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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di NOVEMBRE 2018

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aggiornamento al 24.11.2018 (ore 23,59)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 24.11.2018 (ore 23,59)

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: L'autore di un esposto resta riservato. Non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipende la difesa del denunciato.
La conoscenza della fonte all’origine di un controllo di polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce la attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo.
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Con il presente ricorso per l’accesso è chiesto l’annullamento del provvedimento di diniego dell’accesso agli atti in data 30.04.2018 chiesto dalla ricorrente in relazione all’eventuale esposto, denuncia o dichiarazione cha ha sollecitato l’attività ispettiva da cui è successivamente scaturito il provvedimento di divieto di prosecuzione della attività asseritamente abusiva di palestra sita nei locali di Via ... 35.
Il Comune si costituisce in replica.
Chiarisce che –con il ricorso– in buona sostanza la ricorrente vuole acquisire il nominativo del soggetto che ha sollecitato l’attività ispettiva
Il Comune precisa –richiamando gli artt. 5 e 5-bis del DLGS 33/2013– che l’obiettivo perseguito dalla ricorrente esula dall’obiettivo esplicitato dalle norme (favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico).
Il Collegio concorda con le osservazioni del Comune.
Nella specie, il provvedimento è correttamente e adeguatamente motivato sul seguente presupposto: <la conoscenza della fonte all’origine di un controllo di polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce la attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo>.
La giurisprudenza si è espressa con due orientamenti opposti.
Secondo un primo orientamento (cfr., recente sentenza del Tar Toscana n. 898/2017) non c’è ragione di nascondere il nome di chi fa una denuncia, un esposto o una segnalazione: chi si trova al centro di una indagine o una verifica deve poter accedere agli atti e conoscere le ragioni da cui è partito il procedimento nei suoi confronti; del resto, una volta che la denuncia o l’esposto arriva alle autorità, essa costituisce un atto interno all’amministrazione e, come tutti gli atti amministrativi da cui derivano procedimenti per i cittadini, è sottoposto alla massima «trasparenza».
Secondo un secondo diverso orientamento, invece (cfr., Tar Veneto Venezia, sent. n. 321/2015 e Cons. St. sent. n. 5779/2014) è stato affermato che l’esposto presentato alla pubblica amministrazione, da cui trae origine una verifica, un’ispezione o altri procedimenti di accertamento di illeciti, non può essere oggetto di «accesso agli atti», poiché non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipende la difesa del denunciato.
Peraltro, la conoscenza dei fatti e delle allegazioni contestati risulta assicurata già dal verbale di accertamento; non c’è quindi ragione di risalire al precedente esposto.
Il Collegio ritiene preferibile aderire al secondo orientamento.
In conclusione, il ricorso è da respingere nel merito (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 17.10.2018 n. 772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento di conformità utilizzando volumetria non sfruttata o acquistando la volumetria mancante da altri soggetti.
   (a) la conformità prevista dall’art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380 per la regolarizzazione degli abusi edilizi può essere ottenuta anche individuando volumetria residenziale non sfruttata in precedenti edificazioni o ristrutturazioni, o acquistando la volumetria mancante da altri soggetti che ne siano titolari. Si tratta di residui di diritti edificatori che rimangono latenti finché non si presenta l’opportunità di impiegarli per integrare la volumetria già insediata;
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   (b) l’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, in vigore all’epoca della ristrutturazione (v. ora l’art. 4 della LR 28.11.2014 n. 31), aveva la finalità di incentivare gli interventi edilizi in grado di migliorare l’efficienza energetica degli edifici. Lo strumento incentivante scelto dal legislatore consisteva (e consiste tuttora) nell’attribuire agli interventi energeticamente virtuosi una minore capacità di consumazione dei diritti edificatori grazie allo scomputo dei muri perimetrali e delle solette di copertura;
   (c) la diversa modalità di calcolo si traduce in un risparmio sulla volumetria disponibile, ossia in un bonus edificatorio, che può essere utilizzato immediatamente nella stessa edificazione, ma può anche essere impiegato in un secondo momento per effettuare degli ampliamenti. Come tutti i diritti edificatori, questo bonus è liberamente negoziabile e cedibile, in mancanza di disposizioni in senso contrario nella disciplina urbanistica comunale;
   (d) una serra solare bioclimatica è tale proprio perché consente l’irraggiamento solare, e dunque l’inserimento di una schermatura fissa è un chiaro indizio della trasformazione in volume residenziale, a maggior ragione se si accompagna ad altre opere coerenti con l’uso residenziale, come quelle realizzate dal ricorrente. Di conseguenza, per evitare la rimessione in pristino è necessario verificare se la volumetria risparmiata nel corso dell’intervento di ristrutturazione del 2009 sia sufficiente, applicando i criteri dell’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, a sanare la volumetria residenziale abusiva;
   (e) poiché la quota di volumetria risparmiata attribuibile all’unità abitativa del ricorrente appare inferiore alla volumetria abusiva, il permesso di costruire in sanatoria può essere rilasciato solo qualora i proprietari confinanti, all’epoca coinvolti nella ristrutturazione, cedano la volumetria di rispettiva pertinenza fino alla concorrenza della volumetria da regolarizzare. Occorre precisare che deve trattarsi di vera e propria cessione di volumetria, e non di semplice costituzione di servitù sulla volumetria. L’atto di cessione dovrà essere trascritto, in modo che non si formino aspettative nei terzi circa la possibilità di utilizzare nuovamente questi diritti edificatori in futuro
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1. Il ricorrente, proprietario di un’unità abitativa in un edificio situato nel Comune di Salò, in via del Seminario, ha ottenuto nel 2013 il permesso di costruire per realizzare una serra solare bioclimatica in corrispondenza della terrazza dell’ultimo piano. Il risultato dell’edificazione (v. relazione paesistica e documentazione fotografica) è costituito da una torretta dove era prevista la posa di una copertura in vetro e di pareti ugualmente in vetro. Con queste caratteristiche, il locale non era computabile nella volumetria residenziale dell’edificio.
2. Nel corso dei lavori il ricorrente ha invece abusivamente trasformato la serra in un volume residenziale (113,06 mc), collocando un assito in legno al di sotto della copertura in vetro, realizzando un vano tecnico e una vasca a uso fioriera, e installando una pompa di calore per la climatizzazione.
3. In data 08.06.2016 il ricorrente ha chiesto il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, per consolidare la destinazione residenziale, anche allo scopo di collegare la ex serra solare bioclimatica al piano inferiore mediante una scala interna. Secondo il ricorrente, la volumetria a disposizione per l’ampliamento residenziale deriverebbe dal risparmio di volumetria realizzato nell’intervento di ristrutturazione ultimato nel 2009. Più precisamente, il risparmio sarebbe dovuto all’art. 2, comma 1-ter, della LR 20.04.1995 n. 26 (disciplina regionale sull’efficientamento energetico degli edifici), che consente lo scomputo dei muri perimetrali e delle solette di copertura quando siano raggiunti determinati obiettivi di risparmio energetico.
4. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica del 29.11.2016, ha respinto la richiesta del ricorrente, in quanto (come chiarito nel preavviso di diniego del 10.10.2016) le modalità di calcolo più favorevoli potrebbero essere applicate solo agli interventi edilizi non ancora realizzati.
5. Contro i suddetti provvedimenti il ricorrente ha presentato impugnazione, riproponendo la tesi della scomputabilità dei muri perimetrali e delle solette di copertura, da cui deriverebbe volumetria aggiuntiva utilizzabile per sanare l’ampliamento residenziale dell’edificio. I proprietari confinanti, parimenti interessati dalla ristrutturazione del 2009, sarebbero disposti a cedere la loro quota di volumetria da efficientamento energetico.
6. Il Comune si è costituito in giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso.
7. Questo TAR, con ordinanza n. 77 del 02.02.2017, ha accolto la domanda cautelare, vincolando il Comune a ripronunciarsi dopo aver verificato sia la volumetria recuperabile grazie alle norme sull’efficientamento energetico, sia la cessione di volumetria da parte dei proprietari confinanti. Nell’appello cautelare, il Consiglio di Stato Sez. VI, con ordinanza n. 1708 del 24.04.2017, ha sollevato il Comune dall’obbligo di adottare un nuovo provvedimento espresso, ma ha confermato gli adempimenti istruttori.
8. In seguito, il ricorrente (v. deposito di data 30.04.2018) ha trasmesso agli uffici comunali la tabella con il calcolo della volumetria recuperata, nonché il preliminare per la costituzione di una servitù di utilizzo esclusivo della suddetta volumetria. Gli uffici comunali non hanno finora dato il loro assenso, avendo rilevato incongruenze nelle quote rispetto agli elaborati di progetto, e un eccesso di scomputo relativamente alle porzioni di muratura non costituenti involucro esterno. L’interlocuzione è ancora in corso.
9. Così sintetizzata la vicenda contenziosa, sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni, riprendendo quanto anticipato in sede cautelare:
   (a) la conformità prevista dall’art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380 per la regolarizzazione degli abusi edilizi può essere ottenuta anche individuando volumetria residenziale non sfruttata in precedenti edificazioni o ristrutturazioni, o acquistando la volumetria mancante da altri soggetti che ne siano titolari. Si tratta di residui di diritti edificatori che rimangono latenti finché non si presenta l’opportunità di impiegarli per integrare la volumetria già insediata;
   (b) l’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, in vigore all’epoca della ristrutturazione (v. ora l’art. 4 della LR 28.11.2014 n. 31), aveva la finalità di incentivare gli interventi edilizi in grado di migliorare l’efficienza energetica degli edifici. Lo strumento incentivante scelto dal legislatore consisteva (e consiste tuttora) nell’attribuire agli interventi energeticamente virtuosi una minore capacità di consumazione dei diritti edificatori grazie allo scomputo dei muri perimetrali e delle solette di copertura;
   (c) la diversa modalità di calcolo si traduce in un risparmio sulla volumetria disponibile, ossia in un bonus edificatorio, che può essere utilizzato immediatamente nella stessa edificazione, ma può anche essere impiegato in un secondo momento per effettuare degli ampliamenti. Come tutti i diritti edificatori, questo bonus è liberamente negoziabile e cedibile, in mancanza di disposizioni in senso contrario nella disciplina urbanistica comunale;
   (d) una serra solare bioclimatica è tale proprio perché consente l’irraggiamento solare, e dunque l’inserimento di una schermatura fissa è un chiaro indizio della trasformazione in volume residenziale, a maggior ragione se si accompagna ad altre opere coerenti con l’uso residenziale, come quelle realizzate dal ricorrente. Di conseguenza, per evitare la rimessione in pristino è necessario verificare se la volumetria risparmiata nel corso dell’intervento di ristrutturazione del 2009 sia sufficiente, applicando i criteri dell’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, a sanare la volumetria residenziale abusiva;
   (e) poiché la quota di volumetria risparmiata attribuibile all’unità abitativa del ricorrente appare inferiore alla volumetria abusiva, il permesso di costruire in sanatoria può essere rilasciato solo qualora i proprietari confinanti, all’epoca coinvolti nella ristrutturazione, cedano la volumetria di rispettiva pertinenza fino alla concorrenza della volumetria da regolarizzare. Occorre precisare che deve trattarsi di vera e propria cessione di volumetria, e non di semplice costituzione di servitù sulla volumetria. L’atto di cessione dovrà essere trascritto, in modo che non si formino aspettative nei terzi circa la possibilità di utilizzare nuovamente questi diritti edificatori in futuro.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati.
11. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune a ultimare le verifiche tecniche sopra descritte, e a chiudere la procedura con un provvedimento espresso, nel termine di 60 giorni dal deposito della presente sentenza. Qualora le verifiche tecniche diano esito favorevole al ricorrente, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria potrà essere condizionato alla trascrizione dell’atto di cessione della volumetria, attribuendo per tale adempimento un termine non inferiore a 30 giorni (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.10.2018 n. 970 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Scomputo del costo di costruzione.
Le previsioni di cui all’articolo 16 del D.P.R. 380/2001 e dell’articolo 45 della L.R. Lombardia n. 12/2015, che ammettono la possibilità di scomputare totalmente o parzialmente il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione, non possono interpretarsi come volte a precludere in termini assoluti la possibilità di scomputo dei costi di costruzione, se prevista in via convenzionale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1525 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità formulata dal Comune resistente secondo il quale il ricorso dovrebbe considerarsi tardivo perché notificato oltre il termine decadenziale previsto per l’azione di annullamento.
1.1. A sostegno dell’eccezione il Comune osserva che l’atto impugnato richiede il pagamento di una somma a titolo di monetizzazione dello standard urbanistico e, come tale, impone l’impugnazione entro il termine di sessanta giorni previsto –in generale– dal codice del processo amministrativo.
1.2. L’eccezione è priva di fondamento per le considerazioni che si procede ad esporre.
1.3. Il Comune di Milano richiama, a sostegno dell’eccezione la decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6706. Osserva il Giudice d’Appello che, “se da un lato è pressoché irrilevante, ai fini in esame, la qualificazione della monetizzazione come imposizione di tipo tributario o come corrispettivo di diritto pubblico, dall’altro lato assume, invece, significativo rilievo la considerazione che la prestazione patrimoniale richiesta non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali”.
1.3.1. Infatti, prosegue il Consiglio di Stato, “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo […] o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta”.
1.3.2. Conclude il Consiglio di Stato notando che la monetizzazione non costituisce una duplicazione del contributo concessorio, venendo in rilievo un obbligo diverso ed aggiuntivo e che “la prestazione patrimoniale derivante dalla “monetizzazione” accede intimamente alla rilasciata concessione edilizia”, con la conseguenza che “la pretesa di non soggiacere a tale obbligo di pagamento deve essere necessariamente fatta valere in sede di contestazione della legittimità degli atti e provvedimenti di imposizione, con l’impugnazione (quanto meno) della concessione, in parte qua, nel termine decadenziale previsto dal codice del processo amministrativo”.
1.4. La decisione richiamata dal Comune e riportata nel precedente punto non risulta, tuttavia, sovrapponibile al caso di specie.
1.4.1. Nel caso esaminato dal Consiglio di Stato la società propone azione di accertamento “dell’inesistenza dell’obbligo di pagamento della cd. “monetizzazione” delle aree per urbanizzazioni secondarie riconnesse al rilascio delle concessioni edilizie n. 19/99-662 e n. 127/2001, quantificato dal Comune di Putignano in € 10.039,92 ai sensi dell’art. 52 delle NTA del PRG comunale, in aggiunta al contributo di costruzione di cui all’art. 16 del TU edilizia”, omettendo l’impugnazione dei titoli.
1.4.2. Nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio il giudizio verte, al contrario, sulla corretta interpretazione delle disposizioni contenute nella Convenzione integrativa del permesso e, in particolare, sulle modalità attraverso le quali attuare la prestazione relativa al costo di costruzione per il primo intervento realizzato.
Inoltre, diversamente da quanto verificatosi nella fattispecie definita dal Consiglio di Stato, la società non avanza alcuna contestazione che sia mediatamente o immediatamente incidente sul titolo edilizio che, al contrario, è, come si vedrà, uno degli elementi posti a fondamento dell’interpretazione della convenzione integrativa fornita dalla società ricorrente.
1.4.3. In una fattispecie come quella in esame trova, pertanto, applicazione il consolidato insegnamento giurisprudenziale a mente del quale “
le controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo” (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 09.02.2001 n. 584, e Sez. IV, 19.07.2004 n. 5197); tali controversie introducono, infatti, “un giudizio su un rapporto, sicché le questioni concernenti l'esistenza e l'entità del debito, involgendo posizioni di diritto soggettivo, sono sottratte agli ordinari termini decadenziali del giudizio impugnatorio, pur in presenza di atti amministrativi da definire pertanto come paritetici, presentandosi come un giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio, attivabile nell’ordinario termine di prescrizione (cfr. Cons. Stato, V Sezione, 14.10.2014 n. 5072; C.G.A. n. 462 e n. 466 del 27.05.2008; Tar per la Campania – sede di Napoli, sez. VI, 08.09.2017, n. 4322).
2. Passando al merito del ricorso si osserva che i primi due motivi formulati dalla società possono trattarsi congiuntamente in quanto fondati su questione logicamente e giuridicamente comune, consistente sulla interpretazione delle previsioni della Convenzione integrativa al permesso di costruire n. 85/2006 per la disciplina dell’esecuzione di opera a scomputo e per la cessione di strada e, in particolare, sulle possibilità di scomputo degli importi dovuti a titolo di costo di costruzione per il primo degli interventi realizzati dalla società.
2.1. La disamina della questione indicata al punto che precede impone di affrontare, in primo luogo, la deduzione svolta dal Comune resistente secondo cui la pretesa della Al. s.p.a. risulterebbe in constato con la previsione di cui all’articolo 16 del D.P.R. 380/2001 e dell’articolo 45 della L.R. Lombardia n. 12/2015.
Replica la ricorrente osservando che: a) si tratta di argomentazione esposta per la prima volta in sede giudiziaria (evocando, in tal modo, il divieto di integrazione postuma della motivazione); b) la giurisprudenza amministrativa ammette forme alternative di pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche anche in relazione ai costi di costruzione.
2.2. La tesi del Comune non può essere condivisa.
2.2.1. La disposizione contenuta all’interno dell’articolo 16, comma 2, del D.P.R. 380/2001 prevede testualmente: “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell'interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune”.
2.2.2. In coerenza con il precetto dettato dalla legislazione statale, la previsione dell’articolo 45 della L.R. 12/2005 dispone: “1. A scomputo totale o parziale del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione, gli interessati possono essere autorizzati a realizzare direttamente una o più opere di urbanizzazione primaria o secondaria, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici). I comuni determinano le modalità di presentazione dei progetti di valutazione della loro congruità tecnico-economica e di prestazione di idonee garanzie finanziarie, nonché le sanzioni conseguenti in caso di in ottemperanza. Le opere, collaudate a cura del comune, sono acquisite alla proprietà comunale. 2. Non possono essere oggetto di scomputo le opere espressamente riservate, nel programma triennale delle opere pubbliche, alla realizzazione diretta da parte del comune”.
2.2.3.
Le due previsioni riprodotte ammettono, pertanto, la possibilità di scomputare totalmente o parzialmente il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione. Tale previsione non pare, tuttavia, potersi interpretare come volta a precludere in termini assoluti la possibilità di scomputo dei costi di costruzione, se prevista in via convenzionale.
2.2.4. Deve, infatti, considerarsi che:
   -
il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1504);
   -
tale contributo è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che le nuove costruzioni inducono nel contesto urbano, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata dalla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29.10.2015, n. 4950; TAR Lombardia-Brescia, 02.03.2012, n. 355; TAR Piemonte, 26.11.2003 n. 1675);
   -
il contributo di urbanizzazione è, invece, commisurato al costo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi concretamente nella zona, e differisce dal contributo da pagare all'atto del rilascio della concessione di costruzione, che ha natura contributiva, rappresentando un corrispettivo delle spese poste a carico della collettività per il conferimento al privato del diritto all'edificazione e dei vantaggi che il concessionario ottiene per effetto della trasformazione del territorio;
   -
si tratta, quindi, di istituti diversi, da cui deriva, quale naturale conseguenza, la determinazione di oneri altrettanto diversi, l'uno relativo al costo sostenuto per rendere urbanizzata ed edificabile la singola area, l'altro relativo al contributo, di carattere tributario, preordinato alla realizzazione del generale assetto urbanistico del territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4685);
   -
la diversità tra i due istituti spiega la ragione per la quale il legislatore prevede il solo scomputo degli oneri di urbanizzazione nell’ipotesi in cui il titolare del permesso di costruire si obblighi alla realizzazione diretta di tali opere; in tal caso, infatti, la prestazione patrimoniale è sostituita dall’esecuzione delle opere che il pagamento risulta strumentale a finanziare;
   - in altri termini,
la previsione dell’articolo 16, comma 2, contempla i soli oneri di urbanizzazione in quanto solo questi sono immediatamente irrelati alle opere di urbanizzazione e, come tali, sostituibili nel caso di diretta realizzazione delle stesse;
   - ricostruita la ratio della disposizione di cui all’articolo 16, comma 2, può escludersi che lo stesso funga da perimetro applicativo dell’istituto dello scomputo nel diverso caso dei costi di costruzione che, come spiegato, hanno diversa natura giuridica;
   - la soluzione della questione non può quindi rinvenirsi all’interno dell’articolo 16, comma 2, ma necessita, al contrario, di un approfondimento da condurre alla luce dei principi regolatori della materia;
   - a tal fine, deve, in primo luogo, evidenziarsi che il meccanismo dello scomputo non elide la doverosità della prestazione imposta e il carattere indisponibile della stessa atteso che lo scomputo agisce più propriamente nella fase solutoria dell’obbligazione, postulando e non denegando la prestazione dovuta;
   - in altri termini, se la natura tributaria esclude la disponibilità dell’an e del quantum debeatur, non elimina, tuttavia, la possibilità di sostituire il versamento con forme alternative di pagamento e/o compensazione con opere urbanistiche stabilite dalle parti e, in particolare, dall’Ente comunale;
   - il carattere indisponibile dell’obbligazione tributaria non si traduce quindi nella imposizione di una sola forma solutoria dei costi di costruzione che, fermo il quantum e la doverosità della prestazione, non ha alcuna tipizzazione monetaria inderogabile;
   -
deve, pertanto, escludersi che l’articolo 16, comma 2, del D.P.R. 380/2001 possa decretare la nullità assoluta della clausola compensativa convenzionale e imporre una sostituzione automatica della stessa con la regola del versamento pecuniario, che, nel caso di specie, sarebbe aggiuntivo ed implicherebbe il pagamento, da parte del Comune, delle opere ulteriori realizzate dalla società ricorrente (cfr. TAR per l’Abruzzo – sede di Pescara, 18.10.2010, n. 1142);
   - inoltre, deve, altresì, escludersi che la natura tributaria dell’obbligazione possa, nella fattispecie in esame, non ammettere un accordo tra le parti inerente, come spiegato, la sola forma solutoria dell’adempimento e, come tale, inidoneo a ledere il principio di indisponibilità che governa la materia.
3. Esclusa, pertanto, la sussistenza di un divieto legale all’inserzione di una clausola di scomputo dei costi di costruzione, può procedersi a verificare la concreta disciplina dettata dal rapporto all’esame del Collegio.
3.1. Simile verifica deve essere preceduta da una notazione di carattere generale sulla natura giuridica dell’accordo in esame, necessaria per la corretta interpretazione della convenzione.
3.1.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le convenzioni urbanistiche –come quella in esame- rientrano infatti nel novero degli accordi tra privati e amministrazione, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990 (ex multis: Cass. civ., Sez. I, 28.01.2015, n. 1615; Cass., SS.UU., 09.03.2012, n. 3689; nella giurisprudenza di questa sezione, cfr. TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 26.07.2016, n. 1507).
3.2.
Tale qualificazione impone che l’interpretazione della convenzione avvenga utilizzando i criteri ermeneutici di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, visto l’esplicito richiamo di cui al comma 2 dell’art. 11 medesimo e come del resto confermato dalla giurisprudenza, sia di questo Tribunale (cfr., ex multis, Tar per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 05.05.2015, n. 1103, con la giurisprudenza richiamata e sez. II, 11.05.2015, n. 1137), sia del Consiglio di Stato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 17.12.2014, n. 6164).
3.3. L’operazione ermeneutica deve necessariamente prendere le mosse dalla fondamentale disposizione contenuta all’interno dell’articolo 1362 c.c. a mente della quale: “1. Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. 2. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
3.4. Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione chiarisce che:
   - “
ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate” (cfr., da ultimo, Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675);
   - “
il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato” (Cfr. Cassazione civile, sez. III, 16.01.2007, n. 828; Cassazione civile, sez. I, 22.12.2005, n. 28479).
3.5. Inoltre, la Corte di Cassazione sottolinea che: “
pur assumendo l'elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare di quelli (quali primari criteri d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto: v. Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 27/06/2011, n. 14079; Cass., 23/05/2011, n. 11295; Cass., 19/05/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali v. Cass., 06/05/2015, n. 9006) dell'interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell'interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c., avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta (cfr. Cass., 23/05/2011, n. 11295).
Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell'accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale") si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 06/05/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/05/2007, n. 12235; Cass., 20/05/2004, n. 9628).
A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/05/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell'accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/02/2010, n. 3947).
Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701), con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)
” (cfr., da ultimo, Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675).
3.6. Nel declinare le coordinate sopra tracciate al caso di specie, l’indagine deve prendere le mosse dal testo della convenzione il cui articolo 1 prevede: “1) Il Comune, come sopra rappresentato, autorizza la Società “Al. S.p.A.” a realizzare –a scomputo degli importi dovuti per la costruzione della predetta multisala a titolo monetizzazione conguaglio standard (€ 512.991,07…), oneri di urbanizzazione (€ 539.670,89 …), quali indicati nelle premesse che precedono, e per un totale pari ad € 1.052.661,96 (…)– l’opera viabilistica costituita dal ripristino provvisorio del sottopasso carrabile di collegamento fra Largo Boccioni e Via Stephenson, e parcheggi. Il tutto, come da elaborato progettuale allegato sub “G” e relativo computo metrico estimativo verificato dai competenti Uffici comunali pari ad € 2.326.932,78 …, allegato sub “H”, in riepilogo. L’intervento verrà assentito con il predetto permesso di costruire in fase di rilascio per la realizzazione dell’edificio multisala, e verrà eseguito secondo le modalità indicate negli articoli che seguono”.
3.7. In relazione alla clausola in esame, il Comune resistente sottolinea che:
   - lo scomputo è espressamente riferito agli importi dovuti a titolo di monetizzazione conguaglio standards e di oneri di urbanizzazione e non menziona il costo di costruzione;
   - la circostanza che l’importo indicato a titolo di oneri di urbanizzazione, pari a € 539.670,89, comprenda anche la quota del costo di costruzione, non è sufficiente a desumere la volontà delle parti di ammettere lo scomputo anche del costo di costruzione.
3.8. La tesi del Comune non pare convincente in quanto fondata su una lettura atomistica della sola parte della clausola che esclude lo scomputo dei costi di costruzione, senza, tuttavia, considerare la diversa indicazione numerica che non può ridursi ad un mero errore trattandosi esattamente della somma risultante dalla sommatoria degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
3.9.
In presenza di una clausola contrattuale contenenti indicazioni non univoche, occorre verificare –ai fini di ricavare l’esatta intenzione delle parti– se la componente erronea dello stessa risieda nella indicazione dei soli oneri di urbanizzazione o, al contrario e come pretende il Comune, nell’importo complessivo indicato.
3.10.
Nel compiere tale operazione deve tenersi conto dell’insegnamento della Suprema Corte secondo cui: “in tema di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell'art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per "senso letterale delle parole" tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato" (Cass. nn. 14460/2011; 4670/2009, 18180/2007, 4176/2007 e 28479/2005).
Di qui l'erroneità dell'esegesi fissata esclusivamente su di una singola parola o frase, astratta dal resto della stessa o di altre clausole del contratto, cui pure deve applicarsi il medesimo canone interpretativo (Cassazione civile, sez. VI, 03.05.2018, n. 10478).
3.11. Incentrando la disamina sull’intero contenuto della Convenzione, si osserva che l’importo complessivo di € 539.670,89 (comprensivo, come detto, dei costi di costruzioni) risulta riprodotto –come dedotto dalla società ricorrente– sia nelle premesse della Convenzione stessa che nelle previsioni contenute negli articoli 2 e 4, laddove viene indicato l’importo complessivo scomputabile salvo conguagli. Invero, anche in tali passaggi la convenzione indica un importo che include gli oneri di costruzioni pur senza farne espresso riferimento.
Tale circostanza non risulta, tuttavia, decisiva per escludere lo scomputo degli oneri di costruzioni. Infatti, ove si accedesse ad una simile interpretazione si terminerebbe per disattendere il criterio dettato dall’articolo 1369 c.c. che, come spiegato in precedenza, impone di aver riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto, riducendo tale indicazione ad un mero lapsus calami: situazione difficilmente ipotizzabile ove si consideri la rilevanza dell’importo economico in esame che, come tale, non pare potersi ritenere alieno dal concerto negoziale.
Su quest’ultimo aspetto deve, inoltre, osservarsi che la tesi comunale si fonda su un dato meramente letterale senza, tuttavia, giustificare l’eliminazione di tale voce dallo scomputo in ragione di un minor valore delle opere che, del resto, non rinviene alcuna evidenza nella documentazione versata in atti. Al contrario, risulta un maggior costo dell’opera, rimasto a carico della società ricorrente ai sensi dell’articolo 2 della convenzione.
L’interpretazione suggerita dal Comune finirebbe, quindi, per far gravare sulla società un ulteriore maggior costo: la ritenuta prevalenza del nomen iuris sul dato numerico riportato nella convenzione si tradurrebbe, quindi, nell’evidente alterazione dell’equilibrio delle posizioni della parti e, in fondo, della stessa causa concreta che in parte qua, l’operazione negoziale ha inteso realizzare consentendo al Comune l’acquisizione delle opere indicate dal medesimo articolo 1 in ragione dello scomputo previsto che, ove non comprensivo dei costi di costruzione, diverrebbe una mera locupletatio cum aliena iactura senza chiara giustificazione causale.
3.12. Deve, inoltre, considerarsi che la tesi comunale risulta difficilmente armonizzabile con il disposto di cui all’articolo 1366 c.c. che, come ricordato nella Relazione al codice civile (n. 622), costituisce “il punto di sutura” tra i due momenti dell’interpretazione e “li domina entrambi”.
Come spiegato in precedenza, l'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio d'interpretazione del contratto “si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 06/05/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/05/2007, n. 12235; Cass., 20/05/2004, n. 9628). A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/05/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell'accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/02/2010, n. 3947)” (cfr., ancora, Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675).
Infatti, l’interpretazione suggerita dal Comune finisce per ledere l’affidamento riposto dalla società nell’integrale scomputo della somma indicata in convenzione chiedendo alla stessa una prestazione patrimoniale ulteriore fondata, in sostanza, sull’unilaterale rimozione dal testo della convenzione di parte degli importi ivi indicati in ragione dell’asserita prevalenza di una sola porzione del testo negoziale e senza corrispondenza con il programma perseguito con questa parte dell’accordo.
3.13. Le considerazioni sin qui esposte rinvengono una rilevante conferma nel testo del permesso di costruire n. 85 del 2006 a cui accede la convenzione integrativa sin qui esaminata. Infatti, il titolo espressamente prevede che “il conguaglio di cui all’art. 16 – comma del DPR 380/2001, è determinato in € 539.670,89, salvo conguaglio, di cui: ○ € 131.826,61 = per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria; ○ € 407.844,28 = per contributo costo di costruzione”.
Tale documento non risulta privo di significato per l’interpretazione della convenzione che, come spiegato al precedente paragrafo 3.1. rientra nel novero degli accordi tra privati e pubblica Amministrazione. Evidente come nel caso di accordo integrativo di provvedimento, quest’ultimo concorre ad individuare l’intenzione della parte pubblica attesa l’intima connessione tra i due atti giuridici. In tal senso, appare certamente corretto quanto affermato dalla società ricorrente che osserva come il permesso di costruire espliciti in modo inequivocabile che “l’importo di € 539.670,89, passibile di scomputo unitamente alla monetizzazione degli standard ai sensi dell’art. 1 (per l’importo di totale di € 1.052.661,96), era riferito sia agli oneri di urbanizzazione sia al costo di costruzione”.
3.14. Tale esplicitazione si rinviene anche in altra parte del permesso considerato che al foglio 2 del titolo si legge testualmente: “in luogo del pagamento di detti contributi e monetizzazione, nel rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione […], con il presente atto la Società AL. S.p.a. è autorizzata a realizzare le seguenti opere pubbliche a scomputo di detti importi”.
3.15. Deve, in ultimo, considerarsi che, come ricordato di recente dal Consiglio di Stato, “
nell’interpretazione del contratto e comunque di strumenti negoziali l’esegesi letterale deve integrarsi con l’indagine sulla volontà delle parti, come obiettivizzata nelle clausole, e che quest’ultima è desumibile anche dal comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla conclusione del contratto, ai sensi dell’art. 1362 cod. civ. (cfr. tra le tante e più recenti Cass. Civ., Sez. I, 07.09.2017, n. 20888, che precisa come sia “…necessario considerare il negozio nella sua complessità, raffrontare e coordinare tra loro parole e frasi, al fine di ricondurle ad armonica unità e concordanza, in particolare in presenza di un collegamento negoziale o di contenuti non riconducibili ad una unica causa negoziale, essendo allora necessario ricostruire la concreta funzione economica dell'intera operazione negoziale”)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.04.2018, n. 2327).
3.16. Osservando il comportamento successivo delle parti, si nota che:
   a) "il verbale di collaudo tecnico–amministrativo evidenzia come le opere di urbanizzazione a scomputo della monetizzazione e del contributo siano collaudabili” (v. documento n. 7 di parte ricorrente, foglio 19);
   b) il verbale di presa in consegna dell’opera redatto dal Comune di Milano in data 17.12.2010 (PG 977873/2010) testualmente sottolinea che “in data 12/04/2006 è stata stipulata la Convenzione Integrativa del permesso di costruire n. 5 del 11/05/06… per la disciplina dell’esecuzione di opere a scomputo del contributo di costruzione e della monetizzazione determinati dal permesso di costruire medesimo”.
3.17. Pertanto, anche dalla disamina dei due documenti successivi alla convenzione –e in particolare nel documento indicato sub 3.16, lettera b), redatto dal Comune- si conferma che l’intenzione delle parti è quella di ricomprendere nello scomputo anche i costi di costruzione.
4. In conclusione, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti con conseguente declaratoria del diritto della società di fruire dello scomputo del costo di costruzione dovuto per la realizzazione della multisala cinematografica assentita con il Permesso di Costruire n. 85/2006 cui accede la citata Convenzione e dell’insussistenza del diritto di credito fatto valere dal Comune di Milano con la nota PG 584840/2016 del 17.11.2016.
5. Passando all’esame della domanda svolta al paragrafo c) del ricorso introduttivo, si osserva che l’importo di € 321.205,72, richiesto dal Comune, corrisponde –per difetto– alla differenza tra l’importo di € 455.427,38, dovuto a titolo di costo di costruzione per la multisala e l’importo di € 134.661,65 versato in eccedenza da Al. (€ 455.427,38 - € 134.661,65 = 321.205,72), per smaltimento dei rifiuti.
5.1. La constatazione sopra esposta consente agevolmente di accertare la sussistenza del diritto della Al. alla restituzione dell’importo pari ad € 134.221,65, versato in eccedenza dalla società a titolo di contributo per lo smaltimento rifiuti.
5.2. Del resto, lo stesso provvedimento impugnato indica l’importo dovuto per lo smaltimento rifiuti come pari ad € 14.250,20. Anche la memoria difensiva comunale osserva che la domanda di restituzione si fonda “sull’interpretazione della convenzione sostenuta dalla ricorrente […] che vorrebbe estendere lo scomputo al costo di costruzione dell’intervento relativo alla sala cinematografica”, ritenendo, pertanto l’importo versato a detrazione di quanto asseritamente ancora dovuto. Di conseguenza, accertata l’insussistenza del diritto di credito del Comune di Milano pari ad € 455.427,38, a titolo di costo di costruzione per la multisala, consegue l’obbligo di restituzione della somma in eccesso versata dalla società ricorrente.
5.3. La domanda di restituzione dell’indebito deve essere, pertanto, accolta con condanna del Comune di Milano a restituire alla società l’importo pari ad € 134.221,65, oltre interessi legali dal giorno della domanda giudiziale.
5.4. La limitazione della decorrenza degli interessi legali dal giorno della domanda discende dall’espressa riduzione della domanda da parte della società ricorrente che nelle conclusioni rassegnate nel ricorso introduttivo chiede di “condannare il Comune di Milano a rimborsare ad Al. l’importo pari a € 134.221,65 con maggiorazione degli interessi legali dal dì della domanda al saldo, ovvero quella che sarà ritenuta di giustizia”.
La formula finale non si riferisce, infatti, alla decorrenza dell’interessi ma all’importo della somma capitale. Lo conferma la proposizione che chiude il motivo sub c) con la quale la società afferma: “l’importo versato in eccedenza, pari ad € 134.221,65, dovrà essere restituito maggiorato degli interessi legali dalla data della presente domanda al dì del saldo, in applicazione di quanto disposto dall’art. 2033 c.c. (ex multis TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 16.07.2013, n. 1872; Cons. Stato, sez. IV, 20.05.2011, n. 3027)”.
Pertanto, verificato il contenuto sostanziale della pretesa, deve ritenersi che la società abbia limitato la decorrenza degli interessi dalla data della domanda giudiziale.
5.5. In ogni caso, si osserva che –pur non volendo ritenere la domanda limitata in punto decorrenza degli interessi– non sussisterebbe il diritto della società di conseguire gli stessi dalla data del pagamento tenuto conto che:
   -
costituisce principio consolidato quello secondo cui, nella ripetizione dell'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., il debito dell'accipiens, a meno che egli non sia in mala fede, produce interessi solo a seguito della proposizione di un'apposita domanda giudiziale, atteso che all'indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede in senso soggettivo dell'art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto della domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda (cfr. ex multis, Cass. 18.05.2016, n. 10161; 13.05.2016, n. 9934; 30.03.2015, n. 6401; 25.02.2014, n. 4436; 08.05.2013, n. 10815; 15.06.2012, n. 9845; 31.07.2009, n. 17848, la quale precisa che la buona fede sussiste anche in presenza di dubbio circa la debenza della somma corrisposta; 02.08.2006, n. 17558; 10.03.2005, n. 5330; 04.03.2005, n. 4745; 14.09.2004, n. 18518; 28.01.2004, n. 1581);
   -
nell'ipotesi di azione di ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., pertanto, in parziale deroga rispetto a quanto previsto sia all'art. 1282, che all'art. 1224 c.c., il debito dell'accipiens, pur avendo ad oggetto una somma di denaro liquida ed esigibile, non produce interessi a partire dal momento del pagamento, a meno che l'accipiens non sia in mala fede;
   -
si deve, dunque, avere riguardo all'elemento psicologico esistente alla data di riscossione della somma, a meno che il creditore non provi la mala fede dell'accipiens: con la precisazione che, anche in questo campo, la buona fede si presume, ed essa può essere esclusa soltanto dalla prova della consapevolezza da parte dell'accipiens della insussistenza di un suo diritto a ricevere il pagamento (così Cass. 10.03.2005, n. 5330);
   - nel caso di specie, alcuna evidenza in ordine alla mala fede del Comune è stata fornita in giudizio con conseguente piena operatività della presunzione di buona fede.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due titoli edilizi assentiti (concessione originaria e variante), scomputando quanto già pagato al momento del rilascio del titolo originario.
Per la concessione in variante, però, la quota percentuale della parte del contributo commisurato al costo di costruzione delle opere ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e quantificate) al momento del rilascio della concessione originaria.
Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante.
Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente.
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Con ricorso notificato in data 09.09.2015 e depositato il successivo 22 settembre, la Fi.In.In. Società di Gestione del Risparmio S.p.A. (di seguito SGR) ha chiesto la condanna del Comune di Campobasso al pagamento della somma di euro 250.691,86, oltre interessi e rivalutazione monetaria, che la società afferma di aver versato al Comune a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, in realtà non dovuti.
La ricorrente premette di gestire un fondo denominato “AM Sv.Im.” titolare di un complesso edilizio sito in località Vazzieri e individuato nel Catasto Fabbricati del Comune di Campobasso al foglio 60, mappale 1086, edificato su un terreno originariamente individuato al catasto terreni particelle 1032-1033-907-908.
Su tale terreno veniva realizzato un complesso edilizio composto da due edifici (denominati “fabbricato A” e “Fabbricato B”) in esecuzione del predetto Piano di lottizzazione approvato con delibera del 01.04.2003, n. 24 che recepiva la convenzione con cui la società ricorrente si impegnava ad eseguire direttamente le opere di urbanizzazione primaria a scomputo dei relativi oneri.
Secondo quanto ulteriormente rappresentato, il Comune rilasciava i relativi permessi di costruire per i quali veniva corrisposta la somma di euro 167.903,00 a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria ed euro 286.916,50 a titolo di costo di costruzione, mentre nulla veniva corrisposto per oneri di urbanizzazione primaria in quanto le relative opere venivano realizzate direttamente dalla società ricorrente a scomputo della somma dovuta per oneri di urbanizzazione primaria.
Ciò premesso, parte ricorrente rileva di aver proposto nel corso della realizzazione delle opere una serie di varianti e di aver realizzato opere di urbanizzazione di portata molto maggiore rispetto a quelle previste sulla base del progetto originario, trovandosi poi, su richiesta del Comune, a dover corrispondere, con riserva di ripetizione, anche le somme relative ai costi di urbanizzazione per una somma che non sarebbe stata dovuta e ammontante ad euro 250.691,86.
La SGR agisce pertanto con il presente giudizio per chiedere la restituzione delle somme asseritamente versate in eccesso sulla base dei seguenti motivi.
...
Ciò premesso sul piano fattuale può passarsi allo scrutinio del merito del giudizio che si incentra sulla determinazione della somma che la SGR doveva effettivamente versare per la realizzazione delle opere oggetto di causa. La SGR ritiene che l’importo da corrispondere vada calcolato sulla base di quanto concretamente realizzato e della destinazione impressa alle aree oggetto di edificazione.
In particolare la SGR afferma di aver direttamente realizzato sulla base della convenzione di lottizzazione approvata con la delibera del consiglio comunale del 01.04.2003, n. 24 tutte le opere di urbanizzazione primaria e che pertanto dall’importo dovuto per gli oneri di urbanizzazione andasse scomputato il valore delle opere di urbanizzazione già realizzate oltre che gli importi versati per costo di costruzione e oneri di urbanizzazione secondaria.
Dal proprio canto l’Amministrazione comunale sostiene quanto alle DIA eseguite in variante dalla ricorrente ai sensi del Piano casa che le leggi regionali n. 30/2009 e 25/2008 subordinerebbero la premialità prevista nel ripetuto Piano casa al pagamento integrale degli oneri, in quanto costituenti un quid novi comportante un carico urbanistico ulteriore, i cui oneri non possono essere scomputati dalla somma già versata per la superficie originaria.
Giova rammentare che ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001: <<1. Salvo quanto disposto all'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo.
2. La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione va corrisposta al comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell’interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni, (ora art. 1, comma 2, lett. e) e art. 36, commi 3 e 4, d.lgs. n. 50 del 2016) con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune…4. L'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione:
   a) all'ampiezza ed all'andamento demografico dei comuni;
   b) alle caratteristiche geografiche dei comuni;
   c) alle destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici vigenti;
   d) ai limiti e rapporti minimi inderogabili fissati in applicazione dall'articolo 41-quinquies, penultimo e ultimo comma, della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modifiche e integrazioni, nonché delle leggi regionali;
   d-bis) alla differenziazione tra gli interventi al fine di incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), anziché quelli di nuova costruzione;
   d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. Tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest'ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche
>>.
Dall’altra parte l’art. 9, co. 3, della legge regionale 11.12.2009, n. 30 prevede che <<È dovuto per intero il contributo per gli oneri di urbanizzazione per gli interventi di mutamento di destinazione d'uso di cui all'articolo 2, commi 9 e 10, ed all'articolo 3, comma 6>>.
Ora, secondo l’Amministrazione resistente tale ultima norma implicherebbe che quanto già versato per gli oneri di urbanizzazione non debba essere computato e debba, invece, essere calcolato per intero il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione delle varianti, senza tener conto di quanto già pagato per il progetto originario; parte ricorrente ritiene invece che l’importo da versare non possa prescindere dal conguaglio con quanto già versato.
Tra le due impostazioni il Tribunale ritiene che quest’ultima sia quella corretta.
Il Collegio aderisce infatti all’impostazione giurisprudenziale preferibile secondo cui <<il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due titoli edilizi assentiti (concessione originaria e variante), scomputando quanto già pagato al momento del rilascio del titolo originario. Per la concessione in variante, però, la quota percentuale della parte del contributo commisurato al costo di costruzione delle opere ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e quantificate) al momento del rilascio della concessione originaria. Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente>> (cfr. TAR Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n. 780).
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che per effetto delle varianti richieste ed ottenute a norma del Piano casa, la SGR avrebbe dovuto pagare nuovamente e per intero tutti gli oneri di urbanizzazione ivi inclusi quelli già corrisposti ovvero quelli di valore corrispondente alle opere realizzate, significherebbe riconoscere alla previsione della legge regionale una portata sanzionatoria che essa invece obiettivamente non presenta, come confermato dall’art. 1 della legge della Regione Molise 11.12.2009, n. 30 a mente del quale: <<La Regione promuove misure straordinarie per il sostegno del settore edilizio, attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa, per preservare, mantenere, ricostruire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, promuovere l'edilizia economica per le giovani coppie e le categorie svantaggiate e meno abbienti e l'edilizia scolastica nonché per migliorare le caratteristiche architettoniche, energetiche, tecnologiche e di sicurezza dei fabbricati>>.
Le disposizioni premiali di cui alla citata normativa hanno carattere straordinario e rispondono alla dichiarata finalità di riqualificare il patrimonio edilizio e contrastare la grave crisi economica e di tutelare i livelli occupazionali attraverso il rilancio delle attività edilizie, da attuare sui singoli edifici, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, in relazione ad un arco di tempo limitato, con casi di esclusione ben determinati (cfr. TAR Campania, sez. II, n. 1502/2013).
Stando così le cose una previsione del tipo di quella prefigurata dal Comune resistente che imponesse a chi intenda giovarsi della premialità prevista dalla legge di pagare nella sostanza due volte i medesimi oneri di urbanizzazione, si porrebbe in aperto contrasto con la finalità agevolativa e non sanzionatoria sottesa all’intervento normativo in considerazione.
Ne consegue, in accoglimento di quanto prospettato da parte ricorrente, che gli oneri di urbanizzazione corrisposti dalla ricorrente al resistente Comune o comunque derivanti dal valore delle opere direttamente realizzate in virtù della convenzione di urbanizzazione devono essere detratti da quanto corrisposto in aumento al medesimo Comune per effetto delle varianti apportate.
Pertanto il Collegio, al fine di determinare in concreto l’eventuale somma da restituire alla ricorrente, reputa necessario disporre una verificazione ai sensi dell’art. 66 c.p.a. che, alla luce delle tabelle adottate dal Comune di Campobasso ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 e dei titoli edilizi abilitativi in variante rispetto al progetto originario:
   1) determini la somma effettivamente dovuta da parte ricorrente al Comune di Campobasso per oneri di urbanizzazione primaria, secondaria e per costi di costruzione, tenendo conto delle varianti introdotte al progetto originario;
   2) scomputi dalla somma così determinata il valore degli oneri di urbanizzazione primaria realizzati, e la somma già versata da parte ricorrente per gli oneri di urbanizzazione secondaria e per i costi di costruzione;
   3) individui la somma eventualmente in eccesso corrisposta al Comune di Campobasso da parte ricorrente sulla base del criterio, più volte esplicitato nella presente decisione, per cui gli oneri di urbanizzazione (primaria e secondaria) e i costi di costruzione devono essere versati una sola volta, anche nel caso di varianti introdotte in forza della normativa premiale del Piano casa.
Tale incombente è posto a carico del Direttore del Provveditorato alle Opere pubbliche per l’Abruzzo, il Lazio e la Sardegna, con facoltà di delega in favore di un qualificato funzionario della medesima Amministrazione, che provveda a redigere una relazione al quesito sopra prospettato.
Il predetto verificatore, nel contraddittorio delle parti costituite, provvederà alla disamina della documentazione in atti e a redigere una dettagliata e motivata relazione volta ad illustrare le conclusioni che riterrà di rassegnare.
La relazione corredata dagli atti amministrativi di riferimento, eventuali prospetti e rilievi (per i quali si potrà, se del caso, utilizzare anche quelli versati in atti), dovrà essere depositata, anche in formato digitale, presso la Segreteria entro il termine di 60 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza.
Il compenso spettante al verificatore, ai sensi dell'articolo 66, comma 4, cod. proc. amm., verrà liquidato dopo l'espletamento dell'incarico.
Si rinvia pertanto alla sentenza definitiva la determinazione dell’eventuale somma che il Comune di Campobasso dovrà corrispondere in ripetizione alla ricorrente (TAR Molise, sentenza non definitiva 05.03.2018 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R. Cartasegna, Anche la Regione Piemonte partecipa alla “demolizione” (incostituzionale?) del D.M. n. 1444/1968 (11.11.2018).
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Al riguardo, si legga anche:
  
Riuso dell’edificato, dal Governo una “bocciatura di fatto” della nuova legge del Piemonte (23.11.2018 - link a www.casaeclima.com).

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EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, 23.11.2018).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Conclusione del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13 della l.r. 33/2015, durante il quale è consentito il deposito della documentazione di cui all’art. 6 della medesima L.R. 33/2015 e ss.mm.ii. in formato sia elettronico che cartaceo, prorogato dal D.d.u.o. 21.05.2018 - n. 7262 (B.U.R.L. Serie Ordinaria n. 21 - 24.05.2018) (Regione Lombardia, nota 21.11.2018 n. 27479 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: competenze professionali Dottori agronomi e forestali; inesistenza di competenze esclusive nel settore delle valutazioni arboree. Consiglio di Stato n. 6290/2018 - TAR Veneto n. 440/2018 (Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, nota 08.11.2018 n. 4998 di prot.).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Comitato dei garanti, art. 22 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - indirizzi alle amministrazioni in materia di procedimenti per responsabilità dirigenziale (Comitato dei garanti, nota-circolare 01.10.2018 n. DFP_CG-0000004 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R. Cartasegna, Anche la Regione Piemonte partecipa alla “demolizione” (incostituzionale?) del D.M. n. 1444/1968 (11.11.2018).
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Al riguardo, si legga anche:
  
Riuso dell’edificato, dal Governo una “bocciatura di fatto” della nuova legge del Piemonte (23.11.2018 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: G. Quinto, Illegittimità ella clausola che richieda, a pena di esclusione, il possesso congiunto e non alternativo delle certificazioni “ISO 14001" ed “EMAS (09.11.2018 - tratto da www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALILa difesa in giudizio è un appalto di servizi, anche se limitata a singole vertenze episodiche (08.11.2018 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

INCARICHI PROFESSIONALIAffidamento di servizi legali: le Linee Guida Anac. Le Linee Guida n. 12 dell'ANAC in materia di affidamenti di appalti legali e di incarichi agli avvocati dalle Pubbliche Amministrazioni (07.11.2018 - link a www.giurdanella.it).

A.N.AC.

APPALTIChiarimenti bando tipo n. 3 - Schema di disciplinare di gara per l’affidamento di servizi di architettura e ingegneria di importo pari o superiore ad € 100.000 con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.
Pubblicati i chiarimenti nn. 1 e 2 sulla clausola del punto 7.4 del Bando – tipo n. 3 relativi:
   - il primo al divieto di frazionamento dei due servizi di punta
   - il secondo al possesso dei requisiti in misura maggioritaria da parte della mandataria (19.11.2018 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIIndicazioni alle stazioni appaltanti sull’applicabilità dell’art. 40, comma 2, del Codice dei contratti pubblici agli acquisti di importo inferiore a 1.000 euro (Comunicato del Presidente 30.10.2018 - link a www.anticorruzione.it).

INCARICHI PROFESSIONALILinee guida n. 12 - Affidamento dei servizi legali (delibera 24.10.2018 n. 907 - link a www.anticorruzione.it).
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Il Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha approvato, con la Delibera n. 907 del 24.10.2018, le Linee guida n. 12 che forniscono chiarimenti sulle procedure da seguire per l’affidamento dei servizi legali alla luce della nuova disciplina contenuta nel Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Le Linee guida entreranno in vigore quindici giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
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"I. La natura delle linee guida adottate da Anac sull’affidamento dei servizi legali.
Le linee guida in esame sono state adottate dall’Autorità nell’esercizio del potere di regolazione riconosciutole dall’art. 213, comma 2, decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
Si è avvertita l’esigenza di intervenire per l’esistenza di dubbi interpretativi insorti negli operatori del settore in seguito all’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici che ha profondamente innovato la materia dell’affidamento dei servizi legali, oltre che per la riscontrata disomogeneità dei procedimenti amministrativi seguiti dalle diverse amministrazioni per l’affidamento dei servizi in questione.
Si tratta, dunque, di
linee guida non vincolanti
che, alla luce dei criteri generali già definiti dal Consiglio di Stato (comm. spec., parere 01.04.2016, n. 855), hanno natura di provvedimenti amministrativi. ..." (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 03.08.2018 n. 2017).

ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuova disciplina delle posizioni / Può un ente decidere, autonomamente, di ridurre per un anno lo stanziamento delle risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, ai sensi dell’art. 15, comma 5, e dell’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2017, per avvalersi della facoltà di incrementare, nello stesso anno, il Fondo delle risorse decentrate del personale, di cui all’art. 15, comma 7, del medesimo CCNL del 21.05.2018?
Successivamente, potrà ripristinare l’originario ammontare dello stanziamento di cui si tratta? Quale modello di relazioni sindacali è necessario rispettare?

Relativamente a tale problematica, non sembrano sussistere impedimenti contrattuali a che un ente riduca per un periodo definito, ad esempio per un anno, lo stanziamento delle risorse destinate nel 2017 al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative previste dall’ordinamento dell’ente, ampliando in tal modo le possibilità di incrementare, per quell’anno, le risorse del Fondo del personale (previo confronto sindacale, ai sensi dell’art. 5, comma 2, lett. g), del CCNL del 21.05.2018 e utilizzando gli strumenti dell’art. 67 del medesimo CCNL del 21.05.2018).
L’anno, successivo, invece, l’ente potrà ripristinare lo stanziamento delle risorse destinate nel 2017 al finanziamento delle posizioni organizzative, senza necessità di ricorso alla contrattazione integrativa, come previsto dall’art. 7, comma 3, lett. u), del CCNL del 21.05.2018.
Infatti, l’intervento della contrattazione integrativa, sulla base della formulazione testuale della disciplina contrattuale, deve ritenersi necessario solo nell’ipotesi di incremento delle risorse destinate al finanziamento delle posizioni organizzative che vada al di là dell’ammontare complessivo di quelle che, ai sensi dell’art. 15, comma 5, e dell’art. 67, comma 1, del CCNL del 21.05.2018, sono state originariamente stornate dal fondo nell’anno 2018 (anno di partenza del nuovo fondo ex art. 67 del CCNL del 21.05.2018 ) e sono state vincolate al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative (orientamento applicativo 08.11.2018 CFL 38 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPrevidenza complementare / In relazione alle previsioni dell’art. 56-quater del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, sussiste l’obbligo di aderire al fondo di previdenza complementare Perseo-Sirio oppure è fatta salva la volontà del lavoratore di poter aderire a diverse forme pensionistiche individuali?
Qualora sussista l’obbligo di adesione al fondo di previdenza complementare Perseo-Sirio, vi è anche l’obbligo contestuale di far confluire il TFR o il TFS nello stesso fondo?

Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) a decorrere dal giorno successivo alla data di sottoscrizione del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali, l’art. 56-quater ha individuato il Fondo Perseo-Sirio quale unico fondo destinatario delle risorse derivanti dai proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie riscosse dagli enti, nella quota da questi determinata, ai sensi dell’art. 208, commi 4, lett. c), del D.Lgs. n. 285/1992 e destinata a tale finalità. Nel contempo, la nuova disciplina non esclude che siano mantenute le posizioni individuali eventualmente già esistenti presso altre forme pensionistiche complementari e le relative risorse pregresse già confluite, nel rispetto delle scelte ed autonome determinazioni individuali degli interessati;
   b) l’obbligo di destinare le risorse di cui alla precedente lett. a) al Fondo Pensione Perseo non comporta anche l’obbligo di conferire allo stesso quota parte o la totalità del TFR, né la trasformazione del TFS in godimento in TFR (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 36 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOrario di lavoro / Alla luce delle previsioni dell’art. 27 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente l’orario di lavoro flessibile, gli eventuali crediti residui risultanti a fine mese possono essere utilizzati per compensare debiti orari del mese successivo?
Se a fine mese il dipendente ha un saldo negativo tra crediti e debiti orari, derivanti dall’utilizzo delle fasce di flessibilità, si deve procedere alla decurtazione della retribuzione?

L’art. 27, comma 3, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nell’ambito della disciplina dell’orario di lavoro flessibile, espressamente dispone “3. L’eventuale debito orario derivante dall’applicazione del comma 1, deve essere recuperato nell’ambito del mese di maturazione dello stesso, secondo le modalità e i tempi concordati con il dirigente.”.
Innanzitutto, giova precisare che il mese considerato dalla clausola contrattuale è il mese di calendario.
In ordine, poi, al vincolo per cui l’eventuale debito orario derivante dalla fruizione da parte del lavoratore di spazi di flessibilità oraria, in entrata o in uscita, deve essere recuperato nel mese di maturazione, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che esso non abbia una portata assoluta, ma, possa, entro certi limiti, essere derogato.
A tal fine, viene, innanzitutto, in considerazione la fattispecie dell’eventuale sopraggiungere di un impedimento, oggettivo ed imprevisto, che non consenta al lavoratore il recupero orario entro il mese di maturazione del debito orario.
Ad esempio, una malattia insorta che si protragga per una durata tale nel mese da non consentire la prestazione dovuta entro il termine prestabilito.
Oppure, anche l’ipotesi, ugualmente avente carattere di eccezionalità, della fruizione della flessibilità oraria proprio nell’ultimo giorno del mese.
In questi casi, si ritiene possibile lo slittamento del termine al mese successivo a quello di maturazione.
Sarà cura del dirigente concordare con il dipendente le modalità temporali per garantire il recupero della prestazione dovuta ed evitare ulteriori dilazioni del termine stesso.
Una altra fattispecie di possibile deroga può essere rappresentata dalla necessità di soddisfare specifiche ed oggettive esigenze organizzative dell’ente stesso.
Infatti, la scelta contrattuale, per cui il recupero del debito orario deve avvenire entro il mese di maturazione del debito stesso, è finalizzata a salvaguardare le esigenze organizzative e gestionali degli enti a fronte della fruizione da parte del lavoratore di forme di flessibilità oraria, che si sono comunque tradotte in una ridotta prestazione lavorativa nel corso del mese.
Proprio per tale specifica finalizzazione, si ritiene che l’ente possa decidere di concordare con il dipendente modalità di recupero del debito orario anche nel mese successivo a quello di maturazione, ove una tale opzione corrisponda ad una effettiva necessità di soddisfare future, specifiche e precise esigenze organizzative ed operative dell’ente.
Occorre, tuttavia, sempre una certa prudenza nei comportamenti derogatori del datore di lavoro pubblico.
Infatti, l’art. 27, comma 3, del CCNL del 21.05.2018, disciplinando un particolare aspetto del rapporto di lavoro, ha inteso anche dettare una regola unica e uniforme, a garanzia della trasparenza ed imparzialità dei comportamenti datoriali nei confronti di tutti i lavoratori.
Pertanto, eventuali deroghe alla regola generale potrebbero, ove non effettivamente giustificate, rappresentare il presupposto per la formulazione di richieste emulative da parte di tutti i dipendenti, comunque, potenzialmente interessati.
In tal modo, gli spazi ritenuti consentiti per una possibile deroga al vincolo contrattuale, ai fini della soddisfazione di specifici interessi dell’ente, finirebbero per ampliarsi per assumere così il carattere di regola generale.
In ordine al secondo problema posto, si esprimono perplessità sulla stessa ammissibilità di spazi di flessibilità positiva non collegati al recupero di quelli negativi.
Infatti, al di fuori di tale fattispecie, la flessibilità positiva finisce con l’identificarsi con eventuale tempo di lavoro prestato, comunque, dal lavoratore, oltre i limiti di durata ordinaria della giornata lavorativa.
Tale aspetto assume un particolare rilievo, in quanto trattandosi di prestazioni ulteriori, rispetto all’orario ordinario, potrebbe configurarsi come orario di lavoro straordinario.
Pertanto, lo stesso non solo dovrebbe corrispondere a precise esigenze organizzative dell’ufficio ma dovrebbe essere, sempre, preventivamente autorizzato dal dirigente, secondo le regole generali.
Prestazioni lavorative che il personale potrebbe rendere in più, rispetto all’orario ordinario dovuto nell’arco temporale di riferimento, nell’ambito della cosiddetta flessibilità positiva ipotizzata, sostanzialmente secondo esigenze personali, potrebbero determinare una forma patologica di applicazione dell’istituto, con il rischio anche di ricadute negative ed impreviste sull’entità delle risorse destinate al pagamento del lavoro straordinario.
Infatti, proprio per questo aspetto, il lavoro straordinario deve essere sempre preventivamente autorizzato, come detto, dal dirigente o comunque dal responsabile del servizio.
Occorre, poi, ricordare anche che l’art. 38, comma 7, del CCNL del 14.09.2000, prevede espressamente che, solo su specifica richiesta in tale senso del dipendente, le prestazioni di lavoro straordinario effettivamente rese, in luogo del pagamento del relativo compenso, possono dare luogo a riposo compensativo, da fruire compatibilmente con le esigenze organizzative e di servizio (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 35 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOResponsabilità disciplinare / In caso di applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione dalla retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di sei mesi, ai sensi dell’art. 59, comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, deve essere ancora corrisposta l’indennità di cui all’art. 3, comma 6, del CCNL dell’11.04.2008?
In caso di applicazione delle sanzioni disciplinari di cui all’art. 59, commi 5, 6 e 7, del CCNL del 21.05.2018, deve essere applicata la medesima disciplina?

Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile evidenziare che la nuova disciplina in materia di codice disciplinare (art. 59 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018) non ha previsto, per nessuna delle fattispecie ivi previste di sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, l’erogazione dell’indennità cosiddetta “alimentare“, a prescindere dalla durata della sospensione.
Infatti, è stata espressamente abrogata la previsione dell’art. 3, comma 6, ultimo periodo, del CCNL dell’11.04.2008, che, per il caso della sospensione dal lavoro con privazione della retribuzione da 11 giorni a sei mesi, disponeva che: “Nella sospensione dal servizio prevista dal presente comma, il dipendente è privato della retribuzione fino al decimo giorno mentre, a decorrere dall’undicesimo, viene corrisposta allo stesso una indennità pari al 50% della retribuzione indicata all’art. 52, comma 2, lett. b) (retribuzione base mensile) del CCNL del 14.09.2000 nonché gli assegni del nucleo familiare ove spettanti. Il periodo di sospensione non è, in ogni caso, computabile ai fini dell’anzianità di servizio” (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 34 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / L’art. 35, comma 5, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 stabilisce che i permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, ove fruiti cumulativamente per una intera giornata lavorativa, comportano una riduzione del monte ore annuo di 18 ore a disposizione del dipendente pari alla durata dell’orario di lavoro che il dipendente stesso avrebbe dovuto osservare nella giornata di assenza.
Come raccordare tale disciplina con le assenze previste dall’art. 55-septies, comma 5-ter, del D.Lgs. n. 165/2001, per le quali non è previsto alcuna limitazione annuale?
Come applicare la regola del riproporzionamento delle ore annuali di permesso spettanti al dipendente nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale?

È necessario preliminarmente chiarire che l’art. 35 del CCNL del 21.05.2018 introduce un’organica ed esaustiva disciplina in materia di “assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici”, che non si pone in contrasto, né su un piano diverso, rispetto alla previsione normativa dell’art. 55-septies del d.lgs. 165/2001.
In coerenza con l’atto di indirizzo impartito all’A.RA.N., tale disciplina contrattuale intende invece regolare organicamente ed esaustivamente una tipologia di assenze, che la normativa di legge prende in considerazione solo per un aspetto limitato (la giustificazione del permesso). Il contratto collettivo nazionale, svolgendo pienamente la sua funzione regolatoria in materia di rapporto di lavoro, si pone dunque in diretta continuità con la disposizione di legge, anche al fine di dare ad essa contorni più definiti.
Più specificamente, la disciplina contrattuale in esame introduce, in primo luogo, una nuova tipologia di permessi, prima non prevista dai CCNL, per effettuare visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici. Tali assenze si differenziano dalla malattia, pur essendo a questa assimilabili, in quanto non caratterizzate da patologia in atto o incapacità lavorativa. L’effettuazione di una terapia, di una visita o di un esame diagnostico, come pure il ricorso a prestazioni specialistiche, anche con finalità di mera prevenzione, vengono quindi a costituire il titolo che determina l’insorgenza del diritto all’assenza in oggetto, che va pertanto giustificata solo con la relativa attestazione di presenza.
Per tale prima tipologia di assenza, riconducibile più propriamente alla nozione di “permesso”, viene previsto un plafond annuo di 18 ore.
Per esigenze di completezza della disciplina e per regolare organicamente tutte le possibili fattispecie di assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, l'articolo in questione disciplina anche altre e diverse casistiche.
Si tratta, in particolare:
   - del caso in cui la visita, l’esame o la terapia siano concomitanti ad una situazione di incapacità lavorativa conseguente ad una patologia in atto (comma 11);
   - del caso in cui l'incapacità lavorativa sia determinata dalle caratteristiche di esecuzione e di impegno organico di visite, accertamenti, esami o terapie (comma 12);
   - del caso in cui, a causa della patologia sofferta, il dipendente debba sottoporsi, anche per lunghi periodi, ad un ciclo di terapie implicanti incapacità lavorativa (comma 14).
Tutti e tre i casi in questione sono caratterizzati da uno stato di incapacità lavorativa. Per questo specifico aspetto, essi si differenziano, dunque, dai permessi regolati negli altri commi, presentando una più diretta riconducibilità alla nozione di malattia (“la relativa assenza è imputata a malattia”). Conseguentemente, in tali casi, l’assenza non è fruibile ad ore e non vi è riduzione del monte ore annuo di 18 ore.
Relativamente alla fruizione delle 18 ore di permesso annuo di cui si tratta, nei casi di rapporto a tempo parziale, si avrà:
   - rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale: si procede al riproporzionamento sia del numero annuo dei permessi orari spettanti, sia della durata convenzionale della giornata lavorativa, ai fini del computo del periodo di comporto. Possono valere a tal fine le indicazioni sopra fornite con riferimento ai permessi orari per motivi personali. Eventuali minuti residui di permesso fruito, anche in più occasioni, eccedenti le sei ore, sono comunque valorizzate e sommate nell’anno, sempre ai fini del computo del periodo di comporto;
   - rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale: si procede al riproporzionamento del numero annuo delle ore di permesso, tenendo conto dei giorni di lavoro settimanali di presenza del titolare di tale tipologia di rapporto di lavoro rispetto a quelli previsti per il lavoratore a tempo pieno. Anche in questo caso, per i permessi per motivi personali, non si procede al riproporzionamento della durata convenzionale della giornata lavorativa, ai fini del computo del periodo di comporto. Infatti, nel rapporto di lavoro a tempo parziale verticale la prestazione lavorative è svolta a tempo pieno, ma, ai sensi dell’art. 54, comma 2, lett. b), del CCNL del 21.05.2018: “limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese, dell’anno e con articolazione della prestazione su alcuni giorni della settimana, del mese, o di determinati periodi dell'anno, in misura tale da rispettare la media della durata del lavoro settimanale prevista per il tempo parziale nell'arco temporale preso in considerazione (settimana, mese o anno)” (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 33 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / Quali sono le corrette modalità applicative della disciplina in materia di riproporzionamento del numero di ore annuo di permesso per particolari motivi personali o familiari nel caso di rapporto di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, con articolazione dell’orario di lavoro, rispettivamente, su 4 o 3 giorni in una settimana lavorativa di 5 giorni, ai sensi dell’art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
Come deve essere riproporzionata in questi casi anche la durata convenzionale di 6 ore, prevista dall’art. 32, comma 2, lett. e), del CCNL del 21.05.2018, ai fini della decurtazione del monte di 18 ore annue, ove il dipendente fruisca cumulativamente dei permessi per la durata dell’intera giornata lavorativa?

Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale, il riproporzionamento andrà effettuato, tenendo conto dei giorni di lavoro settimanali di presenza del titolare di tale tipologia di rapporto di lavoro rispetto a quelli previsti per il lavoratore a tempo pieno.
Pertanto, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale articolato su 4 giorni settimanali, in presenza di una settimana di 5 giorni lavorativi, il dipendente potrà fruire di 14 ore e 24 minuti di permesso retribuito per motivi personali (4/5 di 18).
Nel caso, invece, di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale articolato su soli 3 giorni di presenza in una settimana lavorativa di 5 giorni del lavoratore a tempo pieno, il dipendente potrà fruire di 10 ore e 48 minuti (3/5 di 18).
Non vi è necessità di arrotondamenti perché i permessi possono essere fruiti anche per frazioni di ora, ricordando, però, che il lavoratore non può avvalersi degli stessi per un arco temporale inferiore ad una sola ora.
Conseguentemente, il dipendente non potrà fruirne per 20 o anche per 50 minuti (dovendo in questo caso comunque contabilizzare un’intera ora), mentre si ritiene possibile, in coerenza con la finalità ricordata, l'utilizzo per periodi composti da un'ora o da un numero intero di ore, seguiti da frazioni di ora (ad esempio, un'ora e quindici minuti, un'ora e trenta, due ore e venti ecc.).
Si evidenzia anche che, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, non si procede al riproporzionamento della durata convenzionale, ai fini della decurtazione, in caso di fruizione dei permessi per la durata dell’intera giornata lavorativa.
Infatti, nel rapporto di lavoro a tempo parziale verticale la prestazione lavorative è svolta a tempo pieno, ma, ai sensi dell’art.54, comma 2, lett. b), del CCNL del 21.05.2018: “limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese, dell’anno e con articolazione della prestazione su alcuni giorni della settimana, del mese, o di determinati periodi dell'anno, in misura tale da rispettare la media della durata del lavoro settimanale prevista per il tempo parziale nell'arco temporale preso in considerazione (settimana, mese o anno)” (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 32a - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOrario d lavoro / In caso di prestazione di lavoro individuale eccedente le sei ore (per un tempo limitato ad alcune decine di minuti), volta a compensare le carenze di orario che si possono determinare nell’ambito della fruizione della flessibilità dell’orario di lavoro, è obbligatorio osservare la pausa di 30 minuti, di cui all’art. 26 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
In materia, si ritiene utile precisare che l’art. 26, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, in coerenza con le previsioni del D.Lgs. n. 66/2003, configura la pausa come obbligatoria in presenza di una prestazione di lavoro giornaliera che ecceda le sei ore, qualunque sia la ragione giustificativa di tale prolungata durata dell’orario di lavoro (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 31 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / Ove il dipendente faccia richiesta di fruire di permessi per visite, terapie, prestazioni, specialistiche od esami diagnostici, di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, su base oraria o anche giornaliera, che non determini incapacità lavorativa, vi sono legittime motivazioni di diniego, quali le esigenze di servizio, in analogia a quanto avviene per la disciplina dei permessi per particolari motivi personali o familiari?
Relativamente alla particolare problematica prospettata, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che, ove richiesti in presenza dei presupposti previsti dalla disciplina contrattuale, l’ente non possa legittimante rifiutare al dipendente la fruizione dei permessi orari per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni, specialistiche od esami diagnostici, di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, anche in presenza di esigenze di servizio.
Infatti, sulla base della specifica formulazione della clausola contrattuale (“Ai dipendenti sono riconosciuti specifici permessi…..”), diversa da quella utilizzata dall’art. 32 del CCNL del 21.05.2018 per i permessi per particolari motivi personali o familiari (“Al dipendente possono essere concesse….), si ritiene che il dipendente vanti un vero e proprio diritto soggettivo alla fruizione dei permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni, specialistiche od esami diagnostici.
Il diverso regime giuridico trova giustificazione nella particolare e specifica motivazione che è alla base del riconoscimento di questa particolare tipologia di permessi (l’esigenza di effettuazione di una terapia, di una visita o di un esame diagnostico, come pure il ricorso a prestazioni specialistiche, anche con finalità di mera prevenzione), indubbiamente più rilevante e meritevole di tutela rispetto ai particolari motivi personali o familiari che possono legittimare i permessi dell’art. 32 del CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 30 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOWelfare integrativo / Un ente che non ha mai stanziato ed impiegato in passato risorse per finalità di welfare, può attivare ugualmente il welfare integrativo, ai sensi dell’art. 72 del CCNL delle Funzioni Locali, e quali risorse può utilizzare a tal fine?
E’ possibile destinare una somma a tale finalità mediante corrispondente riduzione di altre voci di spesa di personale rientranti nel limite dell’art. 1, comma 557, della legge n. 296/2006?

In ordine a tale problematica, si ritiene opportuno precisare che, come evidenziato dalla stessa formulazione dell’art. 72 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, gli oneri per la concessione al personale di benefici di natura assistenziale e sociale possono trovare copertura nelle disponibilità già stanziate dagli enti sulla base delle vigenti e specifiche disposizioni normative in materia.
Pertanto, se l’ente non ha già in passato stanziato risorse a tale finalità, sulla base di specifiche norme vigenti nel tempo, non potrà applicare la citata disciplina dell’art. 72 del CCNL del 21.05.2018.
Il CCNL non prevede altre e diverse forme di finanziamento, neppure attraverso l’utilizzo delle generali risorse decentrate.
Infatti, tale finalità non è presente tra diverse modalità di utilizzo delle risorse decentrate fissate nell’art. 68 del medesimo CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 29 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / La fruizione dei permessi orari di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 è strettamente legata a visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici del dipendente che presenta richiesta o può essere estesa anche alle medesime fattispecie relative a familiari?
Come si evince chiaramente dalla formulazione dell’art. 35 (comma 1, “Ai dipendenti sono riconosciutiti specifici permessi per l’espletamento …..”; comma 2: “I permessi di cui al comma 1, sono assimilati alle assenze per malattia….") del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, gli specifici permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, sono riconosciuti solo ai dipendenti che ne facciano richiesta.
Pertanto, si esclude che gli stessi possano essere fruiti dal dipendente anche per visite, terapie, ecc., connesse ad esigenze di congiunti del lavoratore (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 28 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / I permessi per particolari motivi personali e familiari, di cui all’art. 32 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 devono essere documentati dal dipendente che ne fruisce? L’ente può entrare nel merito “dei particolari motivi personali e familiari” addotti dal dipendente a giustificazione della fruizione dei permessi?
La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni Locali 21.05.2018 in materia di permessi retribuiti non prevede più la necessità di documentare i motivi e le ragioni per le quali viene richiesto il permesso, anche se la motivazione, che consente di ricondurre tale tutela alle esigenze personali e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata nella richiesta avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il presupposto legittimante per la concessione del permesso.
Infatti, nell'ambito della complessiva disciplina dell’istituto, il lavoratore non è titolare di un diritto soggettivo perfetto alla fruizione dei permessi ed il datore di lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato a concedere gli stessi. Quest’ultimo, ben può, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, anche negare la fruizione dei permessi in presenza di ragioni organizzative e di servizio ritenute prevalenti rispetto all'interesse del lavoratore evidenziato nella domanda.
E’ indubbio, pertanto, che quanto più sarà motivata e giustificata la richiesta del dipendente, tanto più sarà agevole la comparazione degli interessi contrapposti e la concessione dei permessi. Conseguentemente, ove la suddetta richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente giustificata, a seguito della comparazione degli interessi coinvolti di cui si è detto, il datore di lavoro potrà far valere la prevalenza delle esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, quindi, non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno della ragione addotta, ma solo la sussistenza di ragioni organizzative od operative che impediscano la concessione del permesso (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 27 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / Con riferimento al rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, quali possono essere le modalità di riproporzionamento delle sei ore previste dall’art. 32, comma 2, lett. e), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 quale decurtazione convenzionale del monte ore annuo di permesso per motivi personali e familiari, in caso di fruizione del permesso per l’intera giornata, nelle seguenti ipotesi:
  - personale a tempo parziale al 52,80%;
   - personale a tempo parziale all’80,56%;
   - personale a tempo parziale all’88,89%?

In presenza di un rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, applicando la regola del riproporzionamento, di cui all’art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nelle fattispecie ipotizzate, si avrà che la decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di fruizione del permesso per l'intera giornata, sarà pari a:
   - 3 ore e 10 minuti per il rapporto di lavoro a tempo parziale al 52,80% (52,80% di 6 ore e cioè 3,17 ore; rapportando i centesimi in minuti (0,17 x 60) si avrà il risultato finale di 3 ore e 10 minuti);
   - 4 ore e 50 minuti per il rapporto di lavoro a tempo parziale all’80,56% (applicando la medesima regola del punto precedente)
   - 5 ore e 20 minuti per il rapporto di lavoro a tempo parziale all’88,89% (applicando la medesima regola del punto precedente) (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 26a - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / Un dipendente prima del 21.05.2018 ha già fruito di tutti i giorni di permesso per motivi personali e familiari di cui all’art. 19 comma 2, del CCNL del 06.07.1995. Può ancora fruire anche dei permessi per particolari motivi personali e familiari, di cui all’art. 32 del CCNL delle Funzioni Locali nel corso del 2018?
Se prima della stipulazione del CCNL del 21.05.2018, il lavoratore ha già fruito dei tre giorni di permesso retribuito per motivi personali, di cui all’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, fino al 31.12.2018 lo stesso non potrà fruire dei permessi orari retribuiti dell’art. 32 del citato CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 25 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / In relazione ad un lavoratore titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale al 52%, già dall’inizio del 2018, come si applica la regola del riproporzionamento delle ore annuali di permesso per particolari permessi personali o familiari, di cui all’art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
Se il medesimo dipendente, prima del 21.05.2018, abbia già fruito di due giorni di permesso per motivi personali, ai sensi dell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, come si determina il numero delle ore di permesso ancora fruibili dal dipendente nel corso del 2018?

Applicando la regola del riproporzionamento, di cui all’art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali alla particolare fattispecie prospettata di un rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, con orario di lavoro pari al 52,80% dell’orario di lavoro a tempo pieno, si avrà che:
   1) le ore di permesso per motivi personali annuali spettanti al lavoratore saranno pari al 52,80% di 18 ore e cioè 9 ore e 30 minuti;
   2) per coerenza ed al fine di assicurare trattamenti uniformi con il personale a tempo pieno, nel caso del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, caratterizzato da una ridotta prestazione oraria su tutti i giorni lavorativi, si dovrà procedere anche al riproporzionamento delle sei ore, previste dal comma 2, lett. e), del medesimo art. 32 del CCNL del 21.05.2018, quale decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di fruizione del permesso per l’intera giornata. Per effetto del suddetto riproporzionamento, nel caso prospettato, la durata convenzionale, ai fini della decurtazione, in caso di fruizione dei permessi per la durata dell’intera giornata lavorativa, sarà pari al 52,80% di 6 ore e cioè 3 ore e 10 minuti.
Poiché il lavoratore era titolare del rapporto di lavoro a tempo parziale, con tali caratteristiche orarie, già dall’inizio del 2018, ai fini della decurtazione dei giorni di permesso già fruiti ai sensi dell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995 prima del CCNL del 21.5.2018, si ritiene che, secondo criteri di logica e ragionevolezza, le due giornate da detrarre dovranno essere valutate secondo la durata prevista per ciascuna all’interno del rapporto a tempo parziale e cioè tenendo conto di 3 ore e 10 minuti.
Pertanto, dal monte ore annuo di 9 ore e 30 minuti dovranno essere detratte 6 ore e 20 minuti, con conseguente disponibilità per il lavoratore di sole 3 ore e 10 minuti fino al 31.12.2018 (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 24a - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / Qualora prima della sottoscrizione del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, un dipendente abbia già fruito di due giorni di permesso per particolari motivi personali di cui all’art. 16, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, di quante ore di permesso per particolari motivi personali o familiari, di cui all’art. 32 del citato CCNL del 21.05.2018, può ancora fruire nel corso del 2018?
Qualora l’articolazione oraria settimanale preveda un giorno di 4 ore ed il dipendente proprio in quel giorno intende fruire cumulativamente dei permessi dell’art. 32 per l’intera giornata lavorativa, la decurtazione deve essere effettuata tenendo conto della durata convenzionale prevista dall’art. 32, comma 2, lett. e), del CCNL del 21.05.2018 oppure di quella formalmente prevista per quel giorno?

In base a quanto espressamente previsto dal comma 2, lett. e), dell’art. 32 del CCNL delle Funzioni Locali stipulato il 21.05.2018, in caso di fruizione del permesso orario per l’intera giornata lavorativa, la riduzione del monte ore annuo di permessi sarà sempre di sei ore (durata convenzionale), sia nel caso di giornata lavorativa con orario superiore a sei ore (ad esempio, 8 ore) che in quello di orario inferiore alle 6 ore (ad esempio, 5 ore).
Non si determina, quindi, né un recupero né un credito orario.
Si coglie l’occasione per evidenziare anche che la disciplina previgente, contenuta nell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, come noto, consentiva il riconoscimento dei permessi per motivi personali e familiari con una modalità di fruizione esclusivamente giornaliera, nel limite di tre giorni annui.
Tale disciplina è stata modificata e sostituita da quella contenuta nell’art. 32, comma 2, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo la quale: “Al dipendente, possono essere concesse, a domanda, compatibilmente con le esigenze di servizio, 18 ore di permesso retribuito nell'anno, per particolari motivi personali o familiari.”.
Non si tratta di una forma di permesso ulteriore ed aggiuntiva.
Vengono in considerazione, infatti, sempre i permessi per particolari motivi personali o familiari, ma cambia solo la modalità di fruizione da giornaliera, ai sensi del precedente art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, ad oraria, come disposto dal nuovo contratto.
Pertanto, i tre giorni annui di permesso di cui si tratta si sono semplicemente “trasformati” nelle 18 ore annue di cui al citato art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
Per effetto di quanto sopra detto, conseguentemente, se un lavoratore, prima del 21.05.2018, ha già fruito di uno o più giorni di permesso per motivi personali, secondo la pregressa regolamentazione, questi dovranno essere, comunque, portati in detrazione dal monte delle 18 ore di permesso retribuito, di cui al sopra richiamato art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
Al fine della corretta determinazione del numero delle ore da detrarre, gli enti possono fare riferimento alle previsioni del comma 2, lett. e) del medesimo art. 32, secondo le quali i permessi orari di cui si tratta “possono essere fruiti, cumulativamente, anche per la durata dell’intera giornata lavorativa; in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a sei ore”.
Tale regola, finalizzata espressamente alla quantificazione delle modalità di decurtazione del monte orario annuale dei permessi orari, nel caso in cui essi siano fruiti cumulativamente per una intera giornata, nell’ambito della nuova regolamentazione introdotta, consente, indirettamente, di determinare anche la decurtazione da operare nella diversa ipotesi di avvenuta fruizione, prima del nuovo CCNL, di giorni di permesso, ai sensi dell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
Infatti, secondo principi di logica e ragionevolezza, non possono applicarsi regole diverse in presenza di fattispecie sostanzialmente assimilabili.
Pertanto, se un dipendente ha già fruito, ai sensi del più volte citato art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, di due giorni di permesso per particolari motivi personali e familiari, l’ente procederà ad una decurtazione di 12 ore di quel monte orario annuo di 18 ore previsto dall’art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018 (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 23 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / In relazione alla disciplina dei permessi orari retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, qualora un dipendente comunichi di aver dimenticato di chiedere al medico o alla struttura il rilascio di tale giustificazione, l’assenza può essere autocertificata?
L’art. 35, comma 9, del CCNL del 21.05.2018 prevede espressamente che, ai fini della fruizione dei permessi di cui si tratta, l’assenza sia giustificata solo mediante una specifica attestazione di presenza, anche in ordine all’orario, redatta dai soggetti ivi specificati.
In mancanza di una indicazione in tal senso nella disciplina contrattuale, si esclude, pertanto, che l’assenza possa essere giustificata anche mediante autocertificazione, qualunque sia la causa della mancanza della documentazione giustificativa richiesta (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 22 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPermessi per motivi personali o familiari / Come deve essere computato il termine massimo di 7 giorni lavorativi dal decesso per la fruizione dei permessi per lutto?
Si ritiene che il computo del termine massimo di 7 giorni lavorativi dal decesso per la fruizione dei tre giorni di permesso retribuito del lutto, ai sensi dell’art. 31, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, debba essere effettuato secondo la generale disciplina civilistica, di cui all’art. 2963 del codice civile ed all’art. 155 del codice di procedura civile (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 20 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / In relazione alle previsioni dell’art. 35, commi da 1 a 10, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernenti le 18 ore annuali di permesso per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, ai fini del computo del periodo di comporto, in caso di fruizione di un giorno di permesso, deve essere computato un giorno di comporto o il conteggio del comporto deve avvenire in base al numero effettivo di ore di lavoro che il dipendente avrebbe dovuto osservare nella giornata di assenza?
In materia deve farsi riferimento alla espressa previsione dell’art. 35, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale: “Ai fini del computo del periodo di comporto, sei ore di permesso fruite su base oraria corrispondono convenzionalmente ad una intera giornata lavorativa.”.
Pertanto, nel caso di permessi orari per visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici fruiti cumulativamente per una intera giornata lavorativa, ove questa abbia una durata di 9 ore (per effetto del rientro pomeridiano in presenza di una settimana lavorativa con orario articolato sul 5 giorni), ai fini del computo del periodo di comporto, sarà considerato sempre un solo giorno.
Tuttavia, le ulteriori tre ore di permesso (rispetto alle sei già precedentemente valutate) saranno, comunque, considerate.
Infatti, esse si potranno sommare alle ulteriori ore di permesso eventualmente fruite al medesimo titolo nel corso dell’anno di riferimento e, ove, si raggiunga, di nuovo, il numero di sei, esse daranno luogo al computo di un altro giorno nel periodo di comporto (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 19 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / L’art. 35, commi da 1 a 10, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 ha introdotto la nuova tipologia di permessi orari retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici.
Poiché il contratto è entrato in vigore il 22.05.2018, è corretto ritenere che, per il 2018, le 18 ore annue di tale tipologia di permessi devono essere riproporzionate in modo da tenere conto della data di decorrenza degli effetti del nuovo CCNL?

In ordine a tale problematica si ritiene utile precisare quanto segue.
L’art. 35 del CCNL del 21.05.2018 ha introdotto un’organica ed esaustiva disciplina in materia di “assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici”.
Il nuovo istituto contrattuale, applicabile dal 22.05.2018, infatti, prevede un quantitativo di 18 ore annue che, potranno essere fruite, alle condizioni espressamente stabilite dal citato art. 35 del CCNL del 21.05.2018.
Trattandosi di un istituto del tutto nuovo, che non trova precedenti e non si collega in alcun modo, direttamente o implicitamente, alla pregressa disciplina applicabile in materia, l’eventuale fruizione, ai sensi 55-septies del D.Lgs. n. 165/2001, nei primi mesi del 2018, di assenze giornaliere per visite specialistiche non può avere alcuna incidenza sul quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina contrattuale riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà sempre fruire di permessi retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, nel limite delle 18 ore annue, anche se precedentemente al 21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la medesima motivazione (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 18 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORelazioni sindacali / Un ente che non ha sottoscritto il contratto integrativo relativo all’anno 2017, può prevedere, nel contratto integrativo firmato oltre l’anno di competenza, i criteri per la distribuzione del compensi relativi alla performance per il suddetto 2017?
Relativamente al problema della eventuale retroattività del contratto integrativo, si ritiene opportuno evidenziare che, in diverse occasioni, in passato, la Corte dei Conti ha ritenuto che l’erogazione di compensi per produttività, in riferimento ad anni ormai decorsi, non fosse lecita per la mancanza delle condizioni oggettive che legittimano, a monte, tali emolumenti.
Tuttavia, si deve sottolineare che di recente, la Corte dei Conti, Sezione di controllo della regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, con la deliberazione n. FVG/20/2018/Par ha fornito ulteriori elementi che consentono di affrontare la problematica posta in modo parzialmente diverso.
Tale pronuncia affronta il caso in cui, pur in presenza di un contratto integrativo sottoscritto l’anno successivo, sussistano tutti i requisiti sostanziali per l’erogazione dei compensi correlati alla performance: oltre a un’adeguata, formale e definitiva costituzione del Fondo entro l’anno, certificato dall’Organo di revisione, anche una tempestiva assegnazione degli obiettivi (individuali e/o collettivi) in modo che il personale dipendente “abbia potuto dispiegare consapevolmente e proficuamente le proprie energie lavorative a fronte dell’attività incentivata e nell’interesse finale dell’ente”.
Sussistendo tali requisiti sostanziali ed avendo la contrattazione integrativa -ancorché definitasi nell’anno successivo- operato nei limiti del suo ambito di riferimento, senza avere alcuna parte nell’individuazione degli obiettivi, nella determinazione del loro valore e del personale da coinvolgere, nella fissazione dei criteri di valutazione, le somme destinate ad incentivare la produttività possono comunque essere erogate.
Per operare in tal senso, devono necessariamente sussistere anche gli ulteriori presupposti fissati dalle norme contabili affinché le risorse non impegnate nell’anno di riferimento possano confluire nella parte vincolata dell’avanzo di amministrazione (ovverosia, la previa costituzione del Fondo nel corso dell’esercizio e la intervenuta emissione della certificazione dell’organo di revisione) (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 17 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOrario di lavoro / Alla luce delle previsioni dell’art. 27 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente l’orario di lavoro flessibile, gli eventuali crediti residui risultanti a fine mese possono essere utilizzati per compensare debiti orari del mese successivo?
Se a fine mese il dipendente ha un saldo negativo tra crediti e debiti orari, derivanti dall’utilizzo delle fasce di flessibilità, si deve procedere alla decurtazione della retribuzione?

L’art. 27, comma 3, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nell’ambito della disciplina dell’orario di lavoro flessibile, espressamente dispone “3. L’eventuale debito orario derivante dall’applicazione del comma 1, deve essere recuperato nell’ambito del mese di maturazione dello stesso, secondo le modalità e i tempi concordati con il dirigente.”.
Innanzitutto, giova precisare che il mese considerato dalla clausola contrattuale è il mese di calendario.
In ordine, poi, al vincolo per cui l’eventuale debito orario derivante dalla fruizione da parte del lavoratore di spazi di flessibilità oraria, in entrata o in uscita, deve essere recuperato nel mese di maturazione, l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che esso non abbia una portata assoluta, ma, possa, entro certi limiti, essere derogato.
A tal fine, viene, innanzitutto, in considerazione la fattispecie dell’eventuale sopraggiungere di un impedimento, oggettivo ed imprevisto, che non consenta al lavoratore il recupero orario entro il mese di maturazione del debito orario.
Ad esempio, una malattia insorta che si protragga per una durata tale nel mese da non consentire la prestazione dovuta entro il termine prestabilito.
Oppure, anche l’ipotesi, ugualmente avente carattere di eccezionalità, della fruizione della flessibilità oraria proprio nell’ultimo giorno del mese.
In questi casi, si ritiene possibile lo slittamento del termine al mese successivo a quello di maturazione.
Sarà cura del dirigente concordare con il dipendente le modalità temporali per garantire il recupero della prestazione dovuta ed evitare ulteriori dilazioni del termine stesso.
Una altra fattispecie di possibile deroga può essere rappresentata dalla necessità di soddisfare specifiche ed oggettive esigenze organizzative dell’ente stesso.
Infatti, la scelta contrattuale, per cui il recupero del debito orario deve avvenire entro il mese di maturazione del debito stesso, è finalizzata a salvaguardare le esigenze organizzative e gestionali degli enti a fronte della fruizione da parte del lavoratore di forme di flessibilità oraria, che si sono comunque tradotte in una ridotta prestazione lavorativa nel corso del mese.
Proprio per tale specifica finalizzazione, si ritiene che l’ente possa decidere di concordare con il dipendente modalità di recupero del debito orario anche nel mese successivo a quello di maturazione, ove una tale opzione corrisponda ad una effettiva necessità di soddisfare future, specifiche e precise esigenze organizzative ed operative dell’ente.
Occorre, tuttavia, sempre una certa prudenza nei comportamenti derogatori del datore di lavoro pubblico.
Infatti, l’art. 27, comma 3, del CCNL del 21.05.2018, disciplinando un particolare aspetto del rapporto di lavoro, ha inteso anche dettare una regola unica e uniforme, a garanzia della trasparenza ed imparzialità dei comportamenti datoriali nei confronti di tutti i lavoratori.
Pertanto, eventuali deroghe alla regola generale potrebbero, ove non effettivamente giustificate, rappresentare il presupposto per la formulazione di richieste emulative da parte di tutti i dipendenti, comunque, potenzialmente interessati.
In tal modo, gli spazi ritenuti consentiti per una possibile deroga al vincolo contrattuale, ai fini della soddisfazione di specifici interessi dell’ente, finirebbero per ampliarsi per assumere così il carattere di regola generale.
In ordine al secondo problema posto, si esprimono perplessità sulla stessa ammissibilità di spazi di flessibilità positiva non collegati al recupero di quelli negativi.
Infatti, al di fuori di tale fattispecie, la flessibilità positiva finisce con l’identificarsi con eventuale tempo di lavoro prestato, comunque, dal lavoratore, oltre i limiti di durata ordinaria della giornata lavorativa.
Tale aspetto assume un particolare rilievo, in quanto trattandosi di prestazioni ulteriori, rispetto all’orario ordinario, potrebbe configurarsi come orario di lavoro straordinario.
Pertanto, lo stesso non solo dovrebbe corrispondere a precise esigenze organizzative dell’ufficio ma dovrebbe essere, sempre, preventivamente autorizzato dal dirigente, secondo le regole generali.
Prestazioni lavorative che il personale potrebbe rendere in più, rispetto all’orario ordinario dovuto nell’arco temporale di riferimento, nell’ambito della cosiddetta flessibilità positiva ipotizzata, sostanzialmente secondo esigenze personali, potrebbero determinare una forma patologica di applicazione dell’istituto, con il rischio anche di ricadute negative ed impreviste sull’entità delle risorse destinate al pagamento del lavoro straordinario.
Infatti, proprio per questo aspetto, il lavoro straordinario deve essere sempre preventivamente autorizzato, come detto, dal dirigente o comunque dal responsabile del servizio.
Occorre, poi, ricordare anche che l’art. 38, comma 7, del CCNL del 14.09.2000, prevede espressamente che, solo su specifica richiesta in tale senso del dipendente, le prestazioni di lavoro straordinario effettivamente rese, in luogo del pagamento del relativo compenso, possono dare luogo a riposo compensativo, da fruire compatibilmente con le esigenze organizzative e di servizio (orientamento applicativo 30.10.2018 CFL 16 - link a www.aranagenzia.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso agli atti fai-da-te. La consultazione on-line non incide sull’attività. I consiglieri possono entrare negli applicativi in modalità visualizzazione
 È coerente con la disciplina recata dall'art. 43, comma 2, del dlgs. n. 267/2000, in materia di diritto di accesso, consentire ai consiglieri comunali di accedere a tutti i documenti in arrivo e in partenza, oggetto di registrazione, scansionati otticamente, con possibilità di salvare i file o stamparli? I consiglieri comunali possono visualizzare tutti gli applicativi software gestionali utilizzati dal comune accedendo anche a tutti i dati, agli iter, anche in corso, e alla documentazione collegata?

A norma dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, in relazione al munus rivestito, al consigliere comunale deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr., Cds n. 4525 del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. stato, V sez. 02.04.2001 n. 1893).
Il Tar Campania, Salerno, sez. II, con decisione 25.06.2010, n. 9584, ha affermato che «la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso e il fattore che ne delimita la portata. Le disposizioni richiamate, infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa dell'ente; questo orientamento è confermato dalla giurisprudenza, che ha avuto occasione di precisare che il consigliere può accedere non solo ai «documenti» formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in genere, a qualsiasi «notizia» o «informazione» utili ai fini dell'esercizio delle funzioni consiliari (cfr. Cass. civ. sez. III, sent. n. 8480 del 03.08.1995)
».
Peraltro, lo stesso Tar della Campania, sezione staccata di Salerno (sezione seconda), con la decisione n. 2040/2012 del 13/11/2012, pur riconoscendo l'ampio diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti comunali, ha specificato che si afferma pure in giurisprudenza che «il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi o aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico».
Lo stesso Tar ha ritenuto, nel caso esaminato, che fossero stati varcati i confini di proporzionalità e ragionevolezza tracciati dal Consiglio di stato (sez. V, 02.09.2005, n. 4471), in quanto le istanze di accesso si riferivano a una notevole congerie di atti e documenti, aventi peraltro natura eterogenea, il cui reperimento non poteva che comportare un insopportabile aggravio a carico dei compulsati uffici comunali.
Pertanto, il consigliere comunale, sebbene abbia la possibilità di avere accesso diretto al sistema informatico interno dell'ente attraverso l'uso della password di servizio, tuttavia, può esercitare tale diritto nei limiti che consentano di evitare intralci all'ordinario svolgimento dei servizi degli uffici.
Nel caso di specie, considerato che lo statuto dell'ente consente l'acquisizione di informazioni mediante consultazione di atti e documenti con modalità tali da non incidere negativamente sulla normale attività delle strutture dell'amministrazione comunale, e che la gestione dei servizi tramite l'informatizzazione costituisce ormai la regola nell'attività della pubblica amministrazione, potrebbe consentirsi al consigliere comunale l'accesso ai vari applicativi, in semplice visualizzazione, in modalità che non incidano nelle procedure in corso e non provochino intralci nella ordinaria trattazione delle pratiche da parte degli uffici, con la possibilità di estrarre autonomamente copia degli atti di interesse, acquisibili anche dal registro di protocollo informatico (articolo ItaliaOggi del 23.11.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso atti di polizia.
Domanda
Una segnalazione/esposto presentato alla polizia può essere oggetto di diritto di accesso agli atti?
Risposta
Cerchiamo di riassumere efficacemente l’ampia disciplina riguardante l’argomento oggetto della domanda, al fine di poter tracciare chiaramente, seppur in breve, la prassi da seguire.
Innanzitutto è doveroso distinguere. Se si tratta di denuncia di rilievo penale la procedura è quella prevista dallo stesso codice di procedura penale: l’attività di polizia rientra nella funzioni della polizia giudiziaria ex art. 55 del c.p.p. e gli atti sono coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p.; diverso il caso in cui la segnalazione ha rilievo amministrativo, in cui la violazione di legge o di regolamento che viene denunciata determina una sanzione amministrativa, evento che non obbliga al segreto di indagine da parte dell’organo di polizia.
Gli orientamenti dei diversi TAR e del Consiglio di Stato sono oscillanti, tra gli istituti della tutela della “privacy” e la garanzia dell’accesso agli atti.
Al proposito va citata l’innovativa e recentissima sentenza del TAR Emilia-Romagna del 17.10.2018, n. 772.
A seguito di un controllo su esposto da parte della polizia locale, il titolare di una palestra richiede al comune di Bologna l’accesso agli atti per conoscere il “delatore”. Al diniego, l’interessato si rivolge al TAR, che a sua volta conferma le argomentazioni addotte dal comune, evidenziando che “la conoscenza della fonte all’origine di un controllo di polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce l’attività ispettiva, poiché, qualunque sia la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo”.
Per il Tar Emilia Romagna è pertanto preferibile l’interpretazione per cui l’esposto o la segnalazione non può essere oggetto di accesso agli atti perché “non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipenda la difesa del denunciato”. “La conoscenza dei fatti –conclude la sentenza– e delle allegazioni contestati risulta assicurata già dal verbale di accertamento; non c’è quindi ragione di risalire al precedente esposto”.
Interessante, su questa linea di indirizzo, anche una sentenza TAR Veneto del 04.04.2004, n. 934 che in maniera meno decisa e più “equilibrata”, tra i due diritti, non nega la possibilità di accedere all’esposto, ma ritiene necessaria tutelare la “privacy” dell’autore omettendone il nome per evitare possibili ritorsioni.
Quindi, risulta del tutto legittimo, alla luce di quanto sostenuto dai tribunali amministrativi, negare in tutto o in parte l’accesso all’esposto con cui la polizia amministrativa si attivi e accerti una violazione amministrativa, la cui conseguenza è del tutto autonoma rispetto all’impulso iniziale, espressione del privato cittadino (23.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Calcolo termini permesso lutto.
Domanda
Il permesso per lutto va fruito entro 7 giorni lavorativi dal decesso. Il giorno del decesso è compreso oppure escluso dal computo iniziale?
Risposta
L’art. 31, comma 1, secondo alinea, fornisce un preciso termine temporale entro il quale il permesso per lutto deve essere fruito.
La clausola contrattuale precisa che il permesso è da fruirsi entro 7 giorni lavorativi dal decesso.
A questo proposito l’Aran ha di recente pubblicato un parere (CFL9 del 09.10.2018) offrendo i riferimenti al codice civile e al codice di procedura civile utili a definire il termine massimo in relazione al quale operare il computo.
Le regole sono indicate all’art. 2963 del codice civile dove è precisato che non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell’ultimo istante del giorno.
Inoltre, se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente.
Il secondo riferimento al quale rimanda l’Agenzia è l’art. 155 del codice di procedura civile dove è ribadito che nel computo dei termini a giorni, si esclude il giorno iniziale.
Così come se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo.
Quindi, il giorno del decesso deve essere escluso dal computo del termine dei 7 giorni lavorativi (22.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: CIG e quinto d’obbligo.
Domanda
Il Comune deve appaltare un servizio per una durata triennale del valore certo di € 120.000,00 al netto dell’IVA, con opzione di proroga tecnica ai sensi dell’art. 106, comma 11 del codice, e aumento della prestazione fino ad un quinto ai sensi del comma 12 del citato articolo.
Nella richiesta del CIG come deve essere considerata l’eventuale la proroga tecnica e l’aumento della prestazione prevista negli atti di gara ai sensi dell’art. 106, comma 12?
Risposta
La quantificazione del valore del CIG presenta spesso problemi pratici per le diverse posizioni dottrinarie e di prassi che conducono a situazioni di evidente incertezza. Il codice CIG (codice identificativo gara) è quello strumento che consente di assolvere agli obblighi di comunicazione all’Osservatorio/pubblicazione sul sito del MIT, di contribuzione e di tracciabilità dei flussi finanziari, acquisito dal responsabile del procedimento, e riportato a seconda della tipologia delle procedure nel bando o avviso di gara, nella lettera d’invito e, negli acquisti privi di tali modalità, prima della stipula del relativo contratto.
Per dare una risposta al quesito in oggetto occorre considerare le seguenti disposizioni:
   • Art. 35, co. 4, del codice, rubricato: Soglie di rilevanza comunitaria e metodo di calcolo del valore stimato degli appalti. Il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e forniture è basato sull’importo totale pagabile, al netto dell’IVA, valutato dall’Amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore. Il calcolo tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei documenti di gara.
   • Relazione A.I.R. dell’ANAC al Bando-tipo n. 1/2017: Proroga tecnica – Computazione dell’importo dell’appalto – Non possibile. La proroga tecnica è un’opzione la cui durata e il cui importo non sono né prevedibili, né quantificabili alla data di pubblicazione del bando. Tuttavia il bando tipo ha previsto che, ove le stazioni appaltanti lo ritengano possibile, possano procedere ad una stima di massima ai fini del computo sulla base d’asta (art. 4.2 Opzioni e rinnovi del Bando-tipo n. 1/2017 Disciplinare di gara per FFSS);.
   • Relazione A.I.R. dell’ANAC al Bando-tipo n. 1/2017: Quinti d’obbligo – Previsione nel disciplinare – Non necessaria: L’art. 106, co. 12 del Codice non richiede che il ricorso al quinto d’obbligo sia specificato nel disciplinare di gara.
   • TAR Campania, sez. V, sentenza n. 5380 del 2018: […] l’Amministrazione avrebbe dovuto considerare della determinazione del valore anche l’eventuale proroga da calcolarsi fino ad un quinto dell’importo a base d’asta secondo il disposto di cui all’art. 106, comma 12, avendo richiamato nel disciplinare di gare tanto l’opzione della proroga tecnica che del quinto d’obbligo.
Pertanto, al momento si può ritenere, che nel calcolo del valore del CIG, qualora non venga quantificata l’opzione di proroga tecnica prevista nel disciplinare di gara, questa non deve essere computata.
Qualora venga richiamato all’interno del disciplinare di gara l’art. 106, co. 12 (quinto d’obbligo), è necessario quantificare l’opzione ai fini del calcolo del valore del CIG.
Si invita a prestare particolare attenzione nell’inserimento delle opzioni di cui ai commi 11 e 12 in particolare negli affidamenti i cui importi sono prossimi alla soglia comunitaria, per le evidenti violazioni delle normative previste in ordine alla disciplina da applicare, alla procedura, nonché all’eventuale capacità contrattuale delle Amministrazioni (21.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Piano anticorruzione e rotazione personale.
Domanda
Siamo in fase di predisposizione del nuovo PTPCT, potreste darci qualche spunto nell’individuazione di criteri per la rotazione “ordinaria” del personale”?
L’aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione, benché ancora in consultazione, ha apportato modifiche in materia?
Risposta
La rotazione del personale all’interno delle pubbliche amministrazioni, nelle aree a più elevato rischio di corruzione, è stata introdotta come misura di prevenzione della corruzione dall’art. 1, comma 5, lettera b), della legge 190/2012, ai sensi del quale le pubbliche amministrazioni devono definire e trasmettere all’ANAC «procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari».
Inoltre, secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 10, lettera b) della legge medesima legge, il Responsabile della prevenzione della corruzione (RPCT) deve verificare, d’intesa con il dirigente competente, «l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione».
Questo tipo di rotazione, definita “ordinaria” è da tenere ben distinta dalla rotazione “straordinaria”, già prevista dal d.lgs. 30.03.2001 n. 165, c.d. Testo Unico sul pubblico impiego (art. 16, comma 1, lettera l-quater), che prevede, infatti, come misura di carattere successivo al verificarsi di fenomeni illeciti, la rotazione «del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva».
In applicazione delle disposizioni della legge Severino e delle successive indicazioni contenute nel PNA 2016, le pubbliche amministrazioni sono, pertanto, tenute ad adottare adeguati criteri per realizzare la rotazione del personale, dirigenziale e non, con funzioni di responsabilità (dirigenti, titolari di posizione organizzativa e responsabili di procedimento) operante nelle aree a più elevato rischio di corruzione.
Tale rotazione rappresenta una misura d’importanza cruciale tra gli strumenti di prevenzione della corruzione. L’alternanza tra più professionisti nell’assunzione delle decisioni e nella gestione delle procedure, infatti, riduce il rischio che possano crearsi relazioni particolari tra amministrazioni ed utenti, con il conseguente consolidarsi di situazioni di privilegio.
E’ del tutto evidente che l’istituto della rotazione può determinare gravi inefficienze e malfunzionamenti negli enti piccoli, dove sarà necessario ragionare dell’efficacia di misure alternative, tra le quali, un rilevante peso, è determinato dall’obbligo di evitare il controllo esclusivo, sui procedimenti amministrativi, da parte della figura apicale (di norma Posizione organizzativa), per il quale non si sia provveduto alla rotazione dell’incarico.
La rotazione del personale, che deve comunque essere attuata in modo tale da garantire l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa, deve tenere conto delle professionalità esistenti nella pubblica amministrazione. Potrebbe, pertanto, essere effettuata, in primis per i suddetti dipendenti, sulla base dei seguenti criteri oggettivi generali:
   • coerenza con il curriculum ed il titolo di studio posseduto;
  • individuazione di un termine massimo di durata dell’incarico (tre anni?!); alla scadenza del quale l’incarico deve essere di regola affidato ad altro dipendente, a prescindere dall’esito della valutazione;
   • il nuovo incarico non può avere ad oggetto ambiti di attività attribuiti nel triennio precedente (ad es. ambito organi istituzionali e segreteria generale; personale ed organizzazione; gestione economica, finanziaria, programmazione e controllo di gestione; gestione delle entrate tributarie e servizi fiscali; gestione dei beni demaniali e patrimoniali; anagrafe, stato civile, elettorale, leva e servizio statistico; polizia locale; istruzione pubblica, scuole materne, asili nido e servizi per l’infanzia; cultura e beni culturali; ambiente, viabilità e trasporti; sociale; sviluppo economico; urbanistica ed edilizia; lavori pubblici; società partecipate).
   • ricevimento da parte del Responsabile dell’Anticorruzione di un numero consistente (da definire) di comunicazioni circa situazioni di conflitto di interessi, anche potenziale, provenienti dallo stesso dirigente nel corso di un anno, che costituisce indice di incompatibilità al mantenimento della posizione ricoperta.
La rotazione, come auspicato da ANAC, potrebbe successivamente essere estesa a tutto il personale assegnato alle aree e attività ad alto rischio previste dal PNA (acquisizione e progressione del personale, affidamento di lavori servizi e forniture , provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari) sulla base di criteri meno stringenti e generalmente riferibili alla sola competenza professionale ed al periodo di permanenza nell’ultimo ufficio o servizio. A minori responsabilità possono invero seguire minori, o comunque più moderate, misure di allerta e prevenzione.
Sul punto l’aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione, sebbene non ancora efficace in quanto in fase di pubblica consultazione, non presenta sostanziali novità.
L’ANAC, richiamando il succitato quadro normativo, nonché i primi esiti di vigilanza sull’attuazione dell’istituto della rotazione “ordinaria”, ne ha comunque ribadito l’importanza rinnovando “la raccomandazione alle amministrazioni e agli enti di osservare una maggiore attenzione sia nella programmazione della misura da effettuare nel PTPCT, sia nell’applicazione stessa”; ed ha ricordato alle pubbliche amministrazioni che la legge n. 190/2012 prevede all’art. 1, co. 14, precise responsabilità in caso di violazione delle misure di prevenzione previste nel PNA, tra le quali rientra chiaramente l’istituto in esame (20.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza motivazioni. I consiglieri non devono spiegare le ragioni. Va rivisto il regolamento che affida al sindaco il potere di verifica.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, le norme del regolamento comunale che impongono al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che limitano il diritto di visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di ispezione o di verifica»; oppure che affidano al sindaco il potere di verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere, possono considerarsi legittime ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000?

L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 disciplina il diritto di accesso e il diritto di informazione dei consiglieri comunali circa gli atti in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del proprio mandato. Tale disciplina specifica si differenzia dal pur ampio diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo decreto legislativo; infatti il termine «utili», contenuto nella citata disposizione del Tuel, garantisce l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale natura riservata delle informazioni richieste (vedi anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del Consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
La Commissione, infatti, ha ritenuto, in considerazione del fatto che il consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi, oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data 06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Pertanto, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto del principio di separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancito, per gli enti locali, dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
Del resto, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in contrasto con tale normativa.
Pertanto, nel caso di specie, è opportuna la revisione delle disposizioni regolamentari che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Del resto l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare, può optare, tra le varie alternative possibili per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi del 16.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Turno notturno e permessi l. 104/1992.
Domanda
Nel caso in cui un lavoratore turnista faccia richiesta di 1 giorno di permesso ex l. 104/1992 in corrispondenza di un turno notturno, a cavallo cioè tra due giornate, quanti giorni di permesso devono essere computati? 1 o 2?
Risposta
Le fonti del diritto che disciplinano il lavoro a turno sono l’art. 1 del d.lgs. 66/2003 e l’art. 23 del CCNL del 21.05.2018 all’interno dei quali sono definiti gli elementi e le modalità organizzative che identificano detta articolazione dell’orario di lavoro.
Per lavoro a turno si intende quindi ogni forma di organizzazione dell’orario di lavoro, diversa dal normale lavoro giornaliero, in cui l’orario può coprire l’intero arco delle 24 ore e la totalità dei giorni settimanali.
La disciplina contrattuale identifica i presupposti che devono ricorrere come segue:
   • effettiva rotazione del personale in prestabilite articolazioni orarie giornaliere;
   • distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni nell’arco del mese;
   • orario di servizio giornaliero di almeno 10 ore.
Tale modalità organizzativa può comprendere anche il lavoro notturno e il lavoro prestato durante le giornate festive.
Il messaggio INPS n. 3114 del 07.08.2018, prende in esame l’ipotesi in cui 1 giorno di permesso di cui all’art. 33, comma 3, della legge 104/1992 venga fruito in corrispondenza di un turno notturno, indicando la corretta modalità di computo del permesso.
Al riguardo va ricordato che l’art. 33, comma 3, della legge 104/1992 prevede la fruizione dei permessi mensili retribuiti “a giornata”, indipendentemente, cioè, dall’articolazione della prestazione lavorativa nell’arco delle 24 ore o della settimana e dal numero di ore che il dipendente avrebbe dovuto concretamente effettuare nel giorno di interesse.
L’INPS precisa che, in caso di turno di lavoro notturno, la prestazione lavorativa, pur attraversando due giorni solari, rimane riferita ad un unico turno di lavoro.
Pertanto, nel computo del permesso fruito, va considerato 1 solo giorno anche nel caso in cui la prestazione lavorativa sia a cavallo di due giorni solari. Questo in quanto la prestazione è riferita ad un unico turno di lavoro in cui si articola l’organizzazione (15.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI FORNITURE: Acquisto suppellettili.
Domanda
Per effetto di imminenti nuove assunzioni, l’ente deve procedere con l’acquisto di arredi. Come RUP mi sono posto il problema dell’esistenza di eventuali limiti di spesa ed a tal proposito si chiede di sapere se siano ancora vigenti specifici divieti sulla spendita.
Risposta
La questione degli acquisti di arredi/mobili –al netto delle ipotesi di arredi destinati ad uso scolastico e per i servizi dell’infanzia– ha, nel tempo, ricevuto varie limitazioni.
Le ultime sono risalenti alla legge 228/2012 (art. 1, comma 141) poi modificata con il D.L. 210/2015 convertito con la legge 21/2016.
In particolare, i contingentamenti previsti dalla normativa richiamata operavano –originariamente– per gli anni 2012/2016 (in realtà poi per il 2016 le limitazioni sono state sospese proprio con il decreto legge appena richiamato).
Tale disciplina stabilisce che le “amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’art. 1, comma 3, della L. n. 196/2009, nonché le autorità indipendenti e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l’acquisto di mobili e arredi, se non destinati all’uso scolastico e dei servizi all’infanzia, salvo che l’acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori dei conti o l’ufficio centrale di bilancio devono verificare preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall’attuazione del presente comma. La violazione della presente disposizione è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti”.
La questione della vigenza dei limiti di spesa è stata di recente riaffrontata dalla Corte dei Conti, sezione reg. Veneto delibera n. 173/2018 che appare utile richiamare per fornire un preciso riscontro al quesito.
La deliberazione appena richiamata (così come la delibera della sezione Regionale della Puglia con n. 140/2017) ha confermato che l’obbligo di contenimento (il tetto di spesa) già non si applicava nel 2017 ed a maggior ragione non trova applicazione nel 2018.
Pertanto, deve ritenersi che l’acquisto possa essere espletato fermo restando il suggerimento della Corte dei Conti secondo cui “se pure il limite di spesa per l’acquisto di mobili ed arredi non sia, allo stato, tuttora vigente, spetterà comunque all’ente locale valutare la piena compatibilità di tale tipologia di spesa con la complessiva situazione finanziaria e patrimoniale nonché, nelle ipotesi di acquisto, procedere alla corretta applicazione della disciplina prevista dall’allegato 4/3 al D.Lgs. n. 118/2011 in tema di contabilità economico-patrimoniale” (Corte dei Conti, sezione reg. Veneto delibera n. 173/2018).
Si tratta in sostanza di limitare gli acquisti a quelli effettivamente necessari (14.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aggiornamento piano triennale anticorruzione.
Domanda
A livello di unione dei comuni abbiamo costituito un gruppo di lavoro per la redazione della bozza di Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza, a supporto dell’attività dei RPCT. Successivamente ogni comune e l’unione, approveranno il loro piano.
La questione che si sottopone alla vostra attenzione è la seguente: è sempre necessario approvare un piano triennale nuovo o è possibile approvare un semplice aggiornamento annuale del piano già in vigore?
Risposta
La legge 06.11.2012, n. 190 (meglio nota come Legge Severino, dal nome dell’allora ministro della Giustizia, del governo Monti), all’articolo 1, comma 8, dispone che l’adozione da parte dell’organo di indirizzo politico (nei comuni: la Giunta) del Piano triennale per la prevenzione della corruzione e trasparenza, avvenga su proposta del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT).
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in più circostanze, ha già avuto modo di evidenziare che, anche se la prospettiva temporale del Piano è di durata triennale, il comma 8, sopra richiamato, non è equivocabile nello specificare che il Piano debba essere adottato, per ogni anno, entro il 31 gennaio, a scorrimento, esattamente come accade per gli altri strumenti di programmazione pluriennali presenti in un ente locale (bilancio; piano dei fabbisogni di personale; piano OO.PP., eccetera).
Nel corso del corrente anno, l’ANAC ha leggermente modificato il suo iniziale orientamento che prevedeva (si veda Comunicato del Presidente del 13.07.2015), la possibilità di adottare, dopo il primo PTPCT, degli aggiornamenti annuali nei due successivi anni di validità del Piano.
La nuova posizione dell’ANAC è ora rinvenibile nel Comunicato del Presidente Cantone, datato 18.03.2018, con il quale è stato precisato che: “le amministrazioni sono tenute ad adottare, ciascun anno, alla scadenza prevista dalla legge, un nuovo completo PTPC, che include anche una apposita sezione dedicata alla trasparenza, valido per il successivo triennio (ad esempio, per l’anno in corso, il PTPC 2018-2020).
Tale chiarimento si è reso necessario alla luce degli esiti dell’attività di vigilanza svolta dall’ANAC sui PTPC. Si è riscontrato, infatti, che in sede di aggiornamento molte amministrazioni procedono con numerosi rinvii e/o soppressioni ed integrazioni di paragrafi, con conseguenti difficoltà di coordinamento tra le diverse disposizioni e di comprensione del testo.
Alla luce di quanto sopra si richiama l’obbligo, per i soggetti tenuti, di adottare un nuovo completo PTPC entro il 31 gennaio di ogni anno. L’omessa adozione di un nuovo PTPC è sanzionabile dall’Autorità ai sensi dell’art. 19, co. 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90
”.
Identiche indicazioni si possono trovare anche nell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione. Documento, per ora in sola consultazione sino al 15.11.2018, rinvenibile nel sito dell’ANAC, cliccando qui.
Al paragrafo 3 della bozza (pagine 6 e 7), si ribadisce l’obbligo, per tutti gli enti, senza distinzione di soglia, di procedere, per ogni anno all’approvazione di un nuovo completo PTPCT, che includa anche un’apposita sezione dedicata alla trasparenza.
Per quanto sopra, il nuovo piano anticorruzione 2019/2021, da approvare entro il 31.01. 2019, dovrà essere NUOVO e COMPLETO, risultando non ammesso procedere all’aggiornamento del Piano 2018/2020 (13.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIO: Sponsorizzazione per manutenzione aiuola.
Domanda
Una ditta ci ha proposto di occuparsi della manutenzione di un’aiuola comunale gratuitamente in cambio dell’esposizione di un cartello pubblicitario. Qual è il corretto trattamento fiscale e contabile di tale operazione?
Risposta
Come previsto dall’articolo 43 dalla legge n. 449/1997 “Al fine di favorire l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche amministrazioni possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con atto notarile”.
Nella risoluzione 88/E dell’11.07.2005 l’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’operazione di sponsorizzazione va assoggettata a Iva con l’aliquota ordinaria, da applicare sulle somme versate dallo sponsor a fronte della prestazione di servizi dello “sponsee”. Ciò in quanto la sponsorizzazione è stata qualificata come una «forma atipica di pubblicità commerciale», alla quale si deve di conseguenza riconoscere, in base all’articolo 4, comma 5, lettera i), del Dpr 633 del 1972, carattere «in ogni caso commerciale», anche se la prestazione è resa da un ente pubblico o privato che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali.
Questa conclusione vale anche con riferimento alle sponsorizzazioni tecniche e a quelle “miste”, che realizzano un’operazione permutativa, da assoggettare all’imposta separatamente da quella in corrispondenza della quale è effettuata. In questo caso, pertanto, sia lo sponsor che lo “sponsee” sono tenuti alla fatturazione sulla base del valore della prestazione e ai successivi adempimenti previsti dalla legge.
Si rileva sul caso specifico una prassi diffusa in diversi enti secondo la quale il comune compensa solo la parte imponibile mentre introita l’IVA che poi dovrà versare all’Erario. In tal caso, ipotizzando una fattura reciproca di € 1000 + IVA, il comune:
   • dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
   • per 1000 € compenserà mandato e reversale;
   • in entrata chiuderà i restanti 220 con la reversale di introito da parte del manutentore;
   • in uscita chiuderà i restanti 220 con un mandato a favore delle proprie partite di giro in entrata atto ad innescare il meccanismo di gestione dello split payment.
Al contrario, si evidenzia che la circolare 27/E/2017 prevede: “la scissione dei pagamenti non sia applicabile ai rapporti tra fornitori e PA e Società che siano riconducibili nell’ambito di operazioni permutative di cui all’art. 11 del DPR n. 633 del 1972 secondo cui “Le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate”.
Se si applicasse tale previsione, ipotizzando ancora una fattura reciproca di € 1000 + IVA, contabilmente il comune:
   • dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
   • per 1220 € compenserà mandato e reversale (12.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla natura del silenzio ex art. 37, comma 4, del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 22 della l.r. 15/2008 – Area Vigilanza urbanistico-edilizia e contrasto all'abusivismo (Regione Lazio, nota 09.11.2018 n. 705439 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'applicazione del punto A.31. dell'Allegato A del d.P.R. 31/2017. Traslazione dell'area di sedime - Comune di Marino (Regione Lazio, nota 09.11.2018 n. 705371 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, parla lo statuto. Presidenza al vicesindaco se è consigliere. L’assessore esterno non può guidare l’assemblea non facendone parte.
È possibile affidare la carica di vice presidente del Consiglio comunale al vice sindaco, assessore esterno, in un comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti?
Il vice sindaco facente funzioni può assumere il ruolo di presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative operazioni?

In merito al primo quesito, l'art. 64, comma 3, del Tuel (dlgs n. 267/2000), prevede che, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del citato dlgs prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti le stesse siano svolte dal sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, siano esercitate dal consigliere anziano. La normativa statale, pertanto, anche in carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di specie, lo statuto del comune attribuisce al sindaco il potere di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità… occupa il posto immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età. La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma statutaria. Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti, di far presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21.02.1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14.06.2001) (con riferimento all'estensione dei poteri del vice sindaco) ha affermato che il vice sindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nella fattispecie in esame, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne faccia parte». La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di Stato, espresso con pareri n. 94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà, nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima. Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico, è necessario riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223, all'articolo 14, stabilisce che la commissione elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di specie, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Consultazione registri stato civile.
Domanda
Un avvocato chiede la possibilità di consultare direttamente i registri di stato civile, asserendo che si tratta di atti pubblici secondo il codice civile. È possibile concedere tale autorizzazione?
Risposta
I registri e gli atti di stato civile sono soggetti, rispetto all’ordinaria documentazione amministrativa, a una specifica disciplina che permette a chi vi abbia interesse, fatta eccezione per i divieti eventualmente previsti dalle norme, di accedere a notizie e informazioni in essi riportate, ma esclude la possibilità di libera consultazione diretta di questi non “filtrata” dall’intervento dell’ufficiale dello stato civile.
Il codice civile dedica agli atti dello stato civile il Titolo XIV del Libro primo (artt. 449-455).
In particolare, l’art. 449 (Registri dello stato civile) prevede che: “I registri dello stato civile sono tenuti in ogni comune in conformità delle norme contenute nella legge sull’ordinamento dello stato civile.”
Mentre l’art. 450 (Pubblicità dei registri dello stato civile) chiarisce che: “I registri dello stato civile sono pubblici.
Gli ufficiali dello stato civile devono rilasciare gli estratti e i certificati che vengono loro domandati con le indicazioni dalla legge prescritte.
Essi devono altresì compiere negli atti affidati alla loro custodia le indagini domandate dai privati
.”
Come possiamo notare, il codice civile, con l’articolo per ultimo riportato, afferma in apertura il principio della pubblicità dei registri dello stato civile, ma nel comma successivo chiarisce in che modo è da intendere questo concetto: non prevedendo che i registri possano essere consultati direttamente dai privati, ma demandando agli ufficiali di stato civile il compito di rilasciare estratti o certificati e di svolgere negli atti affidati alla loro custodia le indagini domandate dai privati.
D’altro canto gli artt. 106 e 107 del regolamento di stato civile (D.P.R. n. 396/2000) prevedono che possano essere richiesti estratti per riassunto o per copia integrale degli atti di stato civile, a determinate condizioni da verificare (espressa richiesta da parte di chi vi ha interesse…), purché il rilascio non sia vietato dalla legge.
Pertanto, la consultazione diretta da parte di un privato e senz’altro da ritenersi esclusa (09.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Il subappalto nelle concessioni.
Domanda
In una concessione di servizi con lavori di manutenzione straordinaria, ai sensi del d.lgs. 50/2016, l’eventuale subappalto della prestazione accessoria incontra il limite del 30% previsto per gli appalti ai sensi dell’art. 105 del citato codice?
Risposta
Il legislatore comunitario con la direttiva 2014/23/UE del 26.02.2014 per la prima volta interviene in modo rilevante sulle concessioni, e conseguentemente a livello locale il d.lgs. 50/2016, prevede una normativa che attribuisce alla materia una dignità negoziale e una disciplina organica e specifica anche con riferimento alla fase esecutiva.
La maggior parte delle concessioni, siano esse di servizi o di lavori, sono caratterizzate da prestazioni eterogenee, quali servizi di progettazione, esecuzione di lavori e gestione della struttura, con una incidenza funzionale che varia in base all’obiettivo che l’Amministrazione vuole perseguire, ma con un elemento distintivo fondamentale, rispetto all’appalto, rappresentato dal rischio in capo al concessionario (sulla definizione dei rischi si rinvia all’art. 3 del d.lgs. 50/2016).
Nella parte III del codice, dedicata appunto alle concessioni, ed in particolare nell’art. 174 viene disciplinato l’istituto del subappalto che secondo un’autorevole dottrina si differenzia da quello della subconcessione, consentita solo se prevista in sede di gara e configurabile in ragione dell’assunzione di parte del rischio in capo al sub-concessionario.
Dalla lettura dell’articolo emerge che l’eventuale subappalto, sia esso necessario, ovvero ai fini della qualificazione, o meramente facoltativo non prevede limiti quantitativi e neppure la previsione di una specifica autorizzazione da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice, limitandosi ad indicare al comma 2 l’obbligo di precisare in sede di offerta le parti del contratto di concessione che intendono subappaltate a terzi, a cui si aggiunge, nel caso di contratti di valore sopra soglia, l’onere di indicare una terna di nominativi, con l’eccezione:
   “a) concessione di lavori, servizi e forniture per i quali non sia necessaria una particolare specializzazione;
   b) concessione di lavori, servizi e forniture per i quali risulti possibile reperire sul mercato una terna di nominativi di subappaltatori da indicare, atteso l’elevato numero di operatori che svolgono dette prestazioni
” (07.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Parere in merito alla prevalenza tra NTA del PTP e del PTPR e tavole grafiche in vaso di contrasto tra di esse - Comune di Cervara di Roma (Regione Lazio, nota 06.11.2018 n. 693103 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'annullamento in autotutela di una licenza edilizia in sanatoria, rilasciata ai sensi della legge 47/1985, ottenuta sulla base di una falsa dichiarazione dell'epoca dell'abuso – Comune di Mazzano Romano (Regione Lazio, nota 06.11.2018 n. 693050 di prot.).

APPALTI: Pubblicazione dati commissari concorso.
Domanda
Nel nostro ente abbiamo nominato una commissione di concorso. Il presidente e il segretario della commissione sono dipendenti interni. I due componenti/esperti, sono esterni. Uno è ex dipendente di una PA ora in pensione e l’altro è un dipendente in servizio presso un altro comune.
Quali obblighi di pubblicazione di atti e documenti abbiamo, ai sensi del d.lgs. 33/2013?
Risposta
Il decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, alla luce delle modifiche introdotte con il d.lgs. 97/2016, prevede, all’articolo 19, quanto segue:
Art. 19 Bandi di concorso
   1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione, nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove scritte.
   2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente aggiornato l’elenco dei bandi in corso.

Come si può notare, a parte il riferimento agli altri obblighi di pubblicità legale, nessuna parte del testo, tratta della pubblicazione dei dati dei componenti delle commissioni di concorso, in modo differente a come avviene –ad esempio– per i componenti delle commissioni di gara, i cui obblighi di pubblicazione sono ben definiti nell’art. 29, comma 1, primo periodo, del d.lgs. 50/2016
[1].
Per i componenti delle commissioni di concorso, quindi, occorre rifarsi ad altre disposizioni del d.lgs. 33/2013 ed, in particolare, all’articolo 15, rubricato Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi di collaborazione o consulenza.
Per i due componenti esterni, infatti, trattandosi di “collaboratori”, in qualche modo retribuiti, la cui designazione trova fondamento nell’art. 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001, gli obblighi di pubblicazione di dati e documenti risultano i seguenti:
   a) estremi dell’atto di conferimento dell’incarico;
   b) curriculum vitae;
   c) dati relativi a incarichi o titolarità di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione, o lo svolgimento di attività professionali;
   d) compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di collaborazione o consulenza specificando le eventuali componenti variabili o legate alla valutazione del risultato.
A tali obblighi, si aggiunge quanto previsto dall’art. 53, comma 14, del d.lgs. 165/2001, il quale prevede l’obbligo di pubblicare anche l’attestazione dell’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni di conflitto di interessi, anche potenziale.
Le informazioni richieste vanno pubblicate entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e devono essere mantenute per i tre anni successivi alla cessazione. La mancata pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento degli incarichi e dell’attestazione di avvenuta verifica, ex art. 53 d.lgs. 165/2001, comporta l’inefficacia dell’atto, non consentendo, quindi, né l’utilizzo della prestazione eventualmente resa, né la liquidazione del compenso.
Nel caso in cui questo sia stato, comunque, corrisposto si determina una responsabilità disciplinare in capo a chi l’ha disposto e l’irrogazione di una sanzione, pari alla somma pagata.
Premesso quanto sopra, si risponde al quesito evidenziando quanto segue:
   a) per ciò che concerne il presidente e il segretario della commissione –dipendenti dell’ente che bandisce il concorso– non ci sono obblighi particolari di pubblicazione, su Amministrazione trasparente;
   b) per i due componenti esterni, gli obblighi che il comune è tenuto ad osservare, sono quelli previsti dall’art. 15, del d.lgs. 33/2013 e vanno assolti nella sezione Amministrazione trasparente > Collaboratori e consulenti;
   c) l’ente che autorizza un proprio dipendente, a far parte di una commissione di concorso di un altro comune (ex art. 53, commi 6 e seguenti, d.lgs. 165/2001), dovrà assolvere i propri obblighi di pubblicazione, come sancito all’art. 18, del d.lgs. 33/2013, nella sezione Amministrazione trasparente > Personale > Incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti.
È bene ricordare, infine, che per tutti i componenti della commissione di concorso e per il segretario, vigono, inoltre, gli obblighi “dichiarativi” stabiliti nell’art. 35-bis, del d.lgs. 165/2001
[2]. Mentre per il comune che bandisce il concorso, restano da assolvere gli obblighi di verifica sulle dichiarazioni rese dai commissari. Obbligo che può essere agevolmente assolto acquisendo, per tutti i componenti, segretario compreso, il certificato penale e quello dei carichi pendenti, onde verificare l’assenza di condanne, anche non definitive, per i reati previsti nel capo I, del titolo II, del libro secondo, del codice penale (reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione).
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[1] Art. 29, co. 1, d.lgs. 50/2016 “…alla composizione della commissione giudicatrice e ai curricula dei suoi componenti… devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione “Amministrazione trasparente”, con l’applicazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.”
[2] Articolo 35-bis. Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici
(06.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ CONSIGLI/ Presidenti non revocabili. Sfiducia per motivi istituzionali, non politici. La figura è allontanabile se non è più super-partes.
Il Consiglio comunale può presentare una mozione di sfiducia nei confronti del proprio presidente?

