
(Sez. Un. 12.06.1982 n. 3541; 19.04.1984 n. 2567; 05.03.1993
n. 2669) è costante nell'affermare che le
convenzioni di lottizzazione di cui alla legge 06.08.1967 n.
765 (che ha innovato l'art. 28 della legge 17.08.1942 n.
1150) costituiscono contratti di natura peculiare, che
lasciano integra, nonostante eventuali patti contrari, la
potestà pubblicistica del comune in materia di disciplina
del territorio e di regolamentazione urbanistica, ivi
compresa la facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale,
alla stregua di esigenze sopravvenute e, quindi, a maggior
ragione, per l'obbligatorio adeguamento a modifiche
normative (come nel caso di specie, in cui la delibera del
Comune convenuto è stata determinata dalla necessità di
adeguarsi agli standards urbanistici imposti dal D.M. n.
1444 del 1968)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.06.1995 n. 6482). |
URBANISTICA:
Le cosiddette convenzioni edilizie stipulate
nell'ambito dei piani di lottizzazione ad iniziativa privata
di cui all'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 nel testo
modificato dalla legge 06.08.1967, n. 765, pur avendo natura
contrattuale con effetti vincolanti anche nei confronti del
Comune, non possono in alcun modo interferire sulle potestà
pubblicistiche spettanti all'Ente in materia di disciplina
dell'assetto del territorio e di regolamentazione
urbanistica, sicché, ove tali potestà vengano esercitate, i
diritti derivanti dalla convenzione degradano a meri
interessi legittimi che abilitano il soggetto soltanto
all'impugnativa dei provvedimenti pregiudizievoli in sede
giurisdizionale amministrativa, l'azione risarcitoria da
lesione dei diritti soggettivi potendosi proporre solo a
seguito dell'annullamento dei provvedimenti stessi.
Ove venga richiesto il risarcimento dei danni derivati dal
provvedimento della P.A. che si assuma illegittimo, la
disapplicazione dell'atto che il richiedente invochi a tal
fine, in quanto costituisce ragione diretta del petitum e
non attiene soltanto ad un presupposto del quale il giudice
debba conoscere incidenter tantum, equivale a domanda di
annullamento dell'atto stesso, la quale rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo.
---------------
Questa Corte ha già ripetutamente chiarito (v. sent. n.
3541/1982, n. 2433/1983, n. 1157/1984, n. 2567/1984, n.
580/1985, n. 665/1986, n. 307/1987) che le cosiddette
convenzioni edilizie stipulate nell'ambito dei piani di
lottizzazione ad iniziativa privata di cui all'art. 28 della
legge 17.08.1942, n. 1150 nel testo modificato dalla legge
06.08.1967, n. 765, pur avendo natura contrattuale con
effetti vincolanti anche nei confronti del Comune, non
possono in alcun modo interferire sulle potestà
pubblicistiche spettanti all'Ente in materia di disciplina
dell'assetto del territorio e di regolamentazione
urbanistica, sicché, ove tali potestà vengano esercitate, i
diritti derivanti dalla convenzione degradano a meri
interessi legittimi che abilitano il soggetto soltanto
all'impugnativa dei provvedimenti pregiudizievoli in sede
giurisdizionale amministrativa, l'azione risarcitoria da
lesione dei diritti soggettivi potendosi proporre solo a
seguito dell'annullamento dei provvedimenti stessi.
È necessario ulteriormente precisare che ove venga richiesto
il risarcimento dei danni derivati dal provvedimento della
P.A. che si assuma illegittimo, la disapplicazione dell'atto
che il richiedente invochi a tal fine, in quanto costituisce
ragione diretta del petitum e non attiene soltanto ad
un presupposto del quale il giudice debba conoscere
incidenter tantum, equivale a domanda di annullamento
dell'atto stesso, la quale rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo.
Né può avere rilievo di per sé il petitum, ossia il
risarcimento del danno, che come effetto consequenziale può
chiedersi soltanto a seguito dell'annullamento dell'atto.
Devesi dunque dichiarare il difetto di giurisdizione dell'A.G.O.
e la giurisdizione del Giudice amministrativo (Corte di
Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 09.03.1990 n. 1917). |
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