Nella fattispecie in esame, la mozione di sfiducia nei confronti del presidente del consiglio è disciplinata dallo statuto. Tuttavia, il regolamento comunale limita la possibilità di un voto all'espressione di «un giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo dell'amministrazione».
Inoltre, la disposizione regolamentare, nel disciplinare le adunanze, affida addirittura al sindaco la presidenza del consiglio e non contiene alcuna norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio, mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti. L'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto». Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (v., tra l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04.09.2009, n. 2248).
Nel caso di specie il Consiglio ha utilizzato, nonostante la mancanza di una disciplina regolamentare di dettaglio, la normativa statutaria (ritenendola sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; pertanto, l'applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del presidente del consiglio.
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del Presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia». Peraltro, il Tar Piemonte, con la citata sentenza, ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell'Assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del Consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (si veda anche, Consiglio di stato, sez. V, 18.01.2006, n. 114) (articolo ItaliaOggi del 02.11.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il preavviso di rigetto.
Domanda
Abbiamo ricevuto un’istanza di trasferimento di residenza da un altro comune, ma gli accertamenti relativi alla dimora abituale sono risultati negativi. Abbiamo inviato la raccomandata con il preavviso di rigetto all’indirizzo dichiarato che però è tornata con la spunta sulla dicitura “irreperibile”.
In che modo dobbiamo procedere ora e quali sono i termini da rispettare?
Risposta
L’art. 10-bis ha introdotto il preavviso di rigetto nell’ambito delle norme sul procedimento amministrativo come strumento di partecipazione del cittadino al procedimento stesso, al fine di ridurre i contenziosi nelle fasi successive all’adozione di provvedimenti negativi da parte della Pubblica Amministrazione.
L’ufficiale di anagrafe, come nel caso descritto nel quesito, comunica, prima dell’adozione del provvedimento negativo agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Segnaliamo che nel caso del procedimento di iscrizione anagrafica, è necessario effettuare tale comunicazione prima del decorso dei 45 giorni dalla data dell’istanza, che porterebbero in ogni caso alla formazione del silenzio-assenso.
Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti.
La comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini per concludere il procedimento, i quali iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di 10 giorni di cui abbiamo detto sopra.
La comunicazione deve essere inviata all’indirizzo presso il quale è stata dichiarata la residenza oppure, in alternativa, all’indirizzo indicato dal cittadino nella sezione recapiti dell’apposito modulo ministeriale (se compilata).
Nel caso previsto dal quesito la raccomandata non è stata consegnata all’interessato ed è stata restituita al Comune dal servizio postale con l’indicazione destinatario “IRREPERIBILE”. Pertanto la notifica non è avvenuta.
L’eventuale mancata consegna della raccomandata, può costituire un elemento in più da valutare nella fase istruttoria del procedimento. Infatti se la raccomandata non viene recapitata e ritorna al mittente con l’indicazione destinatario “IRREPERIBILE”, è una dimostrazione del fatto che l’assenza non è solo momentanea e la decisione di adottare un provvedimento negativo è corretta.
In questo caso unico modo per calcolare il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, è quello di fare ricorso a quanto previsto dall’art. 143 del Codice di procedura Civile: “Se non sono conosciuti la residenza, la dimora e il domicilio del destinatario e non vi è il procuratore previsto nell’art. 77, l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante deposito di copia dell’atto nella casa comunale dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario. […] Nei casi previsti nel presente articolo e nei primi due commi dell’articolo precedente, la notificazione si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte“.
Non è più necessaria la pubblicazione all’albo del Comune a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 174 del D.Lgs. 30.06.2003, n. 196, il quale ha abrogato tale obbligo (02.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Il criterio del minor prezzo.
Domanda
L’ufficio sta predisponendo una indagine di mercato –con avviso pubblico– per procedere con un acquisto da aggiudicare entro il 31.12.2018.
Considerato che si tratta di bene mobile con caratteristiche standardizzate (più alcune specifiche che avremmo cura di indicare già in fase di avviso a manifestare interesse) possiamo serenamente procedere con l’utilizzo del criterio del minor prezzo o è necessario che tale scelta venga chiaramente motivata?
Risposta
Come noto, il nuovo codice –nonostante alcune modifiche apportate con il decreto correttivo (decreto legislativo 56/2017– supera il concetto di equiordinazione tra criteri di aggiudicazione dell’appalto. In sostanza, semplificando, nel pregresso regime l’utilizzo del criterio del minor prezzo o l’offerta economicamente più vantaggiosa risultava rimesso alle valutazione del RUP. In giurisprudenza poi, ed in certa legislazione regionale, il multi criterio (ovvero la scelta dell’offerta valutando qualità e prezzo) veniva imposta in relazione agli appalti di servizi e, segnatamente, in relazione all’aggiudicazione dei servizi sociali.
Con l’attuale codice dei contratti, come anticipato, tale situazione è stata superata ed oggi –nonostante alcune recenti estensioni avvenute con il correttivo– la possibilità di aggiudicare al minor prezzo deve considerarsi ipotesi residuale e “subalterna” rispetto al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Le possibilità di utilizzo del mono criterio sono pertanto chiaramente delimitate dal legislatore con l’articolo 95, commi 4 e 5, del codice dei contratti.
In relazione agli acquisti/forniture con caratteristiche in parte standardizzate dal mercato in marte rimesse alla scelta dell’amministrazione, è sicuramente utile prendere in considerazione quanto puntualizzato nel comma 4 dell’articolo citato nelle lettere b) e c).
Nella lettera b) si legge che “per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato;”
Nella lettera c), infine, si chiarisce la soglia entro cui il mono criterio può essere utilizzato ovvero “per i servizi e le forniture di importo fino a 40.000 euro, nonché per i servizi e le forniture di importo pari o superiore a 40.000 euro e sino alla soglia di cui all’articolo 35 solo se caratterizzati da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo".
Nel caso sottoposto si è in presenza di una fornitura contenuta entro i 40mila euro con affidamento diretto sulla base di una indagine informale su preventivi.
La necessità di adeguare la scelta del criterio si impone al RUP nel caso specifico per il fatto che alcune “condizioni” non sono “predefinite” dal mercato ma, la stazione appaltante, esige un prodotto che abbia alcune caratteristiche “soggettive” specifiche per rispondere alle proprie esigenze.
A sommesso parere, nulla osta all’utilizzo del criterio del prezzo più basso a condizione che le caratteristiche ulteriori (rispetto di quelle standardizzate/fisse) siano di tipo “generale” ma, soprattutto, vengano dettagliatamente chiarite già nell’avviso pubblico (o ancora prima nella determinazione che avvia il procedimento informale di gara). Se tali caratteristiche risultano chiaramente esplicitate nella determina che avvia la procedura, il RUP avrà cura di indicare una specifica motivazione che giustifica la scelta del criterio del minor prezzo.
A sostegno di quanto evidenziato si può anche citare recente giurisprudenza (Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, sentenza del 23.10.2018 n. 783).
In particolare, in relazione alla fornitura di protesi per cui il ricorrente cercava di dimostrare l’illegittimo uso del criterio del prezzo più basso, il Collegio riconosce che pur nella temperata discrezionalità, nel regime introdotto dal D.Lgs. n. 50 del 2016 rispetto alla previgente disciplina (D.Lgs. n. 163 del 2006), delle amministrazioni appaltanti di scegliere il criterio di aggiudicazione della gara pubblica ritenuto maggiormente rispondente alle proprie esigenze di approvvigionamento delle forniture, pur nel rispetto del favor innovativamente attribuito al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e ove sussistano i presupposti per utilizzare il criterio del prezzo più basso (v. Cons. Stato A.P. n. 4 del 2018) e soprattutto a fronte di una lex specialis che individua n. 4 specifiche e precise caratteristiche tecniche che i dispositivi medici (protesi cocleari) offerti devono possedere, con la conseguenza che l’amministrazione appaltante ha precisamente individuato, descritto e valutato le caratteristiche e gli standards tecnici che le “protesi cocleari” devono soddisfare (v. avviso di indagine di mercato: doc. n. 1 della ricorrente).
È pertanto evidente che, una volta individuati e specificati tali caratteristiche e standards tecnici, la scelta del criterio di aggiudicazione operata dalla stazione appaltante non appare immotivata o, tanto meno, viziata da manifesta illogicità, con la conseguenza che la fornitura di protesi cocleari proposta da ciascuna concorrente ben poteva essere valutata dall’amministrazione appaltante esclusivamente in termini di ribasso dal prezzo base stabilito dalla lex specialis.
Il giudice, in sostanza, ha “premiato” il comportamento del RUP che ha chiaramente esplicitato le caratteristiche del prodotto per poter utilizzare il criterio in commento (31.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri politici? No.
L'ordinamento vigente consente al sindaco di un comune di nominare «consiglieri politici», figure non previste dallo statuto comunale, deputate a svolgere funzioni di supporto all'azione amministrativa, assicurando maggiore incisività ed efficacia al governo della comunità locale, senza alcun onere per il comune?

L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge. L'art. 117, lettera p) della Costituzione attribuisce allo Stato la potestà legislativa esclusiva in materia di «... organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»; all'ente locale, invece, è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa, nel rispetto dei principi fissati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del T.U.O.E.L., lo statuto stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli organi. L'art. 90 del citato decreto legislativo prevede, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica; in particolare, il comma 1, demanda al regolamento degli uffici e dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla legge.
In merito a tale istituto, la giurisprudenza contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/PAR).
Circa la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle frazioni e, ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle assemblee consortili (articolo ItaliaOggi del 26.10.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Fuori dalle commissioni. Chi si esclude dai gruppi non può farne parte. La facoltà concessa dallo Statuto desta comunque dubbi di legittimità.
Nell'ambito di una commissione consiliare consultiva, può essere sostituita, con atto del presidente del consiglio comunale, una consigliera che ha dichiarato la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco?

Nella fattispecie in esame la consigliera comunale, nel dichiarare la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è sostanzialmente avvalsa della facoltà, prevista dallo Statuto comunale, che consente di «non appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente i gruppi autonomi possono essere costituiti solo se formati da almeno tre consiglieri. Inoltre, lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio proporzionale.
Il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di designare i propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti, stabilisce che i consiglieri possono fare parte di più di una commissione e prevede che le sostituzioni siano demandate al singolo capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo 38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia -con l'eccezione della sentenza contraria del Tar Puglia-Lecce n. 516/2013- stabilisce che il criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo anche se formato da un solo consigliere, presente in consiglio (Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796; Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di stato il quale con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi, il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella commissione interessata».
Dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso complessivo.
Premesso che teoricamente, nel caso di specie, la consigliera, qualora facente parte di un gruppo unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare a tutte le commissioni, tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in ordine alla facoltà concessa dallo Statuto comunale di escludersi da ogni gruppo, il concreto esercizio del diritto di autoesclusione da parte del consigliere comunale impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di essere designato all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di designare rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato esclusivamente ai capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei consiglieri facenti parte di un «gruppo».
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri, condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie esaminata (articolo ItaliaOggi del 19.10.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Delibere urgenti motivate. L’immediata eseguibilità deve essere approvata. La dichiarazione deve ricevere l’ok della maggioranza dei componenti
È necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di «immediata eseguibilità» per le deliberazioni del consiglio e della giunta che, in caso di urgenza, vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?

In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti; quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
In merito, il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007, ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di immediata eseguibilità, per motivi di urgenza, di una delibera di consiglio o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa.
Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale dell'amministrazione procedente, basata sul requisito dell'urgenza.
In merito al caso in esame, devono ritenersi condivisibili le osservazioni formulate dal Tribunale Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014, in materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto» (articolo ItaliaOggi del 12.10.2018).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. b), del R.D. 11.12.1933, n. 1775, circa l'impugnazione del provvedimento comunale concernente le spese relative ad un intervento di manutenzione dell’alveo di un corso d’acqua pubblico, cioè di un provvedimento di polizia demaniale idraulica attinente al buon regime delle acque pubbliche ex art. 2 R.D. 25.07.1904, n. 523, adottato dall’autorità amministrativa preposta alla materia in ragione della porzione di territorio interessata (art. 93 L.R. Liguria 21.06.1999, n. 18).
Invero, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933, n. 1775, “appartengono alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche:
   a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche;
   b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti definitivi dell'autorità amministrativa adottata ai sensi degli artt. 217 e 221 della presente legge; nonché contro i provvedimenti definitivi adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523 […]".
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Con ricorso notificato in data 14.11.2012 il Condominio di via ... n. 30, ubicato in fregio al torrente omonimo, sul quale è collocata una passerella pedonale che ne costituisce l'unica via di accesso, ha impugnato il provvedimento 22.08.2012, prot. 256393, con cui il comune di Genova, nell’informare dell'avvio di operazioni di pulizia e allontanamento dei detriti dall’alveo del torrente, ha comunicato che il condominio dovrà concorrere alle relative spese in qualità di frontista di sponda sinistra, ai sensi degli artt. 868 e 917 cod. civ..
A sostegno del gravame ha dedotto sei motivi di ricorso, come segue:
   1. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 93 L.R. n. 18/1993, anche in relazione agli artt. 2 e 12 R.D. n. 523/1904 - Difetto assoluto di presupposto – Travisamento.
   2. Eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità manifesta - Violazione della distinzione fra modalità di azione amministrativa iure imperii e facoltà di agire iure privatorum.
   3. Violazione dell'art. 10 R.D. n. 523/1904 e dell'art. 868 cod. civ. anche in relazione all'art. 11 delle preleggi e agli artt. 2, 12 e 14 D.P.R. n. 8/1972 - Difetto assoluto di presupposto.
   4. Violazione dell'art. 10 R.D. n. 523/1904 e dell'art. 917 cod. civ. anche in relazione all'art. 11 delle preleggi e agli artt. 2, 12 e 14 D.P.R. n. 8/1972 - Difetto assoluto di presupposto.
   5. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 L. n. 241/1990 – Difetto assoluto di istruttoria con riferimento a presunti obblighi dei concessionari.
   6. Violazione degli art. 7 e segg. L. n. 241/1990 - Omissione della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo e conseguente mancata possibilità di fornire apporti procedimentali.
Si è costituito in giudizio il comune di Genova, preliminarmente eccependo l’inammissibilità del ricorso sotto il duplice profilo della carenza di immediata lesività del provvedimento (che rimanda a successivi atti la quantificazione delle spese e del concorso alle stesse) e del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (rientrando la controversia nella giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche), nel merito controdeducendo ed instando per la reiezione del ricorso.
Alla pubblica udienza del 17.10.2018 il ricorso è stato trattenuto dal collegio per la decisione.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933, n. 1775, “appartengono alla cognizione diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche: a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche; b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti definitivi dell'autorità amministrativa adottata ai sensi degli artt. 217 e 221 della presente legge; nonché contro i provvedimenti definitivi adottati dall'autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523 […]".
Nel caso di specie, si tratta di un provvedimento concernente le spese relative ad un intervento di manutenzione dell’alveo di un corso d’acqua pubblico, cioè di un provvedimento di polizia demaniale idraulica attinente al buon regime delle acque pubbliche ex art. 2 R.D. 25.07.1904, n. 523, adottato dall’autorità amministrativa preposta alla materia in ragione della porzione di territorio interessata (art. 93 L.R. Liguria 21.06.1999, n. 18).
Donde la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. b), del R.D. 11.12.1933, n. 1775, giudice che si indica ai sensi dell’art. 11, comma 1, c.p.a. e dinanzi al quale potrà essere riproposto il giudizio (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 21.11.2018 n. 915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria le conseguenze dell’omessa indicazione degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costo della manodopera – Omessa indicazione separata – Conseguenza – Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione o soccorso istruttorio – Contrasto giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza plenaria.
Devono essere rimesse all’Adunanza plenaria, stante il contrasto di giurisprudenza, le questioni
   1) se, per le gare bandite nella vigenza del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la mancata indicazione separata del costo della manodopera (e degli oneri di sicurezza) determini immediatamente e incondizionatamente l’esclusione del concorrente, senza possibilità di soccorso istruttorio, anche quando non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi costi e oneri nella formulazione dell’offerta, né vengono in rilievo profili di anomalia dell’offerta, ma si contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti costi oneri;
   2) se, ai fini della eventuale operatività del soccorso istruttorio, assuma rilevanza la circostanza che la lex specialis taccia sull’onere di indicazione del costo della manodopera e degli oneri di sicurezza ovvero richiami espressamente l’obbligo di dichiarare il costo della manodopera e gli oneri di sicurezza (1).

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Analoga rimessione è stata disposta dal Cga, ord., 20.11.2018, n. 773.
Vedi anche le rimessioni disposte dalla sez. V, ord., 25.10.2018, n. 6069 e 26.10.2018, n. 6122.
   (1) Il primo indirizzo interpretativo fa capo alla sentenza del Consiglio di Stato, V, 07.02.2017, n. 815.
In tale occasione la V Sezione di questo Consiglio ha ritenuto che, per ciò che attiene l’obbligo di indicare puntualmente l’ammontare degli oneri per la sicurezza c.d. interni o aziendali, trova applicazione l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 che, superando legislativamente le precedenti incertezze, ha statuito la necessità dell’indicazione di tale oneri per le gare indette nella vigenza del nuovo Codice dei contratti pubblici, per le quali non troverebbero dunque applicazione i principi di diritto formulati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, in tema di ammissibilità del soccorso istruttorio per il caso di mancata separata indicazione.
Non sarebbe infatti possibile utilizzare l’istituto del soccorso istruttorio nel caso di incompletezze e irregolarità relative all’offerta economica anche al fine di “evitare che il rimedio… che corrisponde al rilievo non determinante di violazioni meramente formali possa contrastare il generale principio della par condicio concorrenziale, consentendo in pratica ad un concorrente (cui è riferita l’omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica”.
A questo indirizzo interpretativo sembra aver aderito le sentenze della V Sezione del Consiglio di Stato 28.02.2018, n. 1228, 12.03.2018, n. 1228 e 25.09.2018, n. 653.
Il secondo indirizzo interpretativo è stato, invece, espresso da Cons. St., sez. III, 27.04.2018, n. 2554 e dal Cga con la sentenza 07.06.2018, n. 344. Tale indirizzo qui in esame fa leva essenzialmente sulla (disciplina e sulla) giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare sulle pronunce 02.06.2016, in C-27/15 e 10.11.2016, in C-140/2016, e sul ricordato precedente dell’Adunanza plenaria del 2016, ispirato ad una visione e ad una soluzione sostanzialista del problema.
Tanto premesso, non è dubitabile che il legislatore del 2016 prescriva adesso che “Nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”.
Si tratta piuttosto di stabilire quali siano le conseguenze nel caso in cui un simile obbligo non sia adempiuto e, in particolare, se ciò debba determinare in via automatica l’esclusione del concorrente dalla gara tanto più in un caso, come quello odierno, in cui la lex specialis nulla indicava in tema di oneri di sicurezza e costi della manodopera.
A questa domanda il precedente del Cga n. 344 del 2018 ha ritenuto che si debba rispondere muovendo da due considerazioni.
La prima è che testualmente il codice non commina alcun effetto espulsivo per l’inadempimento di tale obbligo.
La seconda considerazione ha a che vedere con la finalità di questo obbligo di legge, che è in funzione della verifica della congruità dell’offerta economica, fase per la quale, ove si dubiti di tale serietà, è previsto, in primo luogo dal diritto euro-unitario, un vero e proprio subprocedimento, da svolgersi in contraddittorio con l’offerente.
Il Cga ha così disatteso un’interpretazione della nuova normativa sui contratti pubblici, quale quella seguita nella sentenza qui impugnata, che faccia discendere dall’omessa indicazione dei costi per la sicurezza un effetto automaticamente espulsivo, in quanto tale approdo ermeneutico si porrebbe in contrasto con il quadro del diritto euro-unitario (v. art. 57, par. 6, della direttiva 24/2014), per come interpretato costantemente dalla Corte di giustizia UE; in precedenti in cui la Corte ha più volte ribadito che non è legittimo escludere il concorrente solo per un vizio formale della domanda o dell’offerta, a condizione che -nel caso degli oneri per la sicurezza– gli stessi siano stati sostanzialmente ricompresi nel prezzo dell’offerta, pur in difetto della loro preventiva specificazione. Con ciò avvalorando l bontà della soluzione già fatta propria dalla Plenaria n. 19 del 2016, nella vigenza del codice del 2006, nel senso che la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna non giustifica l’immediata esclusione dalla gara o l’annullamento dell’aggiudicazione.
Nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria il Cga dichiara di propendere per la tesi che consente il soccorso istruttorio.
Oltre agli argomenti già esposti dal precedente n. 344 del 2018, aggiunge che:
   a) consentire il soccorso istruttorio in presenza di una omissione formale non significa affatto consentire che l’operatore economico possa comprimere la tutela dei lavoratori; non è in discussione che gli oneri di sicurezza e il costo della manodopera vadano giustificati e debbano rispettare tutte le norme vigenti;
   b) trasformare in elemento costitutivo dell’offerta un elemento che è invece una giustificazione dell’offerta (attesa la diretta incidenza causale del costo della manodopera e degli oneri di sicurezza sull’importo finale dell’offerta), si traduce in un contrasto con il diritto europeo, per come interpretato dalla Corte di giustizia, che ha sempre ritenuto che le giustificazioni dell’offerta debbano essere successive e non preventive (CGARS, ordinanza 20.11.2018 n. 772 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dichiarazione mendace presentata dall’operatore economico con riguardo alla posizione dell’impresa ausiliaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Per dichiarazione mendace – Con riferimento alla posizione dell’ausiliaria – Legittimità.
Ai sensi del combinato disposto dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis e dell’art. 89, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 la dichiarazione mendace presentata dall’operatore economico, anche con riguardo alla posizione dell’impresa ausiliaria, comporta l’esclusione dalla gara (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la dichiarazione non veritiera è sanzionata in quanto circostanza che rileva nella prospettiva dell’affidabilità del futuro contraente, a prescindere dalla gravità, fondatezza e pertinenza degli episodi non dichiarati, e dunque anche a prescindere dal fatto che il precedente penale non influisca sulla moralità professionale dell’impresa ausiliaria.
La condanna penale, quand’anche non rilevi di per sé, per non essere contemplata tra quelle previste dal comma 1 dell’art. 80, assume valore quale “grave illecito professionale” ai sensi del comma 5, lett. c), dello stesso art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, con conseguente configurabilità dell’obbligo dichiarativo al riguardo.
Vi è una differenza però sotto il profilo degli effetti, in quanto, ove la condanna rientri tra quelle previste dall’art. 80, comma 1, l’esclusione è atto vincolato, mentre nell’ipotesi dell’art. 80, comma 5, lett. c), la valutazione è rimessa alla stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.11.2018 n. 6529 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il motivo è fondato e va accolto.
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di irricevibilità del ricorso di primo grado svolta dalla Provincia di Frosinone nella propria memoria di costituzione nell’assunto che il ricorso non è stato proposto tempestivamente (ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm.) avverso l’ammissione della società Ie., intervenuta nella seduta pubblica del 14.06.2017.
Basti al riguardo considerare che, seppure non svolta in primo grado, l’eccezione di tardività può essere rilevata d’ufficio anche nel giudizio di appello in assenza di limitazioni ad un siffatto rilievo d’ufficio (Cons. Stato, V, 27.09.2018, n. 5567); tuttavia l’eccezione è infondata, in quanto nella presente controversia non è stata contestata l’ammissione di Ie., ma la sua mancata esclusione, successiva all’acquisizione, all’esito della comprova dei requisiti, del certificato del casellario giudiziale dell’ex direttore tecnico dell’impresa ausiliaria.
Ciò premesso, va rilevato che l’art. 80, comma 5, lett. f-bis, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede quale causa di esclusione dalla gara l’ipotesi in cui «l’operatore economico […] presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere».
Con riferimento alla fattispecie dell’avvalimento, che qui viene in rilievo, l’art. 89, comma 1, dello stesso corpus normativo, dopo avere disposto che l’operatore economico avvalentesi delle capacità di altri soggetti è tenuto ad allegare una dichiarazione sottoscritta dalla impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’art. 80, aggiunge che «nel caso di dichiarazioni mendaci […] la stazione appaltante esclude il concorrente e escute la garanzia».
Dal combinato disposto di queste norme contenute nel codice dei contratti pubblici emerge dunque inequivocabilmente che la dichiarazione mendace presentata dall’operatore economico, anche con riguardo alla posizione dell’impresa ausiliaria, comporta l’esclusione dalla gara.
La sentenza impugnata, pur rilevando il carattere non veritiero della dichiarazione, ha ritenuto che il precedente penale non influisca sulla moralità professionale dell’impresa ausiliaria riferendosi ad un reato di scarsa rilevanza, sanzionato nel 2011 (per fatti risalenti al 2008), precedente alla indizione della gara ed anche alla costituzione della società, avvenuta nel 2012.
La dichiarazione non veritiera è però sanzionata dalla norma in linea generale, in quanto circostanza che rileva nella prospettiva dell’affidabilità del futuro contraente, a prescindere da considerazioni su fondatezza, gravità e pertinenza degli episodi non dichiarati.
La sanzione della reticenza è funzionale all’affermazione dei principi di lealtà ed affidabilità, in una parola, della correttezza dell’aspirante contraente, che permea la procedura di formazione dei contratti pubblici ed i rapporti con la stazione appaltante, come indirettamente inferibile anche dall’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Nella fattispecie in esame la dichiarazione relativa alle condanne penali non è mendace sotto il profilo dell’obbligo dichiarativo delle condanne penali definitive in sé, in quanto, anche a prescindere dal perimetro temporale di rilevanza giuridica desumibile dal comma 10 dell’art. 80, quella oggetto di controversia non rientra proprio tra le condanne espressamente contemplate dal comma primo dello stesso art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016. La condanna riportata dal sig. Li., secondo quanto emerge dal certificato del casellario giudiziale, è per “attività di gestione di rifiuti non autorizzata-Art. 256 D.Lvo 03/04/2006, n. 152 (accertato il 16/10/2008 in Cave)” e non è compresa dunque nell’ambito della previsione contemplata dall’art. 80, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 50 del 2016, che fa riferimento all’art. 260 del predetto d.lgs. n. 152 del 2006, concernente la “attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti”.
La condanna assume peraltro rilievo in quanto espressione di “grave illecito professionale” ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del 2016, dovendosi intendere tale qualsiasi condotta legata all’esercizio dell’attività professionale, contraria a un obbligo giuridico di carattere civile, penale ed amministrativo (così Cons. Stato, III, 05.09.2017, n. 4192).
In particolare, emerge il valore della condanna alla stregua di grave illecito professionale in senso stretto, trattandosi di un reato ambientale che può astrattamente mettere in dubbio la integrità od affidabilità dell’operatore, ed inoltre la sua mancata dichiarazione costituiva elemento suscettibile di influenzare l’esclusione, la selezione, ovvero l’aggiudicazione, connotandosi più propriamente in termini di scorrettezza procedimentale.
Di qui la configurabilità dell’obbligo dichiarativo della condanna ed il contenuto non veritiero della dichiarazione resa dall’impresa ausiliaria di Ie.Re. s.r.l.
Sotto il profilo degli effetti, è diverso l’obbligo di dichiarare sentenze penali di condanna rientranti tra quelle previste dall’art. 80, comma 1, ovvero rilevanti ai sensi del successivo comma 5, lett. c); nel primo caso l’esclusione è atto vincolato in quanto discendente direttamente dalla legge, mentre nell’ipotesi di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), la valutazione è rimessa alla stazione appaltante (fermo restando che, nella prospettiva della norma da ultimo indicata, l’operatore economico non può valutare autonomamente la rilevanza dei precedenti penali da comunicare alla stazione appaltante, poiché questa deve essere libera di ponderare discrezionalmente la sua idoneità come causa di esclusione).
Tale diversità di effetti (espulsivi in un caso, meramente informativi, con finalità preistruttoria nell’altro) giustifica anche, pur nella difficile ermeneusi del comma 10 dell’art. 80, perché solo nel primo caso l’ordinamento attribuisca un’efficacia temporale alla sentenza definitiva di condanna.
1.1. Non è invece persuasivo l’argomento defensionale della società Ie. e dell’Amministrazione resistente che hanno eccepito l’inammissibilità (per carenza di interesse) del motivo in esame nella considerazione che, in ogni caso, ove l’ausiliaria si trovasse in una delle cause di esclusione di cui all’art. 80, la conseguenza sarebbe quella della sostituzione della medesima, come inferibile dall’art. 89, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, e non già dell’esclusione dell’operatore aggiudicatario.
A prescindere se la riproposizione di tale assunto richiedesse l’impugnazione incidentale, osserva la Sezione come correttamente la sentenza di primo grado abbia affermato che l’art. 89, comma 3, non trova applicazione in caso di attestazione mendace sul possesso dei requisiti ex art. 80 da parte dell’impresa ausiliaria, stante il rapporto di specialità con il primo comma dello stesso art. 89, che prevede espressamente l’esclusione del concorrente in caso di dichiarazioni mendaci provenienti dall’impresa ausiliaria.

ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce un principio generale di buon andamento dell’azione amministrativa quello secondo cui nell’ambito dello stesso plesso, soprattutto quando esso non si strutturi in una complessa ed articolata macchina burocratica, non è possibile che accada che un ufficio in cui esso si articola opponga al privato la mancata disamina di una pratica per non essere stata quest’ultima presentata all’ufficio competente.
Ciò può avvenire per respingere una domanda al momento della sua presentazione, indirizzando il privato presso l’ufficio competente, ma non quando la domanda è stata ricevuta.
Corrisponde infatti al su indicato principio di buon andamento il dovere dell’amministrazione di smistare l’istanza ricevuta all’ufficio competente, beninteso quando questo non comporti dei costi per il pubblico erario (ad es., dei costi di spedizione; altrimenti a ciò, ove vi abbia interesse, dovrà provvedere il privato, previamente avvisato dall’ente), ovvero aggravi notevoli per l’ente.
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Il presente contenzioso ha ad oggetto la dichiarazione di irricevibilità della S.C.I.A. presentata dall’interessato per alcuni lavori di manutenzione di un immobile sottoposto a domanda di condono e respinta perché l’istanza non è stata presentata “a mezzo SUAP”, nonché perché è necessario acquisire la “comunicazione di silenzio-assenso secondo il disposto dell’art. 39, c. 4, della L. 724/1994 da parte dell’Ufficio comunale competente”.
Invero, quanto alla prima delle due ragioni giustificatrici opposte, si evidenzia che costituisce un principio generale di buon andamento dell’azione amministrativa quello secondo cui nell’ambito dello stesso plesso, soprattutto quando esso non si strutturi in una complessa ed articolata macchina burocratica, non è possibile che accada che un ufficio in cui esso si articola opponga al privato la mancata disamina di una pratica per non essere stata quest’ultima presentata all’ufficio competente.
Ciò può avvenire per respingere una domanda al momento della sua presentazione, indirizzando il privato presso l’ufficio competente, ma non quando la domanda è stata ricevuta.
Corrisponde infatti al su indicato principio di buon andamento il dovere dell’amministrazione di smistare l’istanza ricevuta all’ufficio competente, beninteso quando questo non comporti dei costi per il pubblico erario (ad es., dei costi di spedizione; altrimenti a ciò, ove vi abbia interesse, dovrà provvedere il privato, previamente avvisato dall’ente), ovvero aggravi notevoli per l’ente.
Va poi considerata non pertinente la giurisprudenza invocata dalla difesa dell’amministrazione resistente: essa infatti attiene al diverso caso in cui si fosse opposta quale motivazione del diniego/irricevibilità la mancata presentazione per via telematica della S.C.I.A. e non si attaglia al presente caso, in cui la motivazione del provvedimento non fa leva su questa circostanza, ma sul fatto che la S.C.I.A. “deve essere presentata a mezzo SUAP” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.11.2018 n. 1684 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel nostro ordinamento vige il principio generale della onerosità del permesso di costruire, atteso che l’attività edificatoria comporta di norma la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, fatte salve le fattispecie di esenzione previste dall’art. 17, comma 3, del D.P.R. 380/2001. Le fattispecie di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale, quindi oggetto di stretta interpretazione e non suscettibili di estensione analogica.
In virtù del principio generale di onerosità del titolo edilizio il contributo di costruzione è riferito di regola all’attività costruttiva. Peraltro lo stesso è dovuto anche in casi nei quali non vi sia l’esecuzione di opere.
Secondo autorevole giurisprudenza, infatti, il contributo di costruzione “costituisce una prestazione di natura tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio. Infatti il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”.
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La società ricorrente insta per l’annullamento parziale del provvedimento gravato, censurando l’an ed il quantum del contributo di costruzione ivi richiesto, nonché la previsione che subordina al suo versamento la validità del titolo edilizio.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia l’illegittimità della richiesta di pagamento del contributo di costruzione, atteso che l’intervento comporta unicamente un aumento di volumetria, senza variazioni di superficie e di carico urbanistico e ritenendolo non qualificabile come nuova costruzione.
La doglianza è priva di pregio.
Nel nostro ordinamento vige il principio generale della onerosità del permesso di costruire, atteso che l’attività edificatoria comporta di norma la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, fatte salve le fattispecie di esenzione previste dall’art. 17, comma 3, del D.P.R. 380/2001. Le fattispecie di esenzione devono essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale, quindi oggetto di stretta interpretazione e non suscettibili di estensione analogica.
In virtù del principio generale di onerosità del titolo edilizio il contributo di costruzione è riferito di regola all’attività costruttiva. Peraltro lo stesso è dovuto anche in casi nei quali non vi sia l’esecuzione di opere.
Secondo autorevole giurisprudenza, infatti, il contributo di costruzione “costituisce una prestazione di natura tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V 21.04.2006 n. 2258; Cons. Stato Sez. V 06.05.1997 n. 462; Cons. Stato Sez. VI 18.01.2012 n. 177). Infatti il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 14/10/2011 n. 5539)” (C.d.S., Sez. IV, 20.12.2013, n. 6160).
L’intervento di cui è questione si è realizzato attraverso l’esecuzione di opere, che hanno determinato un aumento della volumetria dell’edificio particolarmente significativa, in quanto superiore al 35% del volume iniziale, oltre ad un’alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile.
Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera e.6), del d.P.R. 380/2001 gli interventi che comportano la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale costituiscono “nuova costruzione”. Analogamente dispongono gli articoli 10 e 15 della legge della Regione Liguria 06.06.2008, n. 16 (Disciplina dell’attività edilizia).
L’innalzamento della copertura del capannone non solo ha determinato un ampliamento di volume del capannone assolutamente significativo in termini quantitativi, tanto da non poter essere ricompreso negli interventi di ristrutturazione bensì in quelli di “nuova costruzione”, ma ulteriormente ha determinato un’indiscutibile vantaggio economico per la società ricorrente, consentendo, come dalla stessa riconosciuto, il ricovero di imbarcazioni di dimensioni maggiori.
Detto intervento non è d’altro canto riconducibile alla casistica, tassativa, di esonero contenuta nell’art. 39 della citata legge regionale.
Pertanto il contributo di costruzione risulta dovuto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.11.2018 n. 891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, ai commi 2 e 5, disciplina le conseguenze del mancato o ritardato versamento del costo di costruzione, limitandosi a sancire in tali ipotesi unicamente l'aumento della percentuale del contributo stesso e l’esecuzione coattiva.
Non sono pertanto legittime l'imposizione di una condizione di efficacia dell'emesso titolo abilitativo edilizio, l’irrogazione di una sanzione o l’applicazione di una modalità esecutiva diverse da quelle prefigurate dall'ordinamento per colpire l'inadempimento o la mora nel versamento del contributo di costruzione e per assicurarne il recupero all'amministrazione.

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Il terzo motivo censura l’illegittimità del provvedimento gravato nella parte in cui subordina l’efficacia del titolo edilizio alla presentazione della documentazione attestante il pagamento del contributo di costruzione.
La censura merita accoglimento.
L’articolo 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, ai commi 2 e 5, disciplina le conseguenze del mancato o ritardato versamento del costo di costruzione, limitandosi a sancire in tali ipotesi unicamente l'aumento della percentuale del contributo stesso e l’esecuzione coattiva. Non sono pertanto legittime l'imposizione di una condizione di efficacia dell'emesso titolo abilitativo edilizio, l’irrogazione di una sanzione o l’applicazione di una modalità esecutiva diverse da quelle prefigurate dall'ordinamento per colpire l'inadempimento o la mora nel versamento del contributo di costruzione e per assicurarne il recupero all'amministrazione (TAR Campania, Napoli Sez. VIII, 12.01.2012, n. 108).
Né in senso opposto assumono rilevanza le argomentazioni addotte dal comune e relative al fatto che l’intervento è già stato realizzato e che alla ricorrente è stata accordata la possibilità di un versamento rateale dell’importo dovuto, in quanto dette circostanze esulano dalla questione relativa agli effetti sul titolo edilizio dell’inadempimento o della mora nel pagamento del contributo.
Il ricorso deve pertanto essere accolto limitatamente alla censura formulata con il terzo motivo, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui subordina la validità della presa d’atto della DIA alla presentazione della documentazione attestante l’assolvimento dell’obbligo di pagamento del contributo di costruzione (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.11.2018 n. 891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Limiti alla natura di collegio perfetto della Commissione di concorso.
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Concorso – Commissione di concorso – Natura – Collegi perfetti – Limiti.
Le commissioni esaminatrici di pubblici concorsi sono colleghi perfetti allorché esplichino attività valutative discrezionali, quali correzione delle tracce, attribuzione dei punteggi, valutazioni delle prove dei candidati; non sono, invece, collegi perfetti le attività che, quantunque siano discrezionali, non sono atte a ledere la sfera giuridica dei destinatari (nella specie la neutralizzazione di un quesito della prova selettiva perché ritenuto ambiguo (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che il giudice di appello (sez. III, 17.07.2018 n. 4331), sia pur in materia di gare d’appalto, ma con principio trasponibile nei pubblici concorsi, condividendo gli stessi i medesimi principi di collegialità e trasparenza, ha ribadito che “Occorre distinguere, nell’ambito dell’operato della Commissione di gara, tra attività di valutazione dell’offerta ed attività meramente preparatoria e istruttoria. Mentre nel primo caso essa è chiamata a fare scelte discrezionali, in ordine alle quali v’è l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà dell’organo collegiale espressa da tutti i suoi componenti, così necessariamente non avviene per le attività preparatorie, istruttorie e vincolate, rispetto alle quali il principio di collegialità può essere derogato, trattandosi di operazioni prive di ogni connotato valutativo" (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 14.11.2018 n. 10964 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1.1. Così riassunto il materiale deduttivo, premette il Collegio anzitutto una breve carrellata delle più significative decisioni giurisprudenziali sulla composizione delle commissioni giudicatrici di pubblici concorsi per poi procedere funditus all’analisi dell’attività che in concreto ha espletato la commissione de qua nella contestata riunione del 04.08.2015.
La decisione che sarà assunta dalla Sezione sarà la risultante aristotelica del sillogismo in cui la premessa maggiore è data dalla tipologia di valutazioni operate nel verbale del 04.08.2015 e la minore dall’orientamento granitico assunto dalla giurisprudenza sul punto.
1. L’ORIENTAMENTO DELLA GIURISPRUDENZA SULLE COMMISSIONI DI CONCORSO. QUANDO SONO COLLEGI PERFETTI.
2.1. Orbene, quanto alla prima questione, quella giuridica, segnala il Collegio come la giurisprudenza in via assolutamente pacifica abbia attinto il principio di diritto, che si condivide, in ossequio al quale
le commissioni giudicatrici di un pubblico concorso sono collegium perfectum e devono quindi operare nella totalità dei propri componenti allorché compiano attività valutativa discrezionale che può dispiegarsi nelle seguenti direzioni: a) valutazione degli elaborati e o dei titoli presentati dai candidati; b) valutazione delle tracce ovvero della bontà dei quesiti sottoposti, specie laddove taluni di essi siano stati oggetto di contestazioni; c) predisposizione dei criteri e delle griglie di valutazione.
E’ stato al riguardo di recente precisato infatti, anche da questo Tribunale che “
In sede di operazioni concorsuali non si richiede la presenza della Commissione giudicatrice al suo completo in tutte le fasi del procedimento, dovendo la regola del collegio perfetto, unitamente alla compresenza di tutti i candidati nella misura indicata dalla normativa evocata, trovare osservanza in tutti i momenti in cui vengono adottate determinazioni rilevanti ai fini della valutazione dei candidati (fissazione dei criteri di massima di valutazione delle prove concorsuali; selezione degli argomenti e redazione delle tracce delle prove scritte; determinazione dei requisiti da sottoporre ai candidati nelle prove orali; correzione degli elaborati e svolgimento delle prove orali) ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso, non imponendo le operazioni concorsuali di carattere meramente istruttorio o preparatorio la presenza di tutti i componenti del collegio” (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 11.10.2017 n. 10185).
Il Giudice d’appello è fermo nell’affermare che “
In sede di operazioni concorsuali non si richiede la presenza della commissione giudicatrice al suo completo in tutte le fasi del procedimento, la regola del collegio perfetto dovendo, invero, trovare osservanza in tutti i momenti in cui vengono adottate determinazioni rilevanti ai fini della valutazione dei candidati (fissazione dei criteri di massima di valutazione delle prove concorsuali; selezione degli argomenti e redazione delle tracce delle prove scritte; determinazione dei quesiti da sottoporre ai candidati nelle prove orali; correzione degli elaborati e svolgimento delle prove orali), ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso, mentre le operazioni concorsuali di carattere meramente istruttorio e preparatorio non impongono, invece, la presenza di tutti i componenti del collegio” (Consiglio di Stato, Sez. IV , 12.11.2015 n. 5137
2.2. Altra giurisprudenza ha più in generale puntualizzato in linea con quanto si segnalava in apertura, che “
In tema di composizione della commissione valutatrice di un concorso pubblico, il principio del collegio perfetto (e dunque della necessaria presenza di tutti i membri) concerne solo l'attività valutativa e deliberativa svolta dai componenti con poteri decisionali” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, 18.11.2014 n. 2915).
Analogamente, si è precisato che “
Nelle gare pubbliche la commissione giudicatrice di procedure d'appalto pubblico, essendo collegio perfetto, deve operare con il plenum dei suoi componenti, trova una deroga nei casi in cui essa svolge un'attività meramente preparatoria e istruttoria, dovendo invece essa necessariamente operare come collegio perfetto quando è chiamata a fare scelte discrezionali, in ordine alle quali c'è l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà dell'organo collegiale espressa da tutti i suoi componenti” (TAR Piemonte, Sez. I, 13.06.2013 n. 713).
Anche in sede consultiva il Consiglio ha enunciato la medesima regola della natura perfetta del collegio allorché la commissione svolga attività rilevanti, quali la selezione delle tracce e la valutazione di candidati.
Si è invero al riguardo sancito che “
In sede di operazioni concorsuali non si richiede la presenza della commissione giudicatrice al suo completo in tutte le fasi del procedimento. La regola del collegio perfetto deve, invero, trovare osservanza in tutti i momenti in cui vengono adottate determinazioni rilevanti ai fini della valutazione dei candidati (fissazione dei criteri di massima di valutazione delle prove concorsuali; selezione degli argomenti e redazione delle tracce delle prove scritte; determinazione dei quesiti da sottoporre ai candidati nelle prove orali; correzione degli elaborati e svolgimento delle prove orali), ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso; le operazioni concorsuali di carattere meramente istruttorio e preparatorio non impongono, invece, la presenza di tutti i componenti del collegio e possono avvenire sotto il controllo ed alla presenza di solo alcuni di essi.” (Consiglio di Stato, Sez. I, 11.07.2011 n. 1286).
Recentissimamente
il Consiglio, sia pur in materia di gare d’appalto, ma all’evidenza il principio è trasponibile nei pubblici concorsi, condividendo gli stessi i medesimi principi di collegialità e trasparenza, ha ribadito che “Occorre distinguere, nell’ambito dell’operato della Commissione di gara, tra attività di valutazione dell’offerta ed attività meramente preparatoria e istruttoria.
Mentre nel primo caso essa è chiamata a fare scelte discrezionali, in ordine alle quali v’è l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà dell’organo collegiale espressa da tutti i suoi componenti, così necessariamente non avviene per le attività preparatorie, istruttorie e vincolate, rispetto alle quali il principio di collegialità può essere derogato, trattandosi di operazioni prive di ogni connotato valutativo
(cfr., tra le altre, Cons. Stato, IV, n. 4196/2005)
” (Consiglio di Stato, Sez. III, 17.07.2018 n. 4331).

APPALTI: Le valutazioni svolte dalle Commissioni di gara relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo “non mediante una sostituzione dei giudizi, ma soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti, non plausibilità dei criteri valutativi o della loro applicazione”.
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Con il primo motivo di appello, Eu.St. s.r.l. censura la decisione di primo grado per aver accolto le censure sollevate dalla controinteressata Im. s.r.l. relativamente all’offerta di miglioria n. 1, per contrasto con le previsioni di cui ai punti d.6 e d.2 del disciplinare di gara.
Sotto il primo profilo era stata lamentata l’interferenza dell’opera con un sedime di proprietà privata, sotto il secondo la presunta genericità della stessa miglioria, non potendosi “percepirne l’esatta ubicazione”.
Quanto sopra conseguirebbe all’erroneo presupposto che la Commissione di gara “ha circoscritto il proprio compito ad un apprezzamento qualitativo dell’offerta tecnica di Eu.St. s.r.l. dal solo punto di vista della idoneità e convenienza delle soluzioni proposte, senza valutarne anche la rispondenza ai parametri che il disciplinare aveva posto a pena di esclusione”.
Per contro, rileva l’appellante, il complesso percorso istruttorio alla base dei giudizi espressi dalla Commissione di gara nelle tre sedute straordinarie smentirebbe tale conclusione, comprovando piuttosto come la miglioria offerta da Eu.St. sarebbe conforme alle prescrizioni del disciplinare e realizzabile dal punto di vista sia tecnico che giuridico.
Il motivo è fondato.
Va ribadito, al riguardo, che le valutazioni svolte dalle Commissioni di gara relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo “non mediante una sostituzione dei giudizi, ma soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti, non plausibilità dei criteri valutativi o della loro applicazione” (ex plurimis, Cons. Stato, V, 27.04.2015, n. 2098; III, 02.04.2015, n. 1741) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.11.2018 n. 6423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Va confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, anche in mancanza dalla previa autorizzazione di varianti (prevista dall’art. 95 cit.), deve comunque ritenersi insita nella scelta del criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa la possibilità, per i partecipanti, di proporre quelle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio tra i concorrenti.
Al riguardo, va detto che le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall’amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva previsione contenuta nel bando di gara e l’individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un “aliud” rispetto a quella prefigurata dalla pubblica amministrazione.

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Con il terzo motivo di appello, di carattere subordinato ai precedenti, viene infine dedotta la nullità della clausola escludente di cui al punto f) del disciplinare di gara per violazione del principio di tassatività sancito dall’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016, a mente del quale “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Invero, rileva l’appellante, non esiste alcuna disposizione di legge per cui la presentazione di migliorie progettuali –ancorché difformi ai requisiti minimi indicati dalla stazione appaltante negli atti di gara– comporti la necessaria esclusione dalla gara dell’impresa offerente.
Piuttosto, le offerte migliorative risultano ammesse in via generale, prima dall’art. 76 del d.lgs. n. 163 del 2006 e, quindi, dal vigente art. 95, comma 14, del richiamato d.lgs. n. 50 del 2016 in tutte le gare aggiudicate col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, previa autorizzazione della stazione appaltante.
Il motivo risulta in linea di principio fondato, nei termini che si precisano.
Va infatti confermato l’orientamento giurisprudenziale –dal quale non vi è ragione di discostarsi– secondo il quale, anche in mancanza dalla previa autorizzazione di varianti (prevista dall’art. 95 cit.), deve comunque ritenersi insita nella scelta del criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa la possibilità, per i partecipanti, di proporre quelle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio tra i concorrenti (Cons. Stato, V, 27.03.2015, n. 1601).
Al riguardo, va detto (ex multis, Cons. Stato, V, 16.04.2014, n. 1923) che le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall’amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva previsione contenuta nel bando di gara e l’individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un “aliud” rispetto a quella prefigurata dalla pubblica amministrazione (in termini, anche Cons. Stato, V, 17.01.2018, n. 270; V, 14.05.2018, n. 2853; VI, 19.06.2017, n. 2969).
Alla luce di quanto precede, sarebbe quindi illegittima un’interpretazione della clausola di cui al capo 4, punto f), del disciplinare di gara –secondo cui “il verificarsi di una delle condizioni di cui alle precedenti lettere d) oppure e), comporta la non ammissibilità dell’Offerta Tecnica e l’esclusione del relativo offerente”– tale da comportare l’automatica esclusione delle offerte che presentino eventuali soluzioni migliorative rispetto alle prescrizioni progettuali poste a base di gara.
Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va dunque accolto
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.11.2018 n. 6423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le strade vicinali, ancorché private, sono assimilate a quelle comunali ai sensi dell’art. 2, comma 6, lett. d), del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada), caratterizzandosi per la presunzione (sia pure iuris tantum) di uso pubblico, superabile solo con la prova contraria dell’inesistenza di tale diritto di godimento da parte della collettività, prova che non risulta dagli atti di causa.
Del resto, ai sensi dell’art. 825 Cod. civ., “Sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi”.

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Neppure appare decisiva l’ulteriore considerazione, riportata in sentenza, secondo cui non esisterebbero “dubbi che su alcune strade di avvicinamento ai depuratori (Calvisi ed Auduni) il Comune di Gioia Sannitica non esercita un diritto di proprietà, ma sarebbe solo titolare di servitù di passaggio; ma l’esistenza di una servitù, a prescindere dalla facultas specifica del titolare, presuppone necessariamente che il proprietario del fondo servente non sia l’amministrazione comunale, né risulta che esistano posizioni dominicali tali da fa ricadere altrimenti le predette aree nella mano pubblica”.
Invero, proprio la riconosciuta esistenza di una servitù di uso pubblico su parte delle strade di avvicinamento ai depuratori avrebbe dovuto piuttosto rafforzare la posizione dell’aggiudicataria (come del resto riconosciuto dalla Commissione di gara), in quanto le strade vicinali, ancorché private, sono assimilate a quelle comunali ai sensi dell’art. 2, comma 6, lett. d), del d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (Codice della strada), caratterizzandosi per la presunzione (sia pure iuris tantum) di uso pubblico, superabile solo con la prova contraria dell’inesistenza di tale diritto di godimento da parte della collettività (ex multis, Cons. Stato, IV, 19.03.2015, n. 1515), prova che non risulta dagli atti di causa.
Del resto, ai sensi dell’art. 825 Cod. civ., “Sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.11.2018 n. 6423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Tutela dell’interesse dell’appaltatore ad ottenere la revisione dei prezzi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione prezzi – Termine iniziale per il calcolo del compenso revisionale – Decorrenza ex art. 33, comma 3, l. n. 41 del 1986 normativa ratione temporis applicabile – Riferimento alla data dell’aggiudicazione e non dell’offerta.
  
Giurisdizione - Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione prezzi – Prolungamento dei lavori oltre il termine contrattualmente previsto – Richiesta risarcitoria - Giurisdizione del giudice ordinario.
   ● Se la revisione-prezzi tende a ristabilire il rapporto sinallagmatico tra la prestazione dell’appaltatore e la controprestazione dell’Amministrazione, adeguando il corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, qualora questi superino la soglia dell’alea contrattuale come determinata dalla legge, essa può evidentemente operare soltanto dopo che il rapporto contrattuale sia sorto, cioè dopo l’aggiudicazione (1).
  
La domanda di risarcimento dei danni subiti a causa del prolungamento dei lavori oltre il termine contrattualmente previsto appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, dal momento che essa non ha ad oggetto l’an del compenso revisionale, ma il risarcimento dei danni subiti dall’appaltatore in conseguenza dell’inadempimento (colpevole) dell’Amministrazione committente (2).
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   (1) Cons. St., sez. VI, 24.06.1994, n. 1055; id., sez. VI, 14.10.1999, n. 559; id., sez. V, 01.10.2002, n. 5122.
Ha chiarito il Tar che la revisione-prezzi nei contratti di appalto, disciplinata dall’art. 33, comma 3, l. n. 41 del 1986, decorre dalla data dell’aggiudicazione e non da quella dell’offerta ed ha indicato e analizzato in senso critico i risalenti pareri e sentenze del Consiglio e le circolari ministeriali su cui si basa le diversa e non condivisa tesi che assume come punto di riferimento per determinare l’ammontare della revisione-prezzi la data dell’offerta.
   (2) Il Tar richiama, a conferma del fatto che la questione esuli dalla giurisdizione del giudice amministrativo, l’indirizzo giurisprudenziale della Cassazione civile (n. 5951 del 2008; n. 16152 del 2013; n. 24161 del 2014), secondo cui la domanda di risarcimento è caratterizzata da un petitum e da una causa petendi diversi da quelli oggetto della domanda di pagamento del compenso revisionale e postula l’allegazione e la prova della colpa dell’Amministrazione, che invece non sono necessarie ai fini della revisione, avente a oggetto il riconoscimento di un importo decurtato della percentuale che la legge pone a carico dell’appaltatore (
TAR Molise, sentenza 13.11.2018 n. 657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
IV - Il ricorrente Consorzio sostiene che, ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 41/1986, il conteggio per determinare il compenso revisionale va fatto prendendo come punto di riferimento la data dell’offerta, non quella dell’aggiudicazione, a differenza di quanto ritenuto dal direttore dei lavori, considerato che tra la data dell’offerta e quella dell’aggiudicazione è intercorso un periodo di tempo superiore a sei mesi.
Tale prospettazione è inattendibile sul piano ermeneutico.
Le circostanze in fatto evidenziate dal ricorrente sono irrilevanti, ove ci si attenga a quanto previsto dall’art. 33, comma 3, della legge n. 41/1986 -nel testo vigente fino alla sua abrogazione operata dall’art. 3 del D.L. 11.07.1992, convertito nella legge 08.08.1992 n. 359- almeno stando alla interpretazione che ne ha dato il Consiglio di Stato, V Sezione, con la sentenza 01.10.2002 n. 5122.
Il suddetto art. 33, comma 3, così recita: “Per i lavori di cui al precedente comma 2 aventi durata superiore all’anno, la facoltà di procedere alla revisione prezzi è ammessa a decorrere dal secondo anno successivo all’aggiudicazione e con esclusione dei lavori già eseguiti nel primo anno e dell’intera anticipazione ricevuta, quando l’Amministrazione riconosca che l’importo complessivo della prestazione è aumentato o diminuito in misura superiore al 10% per effetto di variazioni di prezzi correnti intervenute successivamente alla aggiudicazione stessa. La variazione dei prezzi da prendere a base per le suddette revisioni per ogni semestre dell’anno sono quelle rilevate, rispettivamente, con decorrenza primo gennaio e primo luglio di ciascun anno”.
Sennonché, l’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato, con la richiamata decisione, muove dal rilievo che la norma faccia espressa menzione, per ben due volte, dell’aggiudicazione quale evento dal cui verificarsi decorrano i periodi di tempo rilevanti ai fini della revisione prezzi; la prima volta, l’aggiudicazione è indicata quale momento dal quale va computato il primo anno di durata del rapporto contrattuale al fine di escluderlo dalla revisione dei prezzi; la seconda volta, l’aggiudicazione è indicata quale fatto che segna il termine iniziale a cui riferirsi per l’individuazione delle variazioni dei prezzi da prendere a base per la revisione.
In nessuna parte della norma è menzionato il momento dell’offerta (ovvero il tempo o la fase procedimentale in cui l’offerta assume evidenza) e, poiché nell’ambito delle procedure pubbliche di scelta del contraente, l’aggiudicazione e l’offerta sono atti tra loro diversi -perché il primo presuppone necessariamente l’altro e proviene dall’Amministrazione, mentre il secondo è proprio del concorrente che non è ancora divenuto contraente- la norma, nella lettura datane dal Consiglio di Stato, non può essere interpretata, se non alla stregua del suo dato testuale.
La circostanza che l’offerta sia ignorata dall’art. 33, comma 3, della legge n. 41/1986 evidenzia l’inattendibilità di ogni ipotesi interpretativa che assuma l’offerta (anziché l’aggiudicazione) come termine di riferimento.
Ne consegue che, ai fini della revisione-prezzi, nessuna rilevanza va riconosciuta al fatto -addotto dal ricorrente Consorzio- che tra la data dell’offerta e quella dell’aggiudicazione siano decorsi più di sei mesi, essendo tale circostanza irrilevante nella considerazione della richiamata giurisprudenza (cfr.: Cons. Stato V n. 5122/2002; Tar Campania-Salerno II, 05.12.2013 n. 2402). Se la revisione-prezzi tende a ristabilire il rapporto sinallagmatico tra la prestazione dell’appaltatore e la controprestazione dell’Amministrazione, adeguando il corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, qualora questi superino la soglia dell’alea contrattuale come determinata dalla legge, essa può evidentemente operare soltanto dopo che il rapporto contrattuale sia sorto, cioè dopo l’aggiudicazione.
Deve concludersi, pertanto, che la revisione-prezzi nei contratti di appalto, disciplinata dall’art. 33, comma 3, della legge n. 41/1986, decorre dalla data dell’aggiudicazione e non da quella dell’offerta (in senso conforme, cfr.: Cons. Stato VI, 24.06.1994 n. 1055; idem VI 14.10.1999 n. 559; idem V, 01.10.2002 n. 5122).
Così stando le cose, correttamente l’Ente committente è pervenuto alla determinazione negativa in ordine alla richiesta di revisione-prezzi avanzata dal Co., basandosi sulle concordanti conclusioni raggiunte dalla Commissione di collaudo e dal direttore dei lavori, che hanno considerato come “dies a quo” per il calcolo della revisione-prezzi la data dell’aggiudicazione e non quella dell’offerta, in conformità a quanto stabilito dal citato art. 33, comma 3. Conseguentemente, poiché, sulla base dei conteggi della direzione lavori, l’importo della revisione prezzi è risultato inferiore all’alea contrattuale del 10%, il compenso revisionale è stato ritenuto non dovuto.

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO DEL SUOLO - Obbligo di assumere misure atte a rimuovere l’inquinamento - Autore della contaminazione - Artt. 242 e 244 d.lgs. n. 152/2006
L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento fa carico, a sensi dell'art. 242 del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, al suo autore, non configurandosi una responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al possessore del sito in ragione di tale qualità (cfr.: Tar Piemonte - Sez. I, 09.08.2017, n. 960; Cons. Stato, Sez. VI, 05.10.2016, n. 4099; idem, 05.10.2016, n. 4119).
Com’è noto, infatti. ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del citato Testo unico dell'ambiente, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, bonifica e ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica Amministrazione ai soggetti responsabili dell'inquinamento, cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità.

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INQUINAMENTO DEL SUOLO - Siti inquinati - Normativa speciale - Presupposti per l’emanazione di ordinanze contingibili e urgente - Applicabilità della normativa generale di cui all’art. 50 d.lgs. n. 267/2000.
Pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti –quali previste dall’art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000– quando se ne configurino i relativi presupposti (cfr.: Cons. Stato V, 16.02.2010 n. 868) (TAR Molise, sentenza 13.11.2018 n. 656 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento fa carico al suo autore.
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Ambiente – Danno ambientale – Obbligo di assumere misure atte a rimuovere l’inquinamento – Diffida ai soggetti responsabili dell’inquinamento – Legittimità.
  
Ambiente – Danno ambientale – Obbligo di assumere misure atte a rimuovere l’inquinamento – Diffida ai soggetti responsabili dell’inquinamento – Competenza – Normativa speciale art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 – Normativa generale art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000 - Potere residuale – Presupposti - Applicabilità.
  
L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento fa carico, a sensi dell'art. 242, d.lgs. 03.04.2006 n. 152, al suo autore, non configurandosi una responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al possessore del sito in ragione di tale qualità (1).
  
A fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti –quali previste dall’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000– quando se ne configurino i relativi presupposti (2).
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   1) Tar Piemonte,sez. I, 09.08.2017, n. 960; Cons. St., sez. VI, 05.10.2016, n. 4099; id. 05.10.2016, n. 4119.
Il Tar ha chiarito che non si ravvisa, nella specie, alcuna violazione dei principi giuridici in materia ambientale e il fatto che non sia stato intimato ad ovviare all’inquinamento anche il successivo proprietario del suolo non costituisce un vizio di legittimità della diffida impugnata che ragionatamente individua quale responsabile il Consorzio che usava a suo tempo le cisterne, dalle quali proviene il segnalato inquinamento del suolo.
Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del Testo unico dell'ambiente (d.lgs. 03.04.2006 n. 152), una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, bonifica e ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica Amministrazione ai soggetti responsabili dell'inquinamento, cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità.
   2) Cons. St., sez. V, 16.02.2010, n. 868.
Il Tar ha precisato che se è vero che la Provincia è competente, ai sensi dell’art. 244 del Testo unico dell'ambiente (d.lgs. 03.04.2006 n. 152), ad adottare la diffida in argomento, è altresì vero che, nei casi di urgenza, il Comune può intervenire con una propria ordinanza contingibile, fermo restando che la Provincia possa e debba adottare –se non l’ha già fatto- i provvedimenti di sua competenza (
TAR Molise, sentenza 13.11.2018 n. 656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
III - Il ricorso è infondato.
È incontestato che non si sia rinvenuta, agli atti del fascicolo, la cartolina postale comprovante l’avvenuto perfezionamento della notifica, eseguita a mezzo plico raccomandato con ricevuta di ritorno, nei confronti dell’Amministrazione comunale intimata, che peraltro non si è costituita in giudizio. La giurisprudenza sulla producibilità in limine del detto documento è oscillante (cfr.: Cons. Stato IV, n. 2420/2014; Cass. civile VI, 27.10.2017 n. 25552). Ciò nondimeno, a voler prescindere dal sollevato profilo di inammissibilità, il ricorso deve essere respinto, stante l’inattendibilità dei motivi.
IV – Dalla documentazione versata in atti risulta che, sin dal 1976, è cessato l'uso dell'area in argomento quale deposito di carburante e le cisterne interrate lì presenti sono state quindi riempite con materiale inerte; nessun particolare intervento di bonifica è stato eseguito fino al 2013, allorché il sito è passato in proprietà alla società Ubi Leasing e condotto in leasing dalla ditta di Rosa Michele.
L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento fa carico, a sensi dell'art. 242 del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, al suo autore, non configurandosi una responsabilità oggettiva in capo al proprietario o al possessore del sito in ragione di tale qualità (cfr.: Tar Piemonte - Sez. I, 09.08.2017, n. 960; Cons. Stato, Sez. VI, 05.10.2016, n. 4099; idem, 05.10.2016, n. 4119). Tutto lascia intendere e supporre che l’inquinamento sia avvenuto all’epoca dell’utilizzo delle cisterne quali depositi di carburanti, allorché proprietario e utilizzatore del fondo era il ricorrente Consorzio.
Com’è noto, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del citato Testo unico dell'ambiente, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, bonifica e ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica Amministrazione ai soggetti responsabili dell'inquinamento, cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità. Il ricorrente Consorzio rientra tra i detti soggetti poiché è noto e incontestato che esso abbia utilizzato le cisterne per il deposito di nafta agricola fino al 1976, senza aver verificato –alla cessazione dell’uso– che le cisterne fossero ripulite ed opportunamente bonificate.
V – Pertanto, le censure del ricorso devono essere disattese.
VI - Se è vero che la Provincia è competente, ai sensi dell’art. 244 del citato T.U. ambientale, ad adottare la diffida in argomento, è altresì vero che, nei casi di urgenza, il Comune può intervenire con una propria ordinanza contingibile, sicché, pur a fronte di una normativa speciale che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa generale, espressione di un potere residuale, in materia di ordinanze contingibili e urgenti –quali previste dall’art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000– quando se ne configurino i relativi presupposti (cfr.: Cons. Stato V, 16.02.2010 n. 868).
Nel caso di specie, l’intervento del Comune presenta in effetti il carattere dell’urgenza, fermo restando che la Provincia possa e debba adottare –se non l’ha già fatto- i provvedimenti di sua competenza.
VII – Stante la rilevata urgenza del caso, non si ritengono necessari né la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 legge n. 241/1990, né l’indicazione dei termini di conclusione del procedimento, ex art. 8 della stessa legge.
VIII – Inattendibile è, altresì, il motivo del difetto di istruttoria e di motivazione della diffida: l’atto nasce da un accertamento del NOE e della Polizia municipale datato 02.10.2013, dal quale è risultato che le cisterne interrate, a suo tempo utilizzate dal Consorzio ricorrente, sono inquinanti. Il fatto che non sia stato intimato ad ovviare all’inquinamento anche il successivo proprietario del suolo, cioè la società Ubi Leasing, non costituisce un vizio di legittimità della diffida impugnata che ragionatamente individua quale responsabile il Consorzio che usava a suo tempo le cisterne, nonché l’attuale utilizzatore del fondo.
Nulla toglie che la Provincia di Campobasso, nell’ambito delle sue competenze, possa ancora diffidare all’adempimento il Consorzio ricorrente ed anche la società odierna proprietaria del suolo.
IX – Non si ravvisa, nella specie, alcuna violazione dei principi giuridici in materia ambientale poiché –come già rilevato– il Consorzio risulta essere stato l’utilizzatore delle cisterne interrate ad uso deposito nafta, dalle quali proviene il segnalato inquinamento del suolo.
X – In conclusione, il ricorso deve essere respinto. Sussistono giustificate ragioni per la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

PUBBLICO IMPIEGO: Indizione di un nuovo concorso in presenza di una graduatoria ancora valida.
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Concorso – Graduatoria – Graduatoria valida ed efficace – Indizione nuovo concorso – Possibilità – Motivazione specifica – Necessità.
La pubblica amministrazione, pur in presenza di graduatorie valide ed efficaci, se vuole coprire posti relativi a professionalità presenti nelle stesse non è obbligata ad attuare lo scorrimento ma può indire un nuovo concorso purché tale determinazione sia assistita da un approfondito corredo motivazionale, in assenza del quale la determinazione è illegittima (1).
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   (1) Al livello della normativa di fonte primaria ha ricordato la Sezione che l’art. 3, comma 87, l. 24.12.2007 n. 244 (legge finanziaria 2008), che ha aggiunto il comma 5-ter all’art. 35, d.lgs. n. 165 del 2001, ha stabilito che le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione.
L’ambito oggettivo di applicazione della disposizione citata è particolarmente ampio, applicandosi indistintamente “a tutte” le pubbliche amministrazioni.
Ha aggiunto il Tar –richiamando un proprio precedente in termini (sez. III-bis, 21.06.2016 n. 7254)- che la norma citata deve evidentemente essere interpretata nel senso reso palese dal suo tenore testuale nonché alla luce della ratio sottesa che, nella fattispecie, è indubbiamente quella di favorire, ove possibile, lo scorrimento delle graduatorie con il solo limite, quanto agli idonei, del rispetto del criterio di equivalenza delle professionalità necessarie per l’ente e presenti nelle graduatorie ancora valide.
Da ciò consegue che l’amministrazione ai fini della legittimità della scelta di indire nuovi concorsi pubblici è tenuta a fornire un’adeguata motivazione sul punto, che deve riguardare l’effettiva carenza in concreto di professionalità equivalenti nell’ambito delle graduatorie concorsuali ancora valide; ai fini dell’applicazione del criterio dell’equivalenza non può fondatamente farsi ricorso al criterio dell’identità perfetta e assoluta tra le due professionalità in comparazione tra di loro, come opinato da parte ricorrente.
Sul punto v. anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011, che ha precisato che “sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace, quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l'indizione del nuovo concorso costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio impasto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico”.
Tale principio è oramai consolidato nella giurisprudenza per la quale “nell'impiego pubblico, in presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci, l'amministrazione, se stabilisce di provvedere alla copertura dei posti vacanti, deve motivare la determinazione riguardante le modalità di reclutamento del personale, anche qualora scelga l'indizione di un nuovo concorso, in luogo dello scorrimento delle graduatorie vigenti” (Cons. St., sez. IV, 24.08.2017, n. 4056).
In sostanza, se è vero che l’Amministrazione non ha l’obbligo di preferire lo scorrimento rispetto all’indizione di un nuovo concorso, tale scelta deve essere adeguatamente motivata, soprattutto quando, come nel caso in esame, il d.m. n. 163 del 2018, avente ad oggetto l’assunzione di ricercatori e tecnologi negli enti pubblici di ricerca e posto alla base dei provvedimenti impugnati, ha espressamente previsto la possibilità che le assunzioni in questione “possono essere effettuate, oltre che con le ordinarie procedure di selezione, utilizzando delle graduatorie vigenti…” (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 12.11.2018 n. 10862 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Ritiene la Sezione che il ricorso sia persuasivo e meritevole di essere accolto.
Gli atti indittivi del gravato concorso appaiono infatti confliggere con l’art. 1 comma 3, del DM Miur n. 105 del 26.02.2016 che stabilisce che la copertura dei finanziati posti debba avvenire utilizzando le graduatorie vigenti relative alle procedure attuate ai sensi del decreto ministeriale 26.02.2016, n. 105 e con l’eccezionalità dell’indizione di nuovo concorso richiedente specifica motivazione.
Al livello della normativa di fonte primaria rammenta il Collegio che l’art. 3, comma 87, della legge 24.12.2007 n. 244 (legge finanziaria 2008), che ha aggiunto il comma 5-ter all’art. 35 del d.lgs. 165/2001, ha stabilito che le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione.
L’ambito oggettivo di applicazione della disposizione citata è particolarmente ampio, applicandosi indistintamente “a tutte” le pubbliche amministrazioni.
2.1. La Sezione si è di recente pronunciata sull’applicazione di tale disposizione con riguardo a caso analogo a quello per cui si controverte, stabilendo che “La norma citata deve evidentemente essere interpretata nel senso reso palese dal suo tenore testuale nonché alla luce della ratio sottesa che, nella fattispecie, è indubbiamente quella di favorire, ove possibile, lo scorrimento delle graduatorie con il solo limite, quanto agli idonei, del rispetto del criterio di equivalenza delle professionalità necessarie per l’ente e presenti nelle graduatorie ancora valide.
Da ciò consegue che l’amministrazione ai fini della legittimità della scelta di indire nuovi concorsi pubblici è tenuta a fornire un’adeguata motivazione sul punto, che deve riguardare l’effettiva carenza in concreto di professionalità equivalenti nell’ambito delle graduatorie concorsuali ancora valide; ai fini dell’applicazione del criterio dell’equivalenza non può fondatamente farsi ricorso al criterio dell’identità perfetta e assoluta tra le due professionalità in comparazione tra di loro, come opinato da parte ricorrente
”. (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 21.06.2016 n. 7254).
Si è espresso nei medesimi sensi anche TAR Campania–Napoli, Sez. IV, n. 366/2017.
2.2. Va ulteriormente denotato che il presupposto fondamentale a cui è ancorata l’applicazione dell’istituto dello scorrimento è costituito dalla presenza, nella stessa amministrazione, di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007, relative a professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza.
Sul punto deve ricordarsi che l’Adunanza Plenaria 14/2011 ha precisato che “sul piano dell’ordinamento positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace, quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la regola generale, mentre l'indizione del nuovo concorso costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio impasto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico”.
Tale principio è oramai consolidato nella giurisprudenza per la quale “nell'impiego pubblico, in presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci, l'amministrazione, se stabilisce di provvedere alla copertura dei posti vacanti, deve motivare la determinazione riguardante le modalità di reclutamento del personale, anche qualora scelga l'indizione di un nuovo concorso, in luogo dello scorrimento delle graduatorie vigenti” (Cons. St., sez. IV, 24.08.2017, n. 4056).
In sostanza, se è vero che l’Amministrazione non ha l’obbligo di preferire lo scorrimento rispetto all’indizione di un nuovo concorso, tale scelta deve essere adeguatamente motivata, soprattutto quando, come nel caso in esame, il d.m. 163/2018, avente ad oggetto l’assunzione di ricercatori e tecnologi negli enti pubblici di ricerca e posto alla base dei provvedimenti impugnati, ha espressamente previsto la possibilità che le assunzioni in questione “possono essere effettuate, oltre che con le ordinarie procedure di selezione, utilizzando delle graduatorie vigenti …”.
2.2. Nel caso in esame traspare dagli atti di causa come la scelta di procedere attraverso un nuovo concorso piuttosto che attraverso l’utilizzo delle graduatorie esistenti non risulti sorretta da alcun corredo motivazionale.
Al riguardo va pure precisato che non può ritenersi che le motivazioni siano quelle offerte dall’Amministrazione nella propria memoria prodotta in giudizio, posto che per pacifico orientamento giurisprudenziale “la motivazione del provvedimento amministrativo non può essere integrata nel corso del giudizio con la specificazione di elementi di fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire ogni provvedimento amministrativo, individuando con ciò il fondamento dell'illegittimità della motivazione postuma nella tutela del buon andamento amministrativo e nell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario” (Cons. St., Sez. VI, 08.09.2017, n. 4253).
In definitiva, per le considerazioni finora svolte il ricorso si prospetta fondato e deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione unica, illegittimi i pareri espressi al di fuori della Conferenza di servizi.
Consiglio di Stato:
il parere negativo espresso al di fuori della Conferenza è illegittimo per incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità priva di potere in materia.
La giurisprudenza, con riguardo alla previsione dell’art. 12, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, ha rilevato che la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili sono soggetti ad un’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione, che è tenuta a convocare la conferenza di servizi; tutte le Amministrazioni interessate dal progetto, e dunque con competenza propria in materia, sono tenute a partecipare alla conferenza e ad esprimere in tale sede anche i pareri di cui sono investiti per legge, secondo le dinamiche collaborative proprie dello strumento di semplificazione procedimentale previsto dalla legge. Il parere negativo espresso al di fuori della conferenza è illegittimo per incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità priva di potere in materia (in termini C.G.A. Sicilia, 11.04.2008, n. 295; indirettamente anche Cons. Stato, IV, 13.10.2015, n. 4732).”
Lo ha ribadito la V Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 12.11.2018 n. 6342.
Se tale orientamento giurisprudenziale, il cui fondamento di razionalità è ravvisabile nel fatto che l’autorizzazione unica sia l’epilogo di un procedimento unitario, vale per i soggetti che, in quanto portatori di interessi canonizzati dalla norma, devono partecipare al procedimento conferenziale, a maggiore ragione la soluzione si impone per l’ARPA, organo tecnico-consultivo, seppure con soggettività giuridica pubblica (art. 2, comma 1, della l.r. Puglia 22.01.1999, n. 6), della Regione”, aggiunge la nuova sentenza (commento tratto da www.casaeclima.com).
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Il motivo, nella sua triplice articolazione, è infondato.
2.1. - Quanto alla possibilità, da parte della Regione, di acquisire il parere dell’ARPA nell’ambito del procedimento conferenziale finalizzato al rilascio dell’autorizzazione unica, occorre mettere in evidenza come la sentenza non abbia negato tale prerogativa. Al contrario, all’esito di un articolato percorso motivazionale, che ha preso le mosse proprio dal dubbio in ordine alla legittimazione dell’ARPA a partecipare alla conferenza di servizi decisoria, la sentenza ha affermato «di non poter del tutto escludere la possibilità per […] la Regione Puglia, di poter invitare alla conferenza di servizi anche amministrazioni od organi tecnici, quali l’A.r.p.a., non titolari di competenze decisorie in materia di realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, sussistendo sul punto un ineludibile profilo di discrezionalità amministrativa, seppure da esercitarsi nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, al fine di non snaturare lo strumento decisorio della conferenza di servizi di cui all’art. 12, comma 4, d.lgs. n. 387/2003».
2.2. - Con riguardo, poi, all’ulteriore profilo del parere espresso (in data 31.08.2011) al di fuori della conferenza di servizi e successivamente alla chiusura della stessa (20.12.2010), la sentenza di prime cure ha condivisibilmente ritenuto che sia illegittimo, melius affetto da incompetenza assoluta, anche perché «le integrazioni richieste e fornite dalla ricorrente avrebbero dovuto semmai essere anch’esse esaminate in sede di conferenza di servizi».
La giurisprudenza, proprio con riguardo alla previsione dell’art. 12, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, ha rilevato che la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili sono soggetti ad un’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione, che è tenuta a convocare la conferenza di servizi; tutte le Amministrazioni interessate dal progetto, e dunque con competenza propria in materia, sono tenute a partecipare alla conferenza e ad esprimere in tale sede anche i pareri di cui sono investiti per legge, secondo le dinamiche collaborative proprie dello strumento di semplificazione procedimentale previsto dalla legge. Il parere negativo espresso al di fuori della conferenza è illegittimo per incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità priva di potere in materia (in termini C.G.A. Sicilia, 11.04.2008, n. 295; indirettamente anche Cons. Stato, IV, 13.10.2015, n. 4732).
Se tale orientamento giurisprudenziale, il cui fondamento di razionalità è ravvisabile nel fatto che l’autorizzazione unica sia l’epilogo di un procedimento unitario, vale per i soggetti che, in quanto portatori di interessi canonizzati dalla norma, devono partecipare al procedimento conferenziale, a maggiore ragione la soluzione si impone per l’ARPA, organo tecnico-consultivo, seppure con soggettività giuridica pubblica (art. 2, comma 1, della l.r. Puglia 22.01.1999, n. 6), della Regione.
Del resto, tale sistema appare funzionale a che le Amministrazioni convocate esprimano il proprio motivato dissenso rispetto all’oggetto dell’iniziativa procedimentale all’interno del procedimento, anche in considerazione della possibilità di dover attivare il meccanismo rimediale previsto per il superamento del dissenso qualificato (Cons. Stato, V, 09.05.2018, n. 2790) (Consiglio di Stato, V Sez. sentenza 12.11.2018 n. 6342. - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasferimento di pubblico dipendente con figli minori fino a tre anni di età.
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Pubblico impiego privatizzato - Trasferimento – Per figli minori fino a tre anni di età – Art. 42-bis, d.lgs. n. 151 del 2001 – Deficienze di organico – Diniego – Motivazione specifica – Necessità.
In materia di trasferimento del dipendente di amministrazioni pubbliche, genitore con figli minori fino a tre anni di età, previsto dall'art. 42-bis, d.lgs. n. 151 del 2001 le esigenze organizzative legate alle deficienze di organico non sono sufficienti ai fini del diniego dell'istanza, ove non siano accompagnate da un'adeguata motivazione che dia conto della peculiare professionalità ovvero specializzazione delle prestazioni resa del soggetto istante, tali da renderlo difficilmente sostituibile (1).
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   (1) Tar Catanzaro, sez. I, 01.08.2018, n. 1494.
Ad avviso del Tar le ordinarie esigenze di servizio non possono costituire motivi ostativi al riconoscimento del beneficio di cui all'art. 42-bis, d.lgs. n. 151 del 2001 atteso che tale disposizione normativa è stata introdotta dal legislatore a tutela dei minori (Tar Milano, sez. III, 21.09.2018, n. 2118).
L'amministrazione deve opporre una reale difficoltà conseguente allo spostamento dell'istante e non segnalare quei disagi o inconvenienti che –come nel caso della motivazione del provvedimento impugnato- sono sempre conseguenti al trasferimento di un dipendente da un reparto che così aumenta di un'unità la scopertura dell'organico (Tar Bologna, sez. I, 08.10.2018, n. 742).
La norma di cui all'art. 42-bis, comma 1, d.lgs. n. 151 del 2001, strumentale alla tutela di valori costituzionali di ragno primario legati alla promozione della famiglia ed al diritto-dovere di provvedere alla cura dei figli applicabile anche al personale delle forze di polizia deve essere interpretata nel senso di ritenere che i "casi o esigenze eccezionali" legittimanti il diniego di trasferimento non possano di norma identificarsi con le carenze di organico dell'amministrazione cedente (Tar Catanzaro, sez. I, 12.06.2018, n. 1178).
L’esercizio del limitato potere discrezionale che l’art. 42-bis cit. configura in capo all’amministrazione è correlato ad un obbligo motivazionale particolarmente stringente, in considerazione dell’esigenza di dare protezione a valori di rilievo costituzionale (Cons. St., sez. IV, n. 2426 del 2015) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, ordinanza 12.11.2018 n. 1048 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Procedura di valutazione ambientale strategica.
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Ambiente – Valutazione ambientale strategica – Procedura – Individuazione.
La valutazione ambientale strategica (Vas) ha la finalità di guidare l'amministrazione nell'effettuazione delle scelte discrezionali da compiersi nei procedimenti volti all'approvazione dei piani e dei programmi, in modo da far sì che tali scelte siano sempre orientate a garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente; per assicurare il raggiungimento di questo scopo, si è previsto che la procedura della Vas sia concomitante a quella che ha per oggetto l'approvazione dei piani e dei programmi sì da favorire sin da subito l'emersione e l'evidenziazione dell'interesse ambientale (1).
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   (1) Cons. St., sez. IV, 26.02.2015, n. 975; id., sez. IV, 20.05.2014, n. 2569.
Ha chiarito il Tar che la disciplina della valutazione ambientale strategica (Vas) integra attuazione della Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente.
L’art. 1 della normativa europea delinea gli obiettivi perseguiti: garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e di contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile, assicurando che venga effettuata la valutazione ambientale di determinati piani e programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente.
Per fare ciò, alcuni piani e programmi, i quali possono avere un significativo impatto sull’ambiente e che sono meglio individuati all’art. 3, sono assoggettati a una valutazione ambientale, secondo il seguente iter.
Innanzitutto, deve essere redatto un rapporto ambientale in cui siano individuati, descritti e valutati gli effetti significativi che l'attuazione del piano o del programma potrebbe avere sull'ambiente nonché le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano o del programma (art. 5).
La proposta di piano o di programma ed il rapporto ambientale devono essere messi a disposizione delle autorità preposte alla tutela dell’ambiente e del pubblico, i quali devono disporre tempestivamente di un'effettiva opportunità di esprimere in termini congrui il proprio parere sulla proposta di piano o di programma e sul rapporto ambientale che la accompagna, prima dell'adozione del piano o del programma o dell'avvio della relativa procedura legislativa (art. 6).
In fase di preparazione del piano o del programma e prima della sua adozione o dell'avvio della relativa procedura legislativa si prendono in considerazione il rapporto ambientale e i pareri espressi dalle autorità preposte alla tutela dell’ambiente e del pubblico.
La direttiva 2001/42/CE impone agli Stati membri di adottare degli strumenti grazie ai quali, allorché si debba porre in essere un piano o un progetto che possa avere significativi impatti sull’ambiente, il soggetto procedente sia informato della natura e del grado di tale impatto, al fine di assumere una decisione consapevole anche sotto il profilo ambientale.
La disciplina nazionale appare coerente con il quadro delineato dalla normativa europea.
L’art. 5, comma 1, lett. a), d.lgs. 03.04.2006, n. 152, contenente norme in materia di ambiente, definisce come valutazione ambientale di piani e programmi (valutazione ambientale strategica, Vas) come “il processo che comprende (…) lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli esiti delle consultazioni, l'espressione di un parere motivato, l'informazione sulla decisione ed il monitoraggio”.
Le modalità di svolgimento della Vas sono delineate nel successivo art. 11, per cui la valutazione ambientale strategica è avviata dall'autorità procedente contestualmente al processo di formazione del piano o programma e comprende lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del rapporto ambientale e gli esiti delle consultazioni, la decisione, l'informazione sulla decisione, il monitoraggio.
L'autorità competente (cioè l’autorità preposta alla tutela dell’ambiente individuata dalla legge), esprime, tenendo conto della consultazione pubblica, dei pareri dei soggetti competenti in materia ambientale, un proprio parere motivato sulla proposta di piano e di programma e sul rapporto ambientale nonché sull'adeguatezza del piano di monitoraggio e con riferimento alla sussistenza delle risorse finanziarie (artt. 11 e 15) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 09.11.2018 n. 1888 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12. – La doverosa premessa è che la presente decisione non ha ad oggetto, né potrebbe averlo, la compatibilità ambientale dell’intervento edilizio di cui si tratta. Tale valutazione spetta all’amministrazione pubblica, mentre al giudice amministrativo spetta il sindacato sulla legittimità delle decisioni amministrative.
Non è ammissibile, pertanto, quella porzione dei motivi di entrambi i ricorsi con cui si intende in sostanza ottenere il riconoscimento, da parte di questo Tribunale, della compatibilità ambientale del progetto edilizio.
13. – Ciò posto, la disciplina della valutazione ambientale strategica integra attuazione della Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente.
L’art. 1 della normativa europea delinea gli obiettivi perseguiti: garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e di contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile, assicurando che venga effettuata la valutazione ambientale di determinati piani e programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente.
Per fare ciò, alcuni piani e programmi, i quali possono avere un significativo impatto sull’ambiente e che sono meglio individuati all’art. 3, sono assoggettati a una valutazione ambientale, secondo il seguente iter.
Innanzitutto, deve essere redatto un rapporto ambientale in cui siano individuati, descritti e valutati gli effetti significativi che l'attuazione del piano o del programma potrebbe avere sull'ambiente nonché le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano o del programma (art. 5).
La proposta di piano o di programma ed il rapporto ambientale devono essere messi a disposizione delle autorità preposte alla tutela dell’ambiente e del pubblico, i quali devono disporre tempestivamente di un'effettiva opportunità di esprimere in termini congrui il proprio parere sulla proposta di piano o di programma e sul rapporto ambientale che la accompagna, prima dell'adozione del piano o del programma o dell'avvio della relativa procedura legislativa (art. 6).
In fase di preparazione del piano o del programma e prima della sua adozione o dell'avvio della relativa procedura legislativa si prendono in considerazione il rapporto ambientale e i pareri espressi dalle autorità preposte alla tutela dell’ambiente e del pubblico.
14. – In estrema sintesi, la direttiva 2001/42/CE impone agli Stati membri di adottare degli strumenti grazie ai quali, allorché si debba porre in essere un piano o un progetto che possa avere significativi impatti sull’ambiente, il soggetto procedente sia informato della natura e del grado di tale impatto, al fine di assumere una decisione consapevole anche sotto il profilo ambientale.
E in effetti, i considerando nn. 14, 15 e 17 bene esprimono tale intendimento: “(14) Una valutazione, ove prescritta dalla presente direttiva, dovrebbe essere elaborata in modo da contenere informazioni pertinenti come stabilito dalla presente direttiva, identificare, descrivere e valutare i possibili effetti ambientali significativi, tenendo conto degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano o del programma, nonché alternative ragionevoli (…).
(15) Allo scopo di contribuire ad una maggiore trasparenza dell'iter decisionale nonché allo scopo di garantire la completezza e l'affidabilità delle informazioni su cui poggia la valutazione, occorre stabilire che le autorità responsabili per l'ambiente ed il pubblico siano consultate durante la valutazione dei piani e dei programmi e che vengano fissate scadenze adeguate per consentire un lasso di tempo sufficiente per le consultazioni, compresa la formulazione di pareri.
(…)
(17) Il rapporto ambientale e i pareri espressi dalle autorità interessate e dal pubblico (…) dovrebbero essere presi in considerazione durante la preparazione del piano o del programma e prima della sua adozione o prima di avviarne l'iter legislativo
”.
15. – La disciplina nazionale, in effetti, appare coerente con il quadro delineato dalla normativa europea.
L’art. 5, comma 1, lett. a) d.lgs. 03.04.2006, n. 152, contenente norme in materia di ambiente, definisce come valutazione ambientale di piani e programmi (valutazione ambientale strategica, VAS) come “il processo che comprende (…) lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli esiti delle consultazioni, l'espressione di un parere motivato, l'informazione sulla decisione ed il monitoraggio”.
Le modalità di svolgimento della VAS sono delineate nel successivo art. 11, per cui la valutazione ambientale strategica è avviata dall'autorità procedente contestualmente al processo di formazione del piano o programma e comprende lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del rapporto ambientale e gli esiti delle consultazioni, la decisione, l'informazione sulla decisione, il monitoraggio.
Per quel che rileva in questa sede, l'autorità competente (cioè l’autorità preposta alla tutela dell’ambiente individuata dalla legge), esprime, tenendo conto della consultazione pubblica, dei pareri dei soggetti competenti in materia ambientale, un proprio parere motivato sulla proposta di piano e di programma e sul rapporto ambientale nonché sull'adeguatezza del piano di monitoraggio e con riferimento alla sussistenza delle risorse finanziarie (artt. 11 e 15).
Ai sensi dell’art. 16, il piano o programma ed il rapporto ambientale, insieme con il parere motivato e la documentazione acquisita nell'ambito della consultazione, sono trasmessi all'organo competente all'adozione o approvazione del piano o programma.
La decisione finale dell’autorità procedente è pubblicata, ai sensi dell’art. 17, nei siti web delle autorità interessate con indicazione del luogo in cui è possibile prendere visione del piano o programma adottato e di tutta la documentazione oggetto dell'istruttoria.
Sono inoltre rese pubbliche attraverso la pubblicazione sui siti web della autorità interessate: a) il parere motivato espresso dall'autorità competente; b) una dichiarazione di sintesi in cui si illustra in che modo le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano o programma e come si è tenuto conto del rapporto ambientale e degli esiti delle consultazioni, nonché le ragioni per le quali è stato scelto il piano o il programma adottato, alla luce delle alternative possibili che erano state individuate; c) le misure adottate in merito al monitoraggio.
16. – In estrema sintesi, l’autorità competente alla tutela dell’ambiente, ha il compito di esprimere un parere motivato, che è un atto endoprocedimentale (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.05.2013, n. 1203) e che l’amministrazione competente ha l’obbligo di tenere in considerazione nella determinazione finale.
Con le parole della più autorevole giurisprudenza, la VAS ha la finalità di guidare l'amministrazione nell'effettuazione delle scelte discrezionali da compiersi nei procedimenti volti, per l'appunto, all'approvazione dei piani e dei programmi, in modo da far sì che tali scelte siano sempre orientate a garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente. Per assicurare il raggiungimento di questo scopo, si è previsto che la procedura della VAS sia concomitante a quella che ha per oggetto l'approvazione dei piani e dei programmi sì da favorire sin da subito l'emersione e l'evidenziazione dell'interesse ambientale (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2015, n. 975; Cons. Stato, Sez. IV, 20.05.2014, n. 2569).

URBANISTICA: Il diritto di proprietà è destinato necessariamente a confrontarsi con quelle che sono le dinamiche di sviluppo di un territorio e con le relative normative in materia di pianificazione urbanistica.
A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha rilevato: «… Il Collegio osserva che il potere di pianificazione urbanistica del territorio -la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune- non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito -al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’“assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.
D’altra parte, a diversa conclusione non può giungersi nemmeno sostenendo che, attraverso la considerazione di esigenze diverse, l’amministrazione finirebbe per comprimere il contenuto stesso del diritto di proprietà, e lo stesso ius aedificandi allo stesso connesso.
Senza volere entrare in un dibattito ampio ed ultratrentennale, che ha visto numerosi interventi della Corte Costituzionale, occorre almeno ricordare come sia stato affermato che nel nostro ordinamento non è individuabile un solo astratto diritto di proprietà, dipendendo il contenuto dello stesso dalla natura intrinseca del bene.
La Corte Costituzionale ha, in particolare, affermato che “senza dubbio la garanzia della proprietà privata è condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti “dall’ordinamento giuridico” e le regole particolari per scopi di pubblico interesse ... Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare”.
Allo steso tempo, anche laddove la Corte Costituzionale ha affermato l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà, essa ha precisato che “è indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l’edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando ... della edificazione...”, di modo che se da ciò deriva che “il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire ... di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Ovviamente, il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione -come ribadito dalla costante giurisprudenza del giudice amministrativo- dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti. …».
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Sempre nell’ambito del sesto motivo di doglianza la ricorrente, in estrema sintesi censura, sotto altro profilo, il procedimento di adozione della variante al PRG, affermando che non sarebbe stato instaurato un contradditorio con la società proprietaria del suolo de quo che prima dell’adozione della variante possedeva una diversa e maggiore capacità urbanistica.
Tuttavia, si ribadisce, a tal riguardo, che il procedimento di adozione della variante al PRG del Comune di Terlizzi è stato esperito nel pieno rispetto della legge ed ha contemplato la normale pubblicazione degli atti, sottoposti, nella tempistica prevista dalla legge, ad osservazioni successivamente valutate dal Consiglio Comunale.
Inoltre, si precisa che il Comune di Terlizzi ha sempre riscontrato le note inviate dalla odierna ricorrente.
Alle note del 2 e del 07.01.2014 a firma dell’avv. Ro. il Comune di Terlizzi rispondeva con la nota prot. n. 1120 del 10.01.2014 a firma dell’arch. Gi., dirigente del Settore Servizi Tecnici.
In tal modo il Comune di Terlizzi ha comunque fornito tempestiva risposta alle richieste della società interessata.
Successivamente la De Ch. aveva modo di partecipare al procedimento amministrativo che ha portato alla adozione della variante, presentando ai sensi dell’art. 16 LR n. 56/1980 proprie osservazioni in data 21.05.2014.
Inoltre, la circostanza che con riferimento alla pratica edilizia n. 77/2013 del 19-20.12.2013 vi sia un atto istruttorio finalizzato alla acquisizione di documentazione, datato 16.01.2014, atto sottoscritto dal tecnico istruttore e non dal dirigente dell’UTC, non impedisce che le clausole di salvaguardia siano divenute efficaci a seguito della emanazione della delibera consiliare n. 5/2014 di adozione della variante al P.R.G. del Comune di Terlizzi.
Più in generale deve osservarsi che il diritto di proprietà è destinato necessariamente a confrontarsi con quelle che sono le dinamiche di sviluppo di un territorio e con le relative normative in materia di pianificazione urbanistica.
A tal riguardo, Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710 ha rilevato: «… Il Collegio osserva che il potere di pianificazione urbanistica del territorio -la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune- non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito -al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’“assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.
D’altra parte, a diversa conclusione non può giungersi nemmeno sostenendo che, attraverso la considerazione di esigenze diverse, l’amministrazione finirebbe per comprimere il contenuto stesso del diritto di proprietà, e lo stesso ius aedificandi allo stesso connesso.
Senza volere entrare in un dibattito ampio ed ultratrentennale, che ha visto numerosi interventi della Corte Costituzionale, occorre almeno ricordare come sia stato affermato che nel nostro ordinamento non è individuabile un solo astratto diritto di proprietà, dipendendo il contenuto dello stesso dalla natura intrinseca del bene (sentenze nn. 55 e 56 del 1968).
La Corte Costituzionale ha, in particolare, affermato, con sent. 09.05.1968 n. 55, che “senza dubbio la garanzia della proprietà privata è condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti “dall’ordinamento giuridico” e le regole particolari per scopi di pubblico interesse ... Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare”.
Allo steso tempo, anche laddove la Corte Costituzionale ha affermato l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà (con la nota sentenza 30.01.1980 n. 5), essa ha precisato che “è indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l’edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando ... della edificazione...”, di modo che se da ciò deriva che “il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire ... di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Ovviamente, il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione -come ribadito dalla costante giurisprudenza del giudice amministrativo- dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti. …
».
Nella vicenda de qua i provvedimenti del Comune di Terlizzi riferiti alla variante, ma anche ai motivati pareri della Commissione comunale e le relazioni dell’UTC allegate ai provvedimenti amministrativi gravati, sono sorretti -come in precedenza evidenziato- da un solido impianto motivazionale, oltre che resi nel rispetto di tutte le procedure previste dalla legge.
Alla luce delle considerazioni esposte, l’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, in concreto effettuato dal Comune Terlizzi, è esente dai vizi di legittimità dedotti con i motivi del ricorso introduttivo (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Non è sindacabile in sede giurisdizionale la scelta pianificatoria del Comune, stante il carattere ampiamente discrezionale della stessa.
L’ente locale ha, infatti, il dovere-potere di predisporre tutti gli atti utili e necessari per la programmazione urbanistica del proprio territorio, essendo questo potere conferito dalla legge ai comuni.
In riferimento a tale questione il Consiglio di Stato ha rilevato:
   - per costante giurisprudenza la potestà pianificatoria -il cui concreto esercizio è rimesso al comune, e che si esprime ed attualizza attraverso l’adozione dello strumento generale di governo del territorio, ovvero attraverso le varianti “generali” a quest’ultimo- è assistita da latissima discrezionalità;
   - invero, “costituisce ambito di ampia discrezionalità il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante, che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con il solo limite dell’esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, secondo giurisprudenza univoca, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un’aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione; al contrario la pregressa destinazione di piano, in se e per se, non comporta alcun obbligo motivazionale specifico, dovendosi rinvenire il fondamento della nuova proprio nel disegno generale delineato dal nuovo strumento generale o dalla variante di quello precedente”.
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4.2.3. - Anche i motivi sub 4) e 5) devono essere respinti.
Con il motivo sub 4) la società ricorrente afferma che i provvedimenti gravati sono illegittimi in considerazione del fatto che il Comune di Terlizzi nel lontano 1996 aveva rilasciato il permesso di costruire n. 8/96 per la realizzazione in località Borgo Sovereto di 9 villette. Da tale considerazione discenderebbe -secondo la prospettazione di parte ricorrente- la contraddittorietà degli atti gravati.
A tal riguardo, rileva questo Collegio che il permesso di costruire (concessione edilizia) n. 8 è stato rilasciato nel 1996 evidentemente sotto la vigenza di uno strumento urbanistico differente rispetto a quello approvato successivamente nel settembre 2000 dalla Giunta regionale della Puglia.
Pertanto, la lamentata contraddittorietà tra atti amministrativi non sussiste.
Con il medesimo motivo di gravame la ditta istante critica nel merito la scelta operata dal Comune di Terlizzi e suggerisce l’adozione di altro procedimento (i.e. variante normativa) per tutelare il Borgo di Sovereto.
Con il quinto motivo la società De Ch. afferma che gli atti gravati sarebbero affetti da violazione e falsa applicazione della legge urbanistica nazionale e regionale, nonché del DM n. 1444/1968.
La società, in definitiva, con il IV e V motivo di gravame contesta il fatto che il Comune di Terlizzi abbia proceduto all’adozione della variante al P.R.G. in relazione alle particelle per cui è causa, con riferimento alla zonizzazione che diviene integralmente A1, sulla scorta della circostanza che la Regione Puglia, in sede di approvazione del PRG nell’agosto del 2000, avesse proceduto ad assegnare a Borgo Sovereto le differenti zonizzazioni, B2 e A1.
A tal riguardo, va evidenziato che non è sindacabile in sede giurisdizionale la scelta pianificatoria del Comune, stante il carattere ampiamente discrezionale della stessa.
L’ente locale ha, infatti, il dovere-potere di predisporre tutti gli atti utili e necessari per la programmazione urbanistica del proprio territorio, essendo questo potere conferito dalla legge ai comuni.
In riferimento a tale questione Cons. Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986 ha rilevato: «… a) per costante giurisprudenza la potestà pianificatoria -il cui concreto esercizio è rimesso al comune, e che si esprime ed attualizza attraverso l’adozione dello strumento generale di governo del territorio, ovvero attraverso le varianti “generali” a quest’ultimo- è assistita da latissima discrezionalità (ex aliis di recente Consiglio di Stato, sez. IV, 26/10/2017, n. 4941 “costituisce ambito di ampia discrezionalità il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale, o da una sua variante, che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali scelte non sono condizionate dalla pregressa indicazione, nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua variante, con il solo limite dell’esigenza di una specifica motivazione a sostegno della nuova destinazione quando quelle indicazioni avevano assunto una prima concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo (piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano attuativo) approvato o convenzionato, secondo giurisprudenza univoca, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver ingenerato un’aspettativa qualificata alla conservazione della precedente destinazione; al contrario la pregressa destinazione di piano, in se e per se, non comporta alcun obbligo motivazionale specifico, dovendosi rinvenire il fondamento della nuova proprio nel disegno generale delineato dal nuovo strumento generale o dalla variante di quello precedente.”);… ».
Il potere esercitato nel caso di specie dal Comune di Terlizzi nell’adozione della contestata variante al P.R.G. si conforma perfettamente alle considerazioni sopra espresse dal Consiglio di Stato in riferimento alle prerogative concesse dalla legge al Comune, in materia di pianificazione urbanistica.
Nella vicenda per cui è causa vi è piena rispondenza tra la nuova destinazione assegnata al Borgo Sovereto e l’ispirazione di fondo della variante allo strumento urbanistico, rappresentata dal contenimento dell’espansione edilizia estensiva in favore della conservazione dei valori ed assetti naturali, peraltro contemperata dal riconoscimento in capo alla odierna ricorrente dei propri diritti edificatori con il P.d.C. n. 58/2013 rilasciato dal Comune di Terlizzi.
Conseguentemente, detti motivi di ricorso devono essere respinti (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nell’approvazione di una variante al p.r.g., la mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori ai sensi dell’art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non rende illegittima la delibera poiché si tratta di una prescrizione che rileva sul solo piano interno, con la conseguenza che la sua omissione non incide sulla validità della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera irregolarità.
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4.2. - Con riferimento al ricorso introduttivo si rileva quanto segue.
4.2.1. - Con il primo motivo di gravame la società ricorrente lamenta l’omessa apposizione, con riferimento ai provvedimenti impugnati, del visto di regolarità contabile ex art. 49, comma 1, dlgs n. 267/2000 poiché -a suo dire- gli atti censurati comporterebbero riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell’Ente.
A tal riguardo, si sottolinea che in tale procedimento il parere di regolarità contabile, anche nella sua nuova formulazione, non era necessario, non sussistendo spese dirette ed indirette immediatamente individuabili con l’approvazione dei provvedimenti impugnati.
In questa fase, infatti, di adozione della variante al P.R.G., il Comune di Terlizzi non dovrà sopportare nessun costo o spesa.
Si specifica, altresì, che trattasi di atto di adozione della variante al PRG che dovrà essere approvata in via definitiva dalla Regione Puglia.
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa ha sancito il carattere di mera irregolarità della suddetta omissione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.2012, n. 351: “Nell’approvazione di una variante al p.r.g., la mancata acquisizione del parere contabile sugli atti programmatori ai sensi dell’art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non rende illegittima la delibera poiché si tratta di una prescrizione che rileva sul solo piano interno, con la conseguenza che la sua omissione non incide sulla validità della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera irregolarità”; cfr. altresì Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2018, n. 1838).
Ne consegue la reiezione del primo motivo (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Motivazione del rigetto delle osservazioni presentate dal proprietario di un’area incisa da variante urbanistica.
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Urbanistica – Piano regolatore – Variante – Osservazione dei privati – Motivazione specifica – Quando occorre.
Non sussiste un onere di dettagliata motivazione del rigetto delle osservazioni presentate dal proprietario di un’area incisa da variante urbanistica in assenza di situazioni (fonte di aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni) eccezionalmente impongono alla Amministrazione procedente una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione –richiamando la giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. IV, 09.12.2010, n. 8682)- che nel caso di specie non ricorrono le condizioni che impongono una specifica motivazione, quali:
1) il superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, n. 1444 con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
2) la lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
3) la modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Nella fattispecie in esame l’Amministrazione locale resistente, nel disattendere le osservazioni del proprietario dell’area, ha comunque diffusamente indicato le ragioni in forza delle quali ha ritenuto che un’area “circostante” il Borgo di Sovereto (id est, quella di proprietà della stessa società interessata) dovesse essere parimenti assoggettata alla zonizzazione di tipo A (analogamente alla originaria scelta pianificatoria relativa all’area del Borgo antico), con una scelta che non è certamente sindacabile in sede giurisdizionale, in quanto non inficiata da vizi macroscopici ed anzi pienamente in linea con il disposto dell’art. 2, lett. a), d.m. n. 1444 del 1968 che chiaramente mira a tutelare il “carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale” di agglomerati urbani attraverso la formazione di “Zone territoriali omogenee” (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.11.2018 n. 1466 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
4.4.3. - Da ultimo, la ricorrente, dopo aver ribadito che il Comune avrebbe illegittimamente esteso la zona A in area che difetterebbe dei caratteri che consentirebbero detta inclusione, si sofferma su asseriti “vizi sostanziali” del provvedimento oggetto di impugnativa, sostanzialmente affermando che l’attività del Comune sia esorbitante dai suoi poteri e risponda a pretese esigenze diverse e svincolate dalla tutela del territorio.
Detta impostazione non può essere condivisa.
Preliminarmente, rileva questo Collegio che l’agere del Comune risulta essere pienamente rispondente alla previsione di cui all’art. 2, lett. A), del D.M. n. 1444/1968 rubricato “Zone territoriali omogenee” (disposizione correttamente richiamata dalla P.A. nel corpo delle delibere impugnate): “Sono considerate zone territoriali omogenee, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765: A) le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi; …”.
Pertanto, non può essere posto in discussione il potere pianificatorio del Comune, per sua natura ampiamente discrezionale, di rendere zona “A” un’area (quale quella di proprietà della ricorrente) “circostante” rispetto all’agglomerato urbano di Sovereto che indubbiamente riveste carattere storico e artistico proprio, tanto da essere esso stesso ab origine classificato quale zona A.
L’obiettivo perseguito dal Comune è, quindi, assolutamente rispondente alle esigenze del territorio ed è pienamente conforme agli scopi per cui detto potere pianificatorio del territorio è attribuito all’Amministrazione locale.
Ed infatti, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente, quello che emerge dagli atti comunali è proprio la “necessità che la struttura architettonica che lo [riferita al Borgo di Sovereto] caratterizza rimanga inalterata da manufatti estranei rispetto alle caratteristiche peculiari” e ciò attraverso lo strumento di regolamentazione urbanistica che la legge demanda alla competenza comunale e la cui concreta applicazione è nel caso di specie pienamente legittima.
A tal riguardo, Cons. Stato, Sez. V, 24.04.2013, n. 2265 ha evidenziato: «
… alla luce del tenore del dato positivo e della ratio che lo informa, che il piano regolatore generale possa recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali “zone”, quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma dell’immobile ex se considerato ma al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che il singolo immobile assume nel contesto dell’assetto territoriale. In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di azione della legislazione statale di settore in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare l’adozione di un provvedimento impositivo di vincolo culturale o paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato come elemento di particolare valore urbanistico e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria. E tanto in coerenza con una nozione ampia della materia urbanistica, che valorizza la funzione di governo del territorio attraverso la disciplina, nella loro globalità, di tutti i possibili insediamenti e delle altre utilizzazioni del territorio.».
L’area per cui è causa rientra pienamente, per le sue caratteristiche intrinseche ed estrinseche, nella tipologia di “particolare valore” che consente l’applicazione in sede pianificatoria di una particolare zonizzazione ex art. 2, lett. A), del DM n. 1444/1968, così come imposto dal Comune di Terlizzi con i provvedimenti impugnati.
Va, altresì, rimarcato che, a prescindere dall’apposizione del vincolo da parte della Soprintendenza, lo strumento di regolamentazione urbanistica può agevolmente e legittimamente rispondere a dette esigenze di tutela che, come visto, sono ben motivate e articolate nel caso di specie.
E’, infatti, sufficiente richiamare la relazione allegata alla delibera n. 32/2016, che ha descritto puntualmente l’area interessata dall’azione di salvaguardia per comprendere il pregio della stessa.
Sotto altro profilo, la ricorrente sostiene che la classificazione di zona A delle “aree circostanti” il Borgo sarebbe consentita solo per esigenze di tutela del bene principale, difettando delle medesime caratteristiche di pregio, da tanto discendendo l’illegittimità degli atti impugnati.
Tuttavia, come evidenziato in precedenza, il D.M. n. 1444/1986 all’art. 2, lett. a), prevede proprio che siano classificabili come zona A “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi”.
La ricorrente, in definitiva, contesta l’esercizio di un potere pianificatorio tipicamente discrezionale del Comune.
Sul punto non è dirimente il richiamo alla circolare n. 3210 del 1967, operato da parte ricorrente nella memoria depositata in data 27.04.2018, in quanto, come emerge in modo evidente dalla lettura della stessa, il Ministero si limitava con detta circolare a fornire alcuni tra i possibili criteri di orientamento per la definizione di agglomerato di carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale, senza che ciò costituisca un elenco tassativo o vincolante e senza, dunque, per questo escludere la possibilità di ulteriori e puntuali osservazioni effettuate dai competenti organi comunali.
In sostanza, la De Ch. mira censurare scelte puramente discrezionali dell’Amministrazione motivate in modo corretto dopo l’adozione dell’ordinanza cautelare n. 100/2016, scelte che hanno spinto la P.A. a confermare e ad insistere nel tutelare l’area per cui è causa, il cui valore storico, paesaggistico ed ambientale è stato riconosciuto anche dai tecnici che da ultimo hanno contribuito a formare la decisione.
Dunque, la censura della ricorrente circa la carenza di una motivazione idonea a supportare la scelta amministrativa finale di cui alla delibera n. 32/2016 non è meritevole di positivo apprezzamento, posto che il Comune di Terlizzi ha ben articolato ed espresso -supportandole con adeguata documentazione tecnica- le motivazioni che spingono alla conferma della tutela impressa con lo strumento urbanistico adottato in linea con la previsione dell’art. 2, lett. a), DM n. 1444/1968.
L’Amministrazione, infatti, è titolare -come detto- di una discrezionalità molto ampia, poiché, come riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa, “le scelte in sede di approvazione di uno strumento urbanistico generale (e tale è certamente il PUG) sono contrassegnate da un’amplissima valutazione discrezionale sì da renderle nel merito insindacabili, ma unicamente attaccabili per errori di fatto, abnormità ed irrazionalità (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 26.07.2016, n. 3337).
Pertanto, non vi è alcun difetto di motivazione nella delibera n. 32/2016: la motivazione è stata espressa ed articolata ed è stata per di più supportata da apposita documentazione tecnica.
Infine, deve ribadirsi che la circostanza per cui la pratica edilizia sia stata già positivamente istruita nulla toglie al potere discrezionale -per di più adeguatamente motivato- sulle scelte urbanistiche dell’Amministrazione.
Ed è proprio la regolamentazione ed il piano delle scelte che ricadono sul territorio a legittimare una richiesta edilizia, e non il contrario: a ben vedere
la posizione della ricorrente non è meritevole di tutela, in quanto non è configurabile in capo al privato un affidamento qualificato ed, inoltre, lo stesso è “titolare di un’aspettativa generica ad una reformatio in melius o alla conservazione dell’originario regime urbanistico, analoga a quella di ogni altro proprietario che aspiri ad un uso proficuo dell’immobile (Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, n. 6703; idem, 08.10.2007, n. 5210; TAR Toscana, Sez. III, 03.05.2013, n. 713), che non può vincolare i successivi strumenti di pianificazione urbanistica, nemmeno sotto il profilo di uno specifico onere di motivazione (TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 05.05.2014, n. 710; cfr. da ultimo TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 01.02.2016, n. 176).
Da ultimo, si sottolinea che
comunque le scelte pianificatorie urbanistiche (in ogni caso nella fattispecie in esame fornite di idoneo supporto motivazionale riportato al precedente punto 4.4.2) per definizione non richiedono una dettagliata motivazione (cfr. art. 3, comma 2, legge n. 214/1990) in quanto racchiuse in atti a “contenuto generale”.
In tal senso Cons. Stato, Sez. IV, 26.10.2012, n. 5492,
con specifico riferimento all’onere di motivazione rispetto alle osservazioni formulate dai proprietari interessati in sede di formazione di strumenti urbanistici, ha rilevato: «… le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010 n. 6911), e che il merito della scelta relativa alla localizzazione di un’opera pubblica è sottratto al sindacato del giudice amministrativo, salvo profili di illogicità, travisamento e contraddittorietà (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 03.08.2010 n. 6155), con la conseguenza che la P.A. non è tenuta a fornire al riguardo le specifiche ragioni della scelta di un luogo piuttosto che di un altro, rimanendo inibita al sindacato giurisdizionale sull’eccesso di potere ogni possibilità di sovrapporre una nuova graduazione di interessi in conflitto alla valutazione che di essi sia stata già compiuta dall’organo competente, in quanto profilo attinente alla discrezionalità tecnica e, quindi, al merito dell’azione amministrativa, salvo che la scelta risulti manifestamente illogica o abnorme e tale vizio sia rilevabile prima facie (cfr. ibidem). …».
Pertanto, si può affermare che nel caso di specie, pur non essendovi -alla stregua del disposto dell’art. 3, comma 2, legge n. 241/1990 e della citata giurisprudenza amministrativa che questo Collegio ritiene di condividere- un onere di dettagliata motivazione del rigetto delle osservazioni presentate dalla De Ch., l’Amministrazione locale, nel disattendere dette osservazioni, ha comunque diffusamente indicato nella censurata delibera consiliare n. 32/2016 (cfr. punto 4.4.2) le ragioni in forza delle quali ha ritenuto che un’area “circostante” il Borgo di Sovereto (i.e. quella di proprietà della stessa società interessata) dovesse essere parimenti assoggettata alla zonizzazione di tipo A (analogamente alla originaria scelta pianificatoria relativa all’area del Borgo antico), con una scelta che non è certamente sindacabile in sede giurisdizionale, in quanto non inficiata da vizi macroscopici ed anzi pienamente in linea con il disposto dell’art. 2, lett. A), D.M. n. 1444/1968 che chiaramente mira a tutelare il “carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale” di agglomerati urbani attraverso la formazione di “Zone territoriali omogenee”.
Ed anche alla stregua dell’orientamento espresso da Cons. Stato, Sez. I, 28.11.2016, n. 2425 (“
Benché in materia di pianificazione urbanistica generale l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità e l’onere di motivazione possa essere assolto in termini complessivi, salvo che non venga in rilievo una legittima aspettativa del privato, le scelte compiute non si sottraggono al sindacato della giustizia amministrativa che, sia pure di tipo estrinseco, può cogliere nelle lacune o irragionevolezze del procedimento, in errori o travisamenti di fatto, nel contrasto con le scelte di pianificazione antecedenti, nell’illogicità della motivazione, i segni di un cattivo uso del potere; in particolare, non bisogna confondere una motivazione di carattere generale con una motivazione generica, priva dei requisiti di cui all’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e ciò tanto più quando la prescrizione urbanistica pone un vincolo di carattere espropriativo, che richiede una motivazione più specifica in sede di reiterazione”) e da Cons. Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986 (decisione richiamata al punto 4.2.3 della motivazione sempre in tema di onere di specifica motivazione in presenza di “aspettativa qualificata”), va evidenziato che nella vicenda de qua -proprio in virtù delle considerazioni espresse in precedenza al punto 4.2.4.- non poteva ritenersi formato alcun legittimo affidamento in capo alla ricorrente discendente dalle pratiche edilizie e dai titoli abilitativi in precedenza formatisi, poiché -come visto- il procedimento amministrativo edilizio perseguito dalla De Ch. è stato essenzialmente volto ad ovviare a quanto sancito in materia di misure di salvaguardia.
N
é nel caso di specie ricorre alcuna delle situazioni (fonte di aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni), che -secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 09.12.2010, n. 8682)- eccezionalmente impongono alla Amministrazione procedente nell’adozione di atti di pianificazione una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali:
   1) superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
   2) lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
   3) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

4.4.4. - Ne discende che anche il secondo ricorso per motivi aggiunti va disatteso.

EDILIZIA PRIVATA: Sul diritto alla restituzione del contributo di costruzione, ai sensi dell’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Ne consegue che il diritto di credito del titolare di una concessione edilizia non utilizzata, di ottenere la restituzione di quanto corrisposto per oneri di urbanizzazione, decorre non già dalla data del rilascio dell’atto di assenso edificatorio, bensì dalla data in cui il titolare comunica all’amministrazione la propria intenzione di rinunciare al titolo abilitativo, o dalla data di adozione da parte dell’amministrazione medesima del provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di costruire per scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero per l’entrata in vigore delle previsioni urbanistiche contrastanti come avvenuto nel caso di specie.
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Non può invece accogliersi la domanda relativa alla rivalutazione monetaria di detta somma, trattandosi di debito di valuta e non di valore.

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6. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
7. Come riconosciuto dall’amministrazione intimata nel parere del responsabile del procedimento emesso in data 02.08.2006, la concessione di parte ricorrente n. 338 del 25.02.1999, con scadenza tre anni dall’inizio degli stessi, era stata sospesa dal Comune “per fatti non dipendenti dalla volontà del concessionario e, pertanto, tuttora valida”.
8. A seguito di variante n. 43 con scadenza al 15.07.2009, la concessione è stata nuovamente sospesa per effetto del sequestro penale disposto in data 18.01.2006, protrattosi fino al 28.02.2012.
9. Nelle more del sequestro, l’area di cui alla concessione in argomento è stata classificata dal P.R.G. parte strutturale adottato con delibera di C.C. n. 5/2011, come zona “
E Agricola”, impedendosi così la realizzazione di qualsiasi opera.
10. È dunque da tale ultimo evento che comincia a decorrere il contestato termine prescrizionale, atteso che ai sensi dell’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
11. Ne consegue che il diritto di credito del titolare di una concessione edilizia non utilizzata, di ottenere la restituzione di quanto corrisposto per oneri di urbanizzazione, decorre non già dalla data del rilascio dell’atto di assenso edificatorio, bensì dalla data in cui il titolare comunica all’amministrazione la propria intenzione di rinunciare al titolo abilitativo, o dalla data di adozione da parte dell’amministrazione medesima del provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di costruire per scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero per l’entrata in vigore delle previsioni urbanistiche contrastanti come avvenuto nel caso di specie (TAR Lombardia–Milano, sez. II, 24.03.2010, n. 728).
12. Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento della domanda di annullamento del diniego impugnato e della connessa domanda di accertamento del diritto del ricorrente a vedersi riconosciuto il rimborso della quota residua di € 12.352,15 del contributo di costruzione relativo alla concessione edilizia n. 338/1991, oltre interessi di legge.
13. Non può invece accogliersi la domanda relativa alla rivalutazione monetaria di detta somma, trattandosi di debito di valuta e non di valore (TAR Umbria, sentenza 08.11.2018 n. 582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Incompatibilità dei componenti la Commissione di gara per percezione di un pericolo di imparzialità.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Commissione di gara – Composizione – Impugnazione – Solo all’esito della gara.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – Componenti – Profili di incompatibilità – Percezione di un pericolo di imparzialità – Sufficienza.
  
L’interesse all’impugnazione degli atti di gara per vizi attinenti alla composizione della Commissione non può che radicarsi ad esito della gara; mentre per lo stesso motivo, non potendo la parte conoscere l’esito della procedura, non può di contro neppure formarsi acquiescenza a riguardo (1).
  
La disciplina dell’incompatibilità dei componenti la Commissione di gara è, nel nuovo Codice dei contratti pubblici, arricchita di quei profili (già presenti, nell’ordinamento, con riguardo alla magistratura) tendenti alla salvaguardia dell’immagine di imparzialità ed ad evitare che possa determinarsi un’oggettiva ‘confusione’ tra valutatore e concorrente, di per sé idonea ad appannare l’immagine di imparzialità e di buona amministrazione (2).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza plenaria n. 8 del 2018 ha affermato che “nello schema originario del codice dei contratti pubblici, sottoposto al parere del Consiglio di Stato, si prevedeva un’estensione del detto rito, ma limitata unicamente alla composizione della commissione”, poi, tuttavia, “il testo definitivo ha espunto tale indicazione, recependo i suggerimenti dell’organo consultivo, incentrate sul vincolo imposto dalla legge di delega, che non contemplava tali ipotesi”.
La Sezione ha ancora chiarito che i commissari di gara non ricoprono la veste di controinteressati ai quali il ricorso va notificato. I commissari, infatti, non hanno un interesse differenziato e qualificato uguale e contrario a quello del ricorrente.
   (2) Ha affermato la Sezione, con riferimento al caso sottoposto al suo esame, che l’esperienza professionale rispetto alla quale si radicherebbe l’incompatibilità di un componente la Commissione non è diretta, ma riguarda il figlio che, sebbene distaccato presso l’impresa concorrente, era in realtà dipendente di una società di lavoro interinale che è estranea alla gara con incarico cessato prima della gara stessa.
Con riferimento a tale posizione, ritiene la Sezione che la natura c.d. ‘triangolare’ del rapporto di lavoro, che coinvolge il somministratore, l'utilizzatore e il lavoratore, e si caratterizza per la scissione tra la titolarità del rapporto di lavoro (che fa capo all’agenzia somministratrice) e l’effettiva utilizzazione del lavoratore che compete all’utilizzatore, tuttavia non sottrae il dipendente dal diretto controllo dell’utilizzatore medesimo ed in ogni caso, non è idonea ad eliminare quella ‘confusione’ di ruoli di cui si è detto.
Con riferimento alla posizione di altro componente la Commissione, risulta che lo stesso avesse svolto attività lavorativa personalmente presso lo stesso concorrente, sia pur quattordici anni addietro.
Ciò non di meno, da un lato, tale lasso temporale non costituiva motivo di esonero dalla dichiarazione da parte del commissario del predetto rapporto, mentre la compresenza nella medesima Commissione di due commissari legati (seppure in passato o indirettamente per tramite del figlio) alle imprese concorrenti rafforza la percezione di compromissione dell’imparzialità che, invece la disciplina vuole garantire al massimo livello, al fine di scongiurare il ripersi nelle gare pubbliche di fenomeni distorsivi della par condicio e di una ‘sana’ concorrenza tra gli operatori economici.
Ed ancora, va rilevato che il fatto che il rilievo di eventuali legami sia rimesso alla autodichiarazione dei commissari medesimi, non rende il motivo di incompatibilità meno stringente o vincolante per l’Amministrazione, cui comunque è rimesso il controllo.
La Sezione si è quindi richiamata ad un proprio precedente (sentenza n. 4830 del 2018), secondo cui: “ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei, anche soltanto sotto il profilo potenziale, a compromettere tale delicato e cruciale ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni affidato alle commissioni di gara, la semplice sostituzione di un componente rispetto al quale sia imputabile la causa di illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile, né consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la commissione abbia già operato; il rischio che il ruolo e l’attività di uno dei commissari, dichiarato incompatibile, possano avere inciso nei confronti anche degli altri commissari durante le operazioni di gara, influenzandoli verso un determinato esito valutativo, impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri commissari; la sostituzione totale di tutti i commissari (in luogo del solo commissario designato in modo illegittimo) garantisce maggiormente il rispetto del principio di trasparenza nello svolgimento delle attività di gara; non è possibile estendere gli effetti dell’invalidità derivante dalla nomina di una commissione illegittima (…) anche a tutti gli altri atti anteriori, disponendo la caducazione radicale dell’intera gara, atteso che la stessa pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 07.05.2013, n. 13, ha stabilito inequivocabilmente e perentoriamente che “secondo i principi generali, la caducazione della nomina, ove si accerti, come nella specie, essere stata effettuata in violazione delle regole (…) comporterà in modo caducante il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all’affidamento del servizio ed impone quindi la rinnovazione dell’intero procedimento”; vengono travolti per illegittimità derivata tutti gli atti successivi della procedura di gara fino all’affidamento del servizio, ma non certo gli atti anteriori, anche in ossequio al principio generale per il quale l’invalidità ha effetti nei confronti degli atti a valle, non certo degli atti a monte”.
La Sezione ha quindi concluso nel senso che, nella specie, la concomitante presenza in commissione di ben due commissari che hanno avuto rapporti –direttamente o indirettamente– con uno dei concorrenti appare integrare l’ipotesi di conflitto di interessi di cui all’art. 42 del Codice dei contratti, che, per come è formulata la norma, include anche la percezione di un pericolo di imparzialità (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.11.2018 n. 6299 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la giurisprudenza prevalente, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto la norma sancita dall’art. 10-bis, va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990.
Da ciò deriva non solo che l’interessato non può limitarsi a denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso di rigetto, ed è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento finale, ma anche a dimostrare che nella fase procedimentale partecipata anteriore all’adozione del provvedimento impugnato non vi è stata alcuna discussione in merito al contenuto dell’atto, il quale è stato adottato senza contraddittorio e costituisce quindi una sorpresa procedimentale.
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1. Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto dall’esame degli atti risulta che si sono svolti diversi incontri tra le parti in merito al problema della conformazione dell’attività edilizia ai titoli abilitativi, sicché deve ritenersi che l’apporto collaborativo del privato sia stato ampiamente fornito e di conseguenza non fosse più necessario aprire una ulteriore fase partecipativa formale già svoltasi mediante il coinvolgimento diretto nella fase di attuazione dell’attività di vigilanza edilizia.
Infatti, secondo la giurisprudenza prevalente, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto la norma sancita dall’art. 10-bis cit., va interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990.
Da ciò deriva non solo che l’interessato non può limitarsi a denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso di rigetto, ed è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento finale, ma anche a dimostrare che nella fase procedimentale partecipata anteriore all’adozione del provvedimento impugnato non vi è stata alcuna discussione in merito al contenuto dell’atto, il quale è stato adottato senza contraddittorio e costituisce quindi una sorpresa procedimentale.
Il motivo va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.11.2018 n. 2522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’indisponibilità del cantiere per 164 giorni in ragione dei contrasti insorti con la ditta incaricata dei lavori costituisce circostanza oggettivamente ascrivibile ai “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso” che giustificano la richiesta di proroga dei termini del permesso di costruire.
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La realizzazione di abusi edilizi non può incidere sulla validità ed efficacia del titolo e, di conseguenza, non può essere causa di impedimento al rilascio del provvedimento di proroga dei termini, con conseguente decadenza del titolo.
Nella stessa ottica la giurisprudenza ha chiarito che i procedimenti di verifica della legittimità del titolo edilizio rilasciato, da un lato, e di accertamento degli abusi edilizi senza titolo, dall’altro lato, hanno natura ed effetti diversi, il primo riconducibile all’attività di amministrativa attiva soggetta ai principi dell’autotutela; il secondo riconducibile all’attività sanzionatoria.
Né d’altro canto si verificano vuoti di tutela in quanto i provvedimenti di sospensione e di demolizione impediscono che le opere abusive siano portate ad ulteriore esecuzione o che ne siano realizzate ulteriori.

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B) Quanto ai dinieghi di proroga del termine dei titoli edilizi.
   II) Illegittimità per violazione di legge: violazione dell’art. 15, comma secondo, del d.p.r. 06.06.2001, n. 380; illegittimità per eccesso di potere sotto il profilo della manifesta ingiustizia, del difetto di istruttoria, del difetto di motivazione e della manifesta irragionevolezza.
Secondo la ricorrente l’Amministrazione comunale oblitera in toto le ragioni poste a fondamento della richiesta di proroga –l’indisponibilità del cantiere per 164 giorni– ed oppone (erroneamente, come si vedrà) la mancanza di un “piano d’azione” volto a superare le (pretese) difformità edilizie riscontrate.
   III) Illegittimità per eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria, del difetto di motivazione e dell’errore di fatto.
Il provvedimento che nega la proroga, motivato con riferimento al fatto che il Comune è impossibilitato a valutare la congruità del periodo di proroga richiesto mancando ancora ad oggi l’individuazione specifica dei lavori da eseguire per ottenere la “conformizzazione” e dei relativi tempi di esecuzione sarebbe erroneo in punto di fatto poiché in data 06.12.2017 con note prot. 337/2017/MW/cm e prot. 338/2017/MW/cm le Cooperative “Le Co. di Mo.” e “Il Fo.” producevano una dettagliatissima proposta di piano di lavori, in espresso riscontro della nota in data 08.11.2017 con la quale l’Ing. Bi. richiedeva lumi in ordine agli interventi da realizzarsi per ripristinare la conformità.
...
2. I motivi secondo e terzo, relativi alla proroga dei lavori sono fondati.
Ai sensi dell’art. 15, 2° comma, d.P.R. 380/2001 “La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.”.
Nel caso di specie, l’indisponibilità del cantiere per 164 giorni in ragione dei contrasti insorti con la ditta incaricata dei lavori costituisce circostanza oggettivamente ascrivibile ai “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso” che giustificano la richiesta di proroga.
A ciò si aggiunge che il rapporto esistente tra il titolo edilizio rilasciato ed eventuali abusi edilizi realizzati durante i lavori si svolge in termini di totale autonomia.
Infatti il permesso a costruire decade per l’inosservanza dei termini fissati per l’inizio e l’ultimazione dei lavori, eventualmente prorogati, o per l’entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche con le quali il provvedimento sia in contrasto, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio.
Invece nel caso di abusi edilizi l’art. 27, c. 3, del DPR 380/2001 prevede la sospensione dei lavori alla quale segue il provvedimento di demolizione, per il caso in cui le opere abusive non siano state nel frattempo demolite, salva la possibilità di accertamento di conformità.
La realizzazione di abusi edilizi non può quindi incidere sulla validità ed efficacia del titolo e, di conseguenza, non può essere causa di impedimento al rilascio del provvedimento di proroga dei termini, con conseguente decadenza del titolo.
Nella stessa ottica la giurisprudenza ha chiarito che i procedimenti di verifica della legittimità del titolo edilizio rilasciato, da un lato, e di accertamento degli abusi edilizi senza titolo, dall’altro lato, hanno natura ed effetti diversi, il primo riconducibile all’attività di amministrativa attiva soggetta ai principi dell’autotutela; il secondo riconducibile all’attività sanzionatoria (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17/10/2017 n. 8).
Né d’altro canto si verificano vuoti di tutela in quanto i provvedimenti di sospensione e di demolizione impediscono che le opere abusive siano portate ad ulteriore esecuzione o che ne siano realizzate ulteriori.
Il secondo ed il terzo motivo di ricorso vanno quindi in questi termini accolti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.11.2018 n. 2522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ampliamento all’esterno della sagoma dell’edificio esistente è riconducibile fra le nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.1), DPR 380/2001 (che fa salvi soltanto gli interventi pertinenziali, di cui alla lettera e.6).
Inoltre, il concetto di “ampliamento” dev’essere riferito a una specifica opera preesistente rispetto alla quale la nuova opera mantiene uno stretto collegamento, modificandola in senso spaziale. L’ampliamento di un manufatto comporta il mantenimento degli elementi fondamentali del fabbricato anteriore: ma i volumi e i ripostigli in questione non soddisfano questo, fondamentale, requisito).
Sulla definizione dell’ampliamento si è espressa in senso analogo anche la Suprema Corte, che ha ripetutamente affermato come l'ampliamento di un fabbricato preesistente non possa essere considerato pertinenza, “diventando parte dell'edificio di cui completa, una volta realizzato, la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo”.
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15.1. Il motivo è infondato.
Il diniego impugnato concerne un’istanza di permesso di costruire in sanatoria, che, ai sensi dell’art. 36, co. 1, d.P.R. n. 380/2001, esige la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al tempo della realizzazione dell’intervento che a quello di presentazione della domanda.
Nel caso di specie, tale conformità non sussiste, avuto riguardo alle norme dello strumento urbanistico comunale richiamate nella motivazione del provvedimento impugnato. Per esse, nell’area di ubicazione dell’intervento in esame non sono ammessi nuovi manufatti e ampliamenti di edifici esistenti in misura eccedente una determinata cubatura (100mc).
Ebbene, dalla documentazione anche fotografica depositata in atti da entrambe le parti emerge chiaramente come, il manufatto oggetto della denegata istanza di permesso in sanatoria sia sussumibile fra le nuove costruzioni, come definite nell’art. 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R. n. 380/2001.
Né si può ritenere che il manufatto in questione possa affrancarsi dalla surriferita definizione in quanto attratto nell’orbita degli ampliamenti, ammessi entro una certa cubatura dalle stesse N.T.A. del P.G.T. del Comune di Gironico.
Intanto, l’ampliamento all’esterno della sagoma dell’edificio esistente è anch’esso riconducibile fra le nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.1) citato (che fa salvi soltanto gli interventi pertinenziali, di cui alla lettera e.6).
Inoltre, il manufatto per cui è causa non presenta con l’edificio principale alcuna continuità fisica idonea, come tale, a rivelarne il necessario, diretto collegamento (cfr. Cons. Stato, VI, 11/06/2018, n. 3531; id., 09/03/2018, n. 1518, per cui: “… il manufatto in questione non è nemmeno configurabile quale ampliamento, posto che il concetto di “ampliamento” dev’essere riferito a una specifica opera preesistente rispetto alla quale la nuova opera mantiene uno stretto collegamento, modificandola in senso spaziale: il che, nel caso in esame, non è avvenuto. L’ampliamento di un manufatto comporta il mantenimento degli elementi fondamentali del fabbricato anteriore: ma i volumi e i ripostigli in questione non soddisfano questo, fondamentale, requisito”).
Sulla definizione dell’ampliamento si è espressa in senso analogo anche la Suprema Corte, che ha ripetutamente affermato come l'ampliamento di un fabbricato preesistente non possa essere considerato pertinenza, “diventando parte dell'edificio di cui completa, una volta realizzato, la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo (Sez. 3, n. 20349 del 16/03/2010, Catania, Rv. 247108; Sez. 3, n. 28504 del 29/05/2007, Rossi, Rv. 237138; Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi, Rv. 235382 ed altre prec. conf.)” (così, da ultimo, Cass. pen. Sez. III, Sent., 29.01.2018, n. 4139) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.11.2018 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio e/o urbanistico, essa deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
Per giurisprudenza consolidata, la qualifica di pertinenza urbanistico-edilizia è applicabile soltanto a opere di modestissima entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzano per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non sono coessenziali alla stessa, sì da risultarne possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza è costante nel considerare che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini urbanistico-edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato a una esigenza oggettiva dell'edificio principale ed è inserito funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incidente sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
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Per completezza, è utile notare come l’intervento in esame non potrebbe neppure sussumersi fra gli interventi pertinenziali diversi da quelli assoggettabili (ex art. 3, co. 1 citato, lett. e.6), al regime delle nuove costruzioni, in quanto, affinché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio e/o urbanistico, essa deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
Per giurisprudenza consolidata (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. VI, 09/03/2018, n. 1518; id., Sez. VI, 02.02.2017, n. 694; id., Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; id., Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952; id., Sez. V, n. 817 del 2013; id., Sez. IV, n. 615 del 2012), la qualifica di pertinenza urbanistico-edilizia è applicabile soltanto a opere di modestissima entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzano per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non sono coessenziali alla stessa, sì da risultarne possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza è costante nel considerare che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini urbanistico-edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato a una esigenza oggettiva dell'edificio principale ed è inserito funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incidente sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Ebbene, tornando alla fattispecie in esame, qui, anche alla luce della documentazione in atti, il carattere pertinenziale del manufatto oggetto dell’impugnato diniego è da escludersi. Si tratta, a ben vedere, di manufatto che, anche per consistenza e tipologia, risulta nel suo complesso agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto all’edificio residenziale, destinato a soddisfare esigenze durevoli nel tempo e implicante, in definitiva, un incremento del carico urbanistico (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.11.2018 n. 2488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Prove preselettive nei pubblici concorsi.
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Concorso – Prove preselettive - Princìpi di imparzialità dell’azione amministrativa e anonimato dei concorrenti – Applicabilità.
La circostanza che la preselezione non rientri tra le prove concorsuali stricto sensu intese -i cui esiti sono funzionali alla formazione della graduatoria definitiva- non implica quale diretta conseguenza la non estensibilità alla stessa dei princìpi di imparzialità dell’azione amministrativa e anonimato dei concorrenti (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la somministrazione di quiz a risposta multipla è un tratto procedimentale della complessiva selezione pubblica, preordinata, in un’ottica di efficacia e celerità dell’agere amministrativo, alla riduzione del numero di concorrenti che dovranno cimentarsi nella successiva redazione degli elaborati.
La preselezione pertanto, al pari delle prove concorsuali intese in un’accezione stretta, costituisce diretta attuazione e puntuale espressione del canone di imparzialità di cui all’art. 97, comma 2, del principio di accesso al pubblico impiego mediante selezione pubblica, previsto dal comma 4 dell’art. 97 Cost., ed è altresì espressione dell’art. 51, comma 1, Cost. a mente del quale “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, nonché del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Carta Fondamentale.
In coerenza con quanto appena evidenziato, lo stesso regolamento sui pubblici concorsi, approvato con d.P.R. n. 487 del 1994 -che al comma 2-bis dell’art. 7 regolamenta in modo puntuale la prova in questione- prevede all’art. 1, comma 2, che “il concorso pubblico deve svolgersi con modalità che ne garantiscano la imparzialità, l'economicità e la celerità di espletamento, ricorrendo, ove necessario, all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di preselezione ed a selezioni decentrate per circoscrizioni territoriali”, qualificando pertanto la preselezione con fase procedimentale, seppur eventuale, di una selezione pubblica.
Tanto chiarito, giova a tal punto rammentare che, secondo un fondamentale assunto ermeneutico espresso dal Consiglio di Stato, “l’imparzialità amministrativa è bensì vulnerata dalla potenzialità astratta della lesione della parità di trattamento e, quindi, dal solo sospetto di una disparità. Non è dunque necessario allegare e comprovare che il rischio di parzialità si sia effettivamente concretato in un risultato illegittimo, bastando invece che il prodursi del vulnus del bene giuridico tutelato e, con esso, la correlata diminuzione del prestigio della amministrazione, si prospetti quale mera eventualità. Ed invero, concorrono a moltiplicare e a enfatizzare gli effetti patologici del vizio i connessi principi di pubblicità e di trasparenza, convergendo il loro sinergico operare nell'immagine di un'amministrazione che, oltre ad essere realmente imparziale, appaia anche tale. L'imparzialità è difatti un primario valore giuridico, posto a presidio della stessa credibilità degli uffici pubblici, posto che in assenza della fiducia dei cittadini, gli apparati burocratici non sarebbero in grado di conseguire in maniera adeguata, come loro dovere, gli obiettivi prefissati dal Legislatore... Riguardo la rilevanza "esterna" del principio in disamina è a dirsi che il vizio di parzialità può riconnettersi a situazioni estranee all'atto in sé considerato e piuttosto riferibili al contesto organizzativo in cui ne è maturata l'adozione” (Cons. St., sez. V, 01.04.2009, n. 2070) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.11.2018 n. 1872 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Rileva il Collegio che, diversamente da quanto sostenuto nelle deduzioni ricorsuali, la circostanza che la preselezione non rientri tra le prove concorsuali stricto sensu intese -i cui esiti sono funzionali alla formazione della graduatoria definitiva- non implica quale diretta conseguenza la non estensibilità alla stessa dei princìpi di imparzialità dell’azione amministrativa e anonimato dei concorrenti.
La somministrazione di quiz a risposta multipla, infatti, è ad ogni evidenza un tratto procedimentale della complessiva selezione pubblica, preordinata, in un’ottica di efficacia e celerità dell’agere amministrativo, alla riduzione del numero di concorrenti che dovranno cimentarsi nella successiva redazione degli elaborati.
La preselezione pertanto, al pari delle prove concorsuali intese in un’accezione stretta, costituisce diretta attuazione e puntuale espressione del canone di imparzialità di cui all’art. 97, comma 2, del principio di accesso al pubblico impiego mediante selezione pubblica, previsto dal comma 4 dell’art. 97 Cost., ed è altresì espressione dell’art. 51, comma 1, Cost. a mente del quale “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, nonché del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Carta Fondamentale.
In coerenza con quanto appena evidenziato, lo stesso D.P.R. 487/1994 -che al comma 2-bis dell’art. 7 regolamenta in modo puntuale la prova in questione- prevede all’art. 1, comma 2, che “il concorso pubblico deve svolgersi con modalità che ne garantiscano la imparzialità, l'economicità e la celerità di espletamento, ricorrendo, ove necessario, all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di preselezione ed a selezioni decentrate per circoscrizioni territoriali”, qualificando pertanto la preselezione con fase procedimentale, seppur eventuale, di una selezione pubblica.
Tanto chiarito, giova a tal punto rammentare che, secondo un fondamentale assunto ermeneutico espresso dal Consiglio di Stato, “l’imparzialità amministrativa è bensì vulnerata dalla potenzialità astratta della lesione della parità di trattamento e, quindi, dal solo sospetto di una disparità. Non è dunque necessario allegare e comprovare che il rischio di parzialità si sia effettivamente concretato in un risultato illegittimo, bastando invece che il prodursi del vulnus del bene giuridico tutelato e, con esso, la correlata diminuzione del prestigio della amministrazione, si prospetti quale mera eventualità. Ed invero, concorrono a moltiplicare e a enfatizzare gli effetti patologici del vizio i connessi principi di pubblicità e di trasparenza, convergendo il loro sinergico operare nell'immagine di un'amministrazione che, oltre ad essere realmente imparziale, appaia anche tale. L'imparzialità è difatti un primario valore giuridico, posto a presidio della stessa credibilità degli uffici pubblici, posto che in assenza della fiducia dei cittadini, gli apparati burocratici non sarebbero in grado di conseguire in maniera adeguata, come loro dovere, gli obiettivi prefissati dal Legislatore... Riguardo la rilevanza "esterna" del principio in disamina è a dirsi che il vizio di parzialità può riconnettersi a situazioni estranee all'atto in sé considerato e piuttosto riferibili al contesto organizzativo in cui ne è maturata l'adozione” (Consiglio di Stato, Sez. V, 01.04.2009, n. 2070).
Sulla scorta di quanto evidenziato, quindi, l’avversato provvedimento, espressione di ampia discrezionalità da parte delle resistente amministrazione, attua una ragionevole ponderazione dei contrapposti interessi, resistendo pertanto alle doglianze di controparte.
Esso, infatti, trae origine dall’acquisizione ad opera della resistente Azienda Ospedaliera di notizie circa la presenza di diffuse irregolarità durante lo svolgimento delle prove preselettive, che consentono di qualificare come legittimo il provvedimento impugnato. Le notizie pervenute, infatti, hanno imposto all'Azienda di determinarsi con un supplemento di cautela rispetto alle condizioni normali, verificando se l'andamento della selezione, anche al di là delle regole formali che la disciplinano, si sia svolto salvaguardando i predetti canoni di trasparenza, imparzialità e anonimato.
Nella delineata prospettiva, assume rilievo la documentazione versata in atti dagli interventori ad opponendum, riguardante entrambe le preselezioni, la quale costituisce un sufficiente riscontro circa la correttezza della scelta estrema operata dalla resistente p.a., proprio al precipuo scopo di presidiare i canoni informatori di livello costituzionale delle selezioni pubbliche, la cui centralità ordinamentale consente un’anticipazione della soglia di tutela anche al mero sospetto della lesione, per come osservato dal Consiglio di Stato.
Se per un verso, tuttavia, l’esercizio del potere di autotutela risulta legittimo e giustificato, le medesime ragioni poste alla sua base impongono, sotto altro profilo, che l’Azienda Ospedaliera garantisca con rigore e concretezza l’attuazione degli enunciati princìpi amministrativi, avuto riguardo in particolare all’adeguatezza sia dei locali in cui si svolgono le procedure concorsuali sia dei controlli. Ciò, al fine di evitare, come accaduto nella fattispecie, che dell’applicazione dei citati canoni costituzionali non se ne ravvisi neanche una lontana parvenza.
8. Il ricorso pertanto è infondato.

APPALTI: Avvalimento, omissioni dichiarative e documentali dell’ausiliaria e soccorso istruttorio.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio – Avvalimento, omissioni dichiarative e documentali dell’ausiliaria - Possibilità.
In materia di avvalimento, è suscettibile di soccorso istruttorio l’incompletezza dell’elenco dei pregressi lavori e servizi nel triennio anteriore a bando, fornito dall’ausiliaria che prestava al concorrente il relativo requisito di capacità tecnico-professionale (nella specie l’elenco risultava manchevole sotto l’aspetto dell’omessa indicazione –prescritta- de “gli importi ed il periodo delle attività svolte di consulenza nel settore delle tecnologie informatiche”), e tanto sia con riguardo alle lacune testuali della dichiarazione dell’ausiliaria che avuto riguardo alle omissioni documentali (1).
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   (1) Ha chiarito il Cga che da un lato, l’art. 83 del Codice dei contratti è “di latitudine tale da far rientrare nell’ambito operativo del relativo istituto, ben al di là delle mere operazioni di formale completamento o chiarimento cui aveva riguardo l’art. 46, d.lgs. n. 163 del 2006, le carenze di “qualsiasi elemento formale della domanda”, ossia la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità, quand’anche di tipo “essenziale”, purché non involgente l'offerta economica o tecnica in sé considerata”; dall’altro lato, avuto riguardo al caso specifico, il bando era stato pubblicato nel mese di agosto, gravando i concorrenti di corposi oneri documentali, creando un vantaggio competitivo per l’unico altro concorrente in gara, poi risultato aggiudicatario, che già aveva in corso una analoga commessa per la medesima stazione appaltante.
Dunque l’applicazione del soccorso istruttorio in una simile evenienza “lungi dal poter risultare lesiva della par condicio tra i due concorrenti indicati, vale semmai proprio a consentire il sostanziale rispetto di tale valore, rimediando alla distorsione fondatamente denunciata” (CGARS, sentenza 05.11.2018 n. 701 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Rapporti di “disaccordo” fra Pubbliche amministrazioni.
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Giurisdizione – Usi civici – Forma, struttura e presupposti dell’ordinanza contingibile ed urgente – Controversia – Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
  
Ordinanza contingibile ed urgente – Oggetto - Disapplicazione effetti di atti della Regione lesivi delle competenze comunali – Esclusione.
   Allorquando il Comune reclami l’attinenza del provvedimento impugnato ad una materia sottratta alla giurisdizione amministrativa (nel caso esaminato, i diritti di uso civico), la riconduzione del potere esercitato alla forma, alla struttura e ai presupposti dell’ordinanza sindacale, contingibile ed urgente, regolata dall’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), così da prefigurare l’esercizio dello specifico potere extra ordinem, istituito da tale disposizione, colloca il contenzioso, anche a prescindere dalla consistenza della posizione giuridica allegata dalla parte ricorrente, nell’alveo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma dell’art. 133, comma 1, lett. q), c.p.a. (1).
  
La regolazione del conflitto insorto tra i livelli di governo, in ambito regionale, allorquando siano stati esauriti i procedimenti volti a coordinare l’attività e i concorrenti apporti degli enti coinvolti, richiede la formale impugnazione, sempreché ne sussistano la legittimazione e l’interesse, degli atti e dei comportamenti, specificamente individuati, che avrebbero dato luogo ad altrettanto specifiche compromissioni degli spazi di autonomia che si assumono violati (reciprocamente assicurati sul piano costituzionale, a partire dagli artt. 5, 114, comma 2, e 118 Cost.); pertanto, deve ritenersi in particolare preclusa l’adozione, nella forma dell’ordinanza contingibile ed urgente, a norma dell’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), di provvedimenti sindacali aventi ad oggetto, anche mediato, la disapplicazione ovvero la mera delimitazione degli effetti di atti della Regione considerati lesivi delle competenze comunali (2).
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V. anche Tar Friuli Venezia Giulia 05.11.2018, n. 340.
   (1) Ha chiarito i Tar che esclusa la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli Usi Civici considerato che la controversia non potrebbe nemmeno essere ricondotta all'accertamento e alla liquidazione “generale degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento” (a norma degli artt. 1 e 29, comma 2 della L. n. 1766 del 1927), in quanto il suo oggetto essenzialmente “concerne un rapporto pubblicistico tra le parti che ha ad oggetto l'esercizio del potere amministrativo”, al quale naturalmente “consegue l'attribuzione della giurisdizione al g.a.” (Tar Sardegna, sez. I, n. 78 del 2016).
In questa prospettiva, si deve inoltre constatare che il potere, esercitato con l’ordinanza e materializzatosi nel divieto, direttamente rivolto alla ditta esecutrice, di operare secondo il progetto affidatole dalla Regione, non muta la propria natura in ragione dell’affermata esigenza di garantire l’uso civico insistente sull’area; l’ordinanza in questione non può infatti essere convertita, sulla sola base dei postulati motivazionali allegati dal Comune, in una sorta di atipico atto di autotutela possessoria, strumentale all’auspicata garanzia di un diritto di godimento collettivo, né essa, in virtù di tale insussistente rapporto di strumentalità, potrebbe essere attratta nell’alveo della giurisdizione speciale del Commissario per la liquidazione degli Usi Civici.
Il potere di emissione dell’ordinanza contingibile ed urgente, da parte del Sindaco, resta infatti saldamente ancorato al proprio naturale presupposto normativo, da individuarsi, come sarà precisato tra breve, nelle sole fattispecie contemplate nell’art. 50, comma 5 TUEL, indipendentemente dalle ragioni, esposte nell’impianto motivazionale, che abbiano contribuito a darvi luogo o che ne abbiano costituito l’occasione o, in ultima analisi, il fine.
   (2) Ha chiarito il Tar che l’esercizio del potere di reazione avverso gli atti e i comportamenti della Regione, laddove ritenuti invasivi degli spazi riservati agli Enti locali ovvero confliggenti con le posizioni soggettive ad essi intestate in ragione della loro natura di enti esponenziali, non può dare luogo all’esercizio di forme atipiche di autotutela, nemmeno se ricondotte all’emissione di ordinanze contingibili ed urgenti, di cui all’art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), le quali, in virtù del loro carattere strettamente residuale, non potrebbero né surrogare lo svolgimento dell’azione giurisdizionale né sopperire, surrettiziamente, alle decadenze o alle preclusioni eventualmente verificatesi in tale sede (
TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 05.11.2018 n. 339 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3. Le eccezioni preliminari, prospettate dal Comune, sono infondate e, come tali, devono essere rigettate.
3.1.1 In ordine alla giurisdizione, va osservato che, in relazione alle controversie aventi ad oggetto il bacino della laguna di Marano e Grado, così come determinato a norma dell’art. 30 della L. n. 366 del 1963 (“la laguna di Marano-Grado è costituita dal bacino demaniale marittimo d'acqua salsa che si estende dalla foce del Tagliamento alla foce del canale Primero ed è compresa fra il mare e la terraferma” – comma 2), essa non può risultare ascritta al Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche (T.R.A.P.) (a1); tale bacino infatti, posto in diretta comunicazione con il mare, appartiene, secondo la testuale specificazione normativa, al demanio marittimo e non già al demanio idrico delle acque pubbliche, con piena sottoposizione al regime di cui all’art. 822 cod. civ. e all’art. 28 cod. nav. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 1076 del 2014, che, dichiarata l’appartenenza della laguna veneta al demanio marittimo, ha disatteso l’analoga eccezione di difetto di giurisdizione).
3.1.2 Deve essere parimenti esclusa la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli Usi Civici (a2), considerato che la controversia non potrebbe nemmeno essere ricondotta, come suggerisce il Comune, all'accertamento e alla liquidazione “generale degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento” (a norma degli artt. 1 e 29, comma 2 della L. n. 1766 del 1927), in quanto il suo oggetto essenzialmente “concerne un rapporto pubblicistico tra le parti che ha ad oggetto l'esercizio del potere amministrativo”, al quale naturalmente “consegue l'attribuzione della giurisdizione al g.a.” (cfr. TAR Sardegna, Sez. I, n. 78 del 2016).
In questa prospettiva, si deve inoltre constatare che il potere, esercitato con l’ordinanza e materializzatosi nel divieto, direttamente rivolto alla ditta esecutrice, di operare secondo il progetto affidatole dalla Regione, non muta la propria natura in ragione dell’affermata esigenza di garantire l’uso civico insistente sull’area (cui allude la motivazione, che richiama, programmaticamente, l’urgenza di “mantenere il diritto reale di uso civico dei Cittadini di Marano Lagunare di poter esercitare la pesca nell’area oggetto dell’occupazione senza la prescritta autorizzazione comunale, quale Ente esponenziale”); l’ordinanza in questione non può infatti essere convertita, sulla sola base dei postulati motivazionali allegati dal Comune, in una sorta di atipico atto di autotutela possessoria, strumentale all’auspicata garanzia di un diritto di godimento collettivo, né essa, in virtù di tale insussistente rapporto di strumentalità, potrebbe essere attratta nell’alveo della giurisdizione speciale del Commissario per la liquidazione degli Usi Civici.
Il potere di emissione dell’ordinanza contingibile ed urgente, da parte del Sindaco, resta infatti saldamente ancorato al proprio naturale presupposto normativo, da individuarsi, come sarà precisato tra breve, nelle sole fattispecie contemplate nell’art. 50, comma 5 TUEL, indipendentemente dalle ragioni, esposte nell’impianto motivazionale, che abbiano contribuito a darvi luogo o che, come avvenuto nel caso di specie, ne abbiano costituito l’occasione o, in ultima analisi, il fine.
3.1.3 Di conseguenza, ancorché l’Amministrazione comunale reclami l’attinenza del provvedimento impugnato alla materia degli usi civici (attinenza che andrebbe desunta proprio dallo scopo da essa perseguito), la riconduzione del potere esercitato alla forma, alla struttura e ai presupposti dell’ordinanza contingibile ed urgente, regolata dall’art. 50, comma 5 TUEL, colloca il presente contenzioso, anche a prescindere dalla consistenza della posizione giuridica allegata dalla Regione, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (cfr. Cass. S.U., n. 14371 del 2012), a norma dell’art. 133, comma 1, lett. q) c.p.a., che vi include testualmente “le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti anche contingibili ed urgenti, emanati dal Sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di edilità e di polizia locale, d’igiene pubblica e dell’abitato” (per la recente affermazione della giurisdizione esclusiva: TAR Sicilia, Catania, Sez. IV, n. 1861 del 2018).
L’eccezione deve essere quindi respinta.

EDILIZIA PRIVATA: Allorquando l'Amministrazione ometta di adottare le doverose misure ripristinatorie dello stato dei luoghi e di difesa del pubblico interesse in relazione ad opere abusive ovvero le ritardi senza giustificazione, il terzo interessato -e, in particolare, il proprietario limitrofo, in quanto tale, sempre titolare di un interesse qualificato al mantenimento delle caratteristiche urbanistiche della zona- è legittimato ad agire contro la mancata assunzione di determinazioni repressive e, quindi, contro l'inerzia degli organi comunali; in sostanza, l'ampia sfera dei poteri di controllo attribuiti in materia urbanistico-edilizia all'Amministrazione Comunale non esclude che, rispetto ai singoli provvedimenti, gli interessati siano portatori di un interesse legittimo e che, pertanto, l'inerzia sulla relativa istanza integri gli estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale.
La giurisprudenza ha altresì avuto più volte modo di evidenziare come il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, sia titolare di un interesse legittimo all’esercizio dei detti poteri e possa pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso.
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4 - Nel merito, la domanda si palesa meritevole di accoglimento.
5 - Con atto di diffida del 06/08/2015, il ricorrente ha infatti compulsato il Comune di Perdifumo all’esercizio del potere di controllo e verifica sugli abusi realizzati dagli odierni controinteressati, in considerazione di quanto accertato nella sentenza del Tribunale di Napoli (abusivo incremento volumetrico sui due livelli e creazione di una ulteriore terrazza a livello).
5.1 - Nella specie, risultano certi la legittimazione e l’interesse dell’odierna parte ricorrente ad agire in questa sede, alla luce del pregiudizio dalla stessa lamentato all’immobile di sua proprietà sito al piano terra dell’edificio i cui piani primo e secondo sono stati interessati dai lavori abusivi realizzati dai coniugi Ca.–Am..
5.2 - Orbene, il Collegio condivide la giurisprudenza secondo la quale “allorquando l'Amministrazione ometta di adottare le doverose misure ripristinatorie dello stato dei luoghi e di difesa del pubblico interesse in relazione ad opere abusive ovvero le ritardi senza giustificazione, il terzo interessato -e, in particolare, il proprietario limitrofo, in quanto tale, sempre titolare di un interesse qualificato al mantenimento delle caratteristiche urbanistiche della zona- è legittimato ad agire contro la mancata assunzione di determinazioni repressive e, quindi, contro l'inerzia degli organi comunali; in sostanza, l'ampia sfera dei poteri di controllo attribuiti in materia urbanistico-edilizia all'Amministrazione Comunale non esclude che, rispetto ai singoli provvedimenti, gli interessati siano portatori di un interesse legittimo e che, pertanto, l'inerzia sulla relativa istanza integri gli estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede giurisdizionale (cfr. TAR Lazio, II-quater, 06.06.2016 n. 6502, TAR Napoli, sez. VI, 03.08.2015, n. 4191). […omissis…] La giurisprudenza ha altresì avuto più volte modo di evidenziare come il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, sia titolare di un interesse legittimo all’esercizio dei detti poteri e possa pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso (v., tra le altre, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 14.09.2015 n. 2019)” – TAR Napoli, sez. VI, sent. 05/01/2017, n. 115.
6 - In ragione dell’accoglimento del ricorso, va ordinato al Comune di Perdifumo di provvedere espressamente sull’istanza presentata dal ricorrente, nel termine di trenta giorni dalla comunicazione o, se precedente, dalla notificazione della presente decisione; con l'avvertenza che, decorso tale termine, nei successivi trenta giorni, provvederà in via sostitutiva, su richiesta dell’interessato e previo accertamento della perdurante inadempienza dell'amministrazione comunale, il Dirigente dell’Ufficio Pianificazione Territoriale–Urbanistica-Antiabusivismo (Direzione Generale per il Governo del Territorio, i lavori pubblici e la protezione civile) della Provincia di Salerno, che all’uopo si nomina fin da ora Commissario ad acta, con facoltà di delega ad un funzionario dello stesso Ufficio, che potrà avvalersi, se ritenuto necessario, anche degli uffici e dei funzionari della prefata amministrazione.
L'onere del compenso al Commissario ad acta viene posto a carico dell'amministrazione comunale intimata e sin d’ora è liquidato in complessivi euro 1.000,00, oltre accessori di legge.
7 – Le spese si liquidano in dispositivo a carico del solo Comune soccombente, che alle stesse ha dato causa in via esclusiva, rimanendo denegato il loro rimborso nei confronti delle parti non costituite.
8 - Ai sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990, sostituito dall’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 5 del 2012, convertito nella legge n. 35 del 2012,
va disposta la comunicazione della presente decisione alla competente Procura Regionale della Corte dei Conti, dopo il suo passaggio in giudicato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 31.10.2018 n. 6404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario di un’area o di un fabbricato nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo pubblico preposto è titolare di un interesse legittimo all’esercizio di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sull’istanza e sulla successiva diffida integra gli estremi del silenzio–rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente.
In altre parole, l’atto di impulso fa nascere in capo all’Amministrazione l’obbligo o all’esercizio dei poteri repressivi o, comunque, a provvedere sull’istanza, anche esplicitando –e motivando– l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte del denunziante.
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Il ricorso è fondato: “Il proprietario di un’area o di un fabbricato nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo pubblico preposto è titolare di un interesse legittimo all’esercizio di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il silenzio serbato sull’istanza e sulla successiva diffida integra gli estremi del silenzio–rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere espressamente. In altre parole, l’atto di impulso fa nascere in capo all’Amministrazione l’obbligo o all’esercizio dei poteri repressivi o, comunque, a provvedere sull’istanza, anche esplicitando –e motivando– l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte del denunziante” (TAR Lazio–Roma, Sez. II, 26/06/2009, n. 6260; conforme: TAR Campania–Napoli, Sez. II, 01/12/2006, n. 10329).
Nella specie, il Comune di Angri non ha riscontrato la diffida dei ricorrenti, volta all’attivazione dei suoi poteri di vigilanza in campo edilizio–urbanistico, in relazione all’abuso, dagli stessi denunziato come commesso dalla società controinteressata, nell’area di sua proprietà, limitrofa agli immobili di loro pertinenza: tale la conclusione, ricavabile dall’esame e del ricorso e dei documenti allo stesso allegati, tra cui una relazione tecnica di parte, cui nulla hanno opposto, in contrario, l’Amministrazione Comunale e la società controinteressata, non costituiti in giudizio.
Il Collegio, in accoglimento del ricorso, ordina pertanto al Comune di Angri di riscontrare l’epigrafata diffida dei ricorrenti, con atto espresso e motivato, nel termine perentorio di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero –se anteriore– dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza, dando atto degli accertamenti compiuti circa l’abuso in questione e, ove gli stessi siano stati verificati come sussistenti, dell’adozione dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, previsti dalla legge.
Il Tribunale si riserva, a fronte dell’eventuale inerzia del Comune, oltre tale termine perentorio, di nominare, su istanza di parte debitamente notificata, un commissario ad acta, che a tanto provveda in sua vece, con aggravio di spese (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 31.10.2018 n. 1535 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di una istanza presentata al Comune nella quale il privato solleciti la repressione di abusi edilizi in relazione a costruzioni realizzate sul terreno confinante e successivamente agisca dinanzi al Tar per l’annullamento del silenzio rifiuto della p.a., il ricorso è fondato nella parte in cui tali costruzioni non sono autorizzate da idoneo titolo edilizio.
Infatti, il ricorrente non agisce al fine di tutelare un interesse generale di rispetto o ripristino della legalità, ma agisce per la tutela del proprio specifico interesse di proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati perpetrati gli abusi, anche con riferimento all’asserita violazione delle norme sulle distanze dal terreno e dagli edifici di proprietà del ricorrente.
In tale situazione particolare l’istanza del proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati commessi gli abusi edilizi obbliga l’Amministrazione all’esercizio dei poteri repressivi; l’Amministrazione è obbligata a provvedere sull’istanza, anche esplicitando l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte del ricorrente.
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Secondo la giurisprudenza “La funzione dell’azione avverso il silenzio è quella di ottenere l’accertamento dell’obbligo della P.A. di provvedere sull’istanza del privato, adottando una decisione espressa sulla pretesa con la stessa avanzata, con la conseguenza che la determinazione che vale a interrompere l’inerzia è solo quella idonea a concludere il procedimento e non anche l’adozione di un atto meramente soprassessorio, interlocutorio o endoprocedimentale”.
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Il ricorso è fondato.
Sussiste, nella specie, il presupposto dell’inerzia della P.A. nel riscontrare l’istanza–diffida della società ricorrente, volta all’esercizio del poteri dell’Amministrazione Comunale, d’accertamento e di repressione degli abusi in materia edilizio–urbanistica, in ragione della carenza di idoneo titolo abilitativo dell’immobile confinante e della denunziata violazione delle distanze legali, che sarebbe stata posta in essere dal controinteressato, rispetto al limitrofo opificio di sua proprietà.
In giurisprudenza, cfr. la massima seguente: “In presenza di una istanza presentata al Comune nella quale il privato solleciti la repressione di abusi edilizi in relazione a costruzioni realizzate sul terreno confinante e successivamente agisca dinanzi al Tar per l’annullamento del silenzio rifiuto della p.a., il ricorso è fondato nella parte in cui tali costruzioni non sono autorizzate da idoneo titolo edilizio: infatti il ricorrente non agisce al fine di tutelare un interesse generale di rispetto o ripristino della legalità, ma agisce per la tutela del proprio specifico interesse di proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati perpetrati gli abusi, anche con riferimento all’asserita violazione delle norme sulle distanze dal terreno e dagli edifici di proprietà del ricorrente; in tale situazione particolare l’istanza del proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati commessi gli abusi edilizi obbliga l’Amministrazione all’esercizio dei poteri repressivi; l’Amministrazione è obbligata a provvedere sull’istanza, anche esplicitando l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte del ricorrente” (TAR Veneto, Sez. II, 23/01/2009, n. 143).
Nella specie, poi, non può ritenersi che tale inerzia sia cessata, perché il Comune avrebbe ordinato un sopralluogo tecnico alla Polizia Municipale, atteso che, secondo la giurisprudenza: “La funzione dell’azione avverso il silenzio è quella di ottenere l’accertamento dell’obbligo della P.A. di provvedere sull’istanza del privato, adottando una decisione espressa sulla pretesa con la stessa avanzata, con la conseguenza che la determinazione che vale a interrompere l’inerzia è solo quella idonea a concludere il procedimento e non anche l’adozione di un atto meramente soprassessorio, interlocutorio o endoprocedimentale” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 30/05/2017, n. 6402).
Sta di fatto, per di più, che, nel caso in esame, il sopralluogo in questione non è stato neppure eseguito, a cagione della riscontrata assenza dei proprietari/controinteressati (cfr. il relativo verbale, in atti); ma l’Amministrazione Comunale, nell’esercizio dei propri poteri –doveri di vigilanza in materia urbanistico–edilizia, non può evidentemente arrestare la propria azione, a fronte di tale momentanea e superabile difficoltà, dovendo piuttosto esperire, all’uopo, ogni accertamento, idoneo alla verifica della denunziati abusi e dell’asserita violazione in tema di distanze legali, ed emanare, all’esito, un provvedimento espresso e motivato, circa la diffida di cui sopra, in cui fornisca, all’istante, ragione circa l’effettiva –o meno– presenza di abusi, nonché circa l’effettivo –o meno– superamento del limite in questione, derivante dal P.R.G., da parte del controinteressato, nonché adottando, in caso positivo, i provvedimenti repressivi, prescritti dalla normativa vigente in materia.
In considerazione di quanto sopra argomentato, il Tribunale ordina, pertanto, al Comune di Scafati d’adottare un provvedimento espresso e motivato, circa la diffida in epigrafe, nei sensi sopra precisati, nel termine perentorio di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione in via amministrativa, ovvero –se anteriore– dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza.
Il Tribunale si riserva, a fronte dell’eventuale ulteriore inerzia, da parte dell’Amministrazione, una volta decorso il predetto termine, di nominare, su domanda di parte debitamente notificata, un commissario ad acta, che a tanto provveda in sua vece (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 31.10.2018 n. 1534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ai fini della configurabilità di una lottizzazione abusiva non è sufficiente accertare la realizzazione di manufatti assumendo rilievo dirimente la finalità dell’intervento posto in essere che deve porsi in contrasto con le vigenti previsioni urbanistiche.
Sul punto la giurisprudenza, muovendo dalla formulazione dell’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 laddove prevede che "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” perviene alla conclusione che “può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l'assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico”.
Detto principio trova puntuale specificazione nella giurisprudenza di secondo grado che, in tema di individuazione degli elementi sintomatici rivelatori di detta intenzione, precisa che “l'intento lottizzatorio -inteso come volontà di realizzare un non consentito frazionamento dei suoli, o comunque di alterarne surrettiziamente la destinazione urbanistica in contrasto con gli strumenti vigenti- può essere legittimamente desunto da una pluralità di elementi indiziari, anche di per sé non univocamente significativi, ma che nel loro complesso evidenzino in modo ragionevolmente inequivoco la strumentalità degli abusi al perseguimento delle suindicate finalità”.
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Nessun rilievo riveste la circostanza che la lottizzazione fosse intervenuta in epoca precedente all’acquisto del fondo da parte del ricorrente e che l’Amministrazione ne fosse a conoscenza da tempo.
La giurisprudenza è, infatti, granitica nel ritenere che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non limiti in alcun modo i poteri repressivi dell’Amministrazione (Cons. St. Ad. Plen. 17.10.2017 n. 9).
La giurisprudenza afferma, altresì, con identica fermezza che l’accertata lottizzazione abusiva costituisce un illecito permanente con la conseguenza che deve ritenersi legittimato l’intervento repressivo anche nei confronti dei successivi proprietari del fondo a nulla rilevando la loro eventuale estraneità al fatto originario poiché, come recentemente ribadito ulteriormente, “la lottizzazione abusiva opera in modo oggettivo ed indipendentemente dal subentro dei successivi proprietari interessati, i quali potranno far valere la propria (eventuale) buona fede nei confronti dei propri danti causa”
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Riconosce il Collegio che ai fini della configurabilità di una lottizzazione abusiva non è sufficiente accertare la realizzazione di manufatti assumendo rilievo dirimente la finalità dell’intervento posto in essere che deve porsi in contrasto con le vigenti previsioni urbanistiche (ex multis, Cons. St., Sez. VI, 23.07.2018, n. 4486).
Sul punto la giurisprudenza, muovendo dalla formulazione dell’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 laddove prevede che "si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio” perviene alla conclusione che “può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opera in concreto idonea a stravolgere l'assetto del territorio preesistente ed a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un nuovo e non previsto carico urbanistico” (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 14.06.2018, n. 3972).
Detto principio trova puntuale specificazione nella giurisprudenza di secondo grado che, in tema di individuazione degli elementi sintomatici rivelatori di detta intenzione, precisa che “l'intento lottizzatorio -inteso come volontà di realizzare un non consentito frazionamento dei suoli, o comunque di alterarne surrettiziamente la destinazione urbanistica in contrasto con gli strumenti vigenti- può essere legittimamente desunto da una pluralità di elementi indiziari, anche di per sé non univocamente significativi, ma che nel loro complesso evidenzino in modo ragionevolmente inequivoco la strumentalità degli abusi al perseguimento delle suindicate finalità (Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3911, e 14.01.2015, n. 4749; Sez. IV, 22.08.2013, n. 4254; Sez. V, 27.03.2013, n. 1809)” (Cons. St., Sez. VI, 06.06.2018, n. 3416).
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Nessun rilievo nei sensi invocati dal ricorrente riveste, infine, la circostanza che la lottizzazione fosse intervenuta in epoca precedente all’acquisto del fondo da parte del ricorrente e che l’Amministrazione ne fosse a conoscenza da tempo.
La giurisprudenza è, infatti, granitica nel ritenere che il decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non limiti in alcun modo i poteri repressivi dell’Amministrazione (Cons. St. Ad. Plen. 17.10.2017 n. 9).
La giurisprudenza afferma, altresì, con identica fermezza che l’accertata lottizzazione abusiva costituisce un illecito permanente con la conseguenza che deve ritenersi legittimato l’intervento repressivo anche nei confronti dei successivi proprietari del fondo a nulla rilevando la loro eventuale estraneità al fatto originario (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 12.12.2016, n. 10) poiché, come recentemente ribadito ulteriormente, “la lottizzazione abusiva opera in modo oggettivo ed indipendentemente dal subentro dei successivi proprietari interessati, i quali potranno far valere la propria (eventuale) buona fede nei confronti dei propri danti causa (C.d.S. sez. IV n. 3115/2014 e n. 1589/2014)” (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 04.05.2018, n. 756)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 31.10.2018 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Illegittima autorizzazione a lottizzare - Configurabilità del reato di lottizzazione abusiva - Contrasto tra attività cognitiva del giudice penale e principio di tassatività della norma penale - Articolo 650 codice penale - Inosservanza dei provvedimenti dell'autorità - Giurisprudenza - Artt. 12, 13, 29, 30, 44, d.P.R. n. 380/2001.
In tema di lottizzazione, il reato si configura, per espressa previsione legislativa, anche in presenza di una autorizzazione a lottizzare illegittima, che sia stata cioè rilasciata in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite da leggi statali o regionali, cosicché al giudice ordinario, a prescindere dall'atto autorizzatorio amministrativo e senza lo svolgimento di alcun controllo su tale atto, viene demandata la verifica diretta della trasformazione territoriale realizzata alla stregua delle prescrizioni di legge e di qualsiasi strumento urbanistico di carattere generale, anche soltanto adottato, ed una verifica siffatta, lungi dall'interferire in qualsiasi modo sull'attività della pubblica amministrazione, costituisce riscontro di elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa.
Si ha, infatti, lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione (articolo 30 d.P.R. n. 380 del 2001).
Sicché, riguardo la fattispecie di cui all'articolo 650 del codice penale, per la configurabilità della contravvenzione è necessaria la presenza di un provvedimento legalmente dato, per di più per il reato di lottizzazione abusiva, che è fattispecie a consumazione alternativa, potendo realizzarsi sia quando manchi un provvedimento di autorizzazione, sia quando quest'ultimo sussista ma contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici
(Sez. U., n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini)
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DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Urbanistica e titolo abilitativo - Verifica del giudice penale della legalità nell'attività amministrativa (articolo 97 cost.).
In materia urbanistica, quando le norme penali richiamano il permesso di costruire presuppongono che, per escludere la configurazione del reato, il titolare del permesso sia in possesso di un titolo abilitativo legittimo, altrimenti non avrebbe senso imputargli, unitamente ad altri soggetti, una responsabilità per mancata conformità dell'intervento (autorizzato in base ad un titolo rilasciato dalla competente autorità comunale) alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché a quella del permesso di costruire e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo, permesso che si presuppone appunto rilasciato.
In conclusione, il giudice penale deve controllare, al fine di ritenere sussistente o insussistente il reato, tutto ciò che il legislatore, nel solco tracciato dal principio costituzionale di legalità nell'attività amministrativa (articolo 97 cost.), abbia indicato, esplicitamente o implicitamente, nella descrizione delle varie fattispecie penali come rilevante ai fini della tipizzazione del fatto punibile.

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DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato urbanistico suscettibile di estinzione ex articolo 45, c. 3, d.P.R. 380/2001 - Effetti giuridici - Repertorio giurisprudenziale.
In materia urbanistica, quantunque il reato sia suscettibile di estinzione (articolo 45, comma 3, d.P.R. 380 del 2001), chi esegua lavori senza richiedere il permesso di costruire ma in conformità agli strumenti urbanistici, se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità oppure mentre sarebbe punibile tout court, senza neppure la possibilità di ricorrere alla sanatoria, chi abbia eseguito, senza il permesso di costruire, lavori in contrasto con gli strumenti urbanistici ma li abbia successivamente eliminati, rendendo il fatto ex post inoffensivo per aver riportato il manufatto in una situazione di conformità alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù; Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota), sarebbe invece esonerato da qualsiasi responsabilità penale colui il quale, munito invece di un permesso di costruire illegittimo, abbia eseguito lavori nonostante l'intervento risulti in contrasto con la disciplina urbanistica, determinando un perdurante aggravio del carico urbanistico e comunque una permanente offesa al bene giuridico tutelato.
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DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Contenuti degli strumenti urbanistici o dei regolamenti di igiene - Norme di edilizia e di tutela ambientale - RESPONSABILITÀ PER DANNI - Discipline sulle distanze - Funzione integrativa - Responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti - Art. 872 codice civile - Tutela ripristinatoria.
Le norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli strumenti urbanistici o nei regolamenti di igiene contengono discipline sulle distanze e svolgono una funzione integrativa dell'articolo 872 del codice civile, con la conseguenza che la loro violazione è fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno oggettivo o "in re ipsa" e chiarendo che tale danno non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che sarebbero superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche nella indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale e che la realizzazione di un edificio di altezza e volumetria superiori a quelle consentite, in violazione di norme in tema di urbanistica, può comportare per il vicino una diminuzione di luce ed aria (ed una connessa diminuzione del valore del proprio edificio) superiori a quelle altrimenti legittime; dando così luogo alla configurabilità di una responsabilità per danni, la cui liquidazione è stata demandata alla competente sede civile atteso che la parte civile non aveva offerto alcuna specifica prova dell'entità di esso.
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DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Finalità della disciplina urbanistica - Attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio - Elementi di natura extrapenale - Trasformazione del territorio urbanistico ed edilizio - Violazione del parametro di legalità.
L'urbanistica disciplina l'attività pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del territorio, sicché, lo stesso "territorio" costituisce il bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in danno del benessere complessivo della collettività e delle sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente.
Pertanto, al giudice penale non è affidato, in definitiva, alcun c.d. sindacato sull'atto amministrativo (concessione edilizia/permesso di costruire), ma -nell'esercizio della potestà penale- egli è tenuto ad accertare la conformità tra ipotesi di fatto (opera eseguenda o eseguita) e fattispecie legale, in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo.
Per cui, anche, il reato di cui all'articolo 44, comma 1, lettere a), b) e e), d.P.R. n. 380 del 2001) è configurabile in caso di realizzazione di opere di trasformazione del territorio in violazione del parametro di legalità di urbanistica ed edilizia, costituito dalle prescrizioni del permesso di costruire, richiamato dalla norma penale ad integrazione descrittiva della fattispecie penale, nonché delle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti ed -in quanto applicabili- da quelle della stessa legge
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49697 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Mancanza o l'illegittimità di un atto amministrativo - Potere di accertamento giurisdizionale - Elementi di natura extrapenale - Principio di legalità.
Quando la mancanza o l'illegittimità di un atto amministrativo (perché non rilasciato o perché, quantunque emesso, sia difforme dal tipo legale e, quindi, illegittimo) costituisce un elemento normativo della fattispecie incriminatrice -non viene in rilievo il potere dell'autorità giudiziaria di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento giurisdizionale, inteso quale diretta espressione del principio di legalità come declinato dall'articolo 101, comma 2, Cost., potere che compete pieno iure al giudice penale - il quale "risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito" (articolo 2, comma 1, del codice di procedura penale)- e dunque detto potere deve essere esercitato anche in ordine ad un provvedimento (amministrativo) quando l'atto costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato o, comunque, incide su di esso (Sez. 3, n. 38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider); cosicché l'esame del giudice penale non tende alla disapplicazione o meno dell'atto e non riguarda l'esistenza "ontologica" del provvedimento amministrativo, ma l'integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale (nel caso di specie articoli 12, 13 e 29 d.P.R. n. 380 del 2001) convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva (Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49697 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo - Identificazione in concreto della fattispecie - Controllo della legittimità di un atto amministrativo - Disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo.
In materia edilizia, allorché il giudice accerta l'esistenza di profili di illegittimità sostanziale del titolo abilitativo non pone in essere la procedura di disapplicazione riconducibile all'articolo 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E), atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici, cosicché non si pone un problema di disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato, precisando che, in materia di violazione dell'articolo 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, la non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia e alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia illecito, e cioè frutto di attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere (Sez. 3, n. 12389 del 21/02/2017, Minosi; Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sorini; Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga; Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi; Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, Faiola G.; Sez. 3, n. 41620 del 02/10/2007, Emelino) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49697 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Difetto del permesso di costruire ed in zona a vincolo paesaggistico ed ambientale - Ordine di demolizione e rimessione in pristino - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Sequestro preventivo - Continuazione, esecuzione e completamento delle opere - Violazione dei sigilli - Fattispecie - Art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 - Art. 349, c. 1 e 2, cod. pen.- art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di tutela paesaggistica, si integrano i reati di cui agli articoli 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004, 349, c. 1 e 2, cod. pen. e 44, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380/2001, nei casi in cui venga disposto il sequestro delle opere realizzate in prosecuzione di opere abusive già in sequestro.
Nella specie, i nuovi lavori erano stati posti in essere in assenza di concessione edilizia in zona ricadente nella perimetrazione definitiva del Parco nazionale del Vesuvio e sottoposta a vincolo paesaggistico.
Tra l'altro la ricorrente era stata nominata custode, per cui non vi è neppure questione circa il fatto che il soggetto fosse edotto del vincolo posto sul bene
(Cass. Sez. 3, n. 37570 del 25/09/2002, Di Monte)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49694 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa.
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2.1. La censura in ordine alla prospettata natura pertinenziale dell'opera, che escluderebbe la necessità del permesso di costruire, oltre che formulata in modo generico e assertivo, consistendo nella mera affermazione della destinazione di tale opera a servizio esclusivo di un non meglio precisato fabbricato principale, disgiunta da qualsiasi analisi delle caratteristiche di tali fabbricati e dei loro rapporti, è manifestamente infondata, avendo la Corte territoriale escluso tale natura evidenziando come l'intervento edilizio realizzato dall'imputato abbia modificato il volume, la sagoma, i prospetti e le superfici di quello preesistente.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (così, da ultimo, Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni, Rv. 268552; conf. Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253064; Sez. 3, n. 6593 del 24/11/2011, Chiri, Rv. 252442; Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti, Rv. 244903; Sez. 3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander, Rv. 241278) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49691).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina antisismica e illiceità della condotta - Controllo preventivo della pubblica amministrazione - Effetti della verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo - Artt. 93, 94, 95 d.P.R. n. 380/2001.
In materia di normativa antisismica, le contravvenzioni previste dalla disciplina in materia puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo non incidono sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività.

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Reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche - Ufficio del Genio Civile - Rilascio postumo del parere favorevole - Effetti antigiuridicità penale della condotta - Pericolosità o meno della costruzioni - Irrilevanza - Giurisprudenza.
In tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal competente ufficio tecnico regionale.
Nello stesso senso, Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Iovine, secondo cui
ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone.

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DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di esclusione della punibilità - Particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. - Nozione di abitualità nel reato.
Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardano azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo, di luogo e nei confronti della medesima persona, elementi da cui emerge una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l'abitualità presa in considerazione in negativo dall'art. 131-bis cod. pen. (Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini; Sez. 5, n. 35590 del 31/05/2017, Battizzocco; Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017, Di Bello) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49679 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: In materia di appalti pubblici, ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, non è applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità solidale prevista dall'art. 29, comma 2, del richiamato decreto, dovendosi ritenere che l'art. 9 del dl n. 76 del 2013, conv. con modif. nella l. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede la inapplicabilità del suddetto articolo 29 ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, non abbia carattere di norma d'interpretazione autentica, dotata di efficacia retroattiva, avendo solo esplicitato, senza innovare il quadro normativo previgente, un precetto già desumibile dal testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni.
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RILEVATO CHE:
   - la Corte d'Appello di Milano, a conferma della sentenza del Tribunale di Varese, ha condannato a titolo di responsabilità solidale il Comune di Varese a corrispondere a Da.Go., dipendente della Società Br. s.r.l., quale operaio di IV livello, addetto ad opere edili oggetto dell'appalto per la realizzazione di un parcheggio commissionato in occasione dei mondiali di ciclismo su strada, le differenze retributive e il TFR per aver svolto le superiori mansioni di direttore del cantiere, nonché le retribuzioni e il TFR per i mesi da gennaio ad aprile 2008, non pagati dall'appaltatrice all'atto del recesso;
   - interpretando l'art. 1, co. 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 alla luce dell'art. 6 della legge delega n. 30 del 2003, la Corte territoriale è giunta a preferire, tra le varie interpretazioni asseritamente ritenute possibili, quella basata sul riconoscimento della responsabilità solidale tra i soggetti del contratto di appalto, nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione dello stesso, senza ritenere che a ciò fosse da ostacolo la natura pubblica del committente;
   - la Corte territoriale ha ritenuto che, sebbene l'art. 1, co. 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 appaia voler escludere l'applicazione dell'intero decreto legislativo alle pubbliche amministrazioni, l'interpretazione della norma citata, alla luce della legge delega, impone di considerare come una endiadi la formulazione "il decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e... per il loro personale" in esso contenuta, la quale starebbe in luogo dell'espressione "per il personale delle pubbliche amministrazioni", così che la p.a. deve essere considerata esclusa dall'applicazione del d.lgs. n. 276 del 2003 soltanto quando opera nella veste di datore di lavoro pubblico, e non anche in quella di committente di un appalto;
   - la cassazione di tale sentenza è domandata dal Comune di Varese con due motivi, illustrati da memoria;
   - il Go. è rimasto intimato.
CONSIDERATO CHE:
   - col primo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente deduce "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 29 del d.lgs. n. 276/2003". Contesta la ricostruzione offerta dal Giudice dell'Appello e, nella memoria illustrativa rileva che in epoca successiva alla proposizione del ricorso la giurisprudenza di legittimità, alla quale si richiama, si è andata consolidando nel senso dell'inapplicabilità dell'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 alla pubblica amministrazione;
   - col secondo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4 cod. proc. civ., lamenta "Nullità della sentenza per omessa pronuncia su una parte della domanda";
   - la sentenza gravata non avrebbe chiarito l'origine del credito, enunciandone apoditticamente l'esistenza sulla base di meri conteggi, né avrebbe valutato l'insussistenza delle condizioni di ammissibilità di un ricorso al procedimento monitorio di cui all'art. 633 cod. proc. civ., atteso che il Go. non vantava alcun credito diretto nei confronti del Comune di Varese;
   - le censure, che vanno esaminate congiuntamente per connessione, meritano accoglimento;
   - questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi più volte, in merito alla questione proposta dal ricorso in esame, affermando il seguente principio di diritto: "In materia di appalti pubblici, ai sensi dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, non è applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità solidale prevista dall'art. 29, comma 2, del richiamato decreto, dovendosi ritenere che l'art. 9 del dl n. 76 del 2013, conv. con modif. nella l. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede la inapplicabilità del suddetto articolo 29 ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, non abbia carattere di norma d'interpretazione autentica, dotata di efficacia retroattiva, avendo solo esplicitato, senza innovare il quadro normativo previgente, un precetto già desumibile dal testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni" (così Cass. n. 20327 del 2016; cfr. anche Cass. n. 10844 del 2018; Cass. n. 10644 del 2016; Cass. n. 10731 del 2016; Cass. n. 15432 del 2014);
   - al predetto orientamento va data, in questa sede, continuità, atteso che le ragioni indicate a fondamento dei principi affermati, da intendersi qui integralmente richiamate ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ., sono del tutto condivise dal Collegio;
   - in definitiva, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 30.10.2018 n. 27677).

PATRIMONIO: E’ del giudice ordinario la giurisdizione sulla decadenza dall'assegnazione di alloggio edilizia residenziale pubblica.
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Giurisdizione - Alloggio edilizia residenziale pubblica – Decadenza – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la decadenza dall'assegnazione di alloggio di edilizia residenziale pubblica e il contestuale ordine di rilascio (1).
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   (1) Il Tar ha dato atto di un contrario orientamento (Cons. St., sez. V, 21.08.2014, n. 4270) il quale riconduce la materia dell’edilizia residenziale pubblica alla concessione di bene pubblico, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo in caso di impugnazione della decadenza dalla relativa assegnazione. Tale conclusione si fonda sulla circostanza che gli alloggi di edilizia residenziale pubblica hanno natura di beni indisponibili e, pertanto, il relativo provvedimento di assegnazione ha natura concessoria.
Il Tar non condivide però tale conclusione.
Ha chiarito che la concessione del bene pubblico è uno degli strumenti attraverso i quali l’Amministrazione provvede alla gestione dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo pubblicistico, al fine del loro migliore utilizzo. Questa è la causa della concessione del bene pubblico. Nel caso dell’edilizia residenziale pubblica non viene però in rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni (edifici e.r.p.) dell’Amministrazione poiché in tale ambito, il fine ultimo della sua azione è quello di assicurare l’accesso all’abitazione ai ceti meno abbienti.
L’assegnazione dell’alloggio non è quindi mero strumento di gestione di quest’ultimo (bene pubblico) ma tende a soddisfare un generale bisogno della collettività, e ne è prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale viene attivata per far fronte, e nella misura di cui è necessaria a far fronte, alle esigenze abitative della collettività.
La materia non si esaurisce quindi nell’attribuzione dell’alloggio (bene pubblico) al privato ma comporta una complessa attività che inizia con l’individuazione dei lotti di terreno da assegnare a edilizia residenziale pubblica; prosegue con l’edificazione degli alloggi e la loro assegnazione agli aventi titolo in base alle graduatorie formate dall’Amministrazione medesima, e prosegue poi con il controllo da parte di quest’ultima sul corretto utilizzo degli alloggi assegnati.
È un’attività in cui l’utilizzo del bene pubblico è strumentale alla soddisfazione di un bisogno generale della collettività e, pertanto, essa appare al Collegio pienamente inquadrabile nella nozione di pubblico servizio. Tale è infatti quella attività che il soggetto pubblico, attraverso l’uso dei poteri di cui dispone, assume tra le proprie finalità istituzionali al fine di migliorare il benessere della comunità di riferimento.
In tale ambito rientra indubitabilmente l’edificazione, l’assegnazione e la gestione di alloggi per far fronte alle esigenze abitative della popolazione più debole socialmente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 30.10.2018 n. 1399 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
La concessione del bene pubblico è uno degli strumenti attraverso i quali l’Amministrazione provvede alla gestione dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo pubblicistico, al fine del loro migliore utilizzo. Questa è la causa della concessione del bene pubblico.
Nel caso dell’edilizia residenziale pubblica non viene però in rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni (edifici e.r.p.) dell’Amministrazione poiché in tale ambito, il fine ultimo della sua azione è quello di assicurare l’accesso all’abitazione ai ceti meno abbienti. L’assegnazione dell’alloggio non è quindi mero strumento di gestione di quest’ultimo (bene pubblico) ma tende a soddisfare un generale bisogno della collettività, e ne è prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale viene attivata per far fronte, e nella misura di cui è necessaria a far fronte, alle esigenze abitative della collettività.
La materia non si esaurisce quindi nell’attribuzione dell’alloggio (bene pubblico) al privato ma comporta una complessa attività che inizia con l’individuazione dei lotti di terreno da assegnare a edilizia residenziale pubblica; prosegue con l’edificazione degli alloggi e la loro assegnazione agli aventi titolo in base alle graduatorie formate dall’Amministrazione medesima, e prosegue poi con il controllo da parte di quest’ultima sul corretto utilizzo degli alloggi assegnati. È un’attività in cui l’utilizzo del bene pubblico è strumentale alla soddisfazione di un bisogno generale della collettività e, pertanto, essa appare al Collegio pienamente inquadrabile nella nozione di pubblico servizio.
Tale è infatti quella attività che il soggetto pubblico, attraverso l’uso dei poteri di cui dispone, assume tra le proprie finalità istituzionali al fine di migliorare il benessere della comunità di riferimento. In tale ambito rientra indubitabilmente l’edificazione, l’assegnazione e la gestione di alloggi per far fronte alle esigenze abitative della popolazione più debole socialmente.
La fattispecie in esame, a parere del Collegio, deve dunque essere inquadrata nella categoria del pubblico servizio poiché non si esaurisce nella concessione del bene pubblico (l’alloggio di edilizia popolare); tale provvedimento rappresenta invece solo uno dei passaggi per il soddisfacimento di un bisogno generale della collettività. Ne segue che in tema di riparto giurisdizione deve essere applicata la norma di cui all’articolo 133, comma 1), lett. c) c.p.a. a norma del quale la giurisdizione esclusiva amministrativa è limitata alle situazioni in cui viene in rilievo l’uso del potere pubblico da parte dell’Amministrazione, corrispondentemente a quanto statuito dalla corte Costituzionale con sentenza n. 204/2004.
In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare sussiste quindi la giurisdizione amministrativa quando si controverta attorno a vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase che è strumentale all'assegnazione dell’alloggio ed è caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione ordinaria per tutte le controversie attinenti alla fase successiva al provvedimento di assegnazione nella quale l’Amministrazione non esercita alcun potere autoritativo ma agisce quale parte di un rapporto privatistico di locazione (Cass. SS.UU. n. 22957/2013; n. 15977/2011).
L’assegnazione dell’alloggio di edilizia economica popolare determina infatti la nascita, tra Amministrazione ed assegnatario, di un rapporto paritetico nel quale diritti ed obblighi tra le parti sono interamente determinati dal contratto di locazione conseguente all’assegnazione medesima (art. 16 Legge della Regione Toscana 20.12.1996, n. 96). La giurisdizione amministrativa, in tale fase, può essere predicata solo con riguardo a questioni inerenti l’esercizio del potere di autotutela sul provvedimento di assegnazione che conduca alla sua revoca o al suo annullamento, ovvero con riguardo a controversie nelle quali si discute della perdita dei requisiti da parte dell’assegnatario. In tali circostanze rivive infatti il potere pubblicistico volto a modificare autoritativamente il rapporto di assegnazione per ragioni di pubblico interesse.
Laddove invece si contesti l’inadempimento dell’assegnatario a specifici obblighi inerenti lo sviluppo del rapporto di assegnazione, deve essere affermata la giurisdizione ordinaria con conseguente (non annullamento della, ma) decadenza dall’assegnazione per non avere egli rispettato specifiche obbligazioni poste a suo carico. La stessa sentenza del Consiglio di Stato 17.05.2018, n. 2954, citata in udienza dal procuratore dei ricorrenti a supporto della tesi favorevole alla giurisdizione amministrativa sulla presente controversia, sembra invece confermare la tesi opposta, avendo affermato la giurisdizione amministrativa in una fattispecie nella quale si discuteva circa la permanenza o meno delle condizioni che legittimavano l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale popolare.
Nel caso di specie invece l’Amministrazione contesta l’abbandono dell’alloggio da parte degli assegnatari e la sua cessione a soggetti terzi. Essa non è intervenuta, con utilizzo di poteri pubblicistici, sul provvedimento di assegnazione ma ha invece inteso incidere sul rapporto sorto da quest’ultimo, a causa di asseriti inadempimenti degli assegnatari. Viene quindi dedotta dal Comune la violazione di obbligazioni a carattere civilistico a carico di questi ultimi che sono esattamente determinate tra le parti e a fronte del provvedimento decadenziale emanato, quindi, non possono che sussistere diritti soggettivi la cui violazione deve essere conosciuta dal Giudice Ordinario.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, con remissione delle parti al Giudice Ordinario e salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 11 c.p.a..

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVITaglio d'erba nel privato dopo verifica.
Prima di arrivare all'ordine categorico di sfalcio di un'area privata il comune deve interloquire con il cittadino. Non può limitarsi a sanzionarlo e poi notificargli un'ordinanza di ripristino da parte del sindaco.

Lo ha evidenziato il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 30.10.2018 n. 1018.
Gli organi di vigilanza del comune di Bassano sul Grappa hanno verificato una eccessiva vegetazione in prossimità di una strada e per questo hanno sanzionato il proprietario del fondo intimandogli anche lo sfalcio della vegetazione. Contro questa specifica disposizione adottata senza il preventivo avvio del procedimento l'interessato ha proposto con successo ricorso al collegio.
A parere del Tar nel caso sottoposto all'esame dei giudici le generiche motivazioni di urgenza adottate dal comune non giustificano l'omesso avviso di avvio del procedimento. Tanto più che il comune poteva facilmente adottare accorgimenti come apporre cartelli e segnalazioni, nelle more di un rapido espletamento del contraddittorio (articolo ItaliaOggi del 10.11.2018).
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MASSIMA
Ritenuta, nel merito, la sussistenza degli estremi per pronunciare sentenza cd. semplificata ex art. 74 c.p.a., attesa la fondatezza del ricorso per le ragioni di seguito riportate;
Considerato, infatti, che:
   - è anzitutto infondato e da respingere il primo motivo di ricorso, poiché il provvedimento impugnato non ha natura di ordinanza contingibile e urgente, non richiamando esso nelle proprie premesse né l’art. 50, né l’art. 54 del T.U.E.L., ma il regolamento di Polizia Urbana del Comune: si tratta, perciò, di un atto gestionale, che rientra nelle competenze dirigenziali ai sensi dell’art. 107 T.U.E.L. (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 26.09.2013, n. 4778);
   - risulta, invece, fondato e da accogliere il secondo motivo di ricorso, a mezzo del quale il sig. Sp. lamenta che non gli è stato comunicato l’avvio del procedimento, così impedendogli di presentare il proprio apporto partecipativo;
  - nel caso di specie è pacifico e incontestato tra le parti che il provvedimento impugnato non è stato preceduto dall’avviso ex art. 7 della l. n. 241/1990;
   - al riguardo la difesa comunale obietta che, com’è ben noto, ai sensi dell’art. 7, comma 1, della l. n. 241/1990, la comunicazione di avvio del procedimento può essere omessa qualora vi siano particolari esigenze di celerità procedimentale. Tuttavia, in contraddizione con tale argomento, afferma, poi, che l’interessato avrebbe comunque la possibilità di presentare memorie e documenti nel procedimento attivato con l’ordinanza impugnata: ciò sul presupposto –di cui si è poc’anzi dimostrata l’erroneità– che questa costituisca un mero atto endoprocedimentale;
   - inoltre,
la P.A., nell’ipotesi in cui si determini nel senso del mancato ricorso alle prescritte garanzie partecipative, ha l’onere di specificare le “ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento” che giustificano l’omissione di dette garanzie, ex art. 7, comma 1, cit. (v. TAR Liguria, Sez. II, 17.05.2010, n. 2677). È, invece, illegittima l’omissione dell’avviso di avvio del procedimento motivata da esigenze di celerità del procedimento indicate genericamente (v. TAR Valle d’Aosta, 16.01.2002, n. 5);
   -
nel caso di specie non solo il provvedimento impugnato reca un riferimento alla “urgente necessità di eliminare i pericoli in atto segnalati” che è generico e, pertanto, insufficiente ai fini dell’omissione della comunicazione ex art. 7 cit., ma tale motivazione appare, altresì, pretestuosa. Il Comune, infatti, nelle more del rapido espletamento del contraddittorio procedimentale, potrebbe adottare opportuni accorgimenti (ad es. recintare l’area interessata, apporre cartelli e segnalazioni di pericolo, ecc.), così da scongiurare rischi per persone e cose;
   - donde, in definitiva, la fondatezza della suesposta censura;
   - alla stregua di quanto ora illustrato, risulta fondato e da accogliere, altresì, il terzo motivo di ricorso, nella parte in cui reca la censura di difetto di motivazione, per avere l’ordinanza impugnata addotto una motivazione carente in ordine all’urgenza della sua adozione;
Ritenuto, pertanto, per tutto ciò che si è detto, che il ricorso sia fondato e da accogliere, in virtù della fondatezza del secondo e del terzo motivo (quest’ultimo, nei termini ora esposti);
Ritenuto, per conseguenza, di dover annullare l’ordinanza impugnata;

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni in confine con piazze e vie pubbliche - Protezione di interessi pubblici - Uso concreto del bene da parte della collettività - Disciplina delle norme relative alle distanze - Insussistenza di un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a tutela ripristinatoria - Artt. 872, 873 e 879, c. 2 c.c. - Giurisprudenza.
Le disposizioni di legge e regolamentari tra le quali, fra l'altro, il codice della strada ed il relativo regolamento di esecuzione, cui rinvia l'art. 879, comma secondo, cod. civ. per il caso delle costruzioni "in confine con le piazze e le vie pubbliche", non sono dirette alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla tutela della proprietà, ma alla protezione di interessi pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della circolazione stradale; [per cui] è da ritenersi insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar luogo a tutela ripristinatoria (Cass. n. 5204 del 2008).
Per l'accoglimento della domanda di riduzione in pristino proposta dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze fra costruzioni contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è necessario che le norme violate abbiano carattere integrativo delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato, siccome disciplinanti la stessa materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.) richiamate, e che si tratti di costruzioni soggette all'obbligo delle distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche (art. 879, secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa la riduzione in pristino se tra i fabbricati siano interposte strade pubbliche, ancorché la norma edilizia locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile) prescriva che la distanza minima prevista debba essere osservata anche nel caso che tra i fabbricati siano interposte aree pubbliche
(Cass. n. 3567/1988; conf. Cass. n. 2436/1988; Cass. n. 5378/1996).
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Costruzioni in confine con piazze e vie pubbliche - Esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2 - Interesse pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana - Norme relative alle distanze.
L'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, come nella specie, giacché il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso concreto di esso da parte della collettività (Cass. n. 6006/2008; cfr. anche Cass. n. 5172/1997; Cass. n. 2463/1990; Cass. n. 307/1982).
Sicché -tale essendo la medesima esigenza di provvedere all'interesse pubblico all'assetto viario ed alla circolazione urbana che se ne serve- non può essere ravvisata la ratio sottesa alla diversa disciplina nella stessa materia concernente le distanze, nell'un caso derogandone la imposizione, nel secondo caso estendendone l'imposizione.
Il quale effetto si verifica altresì in quanto la esclusione della viabilità a fondo cieco, presente nell'art. 9 D.M. 1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso articolo, giacché tale interpretazione riduttiva (al di là della sua collocazione contestuale riferita alle "maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente, causa di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un esonero ed una applicazione di una regola di distanza, che possono elidersi reciprocamente
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 29.10.2018 n. 27364 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Impresa capogruppo sottoposta a concordato preventivo con continuità aziendale: sollevata questione di costituzionalità.
Il Tar per il Lazio solleva questione di legittimità costituzionale delle norme che, nel sistema del vecchio codice dei contratti [d.lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. a)], per un verso, consentono all’impresa mandante di un raggruppamento temporaneo (od all’impresa singola offerente), anche se sottoposta alla procedura di concordato con continuità aziendale (di cui all’art. 186-bis della Legge fallimentare), di poter partecipare alle gare per l’affidamento di appalti pubblici ma che, tuttavia, per altro verso, vietano la partecipazione qualora ad essere sottoposta a detta procedura concordataria sia l’impresa mandataria di un raggruppamento temporaneo.
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Contratti della p.a. – Gara pubblica – Requisiti di partecipazione di ordine generale – Raggruppamento temporaneo di imprese – Impresa mandataria sottoposta a concordato con continuità aziendale – Divieto di partecipazione – Questione rilevante e non manifestamente infondata di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto fra l’art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 186-bis, commi 5 e 6, del r.d. n. 267 del 1942 (introdotto dall’art. 33, comma 1, lett. h), del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2013), per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 41 e 117, comma 2, lett. a), Cost., laddove consente la partecipazione alle gare pubbliche alle imprese singole, se sottoposte a concordato con continuità aziendale, ed ai raggruppamenti temporanei di imprese, ove vi sia sottoposta una mandante, ma la vieta ai raggruppamenti temporanei di imprese nel caso in cui sia la mandataria assoggettata a tale procedura. (1)
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   (1) I. – Con due ordinanze gemelle (oltre a quella indicata in epigrafe vi è, infatti, anche la coeva ordinanza n. 10397) il Tar per il Lazio si rivolge alla Corte costituzionale denunciando una possibile irragionevolezza nella disciplina delle cause di esclusione dalle gare ad evidenza pubblica, secondo la normativa del vecchio codice (d.lgs. n. 163 del 2006).
I fatti di causa (identici per entrambe le controversie) possono essere brevemente riassunti nei termini seguenti.
Nelle more di una procedura di affidamento di un appalto di servizi, bandito dalla CONSIP s.p.a. e regolato dalle norme del vecchio codice dei contratti, l’impresa mandataria di un raggruppamento temporaneo che aveva presentato offerta si è trovata coinvolta in una vicenda di crisi aziendale ed è stata, quindi, sottoposta alla procedura di “concordato con continuità aziendale” (si tratta del nuovo istituto coniato dall’art. 186-bis della Legge fallimentare, come introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012).
In applicazione del combinato disposto tra l’art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006 (che prevede una causa di esclusione dalla gara per quelle imprese “che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo 186-bis del regio decreto 16.03.1942, n. 267”) e l’art. 186-bis, comma 6, della Legge fallimentare (secondo cui, per quanto qui interessa, “l'impresa in concordato può concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non rivesta la qualità di mandataria”), la stazione appaltante ha allora deciso di escludere tutto il raggruppamento dalla gara.
Il provvedimento di esclusione, insieme alla conseguente escussione della garanzia provvisoria, sono stati impugnati dalle imprese facenti parte del raggruppamento (ed, in specie, dall’impresa mandataria sottoposta a concordato con continuità) dinnanzi al Tar per il Lazio il quale, all’esito della pubblica discussione sul merito delle due cause, ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale. Questi, in sintesi, i passaggi della motivazione delle due (identiche) ordinanze di rimessione:
   a) anzitutto, in punto di rilevanza, il Tar evidenzia l’applicabilità, al caso di specie, del vecchio codice dei contratti (di cui al d.lgs. n. 163 del 2006), trattandosi di gara bandita nel marzo del 2014 (anche se poi abnormemente protrattasi fino al 2018). Sotto diverso profilo, viene poi richiamato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui “il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall’atto di presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica, in quanto, per esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da parte del soggetto concorrente, dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica”: ne consegue la sicura applicabilità, al caso di specie, della causa di esclusione di cui alla lettera a) dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, anche se si tratta del venir meno, in corso di gara, di un requisito (quello di essere un’impresa in bonis) che era originariamente posseduto (per l’enunciazione del menzionato orientamento giurisprudenziale, l’ordinanza di rimessione cita i precedenti dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato di cui alle seguenti pronunce: 20.07.2015, n. 8, in Urb. app., 2016, 88, con nota di A. GIACALONE, Fase di esecuzione e onere di continuità del possesso dei requisiti; 25.02.2014, n. 10, in Giur. it., 2014, 1179, con nota di M. GNES, La perentorietà del termine per la presentazione della documentazione da parte dell’aggiudicatario, in Urb. app., 2014, 830, con nota di S. FOÀ, Termine perentorio di comprova dei requisiti anche per i concorrenti non sorteggiati, ed in Dir. e pratica amm., 2014, 65, con nota di D'INCECCO BAYARD DE VOLO; 05.06.2013, n. 15, in Foro it., 2014, III, 8, con nota di A. TRAVI, in Corr. merito, 2013, 921, con nota di M.L. MADDALENA, Rateizzazione del credito tributario e partecipazione alle gare pubbliche, in Guida al dir., 2013, 27, 84, con nota di A. MASARACCHIA, ed in Foro amm.-Cons. Stato, 2013, 2313, con nota di E. ZAMPETTI, Appalti pubblici, regolarità tributaria e rateizzazione del debito; 20.08.2013, n. 20, in Urb. app., 2013, 1052, con nota di F. MANGANARO; 04.05.2012, n. 8, in Guida al dir., 2012, 23, 82, con nota di D. PONTE, in Corr. merito, 2012, 745, con nota di I. RAIOLA, Non spetta alla stazione appaltante valutare la gravità della irregolarità contributiva, in Urb. app., 2012, 905, con nota di H. D'HERIN, La Plenaria fa luce sull’efficacia del DURC ai fini dell’esclusione dalle gare di appalto, in Dir. e pratica amm., 2012, 72, con nota di S. TOSCHEI, in Riv. neldiritto, 2012, 1601, con nota di BERTOLINI, ed in Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 2234, con nota di P. GOTTI, Vincolatività o meno delle risultanze in materia di regolarità contributiva nelle procedure di affidamento degli appalti pubblici, al vaglio dell'Adunanza plenaria; 18.07.2012, n. 27, in Guida al dir., 2012, 32, 96, con nota di A. MASARACCHIA, ed in Urb. app., 2012, 1295, con nota di G. BALOCCO, Il punto dell’Adunanza Plenaria sulla verifica triennale del certificato di attestazione SOA; 15.04.2010, n. 2155, poi rinumerata ufficialmente in n. 1 del 15.04.2010, in Foro it., 2010, III, 374, con nota di A. TRAVI, in Corr. merito, 2010, 688, con nota di I. RAIOLA, Esclusa la dimidiazione dei termini per la proposizione dei motivi aggiunti, in Dir. proc. amm., 2010, 617, con nota di A. SQUAZZONI, L'Adunanza plenaria si pronuncia sul termine per notificare i motivi aggiunti nel rito ex art. 23-bis l. TAR (aggiungendo l'ennesima considerazione sull'ordine di esame delle censure escludenti incrociate), in Urb. app., 2010, 964, con nota di S. FOÀ, Rito abbreviato e mancato dimezzamento dei termini per i motivi aggiunti. Una tesi per il passato, in Guida al dir., 2010, 19, 84, con nota di A. CORRADO, in Dir. e pratica amm., 2010, 6, 72, con nota di BRAIDO, ed in Corti irpinia, 2010, 277, con nota di BARRA);
   b) la Sezione rimettente, quindi, esclude che la letterale previsione dell’art. 186-bis, comma 6, della Legge fallimentare –secondo cui la regola generale del divieto di partecipazione alle gare pubbliche per le imprese che si trovino sottoposte a procedure concorsuali (di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006) viene derogata, nell’ipotesi del concordato preventivo di continuità, solo qualora si tratti di impresa singola oppure di impresa mandante di un raggruppamento temporaneo, e non anche qualora l’impresa sottoposta a detta procedura concorsuale sia quella capogruppo (la mandataria)– sia suscettibile di una diversa interpretazione: a conforto si citano alcuni precedenti della Sezione V del Consiglio di Stato (sentenza 11.07.2017, n. 3405; sentenza 25.06.2018, n. 3924, entrambe inedite);
   c) tale previsione –che, di per sé, non appare dettata dal quadro normativo eurounitario dove l’art. 45, paragrafo 2, della Direttiva 31.03.2004, n. 2004/18/CE, ha lasciato liberi gli Stati membri di precisare “le condizioni di applicazione” delle cause di esclusione dipendenti dalla pendenza di una procedura concorsuale– fa sorgere, però, dubbi di ragionevolezza, alla luce della complessiva ratio della novella normativa che, nel 2012 (con la significativa intitolazione “Misure urgenti per la crescita del Paese”), ha introdotto l’istituto del concordato preventivo in continuità, ratio che, secondo la Sezione rimettente, “è stata quella di incentivare l’impresa a denunciare per tempo la propria situazione di crisi, piuttosto che quella di assoggettarla a misure di controllo esterno che la rilevino”, nella prospettiva di favorire “la continuazione dei contratti in corso”, conciliando così “le esigenze di salvaguardia delle imprese in crisi, nel quadro del sostegno e dell’impulso al sistema produttivo del Paese, tesi a fronteggiare la situazione generale di congiuntura economico-finanziaria e sociale, con le esigenze di pari spessore del conseguimento effettivo degli obiettivi di stabilità e di crescita”;
   d) in tale quadro, “la volontà di aiutare l’impresa a superare la crisi auspicatamente temporanea, garantendo nelle more la continuità dell’attività” non può non assistere anche la situazione dell’impresa mandataria di un raggruppamento temporaneo che sia sottoposta a concordato con continuità aziendale, non rinvenendosi ragioni, pure in questo caso, per non consentirne la partecipazione alle gare pubbliche: non si apprezzano, infatti, tratti distintivi rispetto alla situazione in cui sia coinvolta un’impresa mandante oppure un’impresa singola offerente (a parte le differenti modalità di partecipazione in gara), né potrebbe configurarsi alcun pregiudizio per la stazione appaltante la quale, anzi, ha tutto l’interesse che la capogruppo venga salvata da una procedura fallimentare; del resto, il rimedio previsto dall’art. 37, comma 18, del d.lgs. n. 163 del 2006 (quello, cioè, di consentire la sostituzione della mandataria fallita con altro operatore economico) ben potrebbe essere utilizzato pure nell’ipotesi in cui la mandataria sia fallita dopo essere stata sottoposta alla procedura di concordato con continuità aziendale.
La ritenuta irragionevolezza determina anche –aggiunge il Tar per il Lazio– la possibile violazione dell’art. 41 Cost., nel senso di ingiustificata limitazione della libertà di iniziativa economica, nonché del principio euro-unitario di concorrenza;
   e) i dubbi di ragionevolezza sono corroborati dalla scelta poi operata dal legislatore del nuovo codice il quale, all’art. 80, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, ha stabilito che “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105, comma 6, qualora:… b) l’operatore economico si trovi in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di concordato con continuità aziendale”, con una disciplina, quindi, che si pone quale normativa speciale (e per ciò solo prevalente) rispetto a quella dell’art. 186-bis della Legge fallimentare (disposizione che, infatti, non è più richiamata), con ciò quindi confermandosi che, nell’attuale sistema delle gare pubbliche, la deroga al divieto di partecipazione vale indipendentemente da quale sia la posizione rivestita, all’interno del raggruppamento temporaneo, dall’Impresa che è assoggettata a concordato con continuità aziendale.
II. – Per completezza, si segnala quanto segue:
   f) con ordinanza 02.02.2018, n. 686 (in Foro it., 2018, III, 121, con nota di A. TRAVI, nonché oggetto della News US in data 7 febbraio 2018, alla quale si rinvia per gli opportuni approfondimenti), il Consiglio di Stato, sezione V, ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione se sia compatibile con l'art. 45, comma 2, lett. a) e b), della direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004 considerare come “procedimento in corso” (per un concordato preventivo), ai fini dell'esclusione da procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, la mera presentazione di istanza di concordato all'organo giudiziario competente;
   g) su una fattispecie analoga a quest’ultima, cfr., contra, Tar per la Lombardia–Brescia, sez. II, sentenza 20.01.2016, n. 92, secondo cui va invece escluso ogni dubbio di compatibilità della normativa italiana con l’art. 45 della direttiva del 2004.
Secondo il Tar, in particolare, la deroga al divieto di partecipazione di cui all’art. 186-bis del r.d. n. 267 del 1942 introduce “una fattispecie particolare in cui l'ordinamento, anziché smembrare l'impresa fallita e toglierla dal mercato, tenta di ristrutturarla e di mantenerla come realtà attiva, allo scopo di salvaguardare in primo luogo l'occupazione, e di riflesso anche l'integrità del tessuto economico di un territorio”: in tale quadro la richiamata disposizione comunitaria “consente, ma non impone sempre e comunque, agli Stati membri di escludere dalle pubbliche gare le imprese soggette a procedure concorsuali, e prescrive agli Stati stessi di precisare le ‘condizioni di applicazione’ della norma. È evidente che consentire la partecipazione, con la finalità sociale in senso ampio di cui s'è detto, alle imprese soggette a concordato con continuità rappresenta una ragionevole applicazione di tale precetto”;
   h) nell’ipotesi in cui, all’interno del raggruppamento temporaneo che si sia aggiudicato un appalto, fallisca una delle due imprese che lo compongono, con conseguente scioglimento del raggruppamento, la Corte di giustizia UE, con sentenza 24.05.2016, C- 96/14, MT Hojgaard A/S (in Foro amm., 2016, 1136, solo massima, nonché oggetto della News US in data 31.05.2016, cui si rinvia per ulteriori indicazioni), ha affermato la possibilità che l’altra impresa rimasta possa essere autorizzata dalla stazione appaltante a subentrare, in proprio, nell’aggiudicazione; ciò, purché ricorrano due condizioni: da un lato, occorre che l’impresa rimanente sia in possesso –da sola– dei requisiti necessari per l’ammissione alla procedura di gara in questione; dall’altro lato, occorre che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporti un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza;
   i) in dottrina, sul concordato con continuità aziendale quale causa di esclusione dalle procedure di gara e sulle vicende patologiche afferenti alle imprese mandanti e mandatarie delle associazioni temporanee, si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 749 ss. e 848 ss.; in particolare, sui rapporti fra concordato preventivo in continuità e partecipazione a gare d'appalto, cfr. R. CIPPITANI, Concordato con continuità aziendale e partecipazione agli appalti pubblici - Il commento, in Urb. app., 2014, 417, nonché il volume Procedure concorsuali e diritto pubblico, a cura di L. D'ORAZIO e L. MONTEFERRANTE, Assago, 2017, 273 ss., ed ivi, in specie, i contributi di L. D'ORAZIO, Il concordato preventivo con continuità aziendale e le gare pubbliche, 273 ss., e di R. GIANI, La partecipazione alle gare per l'affidamento dei contratti pubblici, 453 ss.
In generale, cfr. M. PALLADINO, I contratti pubblici nel concordato con continuità aziendale, in Giur. it., 2014, 12 ss.; L. D'ORAZIO, Continuità aziendale e gare per l'affidamento dei contratti pubblici, in Fallimento, 2017, 749 ss. (TAR Lazio-Roma, Sez. II, ordinanza 29.10.2018 n. 10398 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accertamento dell’illegittimità dell’atto ai fini risarcitori.
Il giudice amministrativo non può valutare l’eventuale illegittimità dell’atto a fini risarcitori, ex art. 34 c.p.a., in assenza di domanda di risarcimento dei danni ritualmente proposta in giudizio, non essendo sufficiente la mera dichiarazione resa durante la trattazione della causa, che manifesta soltanto un interesse generico e non sufficientemente attendibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.10.2018 n. 2423 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Né si ritiene possa trovare applicazione l’art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo, atteso che il ricorrente si limita a pagina 8 del ricorso ad evidenziare che “è fatta salva ed impregiudicata l’azione ex art. 7, comma 3, della legge n. 1034/1971 per il risarcimento del danni nei confronti dell’Amministrazione Comunale nonché –ex art. 28 Cost.– direttamente del funzionario responsabile del procedimento Arch. Sg.Gi.”, senza però, nel prosieguo del giudizio, proporre tale azione.
Secondo la giurisprudenza il giudice amministrativo non può valutare l’eventuale illegittimità dell’atto a fini risarcitori, ex art. 34 del codice del processo amministrativo in assenza di domanda di risarcimento dei danni ritualmente proposta in giudizio, non essendo sufficiente la mera dichiarazione resa durante la trattazione della causa, che manifesta soltanto un interesse generico e non sufficientemente attendibile (sul punto Cons. Stato, sez. V, 15.03.2016, n. 1023; Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2017, n. 1398; TAR Puglia, Bari, sez. II, 07.04.2017, n. 376; TAR Bari, sez. II, 20.09.2017, n. 970; TAR Palermo, sez. II, 23.09.2015, n. 2314).
Più di recente, il TAR Parma ha affermato di aderire all’orientamento che vede nella già intervenuta proposizione della domanda risarcitoria nello stesso giudizio, o in altro separato, un elemento necessario ai fini dell'operatività del precetto di cui all'art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo, poiché ritenuto essere maggiormente aderente al principio della domanda (art. 34, comma 1) e rispettoso delle esigenze economia processuale (ex multis, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014, n. 1283).
Il Tribunale ha precisato che “L'adesione alla illustrata tesi meno restrittiva (che non si condivide), infatti, si pone in evidente conflitto con il principio di economia dei mezzi processuali poiché determina la scissione di un giudizio tendenzialmente unitario in due segmenti processuali aventi ad oggetto, il primo, un accertamento dell'illegittimità dell'atto non più utile al ricorrente sotto il profilo della definizione dell'assetto di interessi a suo tempo cristallizzato dall'Amministrazione, e il secondo (cui il primo è strumentale), incentrato sulle sole questioni risarcitorie: giudizio quest'ultimo che, peraltro, si presenta come futuro ed eventuale atteso che la sua proposizione permane nella piena disponibilità della parte (in alcun modo impegnata dalla presupposta domanda) e risente in tutta evidenza degli esiti del primo” e che pertanto “…non sia sufficiente la mera riserva di proporre l'azione risarcitoria poiché ciò, come correttamente osservato dalla più recente giurisprudenza di primo grado, integrerebbe una mera manifestazione di "un interesse generico e non sufficientemente attendibile" (TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 23.09.2015, n. 2314) destinata a tradursi in una iniziativa che, una volta venuto meno l'interesse all'annullamento dell'atto impugnato, tradisce intenti meramente esplorativi in vista di future (e si ribadisce eventuali) iniziative” (TAR Parma, sez. I, 27.06.2016, n. 199).

URBANISTICA: Secondo consolidata giurisprudenza, le scelte urbanistiche compiute dall’amministrazione nell’esercizio del potere di pianificazione sono connotate da un elevato grado di discrezionalità e pertanto sono sindacabili dal giudice amministrativo solo ove caratterizzate da irragionevolezza, irrazionalità, illogicità e incongruità in relazione alle esigenze che si intendono soddisfare concretamente, ovvero di palese travisamento dei fatti.
Inoltre, trattandosi di atto generale, l’Amministrazione non ha l’obbligo di motivare in modo specifico le scelte adottate in ordine alla destinazione delle singole aree con la conseguenza che tali scelte possono essere censurate soltanto in presenza di vizi logico-giuridici nel quadro delle linee portanti della pianificazione.
Altresì, si evidenzia che, sulla motivazione delle scelte pianificatorie, il Consiglio di Stato ha precisato quanto segue: “…il privato che si ritenga leso da una scelta di piano non favorevole ai suoi interessi in ordine alla destinazione data ad una certa area di sua proprietà, non può chiedere ragione della scelta amministrativa…La regola dell'inesistenza di un obbligo specifico di motivazione delle scelte di piano vale anche per le osservazioni presentate al p.r.g.; secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato le osservazioni proposte dai cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o il loro accoglimento non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio”.

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Preliminarmente il Collegio evidenzia che, secondo consolidata giurisprudenza, le scelte urbanistiche compiute dall’amministrazione nell’esercizio del potere di pianificazione sono connotate da un elevato grado di discrezionalità e pertanto sono sindacabili dal giudice amministrativo solo ove caratterizzate da irragionevolezza, irrazionalità, illogicità e incongruità in relazione alle esigenze che si intendono soddisfare concretamente, ovvero di palese travisamento dei fatti (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2009, n. 1769; Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2004, n. 4466).
Inoltre, trattandosi di atto generale, l’Amministrazione non ha l’obbligo di motivare in modo specifico le scelte adottate in ordine alla destinazione delle singole aree con la conseguenza che tali scelte possono essere censurate soltanto in presenza di vizi logico-giuridici nel quadro delle linee portanti della pianificazione.
Inoltre si evidenzia che, sulla motivazione delle scelte pianificatorie, il Consiglio di Stato ha precisato quanto segue: “…il privato che si ritenga leso da una scelta di piano non favorevole ai suoi interessi in ordine alla destinazione data ad una certa area di sua proprietà, non può chiedere ragione della scelta amministrativa…La regola dell'inesistenza di un obbligo specifico di motivazione delle scelte di piano vale anche per le osservazioni presentate al p.r.g.; secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato le osservazioni proposte dai cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o il loro accoglimento non richiede una motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4024; Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2011, n. 133)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.10.2018 n. 2423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla plenaria la questione della necessaria esclusione del concorrente che non abbia indicato separatamente gli oneri di sicurezza aziendale.
La V Sez. del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza plenaria la questione della necessaria esclusione del concorrente, nel vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, che non abbia specificato, in sede di offerta, la quota del prezzo corrispondente agli oneri di sicurezza aziendale ovvero se possa operare il soccorso istruttorio e se, a tale ultimo fine, assuma rilevanza la circostanza che la lex specialis richiami espressamente l’obbligo dichiarativo di legge (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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6. La Sezione preliminarmente rileva l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato in relazione alla valenza immediatamente escludente (a prescindere dal soccorso istruttorio) dell’inosservanza dell’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza e costi della manodopera di cui all’ articolo 95, comma 10, del d.lgs. 50 del 2016, specie nel caso di silenzio sul punto della lex specialis.
7. L’art. 95, comma 10, del d.lgs. 50 del 18.04.2016, come modificato dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56, testualmente dispone: “Nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all’articolo 97, comma 5, lettera d)”.
8. L’interpretazione delle prescrizioni di legge di cui alla norma da ultimo citata ha dato luogo a due orientamenti all’interno di questo Consiglio di Stato (e analogo contrasto si rinviene, come si dirà, anche nell’ambito della giurisprudenza dei Tribunali amministrativi regionali).
9. In sintesi, il contrasto riguarda la perdurante vigenza, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) del principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 19 del 2016, in base al quale “nelle ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio”.
9.1. Dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, una parte della giurisprudenza, anche prendendo spunto dal fatto che la sentenza n. 19 del 2016 ha circoscritto espressamente la portata del principio enunciato alle gare bandite nel vigore del D.Lgs. n. 163 del 2006, ha ritenuto che la mancata indicazione separata dei costi per la sicurezza aziendale non possa essere più sanata attraverso il previo soccorso istruttorio, ma determini, al contrario, un automatismo espulsivo incondizionato, destinato ad operare anche nel caso in cui il relativo obbligo dichiarativo non sia richiamato dalla lex specialis.
Si valorizza, in tale direzione, la circostanza che nel nuovo Codice dei contratti pubblici esiste una previsione puntale (l’art. 95, comma 10), la quale ha chiarito l’obbligo per i concorrenti di indicare nell’offerta economica i c.d. costi di sicurezza aziendali, così superando le incertezze interpretative in ordine all’esistenza e all’ampiezza dell’obbligo dichiarativo, che, nel vigore del d.lgs. n. 163/2006, avevano originato i contrasti interpretativi poi risolti dall’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 3 e 9 del 2015.
9.2. In senso contrario, tuttavia, un’altra parte della giurisprudenza ha ritenuto che anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, nonostante l’espressa previsione di un puntuale obbligo dichiarativo ex art. 95, comma 10, la mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza aziendale non determini di per sé l’automatismo espulsivo (almeno nei casi in cui tale obbligo dichiarativo non sia richiamato nella lex specialis), a meno che si contesti al ricorrente di aver presentato un’offerta economica indeterminata o incongrua, perché formulata senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento degli oneri di sicurezza.
10. Il primo indirizzo interpretativo fa capo alla citata sentenza del Consiglio di Stato, V, 07.02.2017, n. 815.
10.1. Nello specifico caso oggetto di tale pronunzia, attinente ad una gara informale ai sensi dell’articolo 162 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, indetta dal Ministero della difesa per l’affidamento della fornitura di servizi di connettività satellitare, la lettera di invito disciplinava le modalità di formulazione dell’offerta richiedendo espressamente ai partecipanti di precisare i costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e di attenersi al modello per la presentazione dell’offerta allegato.
10.2. L’appellante aveva impugnato in primo grado gli atti di gara sostenendo che la Commissione avrebbe dovuto escludere dalla procedura l’offerta dell’appellata, anziché concedere il soccorso istruttorio ai sensi dell’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, stante l’incompletezza della dichiarazione relativa ai costi di sicurezza.
10.3. In tale occasione la V Sezione di questo Consiglio ha ritenuto che, per ciò che attiene l’obbligo di indicare puntualmente l’ammontare degli oneri per la sicurezza c.d. interni o aziendali, trova applicazione l’articolo 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 che, superando legislativamente le precedenti incertezze, ha statuito la necessità dell’indicazione di tale oneri per le gare indette nella vigenza del nuovo Codice dei contratti pubblici, per le quali non troverebbero dunque applicazione i principi di diritto formulati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, in tema di ammissibilità del soccorso istruttorio per il caso di mancata separata indicazione.
10.4. Secondo quanto affermato nella detta decisione non sarebbe infatti possibile utilizzare l’istituto del soccorso istruttorio nel caso di incompletezze e irregolarità relative all’offerta economica anche al fine di “evitare che il rimedio… che corrisponde al rilievo non determinante di violazioni meramente formali possa contrastare il generale principio della par condicio concorrenziale, consentendo in pratica ad un concorrente (cui è riferita l’omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica”.
10.5. Dalla su indicata sentenza sono poi ricavabili le ulteriori seguenti statuizioni:
   a) anche a ritenere, come fatto dal primo giudice, che la lettera di invito non fosse sul punto del tutto chiara, era tuttavia indubitabile che l’obbligo emergesse con adeguata chiarezza dalla litera legis e che la società appellata lo avesse disatteso;
   b) l’appellata, prevedendo che l’ammontare di detti oneri era pari “all’un per cento del margine dell’offerta” aveva, poi, ancorato la determinazione del quantum di tali oneri ad un parametro incerto e fluttuante, rendendone così incerta la quantificazione; e anche a voler ammettere una siffatta relazione si dovrebbe allora concludere “che l’impresa possa ridurre il livello delle spese destinate alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro laddove le ricadute economiche della commessa presentino un andamento negativo”;
   c) che non poteva affatto condividersi la tesi dell’appellata secondo cui “la mancata indicazione dei detti oneri non porterebbe senz’altro alla esclusione” in quanto, una volta accertato che tale obbligo di indicazione è chiaramente sancito dalla legge, la sua violazione determina conseguenze escludenti a prescindere dal dato che l’esclusione non sia stata testualmente enunciata dagli articoli 83 e 95 del Codice: ciò in quanto un’inadeguata indicazione non lede solo interessi di ordine dichiarativo o documentale, ma si pone ex se in contrasto con i doveri di salvaguardia dei diritti dei lavoratori cui presiedono le previsioni di legge, che impongono di approntare misure e risorse congrue per preservare la loro sicurezza e la loro salute.
11. A questo indirizzo interpretativo paiono aver aderito le sentenze della V Sezione del Consiglio di Stato 28.02.2018 n. 1228, 12.03.2018, n. 1228, 25.09.2018, n. 653.
12. Va precisato che in tutte le fattispecie esaminate dalle richiamate sentenze, l’obbligo di separata indicazione degli oneri per la sicurezza aziendale era stato imposto, a pena di esclusione, ai partecipanti alla procedura di gara dalla lex specialis della procedura, mediante un’espressa previsione contenuta nel disciplinare o nella lettera di invito, a differenza della fattispecie che ha dato luogo alla presente ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria, ove il bando nulla disponeva sul punto.
13. Il secondo indirizzo interpretativo è stato, invece, espresso da Cons. Stato, III, 27.04.2018, n. 2554.
13.1. Tale sentenza riguardava la domanda di annullamento del provvedimento di esclusione dalla gara per la mancata specifica quantificazione degli oneri della sicurezza interna da parte dell’appellante nella propria offerta economica e dell’aggiudicazione definitiva adottati nell’ambito di una procedura negoziata avente ad oggetto la prestazione di forniture indetta dall’Azienda Sanitaria Locale Roma 6.
13.2. In detta fattispecie secondo il giudice di prime cure “il nuovo codice dei contratti pubblici ha innovato il diritto vigente e ha previsto espressamente, nell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, l’obbligo di indicare gli oneri per la sicurezza interna nell’offerta tecnica, al contempo precludendo, nell’art. 83, comma 9, del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016, il soccorso istruttorio con riguardo alle mancanze dell’offerta economica e tecnica”.
13.3. Partendo da tali premesse, il giudice di primo grado aveva dunque concluso che, pur nell’assenza di una chiara ed inequivoca previsione, nella lex specialis di gara, di un obbligo avente ad oggetto l’espressa specifica indicazione degli oneri dell’offerta economica, si debba pervenire all’esclusione della concorrente, a fronte di un quadro normativo ormai chiaro rispetto alle disposizione del precedente Codice degli appalti, ed in virtù del meccanismo dell’eterointegrazione, per effetto del quale la previsione imperativa di legge è venuta a completare il quadro dei requisiti richiesti dalla legge di gara per la validità dell’offerta.
13.4. Tale tesi non è stata condivisa dalla III Sezione di questo Consiglio la quale, nel riformare la sentenza in accoglimento dell’appello proposto, ha evidenziato, pur nella consapevolezza dell’esistenza di orientamenti non univoci, che l’obbligo codificato nell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 non comporta l’automatica esclusione dell’impresa concorrente che, pur senza evidenziare separatamente nell’offerta gli oneri per la sicurezza aziendali, li abbia comunque considerati nel prezzo complessivo dell’offerta.
13.5. Secondo tale indirizzo, dunque, l’isolato esame dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 non sarebbe in sé decisivo, nemmeno sulla base dei principi contenuti nella sentenza n. 9 del 25.02.2014 dell’Adunanza Plenaria, per affermare il suo carattere imperativo, a pena di esclusione, e l’effetto ipso iure espulsivo della mancata formale evidenziazione di tali costi nel contesto dell’offerta economica: ciò in quanto tale norma deve essere letta insieme con l’art. 97, comma 5, lett. c), dello stesso Codice, il quale prevede al contrario –e in coerenza con l’art. 69, par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e con tutto l’impianto della nuova normazione europea– che la stazione appaltante escluda il concorrente solo laddove, in sede di chiarimenti richiesti, detti oneri risultino incongrui.
Tale soluzione, secondo l’orientamento in parola, non comporterebbe poi alcuna violazione del disposto dell’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, in quanto il consentire all’impresa di specificare la consistenza degli oneri per la sicurezza già inclusi (ma non distinti) nel prezzo complessivo dell’offerta non si tradurrebbe in alcuna manipolazione o alterazione in corso di gara dell’offerta stessa contrastante con le regole di trasparenza e parità di trattamento tra le concorrenti.
13.6. Tale orientamento, a differenza del precedente, fonda dunque l’esegesi operata sul canone interpretativo espresso nel brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, in base al quale ogni opzione ermeneutica che si risolvesse nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento rispetto a quelli tipizzati deve essere rifiutata in quanto finirebbe per far dire alla legge una cosa che legge non dice e che, si presume, non voleva dire.
13.7. Peraltro, mentre il primo indirizzo privilegia il principio di par condicio competitorum, il secondo orientamento sembrerebbe inteso a salvaguardare i diversi principi di massima partecipazione alle gare e di tassatività e tipicità delle cause di esclusione (prima previsto dall’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, ed attualmente disciplinato dall’art. 83, comma 8, del nuovo Codice dei contratti pubblici): in base al principio da ultimo citato le cause di esclusione dalla gara, in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono essere ritenute di stretta interpretazione, senza possibilità di estensione analogica (cfr. Cons. Stato, V, sentenza n. 2064 del 2013), con la conseguenza che, in caso di equivocità delle disposizioni che regolano lo svolgimento della gara, deve essere preferita quell’interpretazione che, in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione.
Ebbene, nell’ipotesi in parola, in base al secondo indirizzo giurisprudenziale, l’esclusione non potrebbe farsi derivare automaticamente dall’applicazione della legge, non prevedendo l’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 alcuna sanzione espulsiva né richiedendo tale disposizione alcuna “specifica” indicazione degli oneri per la sicurezza interna. Secondo tale orientamento, infatti, ciò non sarebbe casuale in quanto il legislatore nazionale, nell’attuare la Direttiva 2014/247UE non si è realmente discostato dall’orientamento sostanzialistico del diritto eurounitario, che (da ultimo ed espressamente nell’art. 57 di tale Direttiva) non ha mai inteso comprendere l’inadempimento di questo mero obbligo formale –la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna separatamente dalle altre voci dell’offerta– tra le cause di esclusione.
13.8. Si perviene così ad affermare che tale formalistica ipotesi escludente contrasterebbe sia con la lettera dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, non comminante espressamente l’effetto espulsivo, sia con la ratio della norma, la cui finalità è quella di consentire la verifica della congruità dell’offerta economica anche sotto il profilo degli oneri aziendali “concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”, ritenuto dal codice di particolare importanza per la salute dei lavoratori, in sede verifica dell’anomalia, in coerenza con le previsioni del legislatore europeo nell’art. 18, par. 2, e nell’art. 69, par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e nel Considerando n. 37 della stessa Direttiva, il quale rimette agli Stati membri l’adozione di misure non predeterminate al fine di garantire il rispetto degli obblighi in materia di lavori.
13.9. In base a tale seconda esegesi, la direttiva 2014/24/UE di cui le norme del nuovo Codice costituirebbero attuazione avrebbe “replicato” senza sostanziali modifiche il previgente quadro della normativa eurounitaria (di cui alla direttiva 2004/18/CE), in virtù del quale la mancanza di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi non determinerebbe automaticamente l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione: la soluzione automaticamente escludente si porrebbe, quindi, in contrasto con i principi euro-unitari (si veda per tutte Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. VI, 10.11.2016, in C/162/16), ove l’impresa dimostri, almeno in sede di giustificazioni, che sostanzialmente la sua offerta comprenda gli oneri per la sicurezza e che tali oneri siano congrui.
14. Analogo contrasto interpretativo si rinviene, come si è già accennato, nella giurisprudenza dei Tribunali amministrativi regionali.
14.1. La tesi c.d. formalistica (favorevole all’automatismo espulsivo senza possibilità di soccorso istruttorio) è stata accolta, ad esempio, da Tar Umbria Perugia, I, n. 56 del 22.01.2018, Tar per la Calabria, I, 06.02.2018, n. 332 e 07.02.2018, n. 337; Tar Sicilia Catania, III, 31.07.2017, n. 1981; Tar Campania, Salerno, Sez. I, 05.01.2017, n. 34.
14.2. La contraria tesi c.d. sostanzialistica, che ammette il soccorso istruttorio (almeno quando risulti che l’importo degli oneri di sicurezza è stato considerato nella formulazione dell’offerta economica e salva la verifica di congruità dell’offerta), risulta accolta da Tar Campania-Napoli, sentenze n. 521 del 06.08.2018, n. 3149 dell’11.05.2018 e n. 4611 del 03.10.2017; Tar Lazio-Roma, n. 8119 del 20.07.2017; Tar Lombardia-Brescia, n. 912 del 14.07.2017; Tar Sicilia-Palermo, n. 1318 del 15.05.2017.
15. La questione è stata anche oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata (ord. 25.07.2017, n. 525), che ha, in particolare, indirizzato alla Corte il seguente quesito interpretativo: “se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, del D. Lg.vo n. 50/2016, secondo la quale l’omessa separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in ogni caso, l’esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato specificato nell’allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza aziendale”.
Il Giudice europeo ha dichiarato irricevibile la questione sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata per l’assenza di interessi transfrontalieri rilevanti in quel giudizio (Corte di Giustizia UE, sez. VI, 23.11.2017, in C-486/17). Di recente, tuttavia, analoga questione pregiudiziale è stata nuovamente sottoposta all’attenzione della Corte di giustizia dal Tar per il Lazio (ordinanza 24.04.2018, n. 4562).
16. In questo quadro giurisprudenziale, caratterizzato anche dalla pendenza dinnanzi alla Corte di giustizia di una questione analoga a quella oggetto del presente giudizio, il Collegio si trova di fronte, sotto il profilo del metodo, a tre diverse soluzioni, tutte astrattamente percorribili:
   a) disporre la sospensione c.d. impropria del giudizio, in attesa che si pronunci il giudice europeo (in tal senso, si è orientato, ad esempio, Cons. Stato, V, 28.09.2018, n. 5589);
   b) sollevare, analogamente a quanto hanno fatto alcuni tribunali amministrativi regionali, una questione pregiudiziale di corretta interpretazione del diritto dell’Unione Europea, per verificare se ed in che misura esso osti all’applicazione del c.d. automatismo espulsivo;
   c) affrontare la questione nel merito e, preso atto del contrasto interpretativo interno, rimetterne la risoluzione all’Adunanza plenaria.
16.1. Il Collegio (alla luce anche delle indicazioni “di metodo” già esplicitate, proprio su analoga vicenda, dalla sentenza n. 19 del 2016 dell’Adunanza plenaria) ritiene di optare per l’ultima delle soluzioni indicate. Il tempestivo intervento dell’Adunanza plenaria potrebbe sortire il duplice positivo effetto, da un lato, di risolvere in via preventiva i dubbi di compatibilità comunitaria sottesi alla questione pregiudiziale di cui si è dato atto, e, dall’altro, di superare la “causa ostativa” che ha già determinato (e potrebbe ancora determinare) la sospensione ex art. 79, comma 1, c.p.a. di diversi giudizi amministrativi pendenti anche in grado di appello. La scelta di rimettere la questione all’Adunanza plenaria soddisfa, inoltre, un’esigenza di economia processuale, se si tiene conto della concreta possibilità di una pronuncia in tempi più brevi rispetto a quelli occorrenti per la definizione della questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia.
17. Tornando al merito della questione oggetto di contrasto, il Collegio sottopone all’Adunanza plenaria le ulteriori seguenti considerazioni.
18. Nel vigore del precedente Codice dei contratti pubblici, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 19 del 2016 aveva chiarito che gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento essenziale dell’offerta (la cui mancanza è in grado di ingenerare una situazione di insanabile incertezza assoluta sul suo contenuto) solo nel caso in cui si contesta al concorrente di avere formulato un’offerta economica senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento degli obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa ipotesi, secondo l’Adunanza plenaria vi è incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una modifica sostanziale del “prezzo” (perché andrebbe aggiunto l’importo corrispondente agli oneri di sicurezza inizialmente non computati).
Laddove, invece, non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, ma si contesta soltanto che questa non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma solo formale.
In questo caso, ha precisato la citata sentenza n. 19 del 2016, il soccorso istruttorio è doveroso, perché esso non si traduce in una modifica sostanziale del contenuto dell’offerta, ma solo nella specificazione formale di una voce che, pur considerata nel prezzo finale, non è stata indicata dettagliatamente.
19. Sebbene l’Adunanza plenaria n. 19 del 2016 abbia circoscritto la portata del principio enunciato alle gare bandite nel vigore del D.Lgs. n. 163 del 2006, dichiarando espressamente di prescindere –perché il tema non era oggetto del contendere e la relativa norma non era applicabile ratione temporis– dagli effetti derivanti dal nuovo Codice, non può, tuttavia, non evidenziarsi che l’ampia formulazione dell’art. 80, comma 9, del D.Lgs. n. 50/2016 (che ammette il soccorso istruttorio con riferimento a “qualsiasi elemento formale della domanda”) sembra consentire, anche nella vigenza del nuovo Codice, di sanare l’offerta che sia viziata solo per la mancata formale indicazione separata degli oneri di sicurezza.
20. Sotto tale profilo, invero, la circostanza che, oggi, l’art. 95, comma 10, D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, abbia esplicitato che sussiste per l’operatore economico l’obbligo di indicare in sede di offerta i propri costi per la manodopera e gli oneri di sicurezza aziendali non sembra rappresentare elemento di novità di per sé sufficiente a determinare il superamento del principio di diritto enunciato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 19 del 2016. Non va, infatti, dimenticato che anche nel vigore del previgente Codice, l’Adunanza plenaria aveva già desunto (v. in particolare sentenza n. 3 del 2015) l’esistenza di un obbligo normativo operante in tutte le gare d’appalto (ivi comprese quelle di lavori) di indicare, a pena di esclusione, gli oneri di sicurezza, precisando, altresì, che pur nel silenzio della lex specialis, tale obbligo dichiarativo eterointegrava il bando di gara.
Sotto tale profilo, l’art. 95, comma 10, D.Lgs. n. 50 del 2016 si è limitato a rende esplicito un obbligo dichiarativo che nel precedente sistema si ricavava, comunque, implicitamente dal tessuto normativo. Non pare, tuttavia, che tale espressa previsione normativa concernente l’obbligo di indicare i costi di sicurezza aziendale sia un elemento di novità di per sé in grado di escludere l’operatività del soccorso istruttorio, il quale, peraltro, nel passaggio dal vecchio al nuovo codice (specie con le ulteriori modifiche apportate in sede di correttivo: d.lgs. n. 56 del 2017) è stato persino potenziato (attraverso la generalizzazione del principio di gratuità e l’eliminazione dell’ambigua categoria delle c.d. irregolarità non essenziali).
21. Non sembra neanche che possa essere messo in discussione che l’indicazione degli oneri di sicurezza sia un obbligo previsto dalla legge a pena di esclusione e che, alla luce del chiaro tenore testuale della previsione ora contenuta nell’art. 95, comma 10, cit., il relativo obbligo dichiarativo sia capace di eterointegrare il bando pur nel silenzio della lex specialis. L’ammissibilità di un fenomeno di eterointegrazione del bando, specie da parte di norme legislative di contenuto univoco, è stato già chiaramente riconosciuto in più occasioni dalla stessa Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 9 del 2014, richiamata e condivisa dalle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 e n. 19 del 2016) e, anche rispetto a tale profilo, non sembra che il nuovo Codice contenga elementi di novità capaci di sovvertire tale conclusione.
L’eterointegrazione (e prima ancora la portata potenzialmente escludente dell’obbligo dichiarativo di cui si discute) non appare, tuttavia, argomento sufficiente ad escludere l’operatività del soccorso istruttorio, ma, anzi, ne costituisce il presupposto applicativo. Il soccorso istruttorio, invero, opera proprio (od ormai solo) per le c.d. irregolarità essenziali: cioè le inosservanze dichiarative e documentali richieste a pena di esclusione.
22. L’esclusione del soccorso istruttorio per la mancata indicazione degli oneri di sicurezza potrebbe semmai essere argomentata diversamente, ovvero ritenendo che gli oneri di sicurezza rappresentino (sempre e comunque) non un elemento formale dell’offerta, ma un elemento sostanziale della stessa, con la conseguenza che l’indicazione postuma attraverso il soccorso istruttorio consentirebbe al concorrente di determinare una (senz’altro inammissibile) modifica ex post dell’offerta.
Sotto tale profilo, tuttavia, l’incondizionata qualificazione degli oneri di sicurezza in termini di elemento sostanziale dell’offerta si porrebbe in contrasto con quanto precisato dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 19 del 2016, la quale, come si è già ricordato, aveva espressamente specificato (cfr. par. 35 della motivazione) che: “gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento essenziale dell’offerta (la cui mancanza è in grado di ingenerare una situazione di insanabile incertezza assoluta sul suo contenuto) solo nel caso in cui si contesta al concorrente di avere formulato un’offerta economica senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa ipotesi, vi è certamente incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una modifica sostanziale del “prezzo” (perché andrebbe aggiunto l’importo corrispondente agli oneri di sicurezza inizialmente non computati). Laddove, invece, (come avviene nel caso oggetto del presente giudizio), non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, ma si contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma solo formale”.
23. Applicando il principio di diritto appena richiamato, la qualificazione dell’omessa indicazione degli oneri di sicurezza in termini di elemento formale dell’offerta (nel caso in cui essi siano stati considerati ai fini del prezzo ed inglobati in esso) imporrebbe, quindi, di consentire il soccorso istruttorio a prescindere dalla circostanza, che di per sé non appare dirimente alla luce dell’esistenza di un pacifico principio di eterointegrazione, che la lex specialis abbia richiamato o meno il relativo obbligo dichiarativo.
Proprio tale rilievo apre ad una opzione esegetica che in parte differisce anche da quella accolta dalla III Sezione di questo Consiglio di Stato nella già citata sentenza n. 2554 del 2018, o da quella sottesa alla questione pregiudiziale attualmente al vaglio della Corte di giustizia, nelle quali, invece, sembra attribuirsi rilievo dirimente, ai fini di ammettere o negare il soccorso istruttorio, proprio a questo dato formale (ovvero il richiamo o meno nella lex specialis del relativo obbligo dichiarativo).
Conclusione che sembra, tuttavia, contraddire, o, comunque, attenuare, la portata del principio di etero-integrazione, che la stessa giurisprudenza dell’Adunanza plenaria ha in più occasioni ritenuto operante, specie se l’obbligo legislativo risulta puntuale e univoco (come, puntuale e univoco appare essere, appunto, quello previsto dall’art. 95, comma 10, D.Lgs. n. 50 del 2016).
24. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Collegio ritiene, pertanto, di sottoporre, ai sensi dell’art. 99, comma 1 Cod. proc. amm., all’Adunanza plenaria le seguenti questioni di diritto, oggetto di contrasti giurisprudenziali: “
1) Se, per le gare bandite nella vigenza del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, la mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza aziendale determini immediatamente e incondizionatamente l’esclusione del concorrente, senza possibilità di soccorso istruttorio, anche quando non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, né vengono in rilievo profili di anomalia dell’offerta, ma si contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri.
2) Se, ai fini della eventuale operatività del soccorso istruttorio, assuma rilevanza la circostanza che la lex specialis richiami espressamente l’obbligo di dichiarare gli oneri di sicurezza
”.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 26.10.2018 n. 6122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGare, accesso difensivo solo se è indispensabile. Tutela di segreti industriai da provare.
In una gara d'appalto chi, per la tutela di segreti tecnici o commerciali, esercita il cosiddetto «accesso difensivo» sugli atti di gara, deve dimostrare la diretta strumentalità del diniego di divulgazione.

Lo ha affermato il Consiglio di stato, sezione terza, con la sentenza 26.10.2018 n. 6083 che tratta la tematica dell'accesso difensivo (divieto di divulgare atti di gara che potrebbero essere oggetto di riservatezza).
I giudici hanno ricordato che, in particolare, in tema di diritto all'accesso alle offerte le norme del codice, nell'individuare un punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza e trasparenza, fanno prevalere le ovvie esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo un vero e proprio divieto di divulgazione.
Tale divieto viene poi superato ripristinando la fisiologica dinamica dell'accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per «le informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali».
Il punto è quindi come contemperare la contrapposizione degli interessi, tema per il quale i giudici hanno precisato che occorre fare riferimento al parametro della «stretta indispensabilità» (previsto all'art. 24, comma 7, secondo periodo, della legge 241/1990) contemplato come idoneo a giustificare la prevalenza dell'interesse di una parte, mossa dall'esigenza di «curare o difendere propri interessi giuridici» rispetto all'interesse di un'altra parte, altrettanto mossa dall'esigenza di curare o difendere interessi giuridici legati ai dati sensibili che la riguardano e che possono essere contenuti nella documentazione chiesta in sede di accesso.
Pertanto, nel quadro del bilanciamento tra il diritto alla tutela dei segreti industriali ed il diritto all'esercizio del cosiddetto «accesso difensivo» ai documenti della gara cui l'impresa richiedente l'accesso ha partecipato, per i giudici risulta necessario l'accertamento dell'eventuale nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell'istanza di accesso e le censure formulate.
In tali casi, infine, l'onere della prova del nesso di strumentalità incombe, secondo i principi generali del processo, su chi agisce
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).
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MASSIMA
2.1. Il ragionamento fatto dal giudice di primo grado non appare condivisibile.
Quanto alla portata della nuova disciplina ex D.LGS. n. 50/2016 in tema di diritto all’accesso alle offerte nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, la recente giurisprudenza ha avuto modo di osservare (vedi CdS, sez. III, n. 1213/2017, citata dalla stessa appellata) che, in via di principio, “
Un punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza e trasparenza nell'ambito delle procedure di evidenza pubblica finalizzata alla stipula di contratti di appalto si rinviene nella disciplina di settore dettata dal dlgs 50/2016, la quale fa prevalere le ovvie esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo un vero e proprio divieto di divulgazione, salvo ripristinare la fisiologica dinamica dell'accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per "le informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali".
Inoltre questo giudice di appello ha precisato che (vedi CdS. Sez. V. 1692/2017)
Lo strumento attraverso il quale contemperare in concreto la contrapposizione di interessi innanzi detta è costituito -ad avviso del Collegio- dal parametro della "stretta indispensabilità" di cui all'art. 24, co. 7, secondo periodo, della l. n. 241/1990 giacché esso è quello che, proprio a livello legislativo, viene contemplato come idoneo a giustificare la prevalenza dell'interesse di una parte -mossa dall'esigenza di "curare o difendere propri interessi giuridici"- rispetto all'interesse di un'altra parte, altrettanto mossa dall'esigenza di "curare o difendere propri interessi giuridici" legati ai dati sensibili che la riguardano e che possono essere contenuti nella documentazione chiesta in sede di accesso”.
2.2. Pertanto, alla luce dei riportati principi generali, in primo luogo (come già rappresentato da questa Sezione nell’ordinanza cautelare n. 3686/2017), nel caso di specie,
nel quadro del bilanciamento tra il diritto alla tutela dei segreti industriali ed il diritto all’esercizio del c.d. “accesso difensivo” (ai documenti della gara cui l’impresa richiedente l’accesso ha partecipato), risulta necessario l’accertamento dell’eventuale nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell’istanza di accesso e le censure formulate.
Sotto diverso, ma speculare aspetto, inoltre, l’onere della prova del suddetto nesso di strumentalità incombe, secondo i principi generali del processo, su chi agisce.
2.2.1. In particolare il Collegio, pur volendo tener conto del fatto che l’art. 53 del D.LGS. n. 50/2016 (nelle procedure ad evidenza pubblica) consente l’accesso al concorrente che lo chieda per la difesa in giudizio dei propri interessi, tuttavia non ritiene condivisibile l’iter argomentativo del giudice di primo grado con specifico riferimento sia alla mancata verifica della sussistenza in capo alla istante ricorrente dell’interesse a ricorrere (almeno mediante l’esito positivo della cd “prova di resistenza”) sia alla circostanza che, di fatto, l’onere della prova risulta posto a carico dell’aggiudicataria, avendo la sentenza impugnata evidenziato come “l’invocato segreto commerciale non risulti provato”.
2.3. Infatti (ad avviso del Collegio)
il rispetto della disciplina di cui al citato art. 53 del D.LGS. n. 50/2016 in relazione all’interesse a ricorrere (di cui all’art. 35 cpa ed all’art. 100 cpc) avrebbe comportato un accurato controllo in ordine alla effettiva utilità della documentazione richiesta ed, in conseguenza, il necessario preliminare espletamento della cd prova di resistenza nei confronti dell’offerta della ricorrente, allo specifico fine di verificare la sussistenza del concreto nesso di strumentalità tra la documentazione oggetto dell’istanza di accesso e la tutela difesa in giudizio degli interessi della stessa impresa ricorrente, quale partecipante alla procedura di gara pubblica il cui esito è controverso.

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce ius receptum il principio secondo cui la cessione di cubatura o asservimento è un istituto utilizzabile in sede di rilascio di permesso di costruire, in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire solo tra fondi contigui, necessariamente compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa destinazione urbanistica.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo condivisibilmente chiarito che i fondi oggetto di computo “… devono essere contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre, comunque, una effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti”.
In termini analoghi, si è chiarito che: “Il presupposto logico dell'asservimento dev'essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (per come configurato negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso infatti che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto. Ne deriva che è certamente consentito computare la superficie di un lotto vicino, ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile in quello asservito, sul rilievo della indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto che l'interesse dell'amministrazione si appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi realizzabili nell'area di riferimento e, cioè, dell'indice di fabbricabilità fondiaria”.
Dunque, ai fini dell’asservimento, non è richiesta la materiale adiacenza dei fondi in esame, essendo invece condizione necessaria e sufficiente la loro contiguità (ossia vicinanza), nonché la loro insistenza nella medesima zona urbanistica, con relativa, identica destinazione urbanistica.
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2. Con un unico, articolato motivo di gravame, deduce la ricorrente l’illegittimità dell’atto impugnato, in quanto adottato sul falso presupposto della non computabilità –al fine del raggiungimento del lotto minimo pari a 5.000 mq– della volumetria dei suoli di sua proprietà, trattandosi di suoli non adiacenti, ma separati da una via.
Le censure sono fondate.
2.2. Costituisce ius receptum il principio secondo cui la cessione di cubatura o asservimento è un istituto utilizzabile in sede di rilascio di permesso di costruire, in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire solo tra fondi contigui, necessariamente compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa destinazione urbanistica (cfr. TAR Sicilia, III, 01.06.2018, n. 1254).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo condivisibilmente chiarito che i fondi oggetto di computo “… devono essere contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre, comunque, una effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti” (TAR Salerno, II, 19.07.2016, n. 1675).
In termini analoghi, si è chiarito che: “Il presupposto logico dell'asservimento dev'essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (per come configurato negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso infatti che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli edifici all'interno del comparto. Ne deriva che è certamente consentito computare la superficie di un lotto vicino, ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile in quello asservito, sul rilievo della indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto che l'interesse dell'amministrazione si appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi realizzabili nell'area di riferimento e, cioè, dell'indice di fabbricabilità fondiaria” (TAR Catania, I, 01.02.2016, n. 328).
2.3. Dunque, ai fini dell’asservimento, non è richiesta la materiale adiacenza dei fondi in esame, essendo invece condizione necessaria e sufficiente la loro contiguità (ossia vicinanza), nonché la loro insistenza nella medesima zona urbanistica, con relativa, identica destinazione urbanistica (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 26.10.2018 n. 1594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gara di appalto - Requisiti soggettivi - Dichiarazione richiesta ai partecipanti - Falsa attestazione - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falsità ideologica in atto pubblico - Elementi del dolo generico - Volontarietà e consapevolezza - Fraudolenza del silenzio serbato - Fattispecie: condanna ai sensi dell'art. 444 cod. pen. e recante il beneficio della non menzione sul certificato del casellario giudiziale.
In tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione.
Nella specie, il contenuto della dichiarazione richiesta ai partecipanti alla gara di appalto era analiticamente scandito, quanto alla descrizione dei reati per i quali l'interessato non doveva essere stato condannato, neppure con sentenza pronunciata si sensi dell'art. 444 cod. pen. e recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il ricorrente a dichiarare il vero: ciò a maggior ragione perché questi era dotato di sufficienti strumenti culturali per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima di rendere l'attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto verificare se le condanne riportate -delle quali egli era del tutto consapevole avendo presentato istanza di riabilitazione- fossero o meno tra quelle elencate nella clausola del bando.
Approfittando della circostanza che le risultanze del certificato del casellario giudiziale tacessero delle condanne subite per i delitti di bancarotta fraudolenta continuata e per il delitto di corruzione in concorso per atto contrario ai doveri dell'ufficio -confidando nel fatto che, a causa di ciò, gli eventuali controlli attivati dalla stazione appaltante a seguito della dichiarazioni resa non avrebbero sortito alcun effetto-, un'implicita esclusione della particolare tenuità del fatto in ragione delle peculiari modalità della condotta, caratterizzata dalla fraudolenza del silenzio serbato
(Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 25.10.2018 n. 48898 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Area destinata a campeggio - Stabile collocazione di più manufatti di pernottamento astrattamente mobili - Artt. 3, 30, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza - Differenza mero abuso edilizio e lottizzazione abusiva - Illegittima trasformazione urbanistica o edilizia del territorio - Rilevante impatto negativo sull'assetto territoriale - Fattispecie: piazzole sormontate da tende.
Anche a seguito della legge 28.12.2015, n. 221, la stabile collocazione, in un'area destinata a campeggio, di più manufatti di pernottamento, astrattamente mobili, può risolversi nella realizzazione, ad opera del gestore dell'area, di uno stabile insediamento abitativo, che comporta il sostanziale stravolgimento dell'originario assetto definito mediante pianificazione, e, dunque, una forma di lottizzazione abusiva (Sez. 4, n. 13496 del 15/02/2017, Chiesa), ma soltanto se la struttura ricettiva presenti le caratteristiche di uno stabile insediamento residenziale (Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, che ha ritenuto penalmente rilevante la realizzazione di 270 piazzole delimitate da recinzioni, pavimentazioni ed altre opere permanenti in grado di formare con le roulottes singole unità abitative).
Il reato di lottizzazione abusiva può cioè essere integrato anche dalla realizzazione di un campeggio, pur se autorizzato, qualora l'area destinata ad esso venga radicalmente mutata per la presenza di opere stabili, strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le caratteristiche originarie (Sez. 3, n. 29731 del 04/06/2013, Soldera e a.) con rilevante impatto negativo sull'assetto territoriale (Sez. F, n. 31921 del 24/07/2012, Spaccialbelli, relativa a fattispecie concernente la realizzazione di novanta piazzole di sosta e quarantatre strutture abitative in ferro e plastica ancorate stabilmente al terreno e servite da rete idrica).
Nella specie, il ricorrente non allega come le dieci piazzole sormontate da tende oggetto di contestazione -che il provvedimento impugnato riferisce essere state prese a noleggio e, al momento del sopralluogo dei Carabinieri, essere state trovate chiuse, inutilizzate e con forniture elettriche e idriche disattivate, sì da escludere uno stabile insediamento- possano integrare gli estremi dell'elemento costitutivo del reato di lottizzazione abusiva, per la cui sussistenza, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull'assetto urbanistico della zona
(Sez. 3, n. 44946 del 25/01/2017, Giacobone) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2018 n. 48845 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione - Mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione - Configurabilità del reato - Caratterizzata da assoluta occasionalità - Possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante - Deroga Artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216, 256 e 266, d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il reato di cui all'art. 256, comma primo, del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che sanziona le attività di gestione compiute in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo D.Lgs. è configurabile nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, salva l'applicabilità della deroga di cui al comma quinto dell'art. 266 del D.Lgs. 152 del 2006, per la cui operatività occorre che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Cass. Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep. 08/01/2015, P.M. in proc. Seferovic) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 25.10.2018 n. 48719 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: AGRICOLTURA - RIFIUTI - Scarti vegetali utilizzati in agricoltura - Processi e metodi costituenti le normali pratiche agronomiche - Eliminazione mediante incenerimento - Gestione dei rifiuti - Esclusione - Incenerimento di residui vegetali e applicabilità della disciplina sui rifiuti - Eccezione - Artt. 182, 185, 256 e 256-bis d.lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, gli scarti vegetali non sono classificabili come rifiuti, se utilizzati in agricoltura mediante processi e metodi costituenti le normali pratiche agronomiche disciplinate dagli artt. 182, comma 6-bis, e 185, comma primo, lett. f), del citato d.lgs. n. 152 del 2006, sicché la loro eliminazione mediante incenerimento, in piccoli cumuli ed in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro, non integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma primo, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, né quello di combustione illecita di rifiuti di cui all'art. 256-bis del medesimo decreto legislativo (Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese).
Vero è, peraltro, che l'incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma primo, lett. a), d.lgs. 03.04.2006 n. 152 (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini).
Fattispecie: rigetto della richiesta richiesta di sequestro preventivo di cumuli di fogliame.

...
RIFIUTI - AGRICOLTURA - Combustione di residui vegetali agricoli e forestali - Attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli - Non integrano alcun illecito e non costituiscono smaltimento di rifiuti in senso tecnico-legislativo - INCENDI BOSCHIVI - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Combustioni e facoltà di sospendere, differire o vietare - Periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi o in presenza di condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli dei materiali vegetali agricoli e forestali di cui all’art. 185, comma 1, lettera f), effettuate con le modalità ed alle condizioni indicate dall'art. 182, comma 6-bis non rientrano tra le attività di gestione dei rifiuti, non costituendo smaltimento, e non integrano alcun illecito.
La norma pone una serie di condizioni che riguardano, nell'ordine:
   1) la tipologia dell'attività (raggruppamento e abbruciamento);
   2) la quantità di materiale (piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro);
   3) la tipologia dei materiali (materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f);
   4) il luogo in cui l'attività descritta deve svolgersi (luogo di produzione).
Concorrendo tutte queste condizioni, le attività descritte non rientrano nell'ampia nozione di gestione e si ritiene costituiscano "normali pratiche agricole", consentite, però, "per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti", ponendosi, così, un'ulteriore condizione per l'operatività della deroga. Tuttavia, nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.
I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".

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RIFIUTI - Combustione di materiali vegetali - Norme aventi natura eccezionale e derogatoria - Onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge - Assolto da chi ne richiede l'applicazione - Giurisprudenza.
L'eventuale applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione (Cass. Sez. 3, n. 5504 cit.; Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello; amplius, su tutti i profili richiamati, Sez. 3, n. 38658 del 15/06/2017, Pizzo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.10.2018 n. 48397 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici - Ignoranza del vincolo paesaggistico - Elemento psicologico del reato paesaggistico - Art. 181, c. 1°, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di violazioni delle disposizioni inerenti i beni culturali e ambientali, l'elemento psicologico del reato previsto dall'art. 181, comma primo, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (che punisce chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici) non è escluso dall'ignoranza del vincolo paesaggistico, trattandosi di reato contravvenzionale punibile anche a titolo di colpa, ravvisabile nel non aver ottemperato al dovere di informarsi presso la P.A. prima di intraprendere un'attività rigorosamente disciplinata dalla legge (Sez. 3, n. 14033 del 10/03/2011, Antelmi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.10.2018 n. 48391 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso - Varie fattispecie di violazioni - Mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore - Disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone - RISARCIMENTO DEL DANNO - Risarcimento del danno in favore della costituita parte civile - Art. 659, cod. pen. - L. n. 447/1995 - D.P.C.M. 01/03/1991 - Legge n. 689/1981 - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento acustico, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso può integrare:
   a) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia;
   b) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
   c) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relative ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
(Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè).
Inoltre, il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 01.03.1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall'art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l'inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all'art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all'illecito amministrativo previsto dall'art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995
(Sez. 3, n. 15919 del 08/04/2015, dep. 2016, Varagnolo).
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumore - Esercizio di professione o mestiere rumoroso - Legge quadro sull'inquinamento acustico e reato di cui all'art. 659, c. 2, cod. pen. - Differenze e configurabilità delle violazioni.
Con riferimento ai rapporti intercorrenti tra l'ipotesi contravvenzionale delineata al comma 2 dell'art. 659 cod. pen. e l'ipotesi di cui alla legge n. 447 del 1995, art. 10, comma 2, (legge quadro sull'inquinamento acustico), è stato affermato con plurime pronunce che nel caso di esercizio di professione o mestiere rumoroso in spregio alle disposizioni della legge ovvero alle prescrizioni dell'Autorità, la lesione del bene giuridico protetto (quiete e tranquillità pubblica) comune all'art. 659, comma 2, cod. pen. ed all'art. 10 della legge 447/1995, è presunta ope legis ed "è racchiusa, per intero, nel precetto della disposizione codicistica, che tuttavia cede, di fronte alla configurazione dello speciale illecito amministrativo previsto dall'art. 10 suddetto, qualora l'inquinamento acustico si concretizzi nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia" (così Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino) (Corte di Cassazione, Sez. III penae, sentenza 24.10.2018 n. 48370 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALILa convocazione del consiglio comunale va fatta alla casella Pec assegnata.
Il Consiglio d Stato, Sez. V, sentenza 24.10.2018 n. 6042, ha stabilito che una volta assegnata ai Consiglieri una specifica Pec essa rimane valida, per le finalità di convocazione del Consiglio comunale anche per le successive consiliature, non essendovi disposizioni che stabiliscono una decadenza di validità dell’assegnazione di Pec o della casella stessa, ovvero un obbligo di riassegnazione ad ogni successiva consiliatura, il che confliggerebbe, peraltro, con il principio di economicità e di efficienza che deve presiedere l’azione amministrativa.
Il fatto
I Consiglieri di minoranza di una Comune del sud Sardegna impugnarono dinanzi al locale Tribunale amministrativo la delibera di approvazione del rendiconto della gestione per l’anno 2016, affermando di non aver avuto tempestiva comunicazione del deposito - presso l’ufficio di Segreteria - degli atti e dei documenti previsti per legge a corredo del consuntivo ovvero di non aver ricevuto l’avviso di convocazione della seduta consiliare e, comunque, di non aver avuto a disposizione il tempo minimo previsto da legge e regolamento per l’esame degli atti.
Il Giudice del Capoluogo sardo, adito in primo grado, ha rigettato il ricorso sostenendo corretto il deposito e l’invio della convocazione dell’assise comunale effettuata con posta elettronica certifica presso le caselle Pec assegnate ai Consiglieri.
Il Consiglio di Stato con la decisione in rassegna conferma quanto deciso dal Tar.
La decisione
Il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto giuridico della presenza di una norma regolamentare vigente all’interno dell’Amministrazione comunale, che stabilisce che la notifica ai Consiglieri dell’avviso di convocazione, in assenza di specifiche richieste, avviene a mezzo Pec, ha espresso un sostanziale principio di diritto, secondo cui la casella Pec una volta assegnata vale anche per le consiliature successive, tenuto conto che ben 4 appellanti erano Consiglieri confermati all’esito dell’ultima tornata elettorale.
Inoltre, il Giudice di appello affermando la validità della casella Pec ha, di conseguenza, ritenuto che i ricorrenti erano a conoscenza sia dell’avvenuto deposito degli atti e sia della relativa convocazione della seduta consiliare per l’approvazione del rendiconto. Per quanto riguarda la conoscibilità degli atti comunicati via Pec, il Collegio ha ricordato che l’articolo 48 del Codice dell'amministrazione digitale equipara la trasmissione del documento informatico per via telematica alla notificazione per mezzo della posta.
L’inoltro ad una Pec assicura l'assoluta affidabilità, in ordine all'indirizzo del mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e all'avvenuto recapito del messaggio.
Conclusioni
La sentenza è di pregio giuridico perché conferma l’assoluta equivalenza tra notificazione cartacea e comunicazione via Pec (digitale) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018).

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MASSIMA
4. Il punto di fondo è costituito dalla vigente delibera 14.09.2012 n. 44, peraltro adottata dal precedente Consiglio con la partecipazione di 4 degli attuali appellanti, che ha integrato il “Regolamento del Consiglio Comunale”, modificando in particolare l’art. 22, riguardante la “notifica ai Consiglieri” che espressamente stabilisce che, in assenza di specifiche richieste, l’avviso di convocazione avviene a mezzo PEC.
Pertanto, viene disposto che “l’Ente fornisce ciascun consigliere, se sprovvisto, di una casella di posta elettronica certificata. (...) Il corretto invio della convocazione risulta dal messaggio della ricevuta di accettazione”.
Nel caso di specie è stato documentalmente provato, ed è nei fatti incontestato, che sia l’avviso di deposito degli atti, sia la convocazione per la seduta del Consiglio, sono stati comunicati ai ricorrenti via PEC in data 10.07.2017: gli attuali appellanti avevano le caselle PEC, proprio quelle loro assegnate dal Comune, che conservava i relativi indirizzi sin dalla precedente consiliatura.
La contestazione secondo cui le caselle di PEC sarebbero stati assegnati solo per quella legislatura, e quindi non valgano per la successiva, anche se i destinatari vengano rieletti, pur trattandosi di un motivo non proposto, è comunque infondata.
Infatti, una volta assegnata ai consiglieri una specifica PEC essa rimane valida, per l finalità di cui al regolamento citato anche per le successive consiliature, non essendovi (né essendo state indicate) disposizioni che stabiliscono una decadenza di validità dell’assegnazione di PEC o della casella stessa, ovvero un obbligo di riassegnazione ad ogni successiva consiliatura, il che confliggerebbe, peraltro, con il principio di economicità e di efficienza che deve presiedere l’azione amministrativa.

5. Per quanto riguarda la conoscibilità degli atti comunicati via PEC, deve ricordarsi che l’art. 48 d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale) equipara la trasmissione del documento informatico per via telematica alla notificazione per mezzo della posta.
Come ha affermato, per quanto riguarda il versante processuale, ma con considerazioni estensibili per ogni comunicazione via PEC, Cons. Stato, Ad. plen., 10.12.2014, n. 33,
l’inoltro ad una PEC assicura “l'assoluta affidabilità, in ordine all'indirizzo del mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e all'avvenuto recapito del messaggio”.
Pertanto, è confermata l’assoluta equivalenza tra notificazione cartacea e comunicazione via PEC (digitale).

6. Gli appellanti affermano che le PEC assegnate dal Comune equivarrebbero al domicilio speciale disciplinato dall’art. 47 Cod. civ.; pertanto l’Amministrazione avrebbe potuto comunicare gli avvisi ai consiglieri soltanto se ci fosse stata una espressa indicazione in tal senso per iscritto da parte degli stessi.
L’assunto non è fondato: la citata norma regolamentare concede esclusivamente all’interessato di scegliere uno specifico domicilio per “determinati atti o affari”; opzione di cui gli appellanti non si sono avvalsi.
In assenza di scelta, sopravviene la regola, applicata nel caso di specie, della notifica presso la PEC assegnata dall’Amministrazione, come è avvenuta nel caso concreto.
7. Gli appellanti hanno inoltre sostenuto che le caselle a cui sono state inviate le notifiche per cui è causa risultano appartenere ad un dominio (“comune.carloforte.ca.it”), il cui amministratore è il sindaco.
Le medesime caselle, appartenendo a quel dominio, sono nella titolarità dell’ente e non sono, quindi, nella disponibilità di soggetti diversi, come gli odierni appellanti.
Fermo restando che tale motivo non risulta dedotto in primo grado e, dunque dovrebbe ritenersi inammissibile, nel merito è anche infondato poiché il Sindaco non ha certo la possibilità di controllare le PEC istituzionali dei consiglieri, e non conosce le password che questi scelgono, mentre l’appartenenza del dominio non incide sull’assegnazione e sulla disponibilità della casella di posta elettronica, come è noto, in base ai principi generali di funzionamento tecnologico delle mail elettroniche.
Quanto alle considerazioni svolte sulla dottoressa Ci., per la quale si sostiene che la stessa è provvista di una casella PEC risultante dai pubblici registri, si deve ritenere che tale censura, ancorché inammissibile per difetto di formulazione in primo grado, è altresì infondata, poiché la circostanza dedotta può incidere per quanto riguarda l’ordinamento processuale, ma non incide ai fini delle comunicazioni previste dalla delibera regolamentare già citata per quanto riguarda le comunicazioni relative all’attività del Consiglio comunale.
8. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto, in quanto infondato (Consiglio d Stato, Sez. V, sentenza 24.10.2018 n. 6042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Rapporti tra atti di pianificazione del territorio e principio del maggior dettaglio.
Il modello delineato dalla legislazione regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non siano gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettino una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio.
Pertanto, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal PTR e dunque dal Piano paesaggistico regionale, ben può il PTCP introdurre ulteriori disposizioni destinate a prevalere anche per aree che non siano state direttamente e specificamente individuate dal P.T.R..
Sussiste quindi, in relazione agli atti di pianificazione del territorio della Regione Lombardia, una disciplina positiva del c.d. principio di maggior dettaglio o di maggior definizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 23.10.2018 n. 2377 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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La L.r. 11.03.2005, n. 12, recante “Legge per il governo del territorio”, stabilisce all’art. 19, comma 1 – rubricato “Oggetto e contenuti del piano territoriale regionale”: “Il piano territoriale regionale, di seguito denominato PTR, costituisce atto fondamentale di indirizzo, agli effetti territoriali, della programmazione di settore della Regione, nonché di orientamento della programmazione e pianificazione territoriale dei comuni e delle province. La Regione con il PTR, sulla base dei contenuti del programma regionale di sviluppo e della propria programmazione generale e di settore, indica gli elementi essenziali del proprio assetto territoriale e definisce altresì, in coerenza con quest’ultimo, i criteri e gli indirizzi per la redazione degli atti di programmazione territoriale di province e comuni. Il PTR ha natura ed effetti di piano territoriale paesaggistico ai sensi della vigente legislazione e a tal fine ha i contenuti e l’efficacia di cui agli articoli 76 e 77”.
Il successivo art. 20 della medesima legge regionale, rubricato “Effetti del piano territoriale regionale. Piano territoriale regionale d’area”, stabilisce che “Il PTR costituisce quadro di riferimento per la valutazione di compatibilità degli atti di governo del territorio di comuni, province, comunità montane, enti gestori di parchi regionali, nonché di ogni altro ente dotato di competenze in materia. Contiene prescrizioni di carattere orientativo per la programmazione regionale di settore e ne definisce gli indirizzi tenendo conto dei limiti derivanti dagli atti di programmazione dell’ordinamento statale e di quello comunitario”.
La L.r. 30.11.1983, n. 86 recante “Piano regionale delle aree regionali protette. Norme per l'istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale”, all’art. 3-ter, rubricato “Rete ecologica regionale”, stabilisce che: “1. La Rete ecologica regionale (RER) è costituita dalle aree di cui all'articolo 2 e dalle aree, con valenza ecologica, di collegamento tra le medesime che, sebbene esterne alle aree protette regionali e ai siti della Rete Natura 2000, per la loro struttura lineare e continua o il loro ruolo di collegamento ecologico, sono funzionali alla distribuzione geografica, allo scambio genetico di specie vegetali e animali e alla conservazione di popolazioni vitali ed è individuata nel piano territoriale regionale (PTR).
2. La Giunta regionale formula criteri per la gestione e la manutenzione della RER, in modo da garantire il mantenimento della biodiversità, anche prevedendo idonee forme di compensazione.
3. Le province controllano, in sede di verifica di compatibilità dei piani di governo del territorio (PGT) e delle loro varianti, l'applicazione dei criteri di cui al comma 2 e, tenendo conto della strategicità degli elementi della RER nello specifico contesto in esame, possono introdurre prescrizioni vincolanti.
4. La RER è definita nei piani territoriali regionali d'area, nei piani territoriali di coordinamento provinciali, nei piani di governo del territorio comunali e nei piani territoriali dei parchi
.”
Il modello delineato dalla legislazione regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non siano gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettino una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio (cfr. Tar Lombardia – Milano sez. II 15.12.2017, n. 2393).
Pertanto nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti dal PTR e dunque dal Piano paesaggistico regionale, ben può il PTCP introdurre ulteriori disposizioni destinate a prevalere anche per aree che non siano state direttamente e specificamente individuate dal P.T.R. (TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1474).
Sussiste, in relazione agli atti di pianificazione del territorio della Regione Lombardia, una disciplina positiva del c.d. principio di maggior dettaglio o di maggior definizione cui fa riferimento la giurisprudenza richiamata.
La normativa allegata al Piano Paesaggistico regionale, approvato nel 2010, in applicazione dell'art. 19 della l.r. 12 del 2005, consultabile sul sito internet della Regione Lombardia, prevede all’art. 4 (rubricato “Rapporti tra gli atti costituenti il Piano del Paesaggio”) quanto segue: “1. I rapporti tra gli atti costituenti il Piano del Paesaggio si basano su due principi: gerarchico e di maggiore definizione.
2. In base al principio gerarchico, l’atto sottordinato non può sovvertire gli indirizzi e le strategie di quelli sovraordinati.
3. In base al principio di maggior definizione, le previsioni dell’atto più definito, approvato nel rispetto del principio gerarchico, sostituiscono a tutti gli effetti quelle degli atti sovraordinati
”.
Prevede inoltre il comma 2 dell’art. 6 che “In presenza di strumenti a specifica valenza paesaggistica di maggiore definizione, di cui all'articolo 3, tali strumenti dal momento della loro entrata in vigore definiscono la disciplina paesaggistica del territorio ivi considerato”.
Peraltro l’affermazione contenuta nella relazione del Commissario della Regione prodotta a seguito dell’ordinanza presidenziale n. 562/2018 è coerente con i principi sopra evidenziati e chiara nella sua portata, che non potrà che vincolare la Regione stessa. Ha dichiarato infatti il Commissario che “dal momento che la modifica che sta per essere apportata al PTCP della Provincia di Monza – Brianza [ormai già approvata] assume carattere prevalente rispetto a quanto individuato nella cartografia regionale della RER, la Regione non ritiene di dover intervenire sulla cartografia di competenza.
Si sottolinea inoltre che sull’area di interesse, a seguito della modifica operata dalla Provincia, non potranno gravare vincoli od oneri riconducibili alla attuale cartografia regionale per la parte di interesse
”.
Alla luce di quanto precede non sussistono i presupposti per l’accoglimento del reclamo.

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 338 del r.d. n. 1265/1934 fa divieto di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di duecento metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge, ivi comprese:
   - le ipotesi –disciplinate dallo stesso art. 338 cit.– della costruzione di nuovi cimiteri o ampliamento di quelli già esistenti a una distanza inferiore a duecento metri, purché non oltre il limite di cinquanta metri e sussistendone le condizioni previste dalla norma; ovvero
   - della riduzione dell’area di rispetto per dare esecuzione a un’opera pubblica o a un intervento urbanistico, in tutti i casi previo parere favorevole dell’autorità sanitaria (ampliamento di edifici esistenti, costruzione di nuovi edifici, realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre); o, ancora,
   - degli interventi di recupero di edifici esistenti, ovvero degli interventi funzionali all'utilizzo degli edifici stessi, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del dieci per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) dell’art. 31, co. 1, della legge n. 457/1978.
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Secondo il consolidato orientamento della Sezione, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 è vincolo assoluto di inedificabilità ex lege, e come tale prevale su eventuali disposizioni urbanistiche contrarie, con conseguente insanabilità delle opere realizzate all'interno della fascia di rispetto cimiteriale a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della compatibilità del manufatto rispetto al vincolo medesimo.
Questo, dal canto suo, risponde a una pluralità di funzioni, quali assicurare condizioni di igiene e salubrità, garantire tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura, consentire futuri ampliamenti dell'impianto funerario, e opera indipendentemente dal tipo di fabbricato, riguardando anche gli edifici sparsi.
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L’estensione della fascia di rispetto conseguente al progettato ampliamento del cimitero non può considerarsi ostativa al rilascio del condono, atteso che l’art. 33 della legge n. 47/1985 sancisce l’insanabilità delle sole opere che siano in contrasto con vincoli di inedificabilità imposti prima della loro esecuzione.
Si aggiunga che l’abitazione dei ricorrenti fronteggia la nuova area destinata a parcheggio, della quale non può comunque tenersi conto ai fini della misura della fascia di rispetto, che si calcola dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
Ai fini dell’assentibilità del condono rileva semmai la situazione antecedente al progetto di ampliamento del cimitero, raffigurata nella planimetria dello “stato di diritto” della variante del 1999.
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1. I ricorrenti sono comproprietari nel Comune di Firenze, alla via ... 221, di un’abitazione costituita da porzione terra-tetto di un più ampio edificio, con annesso giardino tergale.
Essi impugnano il provvedimento del 10.11.2004, in epigrafe, mediante il quale è stata respinta l’istanza di condono edilizio, presentata dal precedente proprietario dell’immobile ai sensi della legge n. 47/1985, con riferimento a una stanza attrezzi realizzata senza titolo all’interno del giardino di pertinenza.
La motivazione del diniego attiene all’insanabilità dell’opera in questione perché ricadente nella fascia di rispetto del vicino Cimitero degli Allori.
...
2.1. Il ricorso è fondato.
2.1.1. Com’è noto, l’art. 338 del r.d. n. 1265/1934 fa divieto di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di duecento metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge, ivi comprese le ipotesi –disciplinate dallo stesso art. 338 cit.– della costruzione di nuovi cimiteri o ampliamento di quelli già esistenti a una distanza inferiore a duecento metri, purché non oltre il limite di cinquanta metri e sussistendone le condizioni previste dalla norma; ovvero della riduzione dell’area di rispetto per dare esecuzione a un’opera pubblica o a un intervento urbanistico, in tutti i casi previo parere favorevole dell’autorità sanitaria (ampliamento di edifici esistenti, costruzione di nuovi edifici, realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre); o, ancora, degli interventi di recupero di edifici esistenti, ovvero degli interventi funzionali all'utilizzo degli edifici stessi, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del dieci per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) dell’art. 31, co. 1, della legge n. 457/1978.
Secondo il consolidato orientamento della Sezione, il vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 è vincolo assoluto di inedificabilità ex lege, e come tale prevale su eventuali disposizioni urbanistiche contrarie, con conseguente insanabilità delle opere realizzate all'interno della fascia di rispetto cimiteriale a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della compatibilità del manufatto rispetto al vincolo medesimo. Questo, dal canto suo, risponde a una pluralità di funzioni, quali assicurare condizioni di igiene e salubrità, garantire tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura, consentire futuri ampliamenti dell'impianto funerario, e opera indipendentemente dal tipo di fabbricato, riguardando anche gli edifici sparsi (per tutte, cfr. TAR Toscana, sez. III, 02.02.2015, n. 181).
Tanto premesso, la planimetria dello “stato di variante” (doc. n. 4 del Comune di Firenze) allegata alla variante di adeguamento del P.R.G. fiorentino al piano di settore cimiteriale, approvata dal Comune nel 1999, mostra l’abitazione di proprietà dei ricorrenti all’interno della fascia di rispetto del Cimitero agli Allori.
È peraltro pacifico che la fascia è stata così rappresentata –nella misura legale di duecento metri– in funzione dell’ampliamento previsto per il cimitero, e dunque a partire dal margine esterno delle nuove aree destinate in parte a parcheggio, in parte alle inumazioni: si veda al riguardo il rapporto della Direzione Urbanistica del Comune, in atti, dal quale trae conferma dell’assunto dei ricorrenti, secondo cui la fascia di rispetto cimiteriale è stata ampliata in occasione della variante al P.R.G. e, perciò, in epoca successiva alla realizzazione dell’abuso, risalente al 1973 (come dichiarato nell’istanza di condono e mai contestato dall’amministrazione resistente).
L’estensione della fascia di rispetto conseguente al progettato ampliamento del cimitero non può dunque considerarsi ostativa al rilascio del condono, atteso che l’art. 33 della legge n. 47/1985 sancisce l’insanabilità delle sole opere che siano in contrasto con vincoli di inedificabilità imposti prima della loro esecuzione. Si aggiunga che l’abitazione dei ricorrenti fronteggia la nuova area destinata a parcheggio, della quale non può comunque tenersi conto ai fini della misura della fascia di rispetto, che si calcola dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
2.1.2. Ai fini dell’assentibilità del condono rileva semmai la situazione antecedente al progetto di ampliamento del cimitero, raffigurata nella planimetria dello “stato di diritto” della variante del 1999 (doc. n. 3 del Comune. Si veda anche la cartografia estratta dal R.U., prodotta dal Comune sub n. 9).
Qui l’abitazione dei ricorrenti viene a trovarsi all’incirca in corrispondenza dell’intersezione tra la fascia di rispetto del Cimitero agli Allori e quella di altro monumento, Il Portico, che la difesa comunale qualifica parimenti “cimitero”, mentre i ricorrenti parlano di “convento”.
Le linee che identificano le due fasce si interrompono nei punti di intersezione, tuttavia, prolungando idealmente la linea che identifica la fascia di rispetto del Il Portico, l’abitazione dei ricorrenti sembrerebbe ricadervi: la potenziale interferenza delle opere abusive con tale monumento è, però, del tutto estranea alla motivazione dell’atto impugnato, come pure al già menzionato rapporto illustrativo della Direzione Urbanistica, venendo invocata nella sole difese in giudizio del Comune; né ricorrono le condizioni per affermare che essa vincoli l’operato dell’amministrazione al punto di rendere ineluttabile il diniego di condono, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, della legge n. 241/1990, di modo che potrà al più farsene oggetto di valutazione in sede di riesercizio del potere (senza dimenticare che, stando alla planimetria dello “stato di diritto” della variante, la fascia di rispetto de Il Portico risulta ridimensionata e l’abitazione dei ricorrenti ne è al di fuori).
Se, invece, si prolunga idealmente la linea che rappresenta la fascia di rispetto del Cimitero agli Allori, l’abitazione dei ricorrenti ne appare lambita, rimanendone pur sempre all’esterno. Del resto, a fronte delle possibili incertezze derivanti dalla rappresentazione grafica, il Comune non dimostra che l’abitazione dei ricorrenti si trovi effettivamente a distanza inferiore ai duecento metri dal perimetro (attuale, e non di progetto) dell’impianto cimiteriale.
Ne discende, anche per questo decisivo aspetto, l’illegittimità del diniego.
3. In forza delle considerazioni che precedono, il provvedimento impugnato deve essere annullato, con assorbimento delle rimanenti doglianze, aventi natura subordinata (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.10.2018 n. 1361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accorpamento locale accessorio all'abitazione, TAR Lazio-Roma: costituisce un mutamento di destinazione d'uso assoggettabile al rilascio del permesso di costruire.
Con sentenza 22.10.2018 n. 10234, il TAR Lazio-Roma ha confermato il pacifico orientamento giurisprudenziale vigente in materia di edilizia, secondo cui il mutamento di destinazione d'uso con opere (quale, per esempio, l'accorpamento del vano accessorio al resto dell'abitazione) va inquadrato nell'ambito della ristrutturazione edilizia cd. "pesante" o "maggiore", alla quale fa riferimento l'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 [...] (cfr. TAR Lazio, sez. II–quater, 26.07.2018, n. 8452). Con l'ovvia conseguenza che detto intervento rimane assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione. Ma vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'attenzione dei Giudici amministrativi.
La ricorrente ha impugnato l'ordinanza dirigenziale del Comune, con la quale è stata disposta la demolizione di opere edili abusive effettuate all'interno di un monolocale di sua proprietà. L'ordine di demolizione in oggetto riguarda, in buona sostanza, "l'accorpamento del locale accessorio al resto dell'abitazione mediante l'abbattimento del muro divisorio con conseguente cambio di destinazione d'uso dello stesso dal momento che risulta adibito a soggiorno". A dire della ricorrente, tale provvedimento amministrativo è illegittimo per i seguenti motivi:
   • l'appartamento in questione è composto da soggiorno con angolo cottura, vano accessorio, bagno e balcone;
   • dalla piantina catastale si rileva l'inesistenza di pareti divisorie tra gli ambienti dell'immobile;
   • nessuna opera è stata effettuata sull'immobile, che è adibito all'uso originario e non è abitato dalla ricorrente né locato a terzi;
   • l'attuale situazione corrisponde a quella originaria;
   • il premesso di costruire è stato rilasciato per la realizzazione di due vani.
Di diverso avviso è il TAR.
I Giudici amministrativi, nel caso di specie, innanzitutto, rilevano che la documentazione catastale non ha valore probatorio dirimente, in quanto in tema di abusivismo edilizio occorre aver esclusivo riguardo alla difformità dal titolo abilitativo. In secondo luogo, essi fanno rilevare che correttamente l'amministrazione comunale ha riscontrato un mutamento di destinazione d'uso con opere dal momento che, con l'abbattimento delle pareti, il vano accessorio ha perso la sua caratteristica, appunto, accessoria, per acquisire la piena destinazione residenziale.
E ciò in considerazione del fatto che, "nell'ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi "accessori" o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all'atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria".
Questo sta a significare che la loro trasformazione diventa urbanisticamente rilevante, configurando "un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l'originario permesso di costruire" (cfr. Sez. TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr. altresì sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225; sez. II-bis, 30.01.2017, n. 1439; nonché Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n. 39907).
Ne consegue che, in ipotesi di questo genere, i lavori di trasformazione di tali parti sono configurabili nell'ambito della ristrutturazione edilizia cd. "pesante" o "maggiore", alla quale fa riferimento l'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 (Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità), secondo cui "gli interventi e le opere di ristrutturazione edilizia [...], eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da esso, sono rimossi ovvero demoliti [..]" (cfr. TAR Lazio, sez. II–quater, 26.07.2018, n. 8452).
Il riferimento a tale disposizione non viene meno neanche ricorrendo al criterio della prevalenza in termini di superficie della destinazione d'uso del fabbricato, secondo quanto previsto dall'art. 23-ter, comma 2, del predetto D.P.R. n. 380/2001 ("La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile"). E ciò in virtù del fatto che detto criterio trova applicazione nel caso in cui l'immobile sia caratterizzato da una destinazione mista. In tali ipotesi, il ricorso al criterio in questione è finalizzato a stabilire la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa (Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016, n. 5050).
Nella fattispecie di cui stiamo discorrendo, invece, non è in dubbio la destinazione residenziale complessiva dell'opera, che è unitaria, ma si discute sulla ripartizione dei volumi principali e accessori: ripartizione, questa, per la quale, come detto, sarebbe stato necessario un permesso di costruire ad hoc.
Inoltre, pur a voler ammettere che la situazione di fatto in oggetto ha carattere originario, la ricorrente avrebbe dovuto, comunque, munirsi di un titolo abilitativo per l'accorpamento del vano accessorio al resto dell'abilitazione e ciò perché, nel caso di specie,
   i) l'abbattimento delle pareti divisorie si configura come una variazione al progetto approvato inizialmente, relativo alla realizzazione dei due vani,
   ii) l'immobile in questione si trova in zona paesisticamente vincolata, con l'ovvia conseguenza che la variazione su richiamata al progetto già approvato costituisce se non una totale difformità, quantomeno una variazione essenziale del predetto progetto; variazione, questa, per la quale sarebbe stato necessario attenersi alle prescrizioni dettate dalla legge regionale vigente in materia.
Alla luce di tali argomentazioni, pertanto, il TAR Lazio, avendo riscontrato il mancato rispetto di tali prescrizioni, ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato (commento tratto da www.avvocatirandogurrieri.it).
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MASSIMA
6. Con il primo motivo si lamenta l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento e della conseguente istruttoria in contraddittorio con l’interessato.
6.1 Il motivo è infondato, avuto riguardo al dominante orientamento giurisprudenziale secondo il quale
la demolizione di un’opera abusiva costituisce un atto a contenuto vincolato, per cui non è necessaria il preventivo adempimento garantistico: “l'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n. 241, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella propria sfera di controllo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.06.2017, n. 2681; V, 28.04.2014, n. 2194).
7. Le due rimanenti censure vanno considerate congiuntamente.
La ricorrente richiama anzitutto la descrizione dell’immobile contenuta nel rogito di acquisto del 24.09.2007: “appartamento monolocale al piano terra della scala A, distinto con il numero interno 1 (uno), composto di soggiorno con angolo cottura, vano accessorio, bagno e balcone”.
Essa afferma:
   a) che dalla piantina catastale allegata si rileva l’inesistenza di pareti divisorie tra gli ambienti dell’immobile;
   b) che nessuna opera è stata effettuata sull’immobile, che è adibito all’uso originario e non è abitato dalla ricorrente né locato a terzi;
   c) che l’attuale situazione corrisponde presumibilmente a quella originaria, altrimenti l’immobile non sarebbe accessibile e al vano accessorio dovrebbe accedersi dalla facciata condominaiale;
   d) che il premesso di costruire n. 36/2006 è stato rilasciato per la realizzazione di due vani per complessivi mq. 44.
7.1 Le censure sono infondate.
Va anzitutto rilevato che l’immobile è stato acquistato come monolocale munito di un vano avente carattere accessorio.
Dalla documentazione acquisita in sede istruttoria risulta confermato -come già rilevato in sede cautelare- che il locale accessorio, alla stregua dei progetti allegati alla DIA in variante al PdC 36/06 - 26/07, non era comunicante con l’appartamento e allo stesso doveva accedersi unicamente dal terrazzo pertinenziale.
E’ appena il caso di rilevare che la documentazione catastale allegata da entrambe le parti non riveste nella specie un valore probatorio dirimente, in quanto in tema di abusivismo edilizio occorre aver esclusivo riguardo alla difformità dal titolo abilitativo.
Correttamente quindi è stato riscontrato un mutamento di destinazione d’uso con opere, rilevante ai sensi dell’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Infatti senza la parte di separazione il vano accessorio perde questa caratteristica per acquisire piena destinazione residenziale.
Al riguardo va precisato che
secondo la giurisprudenza di questo Tribunale, il mutamento di destinazione d’uso con opere va inquadrato nell’ambito della ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”, alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008 (cfr. TAR Lazio, sez. II–quater, 26.07.2018, n. 8452).
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in numerose sentenze.
Già con la sentenza della III sezione penale, 20.01.2009, n. 9894 la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
   - “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale”;
   - “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
   - “un delicato problema di coordinamento interpretativo si correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici) sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […], conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art. 3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza, alla stessa stregua degli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
   - necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico;
   - fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di attività qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
   - nei centri storici non possono essere realizzati mediante denunzia di attività neppure qualora comportino il mero mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea
”.

Tale linea interpretativa è stata confermata dalla successiva giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. pen, sez. III, 28.01.2015, n. 3953). In particolare, Cass. pen, sez. III, 14.02.2017, n. 6873, ha precisato che
la “imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014, n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico”.
Dalla ricostruzione della disciplina normativa successiva alle riforme del 2014-2017 potrebbe trarsi, secondo una diversa ipotesi, anche l'interpretazione per cui il mutamento di destinazione d’uso potrebbe essere ricompreso -almeno in alcuni casi- nella definizione di restauro e risanamento conservativo (secondo la linea interpretativa adottata da TAR Toscana, sez. III, 28.07.2017, n. 1009). Ad avviso del Collegio, tuttavia, questa classificazione (la quale comporterebbe un diverso regime sanzionatorio edilizio) non può essere recepita.
In realtà la sentenza della Cassazione da ultimo menzionata, richiamando la giurisprudenza anteriore, ha anche precisato sul punto che nella categoria del restauro e risanamento conservativo “possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio”.
La diversa opinione fa leva, oggi, sulla nuova definizione di restauro e risanamento conservativo introdotta nell’art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ad opera dell’art. 65-bis della L. n. 96/2017: “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”.
Pur tuttavia, anche questa versione della norma prevede sempre il requisito della compatibilità con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio (su cui cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4851).
Ora,
nel caso di trasformazione di vani accessori in vani abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi formali" attengono alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre gli "elementi strutturali" sono quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio (Cass. pen., sez. III, 26.11.2014, n. 49221). Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche come individualità che include una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15 (applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza limitarne la portata applicativa alle Zone A.
In piena continuità con questa impostazione si colloca, da ultimo, la recente L.R. 18.07.2017, n. 7 (“Disposizioni per la rigenerazione urbana e il recupero edilizio”), la quale così dispone all’art. 4, comma 1: “I comuni, con apposita deliberazione di consiglio comunale da approvare mediante le procedure di cui all'articolo 1, comma 3, della L.R. n. 36/1987, possono prevedere nei propri strumenti urbanistici generali, previa acquisizione di idoneo titolo abilitativo di cui al D.P.R. n. 380/2001, l'ammissibilità di interventi di ristrutturazione edilizia, compresa la demolizione e ricostruzione, di singoli edifici aventi una superficie lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000 mq, con mutamento della destinazione d'uso tra le categorie funzionali individuate all'articolo 23-ter del D.P.R. 380/2001 con esclusione di quella rurale”.
La questione è connessa a quella del carattere urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 38 della Tabella A - Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).

Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “
nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire” (cfr. sez. TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr. altresì sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225; sez. II-bis, 30.01.2017, n. 1439; nonché Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n. 39907).
Per mera completezza va anche osservato che nessun rilievo riveste, nella specie, il profilo di cui all’art. 23-ter, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (“La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”): secondo la Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016, n. 50503,
l’accertamento sulla prevalenza della destinazione d'uso del fondo riguarda solamente il caso di una destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa; mentre nel caso dei locali accessori non si discute della destinazione residenziale complessiva dell’opera, che è certa ed è unitaria, ma della diversa questione della ripartizione dei volumi principali e accessori, secondo le considerazioni poc’anzi esposte.
Va infine precisato che anche a voler ipotizzare la preesistenza dell’odierna situazione di fatto rispetto alla data del rogito, o addirittura il carattere originario della stessa, le conclusioni non muterebbero, in quanto -trovandosi l’immobile in zona paesisticamente vincolata- ogni variazione al progetto approvato costituisce, se non totale difformità, quantomeno variazione essenziale ai sensi dell’art. 17, comma 4, della L.R. n. 15/2008, parimenti rilevante ai sensi dell’art. 16 della medesima legge.
8. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 22.10.2018 n. 10234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Confisca urbanistica di terreni - Irrevocabilità della sentenza - Richiesta di revoca della confisca - Successione ereditaria - Non rileva la buona fede dell'erede - Inesistenza di una situazione soggettiva attiva - Acquisizione di diritto del terreno al patrimonio comunale - Art. 29, 30 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
La confisca di cui all'art. 44, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, comporta l'acquisizione di diritto del terreno al patrimonio comunale con effetto dalla data di irrevocabilità della sentenza. Ciò comporta che da tale data il condannato non può più disporre del bene confiscato in quanto irrevocabilmente uscito dal suo patrimonio.
Ne consegue che tale bene non può nemmeno essere trasmesso agli eredi né può costituire oggetto di atti dispositivi a titolo oneroso. In caso di successione ereditaria, dunque, non rileva la buona fede dell'erede, bensì l'oggettiva inesistenza di una situazione soggettiva attiva in capo a quest'ultimo mai trasmessa dal "de cuius".

...
Reato di lottizzazione abusiva - Acquisto di un terreno per realizzarvi un'opera che contrasta con la destinazione di piano - Ignoranza incolpevole - Esclusione.
In tema di lottizzazione abusiva, colui il quale acquisti un terreno per realizzarvi un'opera che contrasta con la destinazione di piano non può invocare l'ignoranza incolpevole del reato di lottizzazione abusiva se con la propria condotta ha contributo alla consumazione del reato senza il quale non avrebbe mai potuto utilizzare i terreni a scopo edificatorio.
Nella fattispecie, si evidenziava che la mancata utilizzazione dei terreni a scopo agricolo costituiva il presupposto fattuale dal quale non è manifestamente illogico trarre il convincimento dell'iniziale intenzione di sfruttare i terreni a scopi edificatori in contrasto con la loro vocazione agricola.

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Lottizzazione abusiva disposta al di fuori dei casi di condanna - Opposizione del terzo rimasto estraneo al procedimento - Verifiche del giudice dell'esecuzione - Condotta del terzo acquirente dell'immobile - Insussistenza della buona fede - Giurisprudenza.
In tema di confisca conseguente a lottizzazione abusiva disposta al di fuori dei casi di condanna, il giudice dell'esecuzione, investito della opposizione del terzo rimasto estraneo al procedimento, è tenuto ad accertare, dal punto di vista oggettivo, l'effettiva esistenza della lottizzazione e, dal punto di vista soggettivo, l'insussistenza della buona fede nella condotta del terzo acquirente dell'immobile, sulla base di quanto provato dalla pubblica accusa (Sez. 3, n. 32363 del 24/05/2017, Mantione; nello stesso senso, Sez. 3, n. 51429 del 15/09/2016, Brandi, secondo cui la confisca di un immobile abusivamente lottizzato può essere disposta anche nei confronti dei terzi acquirenti, qualora nei confronti degli stessi siano riscontrabili quantomeno profili di colpa nell'attività precontrattuale e contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell'intervento con gli strumenti urbanistici; Sez. 3, n. 45833 del 18/10/2012) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2018 n. 47729 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Appaltatore - Richiesta del pagamento del proprio compenso - Misurazione della quantità di lavori già eseguiti - Entità e consistenza delle opere realizzate - Onere di fornire la prova della congruità di tale somma - Ammontare del credito e fatture emesse dall'appaltatore - Certificato sullo stato di avanzamento.
L'appaltatore che chieda il pagamento del proprio compenso ha l'onere di fornire la prova della congruità di tale somma, alla stregua della natura, dell'entità e della consistenza delle opere, non costituendo idonee prove dell'ammontare del credito le fatture emesse dall'appaltatore, trattandosi di documenti di natura fiscale provenienti dalla stessa parte, né le risultanze della misurazione della quantità di lavori già eseguiti, quali emergono dal certificato sullo stato di avanzamento degli stessi (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.10.2018 n. 26517 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia - Il Consiglio di Stato chiarisce quando va richiesto il permesso di costruire, la SCIA oppure la super DIA.
Quali interventi di ristrutturazione edilizia richiedono il permesso di costruire e per quali opere basta la SCIA (segnalazione certificata di inizio attività)?

A chiarito ancora una volta è la Sezione VI del Consiglio di Stato, che, nella sentenza 19.10.2018 n. 5984, spiega quali titoli abilitativi sono necessari nel caso di una ‘ristrutturazione edilizia’.
In termini generali costituiscono “interventi di ristrutturazione edilizia” quegli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possano portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In tale prospettiva, la ristrutturazione -nelle forme dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒ si pone in continuità con tutti gli altri interventi edilizi cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio esistente.
Il Consiglio di Stato richiama quanto disposto dagli articoli 10, comma 1, lettera c), e 22, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia - TUE).
   1) L’art. 10, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia - TUE), individua, in modo tassativo, quali sono gli interventi per i quali è necessario il permesso di costruire e tra essi indica soltanto "gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni".
Ai sensi di tale norma, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano, dunque, di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).
In relazione, invece, agli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 sono soggetti a SCIA solo gli interventi che non alterano la sagoma dell’edificio.
   2) L’art. 22, comma 1, lettera c), del TUE dispone che sono assoggettati a segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), tra l’altro, "c) gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), diversi da quelli indicati nell'articolo 10, comma 1, lettera c.".
Dunque, l’intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione, senza modifica di sagoma, superficie, volume e destinazione d’uso, non richiede necessariamente il permesso di costruire, ma può essere realizzato mediante la presentazione della DIA o super DIA (che con le novità introdotte dal D.Lgs. n. 222/2016 è diventata, a decorrere da giugno 2017, SCIA, alternativa al permesso di costruire) per ragioni di carattere acceleratorio (commento tratto da www.tuttocamere.it).
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SENTENZA
2.1.‒ In termini generali costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia quegli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possano portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. In tale prospettiva, la ristrutturazione ‒nelle forme dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒ si pone in continuità con tutti gli altri interventi edilizi cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio esistente.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente). In relazione, invece, agli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 sono soggetti a SCIA solo gli interventi che non alterano la sagoma dell’edificio.
L’art. 22, comma 3, del TUE prevede tre diverse tipologie di interventi edificatori ‒di cui la prima è costituita proprio da quelli di ristrutturazione, come individuati dal precedente art. 10, comma 1, lettera c)‒ sottoposti al regime del permesso di costruire, per i quali, per ragioni di carattere acceleratorio, si consente all’interessato di optare per la presentazione della DIA (c.d. “super DIA”).
Tale facoltà di opzione esaurisce i propri effetti sul piano prettamente procedimentale, atteso che su quello sostanziale (dei presupposti), penale e contributivo resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2018 n. 5984 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Accesso ai documenti relativi allo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa.
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Processo amministrativo – Competenza – Accesso ai documenti - Documenti relativi allo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa – Competenza Tar periferico.
  
Accesso ai documenti - Documenti classificati “riservati” – Motivazione sulla riservatezza – Necessità.
  
Rientra nella competenza del Tar periferico e non in quella del Tar Lazio, sede di Roma, ex art. 135, comma 1, lett. q), c.p.a., la controversia avente ad oggetto il diniego di accesso agli atti relativi allo scioglimento di un Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, e ciò in quanto la norma del Codice del processo amministrativo che individua le competenze inderogabili del Tar Lazio sono eccezionali e derogatorie dei principi generali in materia di competenza dettate dagli artt. 13 e ss. c.p.a. e quindi non estensibili in via analogica (1).
  
E’ illegittimo il diniego di accesso ai documenti relativi allo scioglimento di un Consiglio comunale per infiltrazione mafioso opposto per il carattere della riservatezza degli stessi, senza che sia motivato, in modo rigoroso, l’esistenza di eventuali e concrete ragioni di eccezionale prevalenza dell’esigenza di riservatezza su quella della tutela in giudizio dei diritti e degli interessi dell’istante (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il collegamento fra la fattispecie dedotta in giudizio e quella oggetto di (previsione normativa di) competenza territoriale derogata è labile concernendo il gravame la materia dell’accesso agli atti, solo incidentalmente connessa con quella contemplata dalla lett. q) del comma 1 dell'art. 135 c.p.a., e comunque del tutto estranea alle esigenze e ragioni correlate alla territorialità della fattispecie che giustificano l’attrazione della competenza presso il Tar centrale, con sacrificio della prossimità della giustizia.
   (2) Ha chiarito la giurisprudenza (Tar Catania n. 2418 del 2013) che "l'art. 3, comma 1, d.m. dell'Interno 10.05.1994, n. 415 (recante il regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti all'accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma 4, ora comma 6, l. 07.08.1990, n. 241), deve essere interpretato in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione delle finalità perseguite dalla l. 07.08.1990, n. 241" (Tar Latina n. 263 del 2012 e Tar Milano n. 873 del 2013).
Coerentemente, è stato dato rilievo preminente al diritto di accesso, osservando che "(...) il comma 7 dello stesso art. 24 -sulla scorta dell'insegnamento di Cons. St., A.P., 07.02.1997, n. 5, recepito nella norma con le novelle operate dall'art. 22, l. 13.02.2001, n. 45; dal comma 1 dell'art. 176, d.lgs. 30.06.2003, n. 196; nonché dall'art. 16, l. 11.02.2005, n. 15- non potrebbe essere più chiaro nello specificare che, in ogni caso (ossia anche nei casi in cui si tratti di atti sottraibili all'accesso mediante i regolamenti attuativi dei commi precedenti), "Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici" (Cga n. 722 del 2012)”.
Dal che discende, vertendosi in materia di giurisdizione sul diritto soggettivo d’accesso, la necessità di disapplicare il citato regolamento in ipotesi –che qui la Prefettura ha praticato- di interpretazione letterale dello stesso (Tar Friuli Venezia Giulia n. 158 del 2014) (
TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 19.10.2018 n. 2122 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il ricorso è fondato.
4.1. Osserva il Collegio che il provvedimento impugnato, pur limitando significative prerogative del ricorrente, è del tutto privo di motivazione quanto alla eventuale classificazione come “riservati” degli atti 2, 4 e 5 dell’elenco sopra riportato.
Per questa parte il provvedimento –e salvo quanto si dirà infra, per l’ipotesi in cui la motivazione del provvedimento abbia inteso includere anche tali atti nel profilo impeditivo esplicitato con riferimento solo a quelli di cui ai nn. 1 e 3- è affetto dal dedotto vizio di difetto di motivazione.
4.2. Quanto ai documenti di cui ai n.. 1 e 3 dell’elenco, e comunque a tutti i documenti oggetto della richiesta nella misura in cui essi debbano intendersi accomunati –con tecnica motivatoria non particolarmente perspicua– dall’allegata motivazione del diniego, il Collegio osserva che la disposizione invocata dall’amministrazione [art. 3, comma 1, lett. m), D.M. 10/05/1994, n. 415] stabilisce che “Ai sensi dell'art. 8, comma 5, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 27.06.1992, n. 352 , ed in relazione all'esigenza di salvaguardare l'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità, sono sottratte all'accesso le seguenti categorie di documenti: (…..) m) atti, documenti e note informative utilizzate per l'istruttoria finalizzata all'adozione dei provvedimenti di rimozione degli amministratori degli enti locali ai sensi dell'art. 40 della legge 08.06.1990, n. 142 , e dei provvedimenti di scioglimento degli organi ai sensi dell'art. 39, comma 1, lettera a), della legge 08.06.1990, n. 142 , e dell'art. 1 del decreto-legge 31.05.1991, n. 164, convertito, con modificazioni, nella legge 22.07.1991, n. 221”.
E’ affermazione comune in giurisprudenza (ex multis TAR Sicilia, Catania, sentenza 2418/2013), quella per cui "La norma di cui all'art. 3 comma 1, D.M. dell'Interno 10.05.1994, n. 415 (recante il regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti all' accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma 4, ora comma 6, L. 07.08.1990, n. 241), deve essere interpretata in senso non strettamente letterale, giacché altrimenti sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste ostensive di quasi tutti i documenti formati dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione delle finalità perseguite dalla L. 07.08.1990, n. 241" (Tar Lazio Latina, 263/2012 e Tar Lombardia Milano 873/2013).
Coerentemente, è stato dato rilievo preminente al diritto di accesso, osservando che "(...) il comma 7 dello stesso art. 24 -sulla scorta dell'insegnamento di C.d.S., A.P., 07.02.1997, n. 5, recepito nella norma con le novelle operate dall'art. 22 della L. 13.02.2001, n. 45; dal comma 1 dell'art. 176 del D.Lgs. 30.06.2003, n. 196; nonché dall'art. 16 della L. 11.02.2005, n. 15- non potrebbe essere più chiaro nello specificare che, in ogni caso (ossia anche nei casi in cui si tratti di atti sottraibili all'accesso mediante i regolamenti attuativi dei commi precedenti), "Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici" (C.G.A. 722/2012)”.
Dal che discende, vertendosi in materia di giurisdizione sul diritto soggettivo d’accesso, la necessità di disapplicare il citato regolamento in ipotesi –che qui la Prefettura ha praticato- di interpretazione letterale dello stesso (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 158/2014).
A tali, condivisibili argomentazioni va solo aggiunto che la disposizione primaria su cui si fonda l’esercizio della potestà regolamentare invocata dall’amministrazione è –ora- l’art. 24, comma 6, lett. a) della legge n. 241/1990 (in precedenza, come si legge nell’epigrafe del regolamento stesso, l’art. 24, comma 4), che richiede che se con regolamento il Governo può prevedere casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi, quando dalla loro divulgazione possa derivare una lesione alla sicurezza e alla difesa nazionale, ciò può produrre un sacrificio del diritto d’accesso quando tale lesione sia “specifica e individuata”.
La motivazione del provvedimento impugnato, come riportato, dà conto di un iter logico esattamente opposto all’interpretazione adeguatrice indicata dalla giurisprudenza come presupposto esegetico per salvare la legittimità del citato art. 3, comma 1, del D.M. 10/05/1994, n. 415: affermando che vanno comunque sacrificate pregiudizialmente –ratione materiae- le esigenze difensive correlate al diritto di accesso quando interesse antagonista sia quello alla riservatezza degli atti prodromici allo scioglimento del Consiglio comunale.
Sono proprio i valori, di rango costituzionale, portati dal vigente (all’atto dell’emanazione del provvedimento impugnato) articolo 24, comma 6, della legge n. 241/1990 ad imporre all’amministrazione, in attuazione della norma regolamentare invocata, un bilanciamento esattamente opposto a quello esternato nel provvedimento impugnato: e a motivare, in modo rigoroso, l’esistenza di eventuali e concrete ragioni di eccezionale prevalenza dell’esigenza di riservatezza su quella della tutela in giudizio dei diritti e degli interessi del ricorrente.
4.3. In memoria la difesa dell’Amministrazione aggiunge un argomento estraneo alla motivazione del provvedimento impugnato: appellandosi al regime della riservatezza ex art. 42, legge 03.08.2007, n. 124.
Neppure tale argomento –postumo– appare condivisibile: come chiarito in giurisprudenza (TAR Piemonte, Sez. I, 20.06.2018, n. 753), le classifiche di segretezza impongono una serie di prescrizioni di protezione in ordine alla conservazione, alla riproduzione ed alla circolazione degli atti ma non sono, tuttavia, idonee a vanificare l'esercizio costituzionalmente tutelato del diritto di difesa per cui non precludono la conoscenza della notizia, a meno che il documento "classificato" non sia coperto anche dal più pregante vincolo di segretezza derivante dall'apposizione del segreto di Stato.
4.4. Prosegue la memoria dell’Avvocatura dello Stato, dopo il richiamo all’art. 42 l. 124/2007, osservando che “Alla luce del descritto quadro normativo, risulta evidente che la relazione del Prefetto, le conclusioni della Commissione di indagine e tutti gli altri atti classificati RISERVATO utilizzati nell’istruttoria dei provvedimenti dissolutori degli enti locali per infiltrazioni della criminalità organizzata sono atti di vietata divulgazione ex art. 262 del codice penale ed in quanto tali devono ritenersi non ostensibili”.
Neppure questa affermazione –che probabilmente si intendeva ancorare all’art. 329 cod. proc. pen., e non all’art. 262 stesso codice, che ha un diverso oggetto– può essere condivisa dal Collegio.
Per consolidata giurisprudenza (da ultimo, TAR Umbria, sentenza n. 471/2018) in merito all'accesso a documenti detenuti dalle amministrazioni che siano in qualche modo collegati con un procedimento penale, non sussiste una preclusione automatica e assoluta alla loro conoscibilità, dato che l'esistenza di un'indagine penale non è di per sé causa ostativa all'accesso a documenti che siano confluiti nel fascicolo del procedimento penale o che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine.
Nel caso di specie, non risulta in alcun modo, dal provvedimento o dalle difese in giudizio, che i contenuti degli atti di cui si chiede l’ostensione siano parzialmente o totalmente coincidenti con quelli di atti di un (eventuale ed ipotetico) procedimento penale; né risulta parimenti l’esistenza di un sequestro dell’A.G. penale che abbia carattere impeditivo rispetto all’ostensione, sicché anche tale ragione asseritamente ostativa non può trovare accoglimento.
4.5. Infine, l’Avvocatura dello Stato allega un argomento fattuale; quello per cui nei giudizi impugnatori aventi ad oggetto i provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali, il ricorso verrebbe solitamente redatto dall’interessato senza la conoscenza degli atti del procedimento (classificati come “riservati”), che verrebbero poi acquisiti al fascicolo processuale a seguito di ordinanza istruttoria del Collegio.
Tale affermazione si presta ad una serie di agevoli obiezioni:
   - la necessità della conoscenza del contenuto dei documenti per tutelare i propri diritti ed interessi è –in questo caso– preprocessuale e ben può essere metaprocessuale: l’ordinamento distingue nettamente la legittimazione all’accesso ex art. 24, comma 7, l. 241/1990, dalla distinta (funzionalmente e strutturalmente) ipotesi di cui all’art. 116, comma 2, cod. proc. amm, che invece la difesa dell’amministrazione qui accomuna;
   - nella fattispecie di “conoscenza necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici” rientra, evidentemente, anche la libera determinazione del soggetto in merito all’an della instaurazione di un contenzioso giurisdizionale amministrativo, o di altre forme di tutela previste dall’ordinamento;
   - l’esercizio del potere istruttorio del collegio giudicante è circostanza meramente ipotetica ed eventuale, sia nell’an che nel quid;
   - l’intero ragionamento è, come detto, meramente fattuale: il richiamo a prassi giudiziarie non può valere a limitare l’esercizio di diritti stabiliti da norme primarie in presenza delle condizioni legittimanti.
5. Risulta pertanto pienamente riscontrato il vizio denunciato nel ricorso in esame: senza che le difese dell’amministrazione consentano di superare le censure proposte.
L’amministrazione non ha effettuato in concreto il giudizio di bilanciamento fra interessi antagonisti, alla luce della normativa primaria; né ha allegato l’esistenza reale di vincoli impeditivi in assoluto (atti coperti da segreto di Stato o oggetto di sequestro da parte dell’A.G. penale), ma si è limitata ad affermare pregiudizialmente che la mera qualifica di “riservato” implica la sottrazione all’accesso, in danno dell’interesse alla difesa dei propri diritti da parte dell’odierno ricorrente.
Il ricorso va quindi accolto, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
Non avendo l’Amministrazione allegato –né nella motivazione del provvedimento impugnato, né nella successiva difesa in giudizio- concrete ragioni di riservatezza (afferenti le ipotesi categoriali sopra richiamate, ovvero atipiche), e trattandosi di giurisdizione su diritti (senza pertanto che sia necessaria una riedizione del potere), va altresì riconosciuto il diritto dell’odierno ricorrente alla integrale ostensione dei provvedimenti oggetto dell’istanza, con condanna dell’amministrazione alla esibizione degli stessi, ai sensi dell’art. 116, comma 4, cod. proc. amm..

URBANISTICA: Perdita economica non giustificata dalla convenzione urbanistica e azione di arricchimento senza causa.
Quando i lottizzanti ritengano di aver subito una perdita economica non giustificata dalla convenzione urbanistica, e di avere in questo modo arricchito l’amministrazione oltre i limiti previsti originariamente, appare corretta la proposizione di un ricorso qualificato come azione di arricchimento ex art. 2041 c.c., in quanto la finalità perseguita dalla parte ricorrente è precisamente quella di cancellare gli squilibri economici verificatisi nel corso del rapporto, previo accertamento della reale volontà dei contraenti.
Tuttavia, non costituisce arricchimento indebito qualsiasi scostamento rispetto alle previsioni economiche contenute nella convenzione urbanistica; vi sono due parametri da utilizzare in questo tipo di valutazioni: da un lato, occorre esaminare la volontà dei contraenti, per stabilire se la quantificazione dei costi costituisca un elemento essenziale ai fini del consenso, dall’altro, si deve esaminare la natura dei costi aggiuntivi, per stabilire il grado di connessione degli stessi con l’oggetto della convenzione urbanistica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.10.2018 n. 999 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla giurisdizione
10. Si ritiene che la controversia, sostanzialmente focalizzata sul contenuto delle convenzioni urbanistiche sopra descritte, rientri nella fattispecie di giurisdizione amministrativa esclusiva ex art. 133, comma 1-a.2 cpa (formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento).
11.
La convenzione urbanistica sostituisce l’attività provvedimentale dell’amministrazione, e ne indirizza gli svolgimenti successivi. Il quadro dei rapporti tra l’amministrazione e i lottizzanti codificato nella convenzione urbanistica conserva rilievo pubblicistico anche nella fase esecutiva, in quanto il raggiungimento degli obiettivi di interesse pubblico deve procedere parallelamente alla consumazione dei diritti edificatori privati.
12. In effetti,
i rapporti tra le parti nella fase esecutiva, anche quando riguardino la regolazione di pendenze economiche, devono essere osservati in relazione all’obiettivo della completa realizzazione delle opere di interesse pubblico.
Di conseguenza, ogni controversia che abbia come oggetto la misura delle reciproche obbligazioni in vista o in conseguenza della realizzazione di tali opere impone un accertamento sul contenuto complessivo della convenzione urbanistica. Per questa via, il giudice naturale non può che essere quello amministrativo.

Sull’azione di arricchimento
13.
Quando i lottizzanti ritengano di aver subito una perdita economica non giustificata dalla convenzione urbanistica, e di avere in questo modo arricchito l’amministrazione oltre i limiti previsti originariamente, appare corretta la proposizione di un ricorso qualificato come azione di arricchimento ex art. 2041 c.c., in quanto la finalità perseguita dalla parte ricorrente è precisamente quella di cancellare gli squilibri economici verificatisi nel corso del rapporto, previo accertamento della reale volontà dei contraenti.
14. Non appare condivisibile l’eccezione fondata sull’art. 2042 c.c., che stabilisce il requisito della sussidiarietà dell’azione. Non vi è infatti alcun obbligo per i lottizzanti di impugnare immediatamente i singoli provvedimenti con cui l’amministrazione fissa le caratteristiche delle opere pubbliche oggetto di accordo, facendone lievitare i costi. Un ricorso proposto per il timore dello sforamento dei preventivi non sarebbe ammissibile, in quanto non sorretto da un interesse attuale, e d’altra parte, una volta realizzati i lavori e verificate le maggiori spese, sono verosimilmente decorsi i termini di impugnazione.
In mancanza di una clausola di revisione dei prezzi, l’unica opzione praticabile rimane dunque l’azione di arricchimento. A maggior ragione, questa è l’unica possibilità di ristoro per il caso in cui non vi siano provvedimenti da impugnare, quando l’aumento dei costi si sia verificato ugualmente a causa di ritardi imputabili all’amministrazione.
Sulle maggiori spese
15. Nel merito,
si ritiene che non costituisca arricchimento indebito qualsiasi scostamento rispetto alle previsioni economiche contenute nella convenzione urbanistica. Vi sono due parametri da utilizzare in questo tipo di valutazioni. Da un lato, occorre esaminare la volontà dei contraenti, per stabilire se la quantificazione dei costi costituisca un elemento essenziale ai fini del consenso. Dall’altro, si deve esaminare la natura dei costi aggiuntivi, per stabilire il grado di connessione degli stessi con l’oggetto della convenzione urbanistica.
16. Per quanto riguarda le indicazioni contenute nelle convenzioni urbanistiche sopra richiamate, appare evidente che l’intenzione dei contraenti non era di fissare un livello di spesa invalicabile, ma solo di stabilirne l’ordine di grandezza. Il meccanismo di quantificazione scelto per le opere esterne al comparto (rotatoria e collegamento stradale) è analogo a quello delle opere di urbanizzazione primaria, che rimangono a carico dei lottizzanti anche se di importo superiore alle tabelle dei relativi oneri.
Per le opere esterne, che sono nella sostanza opere di urbanizzazione primaria, la quantificazione dei costi era collegata alle garanzie chieste dal Comune, e aveva il valore di una stima di massima. Era quindi chiaro fin dall’inizio che i lottizzanti erano vincolati all’obiettivo di interesse pubblico anche se le spese fossero state superiori alla quantificazione riportata nelle convenzioni urbanistiche.
17. Non essendovi un limite di spesa rigido, l’amministrazione era legittimata a dare indicazioni comportanti opere diverse e aggiuntive rispetto a quelle descritte nel computo metrico. Si tratta peraltro di una facoltà che doveva essere esercitata nei limiti della buona fede contrattuale, e quindi entro un ragionevole margine di oscillazione rispetto alle spese preventivate.
Nello specifico, la perizia della ricorrente individua il costo delle nuove opere, stimato alla data della prima convenzione urbanistica, in € 72.929,98 (+14,12%). Si tratta di un incremento che non stravolge l’ordine di grandezza dell’impegno finanziario, e non è tale da rendere antieconomica la lottizzazione. La rivalutazione (€ 278.323,92) non può essere presa in considerazione, perché è assorbita dal normale rischio di impresa connesso ai tempi lunghi di esecuzione delle convenzioni urbanistiche.
È evidente che, se realizzate a distanza di tempo, le opere di interesse pubblico possono comportare spese maggiori, ma questo non consente di ottenere dei rimborsi, quando non vi sia un meccanismo di adeguamento dei costi disciplinato nella stessa convenzione urbanistica.
18. Non vi è la prova che il ritardo nella realizzazione sia da imputare agli uffici comunali. Non può essere considerata causa di ritardo indennizzabile la prescrizione da parte del Comune di opere integrative, o di caratteristiche diverse per le opere già previste, trattandosi di una facoltà legittima che può essere esercitata dall’amministrazione in qualsiasi momento, nel rispetto, come si è visto sopra, di un margine ragionevole di incremento delle spese.
19. Per quanto riguarda la natura dei costi aggiuntivi, tutte le nuove opere, o le nuove caratteristiche, hanno stretta attinenza con l’oggetto delle convenzioni urbanistiche. Inoltre, si tratta di innovazioni finalizzate a rendere le opere pubbliche fruibili in condizioni di piena efficienza e sicurezza.
Come evidenziato dalla difesa del Comune, con riguardo alle opere fognarie era doveroso adeguarsi alle prescrizioni del gestore del servizio idrico, mentre con riguardo alla pista ciclabile e all’impianto di irrigazione della rotatoria era opportuno che vi fosse uniformità con le altre opere dello stesso tipo presenti sul territorio comunale. La sistemazione del terreno ai lati della strada e l’aggiornamento degli elaborati grafici sono mere prestazioni accessorie. Nel complesso, quanto chiesto dal Comune appare giustificato, e nei limiti della ragionevolezza.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAlla Corte Ue la questione pregiudiziale sul divieto di incarichi di studio ai pensionati.
Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale se il principio di non discriminazione di cui agli articoli 1 e 2 della Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 78/2000, osta alla disposizione di cui all’articolo 5, comma 9, del Dl n. 95/2012, che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”.
È quanto afferma il TAR Sardegna, Sez. I, con l'ordinanza 19.10.2018 n. 881.
L’approfondimento
Nell’ambito di un giudizio avverso un bando di gara applicativo della disciplina nazionale, il Tar Cagliari ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale sulla compatibilità con il diritto dell’Unione Europea della norma che prevede il divieto per le Amministrazioni pubbliche di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza
La decisione
Nel rimettere la questione pregiudiziale, il Collegio ha avuto modo di rilevare la rilevanza della questione pregiudiziale perché l’eventuale accoglimento dell’impugnativa avverso la contestata clausola immediatamente escludente del bando, che impedisce la partecipazione alla selezione, costituisce diretta applicazione della normativa nazionale, consentirebbe di definire la controversia e il conseguente annullamento della clausola stessa.
Nello specifico, il dubbio ermeneutico che giustificherebbe la rimessione alla Corte di Giustizia si fonda sul riscontrato contrasto della richiamata normativa nazionale con gli articoli 1 e 2, Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 78/2000, che invece persegue l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione sia diretta che indiretta (tra cui quella basata sull’età.
A giudizio del Collegio, inoltre, l’esclusione di una categoria di persone dalla possibilità di assumere incarichi nell’amministrazione per ragioni essenzialmente correlate all’età non troverebbe adeguata giustificazione causale negli obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, né tantomeno per assicurare il fisiologico ricambio di personale.
Infatti, apparirebbe alquanto improbabile che un incarico, specialmente se delicato e complesso che possa essere ben espletato da chi ha per lungo tempo operato nello stesso settore, possa essere conferito ad un soggetto esterno privo della necessaria esperienza e, pertanto, la misura appare in prima lettura inappropriata rispetto alla scopo e inidonea a giustificare l’evidente discriminazione.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva la rimessione alla Corte di Giustizia con la formulazione del seguente quesito: “Se il principio di non discriminazione di cui agli artt. 1 e 2 della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, osta alla disposizione di cui all’articolo 5, comma 9, Dl 95/2012, che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza” (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018).

APPALTI: Natura perentoria del termine per l’espletamento del soccorso istruttorio.
Il termine fissato per l’espletamento del soccorso istruttorio è perentorio, e ciò non tanto perché così (nella fattispecie) lo aveva autoqualificato la stazione appaltante nella missiva di richiesta dei documenti, quanto piuttosto perché solo ritenendolo perentorio si attua un ragionevole bilanciamento fra l’interesse a evitare esclusioni dovute a mere carenze documentali e dunque a garantire la massima partecipazione al confronto concorrenziale e l’interesse a una celere conclusione della procedura di gara.
Ne consegue che il mancato rispetto di un termine perentorio non può avere altra conseguenza che l’esclusione dalla gara, senza che assuma rilevanza né il possesso dei requisiti di cui si era chiesta la dimostrazione in sede di soccorso istruttorio, né che i documenti formati a tale fine siano stati formati in data antecedente alla scadenza del suddetto termine
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.10.2018 n. 2323 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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La società Mi.Te. S.a.s. agisce ex articolo 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm., contro la propria esclusione dalla gara bandita dall’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale di Milano – ALER per l’affidamento del servizio di pulizia e affini in stabili di sua proprietà ovvero da esso gestiti o ancora di proprietà di Comuni terzi.
L’esclusione è stata disposta per non avere la ricorrente tempestivamente inviato alla stazione appaltante la documentazione richiesta in sede di soccorso istruttorio.
Risulta, invero, per tabulas, che in data 13.07.2018 ALER ha chiesto a Mi.Te. S.a.s. la trasmissione entro il termine perentorio del 23.07.2018, tramite posta elettronica certificata all’indirizzo appalti@pec.aler.mi.it, di documentazione ivi specificatamente individuata relativa alla terna di subappaltatori necessari indicati in sede di offerta dalla concorrente.
Risulta, altresì, che la ricorrente in data 20.07.2018 ha inviato detta documentazione agli indirizzi posta-certificata@pec.aruba.it e mi...@gmail.com; e che solamente in data 31.07.2018 la ha inviata, tra gli altri, all’indirizzo appalti@pec.aler.mi.it.
Come già osservato dalla Sezione in sede cautelare, sia pure in quel caso all’esito di una delibazione necessariamente sommaria, l’esclusione si rivela legittima e il ricorso infondato.
Non è, invero, in contestazione che il termine fissato per l’espletamento del soccorso istruttorio non sia stato rispettato. Il punto è che quel termine è perentorio, e ciò non tanto perché così lo ha autoqualificato la stazione appaltante nella missiva di richiesta dei documenti de quibus, quanto piuttosto perché, solo ritenendolo perentorio, si attua un ragionevole bilanciamento fra l’interesse a evitare esclusioni dovute a mere carenze documentali e dunque a garantire la massima partecipazione al confronto concorrenziale, e l’interesse a una celere conclusione della procedura di gara (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. I-ter, sentenza n. 3572/2018).
Ne consegue che il mancato rispetto di un termine perentorio non può avere altra conseguenza che l’esclusione dalla gara, senza che assuma rilevanza né il possesso dei requisiti di cui si era chiesta la dimostrazione in sede di soccorso istruttorio, né che i documenti formati a tale fine siano stati formati in data antecedente alla scadenza del suddetto termine.
Il possesso dei requisiti di partecipazione, adeguatamente documentato, deve, infatti, essere tempestivamente portato a conoscenza della stazione appaltante, altrimenti non consente la partecipazione alla gara, non diversamente da quanto accade in caso di non possesso dei requisiti medesimi.
Né può invocarsi, al fine di scongiurare la sanzione espulsiva, il principio del raggiungimento dello scopo, in quanto, comunque, nessuno degli indirizzi cui erano stati inizialmente (e tempestivamente) inviati i documenti è riconducibile ad ALER. Sicché non può nemmeno sostenersi che la stazione appaltante li abbia in qualche modo conosciuti.
Tanto meno può invocarsi l’errore scusabile, in quanto l’adempimento richiesto (i.e. l’invio di documentazione a un indirizzo pec) non appare adempimento particolarmente complicato, come dimostra la trasmissione tardiva della documentazione, una volta che la concorrente si è avveduta dell’errore. D’altro canto, rientra nell’ordinaria diligenza che può essere pretesa, il controllare che l’indirizzo di posta elettronica cui si è inoltrata la pec sia quello corretto.
Infine, contrariamente a quanto sostenuto da ultimo dalla ricorrente, non è vero che la documentazione richiesta non fosse necessaria, trattandosi di documentazione concernente il subappalto necessario in quanto qualificatorio, e che quindi rileva ai fini dell’ammissione alla gara della stessa concorrente che se ne avvale.
Per queste ragioni il ricorso è infondato e viene rigettato.

ATTI AMMINISTRATIVI: DANNO AMBIENTALE - Associazioni ambientaliste - Costituzione parte civile iure proprio nel processo per reati ambientali - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale.
In ordine alla legittimazione della costituita parte civile, le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi parti civili iure proprio nel processo per reati ambientali, sia come titolari di un diritto della personalità connesso al perseguimento delle finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale, anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2018 n. 46699 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Nozione di deposito controllato o temporaneo - Natura eccezionale e derogatoria - Mancanza dei requisiti - Deposito preliminare - Messa in riserva - Deposito incontrollato o abbandono - Discarica abusiva - Disciplina applicabile - Onere della prova - Art. 183 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
Per deposito controllato o temporaneo, si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, quando siano presenti precise condizioni relative alla quantità e qualità dei rifiuti, al tempo di giacenza, all'organizzazione tipologica del materiale e al rispetto delle norme tecniche elencate nel d.lgs. n. 152/2006.
Tale deposito è libero, non disciplinato dalla normativa sui rifiuti (ad eccezione degli adempimenti in tema di registri di carico e scarico e del divieto di miscelazione), anche se soggetto ai principi di precauzione e di azione preventiva che, in base alle direttive comunitarie, devono presiedere alla gestione dei rifiuti, per cui, in difetto di anche uno solo di tali requisiti, il deposito non può ritenersi temporaneo, ma va considerato:
   - deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti è prodromico a un'operazione di smaltimento che, in assenza di autorizzazione o comunicazione, è sanzionata penalmente dall'art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006;
   - messa in riserva, se il materiale è in attesa di una operazione di recupero che, essendo una forma di gestione, richiede il titolo autorizzativo, la cui carenza integra gli estremi del reato previsto dall'art. 256, comma 1, del d.lgs. 152/2006;
   - deposito incontrollato o abbandono, quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Tale condotta è sanzionata come illecito amministrativo, se posta in essere da un privato e come reato contravvenzionale, se tenuta da un responsabile di enti o titolare di impresa;
   - discarica abusiva, quando invece l'abbandono dei rifiuti è reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi.
È stato poi precisato
(Sez. 3, n. 23497 del 17/04/2014) che l'onere della prova in ordine alla sussistenza delle condizioni fissate dall'art. 183 del d.lgs. n. 152/2006 per la liceità del cd. deposito controllato o temporaneo, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2018 n. 46699 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Luoghi di culto e assenza di zonizzazione.
Il fatto che un comune non si sia ancora dotato del piano per le attrezzature religiose, o non abbia preso in considerazione le richieste formulate dagli enti esponenziali di comunità religiose presenti sul territorio, non autorizza i privati a procedere autonomamente all’individuazione di immobili adatti e alla trasformazione degli stessi in luoghi di culto.
L’ostacolo costituito dalla zonizzazione non aggiornata è superabile solo contestando in via giudiziaria l’atteggiamento omissivo o dilatorio dell’amministrazione, eventualmente chiedendo la fissazione di un termine per l’esame dei progetti di modifica degli strumenti urbanistici
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.10.2018 n. 977 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
1. I ricorrenti sono proprietari di un immobile situato nel Comune di Viadana, in vicolo ....
2. Il suddetto immobile, costituito da tre locali più servizi igienici, è classificato dal PGT in “Zona di valore storico, artistico e insediativo compromesso”. Le destinazioni d’uso ammesse sono le seguenti: residenziale, uffici, attività commerciali di vicinato.
3. In data 15.07.2012 uno dei ricorrenti ha concesso in locazione l’immobile all’associazione As. per 6 anni, con rinnovo automatico per uguale periodo. Il contratto (v. art. 3, 7 e 9) prevedeva un’utilizzazione dei locali esclusivamente commerciale.
4. L’associazione As. è stata iscritta nel registro provinciale delle associazioni di promozione sociale con decreto della Provincia di Mantova di data 10.10.2012. Tra le finalità indicate nello statuto di tale associazione rientra quella di promuovere la conoscenza della cultura, della storia e delle tradizioni islamiche (v. art. 3-a). L’impostazione religiosa dell’attività dell’associazione è ulteriormente esplicitata nel regolamento interno, datato 11 giugno 2012 (v. art. 2, 3, 7).
5. Nel corso di un sopralluogo condotto da funzionari comunali il 21.01.2016 è stato accertato che l’utilizzo degli spazi dell’immobile non corrispondeva alle destinazioni d’uso ammesse ma alle finalità di carattere religioso dell’associazione As.. Di conseguenza, il responsabile del SUAP/SUE, con ordinanza n. 36 di data 07.03.2016, ha ingiunto ai ricorrenti, in qualità di proprietari, il ripristino dello stato dei luoghi, ossia il ritorno all’originaria destinazione d’uso commerciale. Per l’ipotesi di mancata ottemperanza nel termine di 90 giorni era prevista l’applicazione della procedura sanzionatoria ex art. 31 del DPR 06.06.2001 n. 380.
...
13. Fatte queste precisazioni, sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla realizzazione di un luogo di culto
14. I plurimi sopralluoghi della Polizia Locale hanno accertato la trasformazione dell’immobile dei ricorrenti in luogo di culto. Gli elementi raccolti (sistemazione degli spazi, affluenza delle persone, finalità dell’associazione) sono univoci in questo senso.
15. La realizzazione di luoghi di culto è disciplinata dalla LR 12/2005 in modo molto rigoroso. In particolare, è sempre assoggettata a permesso di costruire, anche quando consista in un semplice mutamento della destinazione d’uso senza opere (v. art. 52, comma 3-bis), ed è inoltre subordinata a una specifica previsione nel piano per le attrezzature religiose (v. art. 72, commi 2 e 5) e alla stipula di una convenzione urbanistica (v. art. 70, comma 2-ter).
Su questa materia, proprio con riferimento alla Regione Lombardia, si è già pronunciata la Corte Costituzionale (v. sentenza n. 63 del 24.03.2016).
In sintesi, la Corte ritiene che rientri nelle competenze legislative regionali l’adozione di specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione di luoghi di culto, quando la regolamentazione riguardi interessi di natura urbanistica. Sono considerate illegittime solo le norme regionali che possono interferire direttamente con la libertà religiosa o con la cura dell’ordine pubblico.
16.
La qualifica di associazione di promozione sociale non è quindi idonea a consentire l’insediamento di un luogo di culto nella sede associativa, se l’area prescelta non è specificamente destinata a tale funzione dalla pianificazione urbanistica comunale. Al riguardo, non si pone alcun problema di legittimità costituzionale della disciplina regionale (neppure in via mediata per contrasto con la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea).
Per i profili che rilevano nel presente giudizio, infatti, le norme regionali sopra richiamate si collocano all’interno dell’ambito di competenza della Regione, in quanto perseguono la finalità di predisporre degli strumenti che assicurino lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati. Di conseguenza, tali norme possono legittimamente limitare la previsione statale di favore sulla compatibilità delle sedi delle associazioni di promozione sociale con qualsiasi zonizzazione.

17.
Il fatto che un comune non si sia ancora dotato del piano per le attrezzature religiose, o non abbia preso in considerazione le richieste formulate dagli enti esponenziali di comunità religiose presenti sul territorio, non autorizza i privati a procedere autonomamente all’individuazione di immobili adatti e alla trasformazione degli stessi in luoghi di culto.
L’ostacolo costituito dalla zonizzazione non aggiornata è superabile solo contestando in via giudiziaria l’atteggiamento omissivo o dilatorio dell’amministrazione
(v. sentenze del TAR Brescia n. 1176 del 28.12.2013, e n. 3522 del 14.09.2010), eventualmente chiedendo la fissazione di un termine per l’esame dei progetti di modifica degli strumenti urbanistici.
18.
Poiché per la realizzazione di un luogo di culto è sempre necessario il permesso di costruire (sulla possibilità per la Regione di esigere questo titolo edilizio anche in mancanza di nuove costruzioni v. l’art. 10, commi 2 e 3, del DPR 380/2001), ogni intervento abusivo ricade nella previsione dell’art. 31 del medesimo DPR 380/2001, e dunque espone i proprietari dell’immobile alla perdita della proprietà in caso di mancato ripristino dello stato dei luoghi.
Sulla posizione dei proprietari locatori
19.
I proprietari locatori possono evitare le conseguenze ablative dell’abuso edilizio posto in essere dai locatari solo qualora dimostrino (a) che il bene era stato locato per uno scopo conforme alla disciplina urbanistica, e (b) che la realizzazione dell’intervento abusivo costituisce una deviazione imprevedibile rispetto alla normale utilizzazione del bene.
20. Nello specifico, il primo requisito (conformità urbanistica) appare sussistente, in quanto il contratto di locazione espressamente limitava l’utilizzo del bene a scopi commerciali, e dunque rispettava le opzioni consentite dal PGT (residenziale, uffici, attività commerciali di vicinato).
Se il riferimento all’uso commerciale si dovesse intendere non in senso letterale ma come rinvio a una categoria residuale comprendente tutti gli utilizzi diversi da quello residenziale (tesi sostenuta dall’associazione As. in una nota inviata ai ricorrenti e al Comune in data 12.07.2016), il contratto diventerebbe ambiguo, in quanto potrebbe riferirsi anche a destinazioni d’uso non conformi. Questa ambiguità si risolverebbe a sfavore dei ricorrenti, responsabili per aver posto in essere uno strumento negoziale idoneo a creare le condizioni dell’abuso edilizio.
21. Anche ammettendo che i ricorrenti intendessero l’uso commerciale in senso letterale, manca però il secondo requisito (legittimo affidamento circa l’utilizzo probabile del bene da parte del locatario).
22. I proprietari locatori non possono trincerarsi dietro i divieti formali inseriti nel contratto di locazione, qualora si possa ritenere che i locatari non saranno verosimilmente disposti a fare un uso dell’immobile entro i limiti stabiliti dalla disciplina urbanistica. Le clausole contrattuali hanno valore esimente quando vietino attività rispetto alle quali i locatari abbiano un’alternativa praticabile.
Se i locatari, pur avendo interesse a utilizzare il bene secondo quanto convenuto contrattualmente, decidono di passare a un uso diverso, vietato contrattualmente e non conforme alla disciplina urbanistica, i proprietari locatori non rispondono come coautori dell’innovazione abusiva, avendo confidato senza colpa nella corretta esecuzione di quanto pattuito.
Di conseguenza, non sono neppure esposti alla perdita della proprietà ex art. 31, commi 3 e 4, del DPR 380/2001, purché si attivino tempestivamente per ottenere la risoluzione del contratto di locazione, e, una volta rientrati nel possesso del bene, provvedano immediatamente al ripristino dello stato dei luoghi.
23. L’immobile in esame è stato però concesso in locazione a un’associazione che per statuto e regolamento interno ha finalità culturali e religiose, e nessuna finalità di tipo commerciale. Era quindi astrattamente prevedile che tra gli esiti della locazione si potesse collocare anche la realizzazione di un luogo di culto, non consentito dalla disciplina urbanistica in vigore.
È vero che la qualificazione come luogo di culto è talvolta complessa, intrecciandosi con la tutela delle associazioni di promozione sociale, ma i ricorrenti hanno accettato il rischio che l’amministrazione rilevasse in concreto la presenza di un luogo di culto, come in effetti è avvenuto mediante i sopralluoghi della Polizia Locale. Il suddetto rischio comprende l’eventualità che il ripristino dello stato dei luoghi non possa essere effettuato nei tempi fissati dall’amministrazione, e si creino così i presupposti per la perdita della proprietà.
Conclusioni
24. Il ricorso deve quindi essere respinto.
25. Tuttavia,
poiché la certezza del diritto tra le parti può dirsi raggiunta solo con la presente sentenza, risulta irrilevante il superamento del termine di 90 giorni originariamente previsto per il ripristino dello stato dei luoghi.
Di conseguenza, grazie al trasferimento della sede dell’associazione As. intervenuto in corso di causa, i ricorrenti evitano la perdita della proprietà ex art. 31, commi 3 e 4, del DPR 380/2001, a condizione che la nuova destinazione d’uso impressa all’immobile sia conforme alla disciplina urbanistica.

ATTI AMMINISTRATIVI: Svolgimento dell’attività autoritativa e obbligo di agire con lealtà e correttezza.
La giurisprudenza, sia civile sia amministrativa, ha in più occasioni affermato come, anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione sia tenuta a rispettare, non soltanto, le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza.
La violazione di queste ultime, quindi, può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 2267 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
9) Sempre in via preliminare, si rende necessario, per la soluzione della controversia in esame, qualificare il titolo di responsabilità invocato da parte ricorrente.
9.1) A tale scopo, il Collegio rammenta che la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha in più occasioni affermato come, anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione sia tenuta a rispettare, non soltanto, le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma, anche le norme generali dell’ordinamento civile, che impongono di agire con lealtà e correttezza; la violazione di queste ultime, quindi, può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2013, n. 633; id., sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; id., Ad. plen., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ., Sez. un., 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15250).

ATTI AMMINISTRATIVI: Azione risarcitoria non accompagnata dall’impugnazione del provvedimento che ha causato il danno.
Pur non essendovi preclusioni in rito in ordine all’ammissibilità dell’azione risarcitoria per lesione dell’interesse legittimo non accompagnata dall’impugnazione del provvedimento asseritamente causativo dei danni, nondimeno, occorre fare applicazione dell’art. 30, co. 3 c.p.a., a tenore del quale “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell'art. 1227, comma 2, cod. civ., afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza.
La tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del "più probabilmente che non") recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili.
Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell'omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall'ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 2267 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Recentemente, anche il Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, ha ribadito che: “Le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)” (così, sentenza 04/05/2018, n. 5).
9.2) Ebbene, applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso di specie, è agevole ricavare come l’esponente alleghi e argomenti, in concreto, una responsabilità dell’intimato Comune da provvedimento illegittimo, la revoca, che, tuttavia, non ha impugnato, provocandone così la inoppugnabilità.
9.3) In siffatte evenienze, reputa il Collegio che, pur non essendovi preclusioni in rito in ordine all’ammissibilità dell’azione risarcitoria per lesione dell’interesse legittimo non accompagnata dall’impugnazione del provvedimento asseritamente causativo dei danni, nondimeno, occorre fare applicazione dell’art. 30, co. 3 c.p.a., a tenore del quale “Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell'art. 1227, comma 2, cod. civ., afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., Sent. 23.03.2011, n. 3, per cui “… il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del "più probabilmente che non": Cass., sezioni unite, 11.01.1008, n. 577; sez. III, 12.03.2010, n. 6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell'omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall'ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi”).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Vincolo paesaggistico - Requisiti - Pubblicazione nella G.U. - Operatività del vincolo - Notifica del decreto ai proprietari - Limiti - Vincolo imposto sui singoli beni - Art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del D.M. impositivo di un vincolo paesaggistico per un'intera zona è condizione sufficiente per l'operatività del vincolo stesso, essendo necessaria la notifica del decreto ai proprietari solo rispetto al vincolo imposto sui singoli beni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2018 n. 46080 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Macroscopica illegittimità dell'atto - Istruttoria palesemente lacunosa - Prova del dolo intenzionale - Comportamento non iure dell'agente Art. 323 cod. pen..
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Nel caso di specie, è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2018 n. 46080 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Nelle gare ad evidenza pubblica, la mancata conferma dell’aggiudicazione provvisoria non dà luogo all'esercizio di alcun potere in via di autotutela, tale da richiedere il raffronto tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, con conseguente puntuale obbligo di motivazione in capo all’amministrazione.
In tale contesto, del resto, non è in alcun modo prospettabile un affidamento del destinatario dell'aggiudicazione provvisoria, in quanto tale atto non è conclusivo del procedimento di evidenza pubblica e non vi è, dunque, lo svolgimento di alcun procedimento di secondo grado (che comporterebbe la necessità di una comunicazione di avvio del procedimento e, soprattutto, l'esternazione della motivazione inerente il pubblico interesse che legittima la rimozione dell'atto emanato).
In effetti, sino al momento dell’aggiudicazione definitiva la stazione appaltante può sempre riesaminare il procedimento di gara al fine di emendarlo da eventuali errori commessi o da illegittimità verificatesi, senza che ciò costituisca manifestazione, in senso tecnico, del potere di autotutela, il quale, avendo natura di atto di secondo grado, presuppone esaurita la precedente fase procedimentale con l’intervenuta adozione del provvedimento conclusivo della stessa.
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Sono del tutto residuali le ipotesi in cui la Commissione di gara deve essere riconvocata a seguito dell’emersione di errori o lacune nel suo operato: in via ordinaria, infatti, a seguito del completamento dei lavori della Commissione, è il Rup a dover esercitare i suoi poteri di verifica e controllo, nell’esercizio della sua tipica funzione di verifica e supervisione sull’operato della Commissione medesima.
In tal modo la stazione appaltante esercita un controllo non solo di legittimità ma anche nel merito dell’operato della commissione giudicatrice, al fine di verificare la rispondenza dell’offerta presentata agli obiettivi di interesse pubblico da conseguire attraverso il contratto posto a gara.
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Neppure può riconoscersi, in termini più generali, la sussistenza di una sostanziale contraddittorietà fra quanto statuito dalla Commissione e quanto in seguito evidenziato dal Rup, determinatosi –all’esito dei necessari controlli– a proporre all’organo competente di non approvare, per ragioni specifiche, l’aggiudicazione proposta e, quindi, di disporre l’aggiudicazione in favore dell’impresa seconda graduata.
Ciò in ragione dei compiti di verifica e supervisione che spettano al Rup sull’operato della Commissione e, comunque, giacché l’esercizio di tali poteri è del tutto fisiologico nell’ordinaria dinamica degli appalti pubblici e non comporta alcuno dei profili di contraddittorietà lamentati dall’appellante.
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L’amministrazione –legittimata in base a motivate ragione tecniche (evidenziate, come si è detto in precedenza, nella proposta del Rup) a non procedere all’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria– può discrezionalmente optare per due diverse soluzioni: o avvalersi, ai fini della scelta del contraente, della procedura già espletata con scorrimento della graduatoria precedentemente formata dalla Commissione (come è avvenuto nel caso su cui si controverte), o di indire un nuovo esperimento di gara.
Per contro, come già evidenziato in precedenza, non è ordinariamente tenuta a rimettere gli atti alla Commissione di gara per una nuova valutazione delle offerte.
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Con il terzo motivo di appello viene in primo luogo eccepito un presunto difetto di motivazione sia del provvedimento con cui l’amministrazione aveva disposto l’aggiudicazione provvisoria della gara in favore della Do.Ro. s.r.l. –senza peraltro prima formalmente revocare quella già disposta in favore dell’appellante– sia del successivo atto di aggiudicazione definitiva.
Dagli stessi, in particolare, non sarebbero desumibili i “presupposti che fondano la mancata aggiudicazione definitiva in favore della ricorrente”, non essendo sufficiente, al riguardo, il mero rinvio ad una relazione tecnica, che non conterrebbe alcun riferimento all’offerta tecnica, “né viene indicato, almeno nella forma esemplificativa, in quale modo e quali sono le scelte progettuali inficianti”.
Il motivo non è fondato.
Va in primo luogo ribadito il consolidato principio (ex multis, Cons. Stato, III, 11.01.2018, n. 136; V, 23.10.2014, n. 5266; III, 04.09.2013, n. 4433; V, 20.04.2012, n. 2338) secondo cui nelle gare ad evidenza pubblica, la mancata conferma dell’aggiudicazione provvisoria non dà luogo all'esercizio di alcun potere in via di autotutela, tale da richiedere il raffronto tra l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, con conseguente puntuale obbligo di motivazione in capo all’amministrazione.
In tale contesto, del resto, non è in alcun modo prospettabile un affidamento del destinatario dell'aggiudicazione provvisoria, in quanto tale atto non è conclusivo del procedimento di evidenza pubblica e non vi è, dunque, lo svolgimento di alcun procedimento di secondo grado (che comporterebbe la necessità di una comunicazione di avvio del procedimento e, soprattutto, l'esternazione della motivazione inerente il pubblico interesse che legittima la rimozione dell'atto emanato).
In effetti, sino al momento dell’aggiudicazione definitiva la stazione appaltante può sempre riesaminare il procedimento di gara al fine di emendarlo da eventuali errori commessi o da illegittimità verificatesi, senza che ciò costituisca manifestazione, in senso tecnico, del potere di autotutela, il quale, avendo natura di atto di secondo grado, presuppone esaurita la precedente fase procedimentale con l’intervenuta adozione del provvedimento conclusivo della stessa (Cons. Stato, V, 03.07.2017, n. 3248).
Sotto altro profilo (motivo n. 3.2) viene invece dedotta la violazione degli artt. 11, comma 5, 12, comma 1, ed 84 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), per essere stato il Rup illegittimamente sostituito successivamente all’approvazione dell’aggiudicazione –in violazione del principio di unicità dello stesso in materia di appalti– e per avere questi proceduto a rivalutare l’offerta tecnica precedentemente ammessa dalla Commissione di gara (nonostante fosse stata reputata la migliore fra quelle proposte).
Il Rup, quindi, non avrebbe contestato all’Ati la mancanza di un requisito di partecipazione –con conseguente decadenza dall’aggiudicazione provvisoria ed automatica aggiudicazione al secondo in graduatoria– ma avrebbe posto in essere un’operazione valutativa di esclusiva competenza della Commissione di gara.
Anche questo profilo di doglianza non è fondato.
In primo luogo non trova conferma, alla luce degli atti di causa, la denunciata “sostituzione” del Rup da parte del dirigente di settore, ing. Pa.. Invero, risulta che successivamente alla nota del dirigente 04.02.2013, proprio l’ing. Di Ba. –nella sua qualità di Rup– abbia redatto la relazione allegata all’impugnata determina n. 29 del 17.04.2013, determina nella quale (così come nella successiva n. 59 del 2013) il suddetto l’ing. Di Ba. viene correttamente indicato nella sua (attuale) carica di responsabile unico del procedimento (e l’ing. Pa. in quella di dirigente di settore).
Del resto, già la nota prot. 237 del 13.12.2012, contenente la proposta di “revoca” dell’aggiudicazione provvisoria in favore dell’Ati Pa. s.r.l. era stata sottoscritta dal Rup, il quale puntualmente evidenziava i profili di contrarietà della soluzione tecnica migliorativa proposta rispetto ai criteri indicati nella lex specialis di gara.
Per quanto invece la pretesa esautorazione della Commissione di gara da parte del Rup, ovvero del dirigente, va ricordato che, una volta conclusisi i lavori della prima, avente compiti di natura prettamente tecnica in funzione “preparatoria”, finalizzati all’individuazione del miglior contraente, spettava alla stazione appaltante –mediante gli organi a ciò deputati– approvarne l’operato, ossia verificarne la correttezza.
Nella specie, la proposta di aggiudicazione in favore dell’Ati Pa. s.r.l. doveva dunque ritenersi implicitamente non approvata.
Ciò premesso, ritiene il Collegio di dover fare applicazione del principio espresso nel precedente di Cons. Stato, V, 30.05.2016, n. 2293, secondo cui sono del tutto residuali le ipotesi in cui la Commissione di gara deve essere riconvocata a seguito dell’emersione di errori o lacune nel suo operato: in via ordinaria, infatti, a seguito del completamento dei lavori della Commissione, è il Rup a dover esercitare i suoi poteri di verifica e controllo, nell’esercizio della sua tipica funzione di verifica e supervisione sull’operato della Commissione medesima (in tal senso, ex multis, Cons. Stato, Ad. plen. 29.11.2012, n. 36).
In tal modo la stazione appaltante esercita un controllo non solo di legittimità ma anche nel merito dell’operato della commissione giudicatrice, al fine di verificare la rispondenza dell’offerta presentata agli obiettivi di interesse pubblico da conseguire attraverso il contratto posto a gara.
Non può quindi ritenersi, per inciso, che la determinazione impugnata si configuri come atto di ritiro rispetto alle decisioni assunte dalla Commissione.
Neppure può riconoscersi, in termini più generali, la sussistenza di una sostanziale contraddittorietà fra quanto statuito dalla Commissione e quanto in seguito evidenziato dal Rup, determinatosi –all’esito dei necessari controlli– a proporre all’organo competente di non approvare, per ragioni specifiche, l’aggiudicazione proposta e, quindi, di disporre l’aggiudicazione in favore dell’impresa seconda graduata.
Ciò in ragione dei compiti di verifica e supervisione che spettano al Rup sull’operato della Commissione e, comunque, giacché l’esercizio di tali poteri è del tutto fisiologico nell’ordinaria dinamica degli appalti pubblici e non comporta alcuno dei profili di contraddittorietà lamentati dall’appellante (Cons. Stato, V, n. 2293 del 2016, cit.).
Ancora, sub punto 3.3, l’appellante denuncia –come già in precedenza– la presunta sostituzione del Rup in corso d’opera da parte del dirigente di settore.
Il motivo non è fondato, non risultando essere intervenuta la dedotta sostituzione, come in precedenza detto.
Analogamente non è fondato il rilievo di cui al punto 3.4 dell’atto d’appello, nel quale si sostiene che l’art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 demanda la totalità delle operazioni valutative di gara, relative all’aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alla Commissione giudicatrice e non già ai funzionari incardinati nell’organigramma della stazione appaltante.
Sul punto, si richiama quanto già evidenziato da Cons. Stato, VI, 24.04.2007, n. 1842, a mente del quale l’amministrazione –legittimata in base a motivate ragione tecniche (evidenziate, come si è detto in precedenza, nella proposta del Rup) a non procedere all’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria– può discrezionalmente optare per due diverse soluzioni: o avvalersi, ai fini della scelta del contraente, della procedura già espletata con scorrimento della graduatoria precedentemente formata dalla Commissione (come è avvenuto nel caso su cui si controverte), o di indire un nuovo esperimento di gara.
Per contro, come già evidenziato in precedenza, non è ordinariamente tenuta a rimettere gli atti alla Commissione di gara per una nuova valutazione delle offerte.
Per le medesime ragioni in precedenza esposte non può trovare accoglimento il profilo di impugnazione di cui al punto 3.5, che ulteriormente ribadisce la presunta –ma insussistente– sostituzione del Rup (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.10.2018 n. 5863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIIl canone concessorio non si detrae da Cosap e Tosap.
I comuni possono richiedere il pagamento del canone concessorio all'Enel, o ad altre aziende erogatrici di pubblici servizi, in aggiunta alla Tosap o al Cosap, per l'uso o l'occupazione delle strade. Peraltro, trattandosi di un canone aggiuntivo l'importo non va detratto da quanto pagato per il Cosap o la Tosap, in quanto è giustificato dai maggiori oneri a carico dell'amministrazione per effetto dell'uso del suolo. Laddove la legge dispone la detrazione, fa riferimento ad altri ipotetici canoni.

È quanto affermato dal Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 11.10.2018 n. 5862.
Per i giudici di palazzo Spada, il canone concessorio non va «portato in detrazione da quanto già corrisposto a titolo di Cosap o Tosap dal momento che la norma che lo prevede lo qualifica espressamente come aggiuntivo a questi ultimi (in quanto giustificato da maggiori oneri a carico dell'amministrazione per effetto dell'uso o dell'occupazione del suolo pubblico)». Secondo i giudici amministrativi, l'Enel fa impropriamente riferimento «ad altri ipotetici canoni previsti da disposizioni di legge», riscossi dal comune e dalla provincia per la stessa occupazione.
Dunque, il canone concessorio e la tassa o il canone di occupazione spazi e aree pubbliche sono compatibili. E le amministrazioni comunali o provinciali possono richiedere il canone cosiddetto non ricognitorio unitamente alle altre entrate. In questi casi non si realizza una doppia imposizione per la stessa occupazione di suolo pubblico. Inoltre, la somma pagata per il canone non deve essere detratta dall'importo versato per Tosap o Cosap.
Il Consiglio di Stato, in sede consultiva (parere 120/2017), si era già espresso su un ricorso straordinario al presidente della repubblica proposto sempre dall'Enel. Aveva, infatti, ritenuto infondato l'annullamento, per doppia imposizione, della deliberazione del consiglio comunale con la quale era stato approvato il regolamento per l'applicazione del canone concessorio patrimoniale non ricognitorio, che costituisce per l'ente pubblico proprietario del terreno un'entrata patrimoniale.
Il suddetto canone trova la sua giustificazione nella necessità di trarre un corrispettivo per l'uso esclusivo e per l'occupazione dello spazio a soggetti terzi. Mentre la tassa occupazione spazi e aree pubbliche è un tributo e deve essere corrisposta all'amministrazione se si realizzano determinati presupposti ritenuti indici di capacità contributiva. Il Cosap, invece, è un'entrata di carattere patrimoniale, che comuni e province possono istituire in alternativa alla tassa.
Qualche contrasto sui presupposti di legge per richiedere il pagamento del canone è emerso all'interno del Consiglio di stato. Con la sentenza 1926/2016 il Cds ha stabilito che non può essere richiesto il canone concessorio per qualsiasi utilizzo della sede stradale da parte delle aziende erogatrici di acqua, luce e gas, ma solo per lo spazio soprastante ad essa e a condizione che limiti il suo tipico uso pubblico. Ciò che conta è l'uso della sede stradale, che il Codice della strada definisce come la superficie compresa entro i confini stradali (articolo ItaliaOggi del 14.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Appalto per la costruzione di un edificio - Gravi vizi dell'opera - Infiltrazioni di acqua nelle fondazioni dell'edificio - Artt. 1667 e 1669 c.c..
In tema di appalti, la domanda con la quale venga chiesta la condanna dell'appaltatore ad eliminare i vizi dell'opera, può essere riqualificata dal giudice di merito quale domanda di risarcimento in forma specifica del danno da responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c. anziché quale richiesta di adempimento contrattuale ex art. 1667 c.c., allorché a suo fondamento siano dedotti difetti della costruzione così gravi da incidere sugli elementi essenziali dell'opera stessa, influendo sulla sua durata e compromettendone la conservazione.
Pertanto, il giudice di merito nell'esercizio del potere di interpretazione e di qualificazione della domanda non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tenere conto piuttosto del contenuto sostanziale della pretesa desumibile dalla situazione dedotta in causa e delle eventuali precisazioni nel corso del giudizio nonché del provvedimento chiesto in concreto, senza altri limiti che quello di rispettare il principio della corrispondenza della pronuncia alla richiesta e di non sostituire d'ufficio una diversa azione a quella formalmente proposta.

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Difetti della costruzione - Condanna dell'appaltatore - Relazione geologica errata - Indagine sulla natura e la consistenza del suolo edificatorio rientra nei compiti dell'appaltatore - Esecuzione dell'opera a regola d'arte - Garanzia da vizi nei confronti dei terzi acquirenti - Alea d'impresa - Cambio della destinazione d'uso - Ininfluenza - Giurisprudenza.
In tema di appalti, l'eventuale inadeguatezza del progetto, per causa geologica o per alto motivo comunque prevedibile con l'uso della diligenza professionale richiesta ad un operatore specializzato del settore, rientra nell'alea d'impresa. Infatti, nell'appalto per la costruzione di un edificio, l'indagine sulla natura e la consistenza del suolo edificatorio rientra nei compiti dell'appaltatore, ove manchi una diversa previsione contrattuale; in tale situazione, pertanto, i difetti della costruzione, derivanti da vizi ed inidoneità del suolo, comportano la responsabilità dello stesso.
Anche laddove il progetto fosse stato redatto dal committente, l'appaltatore è comunque obbligato a controllare, nell'ambito del suo dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli e nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo.
Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1463 del 23/01/2008; conformi, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10048 del 24/04/2018; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2460 del 01/02/2008; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20853 del 29/09/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11740 del 01/08/2003; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 23594 del 09/10/2017; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8016 del 21/05/2012).

Altrettanto irrilevante è il fatto che gli attori avessero modificato la destinazione d'uso del piano interrato, non essendo revocabile in dubbio che quest'ultimo dovesse essere esente da infiltrazioni a prescindere dalla sua vocazione, abitativa o a locale di servizio. Sotto questo profilo, la destinazione dell'interrato può al massimo rappresentare un elemento rilevante ai fini dell'apprezzamento del danno in concreto, ma non può certo costituire una causa di esclusione del grave difetto dell'opera.
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Difetti di cose immobili - Prescrizione dell'azione ex art. 1669 c.c. - Dies a quo per il computo dei termini.
In tema esecuzioni di lavori su opere edilizie, il dies a quo per il computo dei termini previsti dall’art. 1669 c.c. va individuato dal momento in cui l'attore acquisisce la conoscenza sicura dei difetti e tale consapevolezza non può ritenersi raggiunta sino a quando non si sia manifestata la gravità dei difetti medesimi e non si sia acquisita, in ragione degli effettuati accertamenti tecnici, la piena comprensione del fenomeno e la chiara individuazione ed imputazione delle sue cause, non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 10.10.2018 n. 25057 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il condomino può apportare al muro perimetrale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l'inserimento nel muro di elementi ad esso estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione, purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Corrispondentemente il singolo condomino ha titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio consenso ad ottenere la concessione edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale comune che si attenga ai limiti suddetti.

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Ad ogni modo, quand’anche si volesse ritenere che i muri perimetrali fossero in comproprietà, per giurisprudenza costante da cui non si ritiene doversi discostare “Il condomino può apportare al muro perimetrale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso l'inserimento nel muro di elementi ad esso estranei e posti al servizio esclusivo della sua porzione, purché non impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione con interventi di eccessiva vastità. Corrispondentemente il singolo condomino ha titolo, anche se il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio consenso ad ottenere la concessione edilizia per un'opera a servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale comune che si attenga ai limiti suddetti” (ex multis: C. di St. 11/2006; n. 6297/2004) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 10.10.2018 n. 1445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Sottoprodotti - Terre e rocce da scavo - Certezza sulla destinazione dell'utilizzo - Materiale stoccato e deposito incontrollato - Autorizzazioni - Termine maggiore per la durata dei lavori - Mancata indicazione della normativa extrapenale - Principio di correlazione tra sentenza ed accusa - Tutela del diritto di difesa - Artt. 184, 186, 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In materia di rifiuti, per l'applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo, il presupposto della certezza sulla destinazione all'utilizzo di tutto il materiale stoccato e che, in ogni caso, anche a voler ritenere in qualche modo valide le autorizzazioni di cui all'art. 186 D.lgs. n. 152 del 2006, allora vigente, la durata del deposito si era protratta per ben oltre l'anno consentito, a nulla rilevando la disciplina prevista dall'art. 41-bis della legge n. 98 del 2013, che consentirebbe una deroga all'anno laddove sia previsto un termine maggiore per la durata dei lavori di sistemazione in assenza di una certezza sulla destinazione dell'utilizzo.
Inoltre, la mancata indicazione della normativa extrapenale (quella relativa alla disciplina delle terre e rocce da scavo) integratrice della norma penale non determina alcuna violazione del principio di correlazione tra sentenza ed accusa e, neppure, alcuna lesione del diritto di difesa in presenza di una indicazione di riferimento nella descrizione del fatto (deposito incontrollato di rifiuti costituiti da terre e rocce da scavo (smarino) derivante dai cantieri... ).
Va, poi, ricordato che, poiché il principio di correlazione tra sentenza ed accusa è posto a tutela del diritto di difesa, per il suo rispetto occorre verificare che l'imputato possa avere chiara cognizione, ai fini della sua difesa, di ciò che gli viene contestato
(Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji; Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2018 n. 45272 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Modalità di acquisizione della prova dell'inquinamento acustico - Elementi di prova liberamente raggiunti - Adeguata motivazione - Necessità - Art. 659, comma 1, cod. pen. - D.M. n. 447/1995 e D.M. 16/03/1998 - Fattispecie: emissioni rumorose in presenza di Nulla Osta Acustico e risarcimento dei danni.
In tema delle modalità di acquisizione della prova dell'inquinamento acustico, ai sensi del D.M. n. 447/95 e del Decreto Ministero della Salute del 16/03/1998, la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. è integrata allorché l'attività posta in essere dall'autore del fatto sia concretamente idonea ad arrecare disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, da cui la conseguenza che la prova del disturbo può essere liberamente raggiunta, purché il convincimento del giudice sia sorretto da adeguata motivazione.
Sicché, la responsabilità per il reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone non implica, attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato
(Sez. 1, n. 44905 dell'11/11/2011, Mistretta), di talché priva di rilievo è l'ulteriore censura secondo cui la circostanza che il disturbo sia stato arrecato ad un'unica persona (poi costituita parte civile) esclude il reato.
Ed ancora, la prova dello stesso, poi, ben può essere argomentata sulla scorta degli elementi di prova in atti non essendo condizionata dalla osservanza delle norme dettate in tema di inquinamento acustico.
Nei fatti, l'imputato era stato autorizzato a gestire una discoteca all'aperto con prescrizione di ridurre al massimo le emissioni sonore e, che, era stato rilevato il superamento dei decibel consentiti e che il rumore risultava particolarmente elevato e caratterizzato da musica, voci, schiamazzi e cori degli avventori, che i residenti della zona avevano depositato numerosi esposti lamentando l'eccessivo rumore prodotto dalla discoteca, situazione confermata, in particolare, dal teste presso la cui abitazione erano stati svolti i rilievi fonometrici, e da tali elementi ha tratto la prova del reato che ha congruamente argomentato.

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INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività o mestieri rumorosi - Ambito di operatività dell'art. 659, c. 2° e c. 1°, cod. pen. - Ottenimento del Nulla Osta Acustico - Limiti - Illiceità dei rumori - Mero superamento dei limiti di emissione - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento acustico, l'ambito di operatività dell'art. 659 cod. pen. con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere individuato nel senso che l'illecito amministrativo ricorre solo nella residuale ipotesi in cui si verifichi soltanto il mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i criteri dettati dalla menzionata Legge quadro sull'inquinamento acustico, attuato attraverso l'impiego o l'esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima; mentre, quando la condotta si sia concretizzata nella violazione di disposizioni di legge o prescrizioni dell'autorità che regolano l'esercizio del mestiere o dell'attività, sarà applicabile la contravvenzione sanzionata dall'art. 659 c.p., comma 2; ed ancora, nel caso in cui le attività di cui sopra vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, in modo da attuare una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà configurabile la violazione sanzionata dall'art. 659 c.p., comma 1°. In tale ambito è inconferente che il ricorrente avesse ottenuto il Nulla Osta Acustico.
In primo luogo, non copre l'illiceità dei rumori prodotti da schiamazzi degli avventori tenuto conto che al gestore è imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo "ius excludendi" o all'autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica e, comunque, non impedisce che si verifichi il superamento in concreto in un contesto temporale che integra la condotta di disturbo del riposo delle persone
(Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo).

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INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Art. 659, c. 1°, cod. pen. - Emissioni rumorose in presenza di Nulla Osta Acustico - Atti irripetibili - Misurazioni fonometriche - Tipici accertamenti "a sorpresa" - RISARCIMENTO DANNO - Risarcimento dei danni in favore della parte civile - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Art. 431, c. 1°, lett. b), cod. proc. pen. - Avviso all'indagato - Esclusione - Art. 360 cod. proc. pen..
Integra il reato di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., (disturbo del riposo e l'occupazione dei residenti), la gestione di uno spazio esterno adibito a discoteca con attività di intrattenimento, emettendo mediante impianto stereo emissioni acustiche al di sopra dei limiti di legge e schiamazzi degli avventori.
L'accertamento del fatto in giudizio, legittima anche la condanna, del legale rappresentante della discoteca al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Sul punto, rileva, come dato fattuale il verbale di polizia giudiziaria, relativo all'accertamento in ordine alla rumorosità, costituisce un accertamento urgente su cose o situazioni suscettibili per loro natura di subire modificazioni o di scomparire in tempi brevi e, in quanto atto irripetibile, ai sensi dell'art. 431, comma primo, lett. b) cod. proc. pen., non è soggetto ad alcuna limitazione processuale circa i termini per la sua acquisizione e costituisce atto contenuto nel fascicolo del dibattimento e come tale utilizzabile.
I rilievi fonometrici sono tipici accertamenti "a sorpresa" da inquadrare fra le attività svolte dalla polizia giudiziaria ai sensi degli artt. 348 e 354, comma 2, cod. proc. pen. e non tra gli accertamenti tecnici irripetibili riguardanti cose e luoghi il cui stato é soggetto a modificazione, per i quali l'art. 360 cod. proc. pen. richiede, in quanto non ripetibili, il previo avviso all'indagato. Consegue la perfetta utilizzabilità dell'accertamento compiuto dalla Polizia Giudiziaria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2018 n. 45262 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Strepiti degli animali - RISARCIMENTO DANNI - Risarcimento del danno a terzi - Individuazione del responsabile nella norma civile - Fattispecie: canile "di fatto" - Stretto collegamento tra l’art. 659 cod. pen. e l’art. 2052 - Esclusione - Repertori di giurisprudenza.
In tema di immissioni rumorose prodotti da animali, uno stretto collegamento tra l'art. 659 cod. pen. e l'art. 2052 cod. civ. non ha fondamento, perché la norma penale sanziona, per quel che interessa, chiunque arrechi disturbo alle occupazioni o riposo delle persone o agli spettacoli, ritrovi o trattenimenti pubblici, non impedendo gli strepiti degli animali, mentre la norma civile colpisce il proprietario dell'animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, quando l'animale arrechi danno a terzi, sia nel caso della custodia, sia nel caso di smarrimento o fuga, salvo la prova del caso fortuito.
Sicché, dai repertori di giurisprudenza si ricava che l'art. 2052 cod. civ. è applicato nelle ipotesi di danni materiali da aggressione dell'animale o da urto di veicolo, mentre l'art. 659 cod. pen. nelle ipotesi di rumori molesti. Per questo motivo, la formulazione relativa all'individuazione del responsabile nella norma civile è più rigorosa rispetto a quella penale.
Ciò nondimeno, nella dottrina civilistica l'espressione "chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso" ha un'interpretazione ampia che ricomprende chiunque eserciti sull'animale un potere effettivo di governo del tipo di quello che normalmente compete al proprietario, derivi questo potere da un rapporto giuridico o anche soltanto da un rapporto di fatto. Nella specie, l'impostazione è in linea con lo sviluppo della teoria della responsabilità da contratto nonché degli obblighi di protezione e garanzia, in cui il ricorrente, pur non essendo formalmente il proprietario dei cani (se non di pochi), intrattiene con gli stessi comunque un rapporto di fatto, siccome dimorano nella sua proprietà e si trovano quindi sotto il suo "governo".

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INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo alle occupazioni o riposo delle persone - Elemento psicologico del reato di cui all'art. 659 cod. pen. - Intenzione dell'agente di arrecare disturbo alla quiete pubblica - Necessità - Esclusione.
Ai fini dell'elemento psicologico del reato di cui all'art. 659 cod. pen., non occorre l'intenzione dell'agente di arrecare disturbo alla quiete pubblica, essendo sufficiente la volontarietà della condotta desunta da obiettive circostanze (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2018 n. 45247 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione per la quale è necessario il titolo edilizio.
In ogni caso, anche a volere sostenere la legittimità della preesistente tettoia, secondo risalente ed altrettanto condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa, la chiusura di una tettoia di dimensioni non trascurabili, nel comportare la piena utilizzabilità di un volume in ampliamento del fabbricato cui accede, va qualificata come ristrutturazione edilizia, e quindi assoggettata alla disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. 380/2001.
E’ quindi del tutto giustificato e corretto che l’amministrazione abbia fatto ricorso alla disciplina di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001 per l’esercizio del potere repressivo e sanzionatorio, di contrasto all’attività abusiva.
Il menzionato art. 31, al comma 2, dispone infatti che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
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Riguardo poi all’assunto circa la remota preesistenza del manufatto, è sufficiente osservare che lo stesso non è assistito da una valida prova, il cui onere incombe sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza, l’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732, con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte).
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Dall’ordine demolitorio non può sottrarsi il gazebo, in quanto, benché aperto sui lati, risulta poggiato su una piattaforma (platea) in conglomerato cementizio che di per sé comporta uno sviluppo di superficie utile; alla stessa disciplina sanzionatoria è soggetta l’ulteriore platea in conglomerato cementizio la cui funzione è di sostegno ed appoggio della piscina in plastica.
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2.- Il ricorso è infondato.
2.1.- Infondato è il primo motivo di censura.
Le opere compiute dal ricorrente non possono essere derubricate ad interventi di lieve entità, avendo comportato un aumento di superficie pari a 100 mq con realizzazione di tre vani ed accessori e conseguente incremento anche per il profilo dei volumi.
La stessa Relazione tecnica di parte fa presente che sull’area interessata esisteva un’originaria tettoia in legno, con copertura a doppia falda inclinata.
In disparte la considerazione che, riguardo alla stessa realizzazione della tettoia, il ricorrente non fornisce alcun elemento attestante il relativo titolo legittimante, la struttura è stata per di più chiusa ai lati, sviluppandosi, in tal modo, un nuovo volume sulla preesistente superficie, avente altezza interna di circa 2,30 metri lungo i lati longitudinali e 2.70 metri al centro dei locali (colmo).
Secondo costante e condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa, una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni –com’è nel caso di specie- è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione per la quale è necessario il titolo edilizio (cfr. ex multis, Tar Torino, sez. II, 09.05.2018, n. 550; TAR Napoli, sez. VII, 03.05.2018, n. 2967).
2.2.- In ogni caso, anche a volere sostenere la legittimità della preesistente tettoia, secondo risalente ed altrettanto condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa, la chiusura di una tettoia di dimensioni non trascurabili, nel comportare la piena utilizzabilità di un volume in ampliamento del fabbricato cui accede, va qualificata come ristrutturazione edilizia, e quindi assoggettata alla disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. 380/2001 (TAR L'Aquila, sez. I, 07.03.2008, n. 127).
2.3.- E’ quindi del tutto giustificato e corretto che l’amministrazione abbia fatto ricorso alla disciplina di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001 per l’esercizio del potere repressivo e sanzionatorio, di contrasto all’attività abusiva.
Il menzionato art. 31, al comma 2, dispone infatti che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
2.4.- Riguardo poi all’assunto circa la remota preesistenza del manufatto, è sufficiente osservare che lo stesso non è assistito da una valida prova, il cui onere incombe sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. sentenza del 27.08.2016 n. 4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732, con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte).
2.5.- Irrilevante appare poi la considerazione circa la non abitabilità dei locali per altezza inferiore rispetto ai minimi regolamentari, stabiliti dal menzionato D.M. 05.07.1975; questo aspetto può rivestire rilievo, eventuale, ai fini della sanabilità dell’opera in sede di eventuale richiesta di accertamento di conformità (ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001).
3.- Dall’ordine demolitorio non può sottrarsi il gazebo, in quanto, benché aperto sui lati, risulta poggiato su una piattaforma (platea) in conglomerato cementizio che di per sé comporta uno sviluppo di superficie utile; alla stessa disciplina sanzionatoria è soggetta l’ulteriore platea in conglomerato cementizio la cui funzione è di sostegno ed appoggio della piscina in plastica (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 09.10.2018 n. 5839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto; in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 L. n. 241/1990, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, conseguenziale ad un procedimento di natura vincolata tipizzato e disciplinato in maniera puntuale dal legislatore.
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Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordine di demolizione è atto privo di contenuto dispositivo e di portata lesiva, avendo natura meramente ricognitiva del decorso del tempo e della mancata spontanea esecuzione del provvedimento demolitorio.
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4.- Infondata è anche la terza censura.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto; in quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 L. n. 241/1990, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, conseguenziale ad un procedimento di natura vincolata tipizzato e disciplinato in maniera puntuale dal legislatore (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 05.06.2017 n. 2681; id., sez. V, 28.04.2014 n. 2194; TAR Napoli, sez. III, 19.06.2018, n. 4048).
5.- Inammissibile, infine, si presenta il ricorso per motivi aggiunti.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordine di demolizione è atto privo di contenuto dispositivo e di portata lesiva, avendo natura meramente ricognitiva del decorso del tempo e della mancata spontanea esecuzione del provvedimento demolitorio (ex multis, Tar Napoli, sez. VI, 02.07.2018, n. 4357) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 09.10.2018 n. 5839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto.
Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito, va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.
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1.‒ L’appello è fondato.
2.‒ Va premesso che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001), le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia). In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).
Ebbene, le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito, va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.10.2018 n. 5801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea di diritto, va ribadito che, il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume.
Al riguardo, mentre ai fini edilizi un nuovo volume può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio, perché ritenuto volume tecnico), ai fini paesaggistici invece può assumere comunque una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi.
Questo vale dunque per i volumi non considerati normalmente rilevanti per l'attività edilizia, perciò anche la realizzazione di volumi sotterranei, della rampa di accesso e del correlativo muro di contenimento laterale, come la posa in opera di rilevanti superfici e delle griglie di aerazione dei sottostanti locali, possono essere considerate rilevanti dal punto di vista paesaggistico e come tali essere in contrasto con le previsioni intese ad impedire l'alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture.
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Per potersi parlare di volume tecnico, occorre trovarsi dinanzi ad un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, in quanto destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questo come possono essere, e sempre in difetto dell'alternativa, quelli connessi alla condotta idrica, termica e all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generale aumento di carico territoriale o di impatto visivo.
In altre parole, possono considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori), che non possono essere ubicati all'interno di questa e che sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale.
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2. Peraltro, il gravame è infondato nel merito.
2.1 In linea di fatto appaiono pacifici i seguenti elementi: la consistenza degli abusi, l’assenza di titolo edilizio e la relativa collocazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
In linea di diritto, va ribadito che, il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (cfr. Consiglio di Stato, sez.VI 19.09.2018 n. 5466, sez. IV, 05.08.2013, n. 4079, e 12.02.1997, n. 102).
Al riguardo, mentre ai fini edilizi un nuovo volume può non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio, perché ritenuto volume tecnico), ai fini paesaggistici invece può assumere comunque una rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi. Questo vale dunque per i volumi non considerati normalmente rilevanti per l'attività edilizia, perciò anche la realizzazione di volumi sotterranei, della rampa di accesso e del correlativo muro di contenimento laterale, come la posa in opera di rilevanti superfici e delle griglie di aerazione dei sottostanti locali, possono essere considerate rilevanti dal punto di vista paesaggistico e come tali essere in contrasto con le previsioni intese ad impedire l'alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 02.09.2013 n. 4348 ).
Ciò non può che valere a maggior ragione nel caso di specie, a fronte di una pluralità di nuovi volumi i quali, fra l’altro, appaiono solo affermati quali presunti volumi tecnici, senza che parte appellante fornisca alcun elemento specifico diverso dal riferimento alle dimensioni.
Al riguardo va ribadito che, per potersi parlare di volume tecnico, occorre trovarsi dinanzi ad un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, in quanto destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima; in sostanza si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questo come possono essere, e sempre in difetto dell'alternativa, quelli connessi alla condotta idrica, termica e all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generale aumento di carico territoriale o di impatto visivo (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. V 11.07.2016 n. 3059 e sez. VI 16.06.2016 n. 2658).
In altre parole, possono considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori), che non possono essere ubicati all'interno di questa e che sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale.
Nel caso di specie, nessun elemento di prova viene fornito al riguardo da parte appellante, neppure circa la necessaria strumentalità, né le esigenze tecnico funzionali della costruzione principale. Né potrebbe esserlo, trattandosi all’evidenza di autonomi e nuovi volumi destinati ad un utilizzo continuo ed autonomo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.10.2018 n. 5779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato quello per cui l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.

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2.2 Parimenti infondati sono i rilievi concernenti la risalenza dei manufatti ad un’epoca anteriore al 1942.
Costituisce principio consolidato (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472) quello per cui l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
Nel caso di specie l’appellante nel corso del giudizio di primo grado non ha fornito elementi idonei a comprovare la preesistenza del manufatto, nella sua attuale consistenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.10.2018 n. 5779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione materiale - Natura di reato progressivo nell'evento - Momento della consumazione e cessazione del reato - Bene protetto uso e tutela del territorio - Artt. 29, 30, 44, lett. e), d.P.R. 380/2001.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva configuri un reato progressivo nell'evento, che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando la configurazione del reato, non esauriscono il percorso criminoso che si protrae con gli interventi successivi che incidono sull'assetto urbanistico, in quanto l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica.
Pertanto, il reato di lottizzazione abusiva si può integrare anche quando l'attività posta in essere è successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite perché tali attività iniziali, pur integrando la figura di reato, non ne definiscono l'iter criminoso che si perpetuano negli interventi che incidono sull'assetto urbanistico, tanto sul presupposto che il reato in questione è, per un verso, un reato a carattere permanente e progressivo e, per altro verso, un reato a condotta libera, con la conseguenza che, in primo luogo, non si riscontra alcuna coincidenza tra il momento in cui la condotta assume rilevanza penale e il momento di cessazione del reato, in quanto anche la condotta successiva alla commissione del reato può dare luogo ad una situazione antigiuridica di pari efficacia criminosa; in secondo luogo, il reato di lottizzazione abusiva si realizza anche mediante atti negoziali diretti al frazionamento della proprietà, con previsioni pattizie rivelatrici dell'attentato al potere programmatorio dell'autorità deputata al governo del territorio, ciò non significava che l'azione criminosa si esaurisce in questo tipo di condotta, perché la esecuzione ulteriore di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza statale o comunale
(Sez. 3, n. 6970 del 04/05/1988, Antoniuccio; Sez. 3, n. 5105 del 13/02/2013, dep. 2014; Sez. 3, n. 12772 del 28/02/2012, Tallarini; Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi; Sez. U, n. 4708 del 24.04.1992, Fogliani).

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Lottizzazione abusiva cosiddetta "materiale" - Condotta lottizzatoria e reato permanente - Uso o sfruttamento del territorio da parte di terzi contra ius - Perpetuazione dell'offesa.
Il reato di lottizzazione abusiva è un reato di durata ed ha natura di reato progressivo nell'evento. Sicché, nella lottizzazione abusiva cosiddetta "materiale", non sempre il reato si risolve e si consuma con la sola realizzazione di opere, in quanto la condotta lottizzatoria può perdurare ininterrottamente nel tempo, alla stessa stregua del reato permanente, allorché, indipendentemente dall'avvenuto completamento delle opere programmate ed eseguite, o da ulteriori condotte criminose del lottizzatore o di terzi, essa consenta, come nel caso in esame, l'uso o lo sfruttamento del territorio da parte di terzi, correlativamente impedendo o rendendo più difficoltoso la concreta fruizione del bene da parte della collettività, privata del verde pubblico e del servirsi dei parcheggi, secondo la destinazione impressa alla zona dalla pubblica amministrazione.
In tale caso, la situazione antigiuridica innescata dall'iniziale condotta lottizzatoria si protrae nel tempo in considerazione del perdurante attentato al bene giuridico protetto dall'incriminazione, con la conseguenza che anche il solo mantenimento della situazione contra ius è, in tal caso, sufficiente a perpetuare e ad approfondire l'offesa.

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Reati urbanistici ed edilizi e reato di lottizzazione abusiva - Può essere commesso da chiunque violi la disciplina in materia - Condotta illegittima - Commissione del reato - Pluralità di soggetti, in concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, pubblici ufficiali o amministratori, committente, titolare del permesso di costruire, direttore dei lavori, appaltatore dei lavori ecc).
Il reato di lottizzazione abusiva, al pari degli omologhi reati urbanistici ed edilizi il cui modello legale è tipizzato nel testo unico ex d.P.R. n. 380 del 2001, può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti dalla legge o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e, quindi, dal proprietario, dal committente, dal titolare del permesso di costruire e da qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso insiste, nonché da coloro, come il direttore e l'assuntore dei lavori, che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato le opere senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge.
Pertanto, la condotta illegittima, pur nella sua unitarietà, può essere attuata in forme (il reato è a forma libera) e momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, pubblici ufficiali o amministratori che, come nel caso in esame, hanno rilasciato titoli abilitativi ecc.) sicché correttamente si può configurare la figura del reato progressivo nell'evento lesivo dell'interesse urbanistico protetto.
Un riscontro normativo a detto orientamento si rinviene ora nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 30, comma 7, (in precedenza nella L. 28.02.1985, n. 47, art. 18, comma 7) il quale prevede che l'ordinanza di sospensione da emettere da parte del dirigente o da parte del responsabile del competente ufficio comunale," qualora sia accertata l'effettuazione di una lottizzazione abusiva, debba essere notificata (proprio per evitare un successivo approfondimento dell'illecito) anche agli altri soggetti indicati dell'art. 29, comma 1, ossia, oltre ai proprietari delle aree, al titolare del premesso di costruire, se rilasciato, al committente ed al costruttore, sicché il momento di consumazione del reato si protrae, di regola, fino all'ultimazione dell'ultimo edificio programmato.
Sicché, il reato di lottizzazione è inquadrabile nel c.d. reato progressivo nell'evento (che è cosa ben diversa dal ritenere che la lottizzazione rientri nello schema del reato progressivo) in cui possono concorrere, nell'unicità della fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello programmatorio mediante l'esecuzione di opere di urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli edifici.

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Illecito lottizzatorio - Natura di reato progressivo nell'evento e reato a consumazione prolungata o frazionata - Medesima ratio - Momento della consumazione del reato.
La gravità dell'offesa nel reato di lottizzazione abusiva, può invero spostare il tempo del reato ed il diritto vivente, oltre al reato progressivo nell'evento, tipico dell'illecito lottizzatorio, evidenziando le categorie del reato a duplice schema (Sez. 2, n. 38812 del 01/10/2008, Barreca) e del reato a consumazione prolungata o frazionata (Sez. 4, n. 17036 del 15/01/2009, Palermo) che rispondono alla medesima ratio (così, Sez. 3. n. 25182 del 13/06/2014, Durante).
Ne consegue che l'illecito lottizzatorio si realizza (in altri termini, la consumazione ha inizio) allorquando sia al completo dei requisiti necessari e sufficienti per l'integrazione della fattispecie incriminatrice ed il momento consumativo perdura nel tempo sino a quando l'offesa tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro ad esso successivo, una sempre maggiore gravità, ed in ciò la lottizzazione, quale reato progressivo nell'evento, partecipa alla medesima disciplina del reato permanente, anche mutuandone ricadute giuridiche, e del quale ha in comune la struttura unitaria, l'instaurazione di uno stato antigiuridico ed il suo mantenimento ma ha, in aggiunta, un progressivo approfondimento dell'illecito attraverso condotte successive, anche commesse da terzi ma causalmente collegate al fatto proprio e colpevole dell'imputato, dirette ad aggravare l'evento del reato, atteso che gli interventi susseguenti incidono sull'assetto urbanistico, compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica.

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Integrazione del reato di lottizzazione abusiva - Illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio - Illegittimità permessi di costruire e gli atti amministrativi successivi e conseguenti - Poteri del Consiglio comunale.
Il reato di lottizzazione abusiva è integrato da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata (Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine).
Quindi, per integrare il reato di lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio, è dunque necessaria una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull'assetto urbanistico della zona; ne consegue che il giudice deve verificare, nei singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una valenza autonomamente punibile come mero abuso edilizio ai sensi dell'articolo 44; comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero se esse siano idonee a conferire all'area un diverso assetto territoriale, con conseguente necessità di predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti (Sez. 3, n. 44946 del 25/01/2017; Giacobone).
Ne consegue che il reato di lottizzazione abusiva è un reato di durata ed ha natura di reato progressivo nell'evento. Nella specie, deve ritenersi illegittimo un permesso di costruire avente ad oggetto l'esecuzione di opere diverse da quelle previste su un'area ricompresa in un piano di insediamento produttivo (PIP), se rilasciato in assenza di previa modifica del piano medesimo adottata dal competente consiglio comunale ed approvata dalla Regione.
Sulla base di tali presupposti normativi e dei principi interpretativi generali, è stato affermato che solo il Consiglio comunale può apportare modifiche al piano, spettando esclusivamente a tale organo di individuare specificamente le aree interessate dal P.I.P., atteso che non si tratta di una scelta meramente attuativa di opzioni generali già effettuate, ma di scelta che implica una vera e propria volizione che deve perciò coordinarsi con la pianificazione urbanistica, pur non esaurendosi in essa.
Ne deriva pure che, in assenza di una modificazione di tale assetto realizzata mediante le necessarie procedure previste dalla legge, non possono considerarsi validamente emessi i permessi di costruire e gli atti amministrativi successivi e conseguenti
(Sez. 3, n. 3649 del 03/12/2013, dep. 2014, Attolini).

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Differenza tra opere precarie e non precarie - Titolo abilitativo edilizio - Periodo transitorio.
In materia edilizia, le opere effettivamente precarie sono quelle che in quanto tali non richiedono alcun titolo abilitativo edilizio, mentre le opere non precarie richiedono il titolo abilitativo o interventi di programmazione urbanistica, non essendo normativamente concepibili autorizzazioni che consentano di realizzare nuove costruzioni in precario, per la fondamentale ragione che atti di assenso del genere sono non soltanto "extra legem" ma soprattutto "contra legem", in quanto consentono di tollerare, sia pure per un periodo transitorio (nel caso di specie, si trattava, poi, di un periodo di ben nove anni) una situazione d'evidente abuso urbanistico (Sez. 3, n. 15921 del 12/02/2009, Palombi) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 08.10.2018 n. 44836 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Differenza tra opere precarie e non precarie - Titolo abilitativo edilizio - Periodo transitorio.
In materia edilizia, le opere effettivamente precarie sono quelle che in quanto tali non richiedono alcun titolo abilitativo edilizio, mentre le opere non precarie richiedono il titolo abilitativo o interventi di programmazione urbanistica, non essendo normativamente concepibili autorizzazioni che consentano di realizzare nuove costruzioni in precario, per la fondamentale ragione che atti di assenso del genere sono non soltanto "extra legem" ma soprattutto "contra legem", in quanto consentono di tollerare, sia pure per un periodo transitorio (nel caso di specie, si trattava, poi, di un periodo di ben nove anni) una situazione d'evidente abuso urbanistico (Sez. 3, n. 15921 del 12/02/2009, Palombi) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 08.10.2018 n. 44836 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALimitazioni urbanistiche all’esercizio della libertà di culto al vaglio della Consulta.
Il tema della costruzione di moschee in Italia è molto dibattuto nella politica nazionale, ma soprattutto a livello locale, dove si registrano resistenze da parte di molte comunità.
Il dibattito è destinato a essere influenzato dal pronunciamento della Consulta sulla soluzione normativa offerta dalla Regione Lombardia con la legge 03.02.2015 n. 2, sulla quale sono state rimesse ben due questioni di legittimità costituzionale.

La Sez. II Milano del Tar Lombardia, con la sentenza 08.10.2018 n. 2227, ha interessato il giudice sull'articolo articolo 75 laddove non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando determinarsi (comma 5, «I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi») e in che senso (commi 1 e 2) a fronte di una richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare alla professione del culto (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 15.10.2018).
Il precedente rinvio alla Corte Costituzionale, a mezzo della sentenza non definitiva 03.08.2018 n. 1939, ha riguardato i commi 1 e 2 dello stesso articolo 75.
Legittimità di limiti urbanistici all'esercizio della libertà di culto
Il Tar Milano ha posto la questione di legittimità costituzionale rispetto a una scelta legislativa regionale che condiziona l'esercizio della libertà di fede (pluralismo religioso), relativo ad aspetti essenziali e primari della vita della persona, alla discrezionalità dell'ente locale nell'individuare o meno nello strumento urbanistico luoghi destinati a servizi religiosi.
Ciò significa, più in generale, verificare se attraverso interventi sulle attrezzature culturali e religiose si possa limitare –con norme tecniche– l'ingresso della libertà di culto nel tessuto urbano (Tar Lazio, sezione II-bis, 2501.2017 n. 1323; Consiglio di Stato, sezione V, 03.05.2016 n. 4188; Tar Lombardia, Milano, sezione II, 17.02.2016 n. 344 e ordinanza 12.01.2015 n. 36; Consiglio di Stato, sezione I, parere 29.07.2014 n. 2489; Tar Lombardia sezione II, 28.12.2009 n. 6226).
La limitazione dell'esercizio della libertà religiosa
Le doglianze evidenziate dal giudice amministrativo riguardano una pluralità di aspetti procedurali e di contenuto, destinati a comprimere (anche indirettamente) la libertà di culto. Innanzitutto, il giudice lombardo nota che la programmazione urbanistica comunale interviene con cadenze periodiche pluriennali, non fissate a priori (sine die), con la conseguenza che trovare una sede per esercitare il proprio culto è una questione incerta.
Decorso il termine di diciotto mesi per individuare l'area da destinare alle attrezzature religiose (impregiudicato l'esito dell'istruttoria positiva o di rigetto), non vi è un obbligo giuridico di avviare il procedimento di revisione del piano di governo del territorio (Pgt) necessario per assolvere l'adempimento. Inoltre non è prevista alcuna disposizione «sanzionatoria», quale la sostituzione commissariale per l'adozione del piano de quo.
Tale situazione di oggettiva e perdurante incertezza (oltre il termine ragionevole, in base all’articolo 3 della Costituzione, nonché dell’articolo 2 della legge n. 241/1990) non appare compatibile con il rango costituzionale del diritto di libertà religiosa, tenuto conto di quanto già affermato dalla Consulta (24.03.2016 n. 63) secondo cui «Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all'interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione».
L'incertezza dei termini decisionali
La norma impugnata di fronte al giudice delle leggi, inoltre, «pare violare altresì l'articolo 97 Costituzione e dell'articolo 117, comma 2, lettera m)» laddove non stabilisce un termine certo per rispondere ad un'esigenza riguardante l'esercizio di un diritto fondamentale della persona.
Tale lacuna procedurale contrasta con il principio di buon andamento che deve presiedere l'attività della pubblica amministrazione, il principio di imparzialità dell'azione amministrativa, esprimendo uno sfavore dell'amministrazione nei confronti del fenomeno religioso (contrasta anche con gli articoli 2, 3 e 19 della Carta), e, infine, il principio della certezza del termine di conclusione del procedimento, attinente al livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, nell'aspetto riguardante la predeterminazione della durata massima dei procedimenti (in base all’articolo 29 della legge n. 241/1990).
La violazione del principio di autonomia
L'ulteriore doglianza costituzionale riguarda poi il condizionamento dell'adozione del «Piano delle attrezzature religiose» alla revisione complessiva del piano generale del territorio; attività complessa e dispendiosa, rispetto al termine iniziale, atteso anche che solo nei primi diciotto mesi dall'entrata in vigore della norma le amministrazioni potevano predisporre il piano senza mettere mano all'intera disciplina del governo del territorio.
Scaduto il termine iniziale dei diciotto mesi, l'inserimento del piano richiede quindi necessariamente la revisione dell'intero PGT con un considerevole lavoro rispetto alla singola parte di revisione e conseguente inevitabile aggravamento procedurale.
Tale diversa metodologia di intervento normativo finisce per determinare un’ingiustificata compressione delle prerogative dei Comuni da parte della Regione, integrando una pluralità di violazioni riguardanti:
   - l'articolo 5 della Costituzione, atteso che frustra l'autonomia dei Comuni;
   - l'articolo 114, comma 2, della Costituzione, sotto un profilo generale dell'autonomia riservata ai Comuni in relazione all'esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza;
   - l'articolo 117, comma 6, terzo periodo Costituzione, sotto l'ulteriore profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai Comuni;
   - l'articolo 118, comma 1, Costituzione per l'incidenza sul principio di sussidiarietà verticale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Come affermato dalla giurisprudenza le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lettera g), dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004 (recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137”, di seguito “Codice”), sono qualificabili come “beni culturali” indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12.
Invero, è stato statuito:
   - “il sistema di tutela dei beni in discorso (ovvero delle pubbliche vie, strade ed altri spazi aperti urbani, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni) è imperniato su una presunzione normativa di interesse culturale, sufficiente a determinarne la sottoposizione al regime di tutela di cui alla Parte II del Codice e suscettibile di neutralizzazione solo a seguito dello svolgimento del procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito negativo”;
   - "Il Collegio osserva che l'area in questione ricade nell'ambito della Città Storica per cui, ai sensi dell'art. 10, c. 4, lett. g), del D.Lgs n. 42 del 2004, essa è soggetta a disposizioni di tutela fino alla effettuazione della verifica di interesse”.
Pertanto, il vincolo di tutela sui beni in parola è assunto ope legis e può essere eliminato solo a seguito di apposita verifica di interesse ex art. 12 del Codice. Verifica che ha lo scopo di accertare se l’interesse culturale del bene presunto dalla legge sussista effettivamente e, in caso negativo, di rimuovere la qualifica di bene culturale e che non è legata, come vorrebbe il ricorrente, esclusivamente all’esecuzione di opere o lavori ai sensi dell’art. 21 del Codice.
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Ai fini della qualifica di una via quale bene culturale è irrilevante il fatto che la via sia stata pedonalizzata e ripavimentata in tempi relativamente “recenti”, essendo stata realizzata nel suo complesso ben oltre 70 anni fa, tanto è vero che è fiancheggiata da edifici storici anche importanti, appartenendo al Centro Storico.
Del resto, la contraria interpretazione della ricorrente farebbe sì che anche un intervento di manutenzione, sia pure straordinaria, nei centri storici potrebbe comportare la sottrazione al vincolo ex lege dei beni in questione.
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6. Il motivi di ricorso, che si esaminano congiuntamente in quanto tra loro connessi, sono, ad avviso del Collegio, infondati secondo le seguenti considerazioni.
7. Come affermato dalla giurisprudenza (Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 5934/2014; ord. n. 3804/2013; sent. n. 4010/2013; sent. n. 4497/2013; sent. n. 482/2011) le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lettera g), dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004 (recante “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137”, di seguito “Codice”), sono qualificabili come “beni culturali” indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono, quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12 (Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 5934/2014 citata e, da ultimo, Tar Salerno, Sez. I, sent. n. 517/2016 secondo cui “il sistema di tutela dei beni in discorso (ovvero delle pubbliche vie, strade ed altri spazi aperti urbani, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni) è imperniato su una presunzione normativa di interesse culturale, sufficiente a determinarne la sottoposizione al regime di tutela di cui alla Parte II del Codice e suscettibile di neutralizzazione solo a seguito dello svolgimento del procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito negativo”; nonché Tar Lazio, sez. II, sent. n. 1233/2017 dove si si legge “Il Collegio osserva che l'area in questione ricade nell'ambito della Città Storica per cui, ai sensi dell'art. 10, c. 4, lett. g), del D.Lgs n. 42 del 2004, essa è soggetta a disposizioni di tutela fino alla effettuazione della verifica di interesse”).
7.1. Pertanto, il vincolo di tutela sui beni in parola è assunto ope legis e può essere eliminato solo a seguito di apposita verifica di interesse ex art. 12 del Codice. Verifica che ha lo scopo di accertare se l’interesse culturale del bene presunto dalla legge sussista effettivamente e, in caso negativo, di rimuovere la qualifica di bene culturale e che non è legata, come vorrebbe il ricorrente, esclusivamente all’esecuzione di opere o lavori ai sensi dell’art. 21 del Codice.
7.2. Nel caso in questione, via San Fermo, in quanto ricompresa nel Centro Storico di Padova e bene appartenente ad ente pubblico territoriale, è stata correttamente considerata bene culturale ope legis con conseguente applicazione delle disposizioni di tutela di cui al titolo II del Codice e in particolare dell’art. 106, comma 2-bis, che richiede l’autorizzazione da parte della Soprintendenza nel caso di concessione per uso individuale del bene.
7.3. Ai fini della qualifica di via di San Fermo quale bene culturale è, poi, irrilevante, ad avviso del Collegio, quanto dedotto con il secondo motivo di ricorso in relazione al fatto che la via sia stata pedonalizzata e ripavimentata in tempi relativamente “recenti”, essendo stata realizzata nel suo complesso ben oltre 70 anni fa, tanto è vero che è fiancheggiata da edifici storici anche importanti, appartenendo al Centro Storico di Padova. Del resto, come correttamente rilevato dalla difesa del Ministero resistente, la contraria interpretazione della ricorrente farebbe sì che anche un intervento di manutenzione, sia pure straordinaria, nei centri storici potrebbe comportare la sottrazione al vincolo ex lege dei beni in questione e, pertanto, va disattesa (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 08.10.2018 n. 927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di un plateatico, come chiarito dalla giurisprudenza, “comporta un utilizzo permanente, a fini privati, di spazi pubblici sottratti all'uso comune” e, pertanto, rientra nel concetto di uso individuale del bene culturale ai sensi dell’articolo 106 citato, per cui è necessaria l’autorizzazione della Soprintendenza, che viene rilasciata a condizione che “il conferimento garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene medesimo”.
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7.4. Non è condivisibile, inoltre, l’affermazione della ricorrente secondo la quale il richiamo all’art. 106 operato dalla Soprintendenza sarebbe inconferente perché tale articolo disciplinerebbe “un uso individuale e quindi esclusivo del bene pubblico, tale cioè da non permettere l’utilizzabilità da parte di terzi” mentre l’uso richiesto della Sa.Fe.20 S.r.l. “non è esclusivo ma, al contrario, rivolto ad una generalità di soggetti”.
L’installazione di un plateatico, infatti, come chiarito dalla giurisprudenza, “comporta un utilizzo permanente, a fini privati, di spazi pubblici sottratti all'uso comune” (Cfr. Tar Venezia, Sez. II, 24.07.2018, n. 820) e pertanto rientra nel concetto di uso individuale del bene culturale ai sensi dell’articolo 106 citato, per cui è necessaria l’autorizzazione della Soprintendenza, che viene rilasciata a condizione che “il conferimento garantisca la conservazione e la fruizione pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del bene medesimo”.
7.5. Inoltre, non è fondata la tesi della ricorrente, secondo cui l’articolo 106 citato non sarebbe applicabile perché la fattispecie in questione tutt’al più ricadrebbe esclusivamente nella disciplina di cui all’art. 52 del Codice che, invece, “prevede un intervento “consultivo” a monte della Soprintendenza, ovvero all’interno del procedimento di individuazione delle aree da sottoporre a regolamentazione”, senza che sia prevista “alcuna misura di salvaguardia nelle more dell’approvazione dell’atto comunale di individuazione delle aree pubbliche in cui l’esercizio del commercio è vietato o sottoposto a limitazioni”.
La previsione di cui all’art. 52 non esclude, infatti, ad avviso del Collegio, l’applicazione dell’art. 106 dal momento che:
   - entrambe le norme trovano fondamento nel riconoscimento della competenza del Ministero per i Beni e le Attività culturali in materia, ma, mentre l’articolo art. 106 del Codice è finalizzato a disciplinare qualsiasi uso individuale di un bene culturale appartenente ad un ente pubblico, l’art. 52 mira a coordinare le competenze statali in materia di tutela dei beni culturali e quelle comunali in materia di regolamentazione del commercio, in un’ottica programmatoria e sul presupposto del riconoscimento delle diverse competenze in materia;
   - l’interpretazione sostenuta dalla ricorrente finirebbe per privare le strade, le piazze e gli altri spazi urbani pubblici nei centri storici della tutela prevista per i beni culturali nelle more del perfezionamento dell’iter, che può essere lungo e complesso, degli strumenti pianificatori di cui all’articolo 52 e, pertanto, non può essere condivisa (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 08.10.2018 n. 927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOUn argine ai criteri su misura. CONCORSI PUBBLICI/SENTENZA DEL TAR DEL LAZIO.
In tema di concorsi pubblici, la commissione di valutazione degli elaborati ovvero delle qualità di un candidato deve predeterminare nella prima riunione i criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio delle prove e ciò deve avvenire prima che siano conosciute le generalità dei concorrenti, onde scongiurare il rischio che la confezione dei criteri predetti avvenga su misura, in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Così si è pronunciato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con la sentenza 03.10.2018 n. 9714.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un candidato impugnava gli atti afferenti a una procedura concorsuale indetta dall'agenzia spaziale italiana per la copertura di un posto a tempo indeterminato nel profilo di tecnologo, lamentando la violazione dell'art. 12 del dpr n. 487/1994 che impone alle commissioni esaminatrici di stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali nella prima riunione utile.
Sosteneva, infatti, il ricorrente che la commissione si sarebbe limitata a stabilire solo dei criteri di valutazione di massima non accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi valutativi, non consentendo di conoscere ex post quanto ciascuna delle enucleate caratteristiche possa aver concorso nella formazione del giudizio finale di ogni candidato. Da ciò discenderebbe l'illegittimità del conseguente voto numerico attribuito ai candidati, insufficiente ad esplicitare le motivazioni ad esso sottese secondo tutti i criteri o solo alcuni di essi.
Chiamato a decidere la controversia, il collegio ha avuto modo di precisare come, ai sensi dell'art. 12 dpr 09.05.1994 n. 487, la predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurga ad elemento essenziale nello svolgimento di un concorso pubblico. Il principio di trasparenza dell'attività amministrativa, infatti, pone l'accento sulla necessità che la determinazione e verbalizzazione dei criteri di valutazione avvenga in un momento in cui non possa sorgere il sospetto che questi ultimi possano essere volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, individuando la fase immediatamente antecedente alla concreta valutazione degli elaborati come l'ultimo momento utile per la valida individuazione dei criteri guida.
Ciò posto, osserva il collegio come la commissione di valutazione si sia solo limitata a predisporre una serie di canoni di massima e generali (quali l'aderenza dell'elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva et similia) che, non essendo accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi, finiscono con l'arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati piuttosto che a criteri motivazionali. Detta rassegnata mancanza rende illegittimo il procedimento di concorso per violazione dell'art. 12 del dpr n. 487/1994.
Osserva, inoltre, il collegio come, nel caso di specie, il voto numerico sia comunque insufficiente a motivare le ragioni della valutazione di un elaborato, atteso che il regolamento del personale applicabile alla struttura prevede comunque che la valutazione debba essere effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici.
Ed infatti, sebbene costituisca ormai diritto vivente il principio della idoneità del voto numerico a sintetizzare il giudizio tecnico discrezionale della commissione sulle prove scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di abilitazione), contenendo il voto in sé la sua motivazione senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, detto principio può trovare applicazione solo ove disposizioni specifiche e settoriali non stabiliscano una diversa regula iuris, sancendo, come nel caso di specie, la necessità che venga allestito, in aggiunta all'espressione di un voto numerico, anche un giudizio discorsivo quantunque sintetico
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.10.2018).
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MASSIMA
3. Ritiene il Collegio fondata la censura.
3.1. Osserva al riguardo come sia ormai acquisito da tempo il principio secondo cui la commissione di valutazione degli elaborati di un concorso ovvero delle qualità di un candidato debba predeterminare nella prima riunione i criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio delle prove e che ciò debba avvenire prima che siano conosciute le generalità di concorrenti, onde scongiurare il ischio che la confezione dei criteri predetti avvenga su misura in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Stabilisce invero l’art 12 del D.P.: b. 487/1994 che “Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove.”.
La giurisprudenza ha fornito un’interpretazione conservativa della norma, precisando che l’attività di predeterminazione può avvenir anche dopo lo svolgimento delle prove scritte, purché prima che si proceda alla loro correzione. Si è in tal senso puntualizzato che “
La fissazione di sub-criteri per la valutazione delle prove concorsuali, ai sensi dell'art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1994, non è soggetta a una pubblicazione antecedente allo svolgimento delle prove, avendo una simile operazione il solo scopo di scongiurare il sospetto di favoritismi verso singoli candidati, con la conseguenza che si dovrà ritenere legittima la determinazione dei predetti criteri dopo l'effettuazione delle prove concorsuali, purché prima della loro concreta valutazione, cioè antecedentemente all'effettiva correzione delle prove scritte.” (TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 19.06.2015 n. 597).
Si è espresso in tal senso anche questo Tribunale (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 10.01.2017 n. 368; TAR Lazio-Roma, Sez. III 07.05.2014 n. 4733). L’assunto è enunciato anche dal Giudice d’appello che ha al riguardo precisato che “
Il principio di preventiva fissazione dei criteri e delle modalità di valutazione delle prove concorsuali che, ai sensi dell'art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, devono essere stabiliti dalla commissione nella sua prima riunione (o tutt'al più prima della correzione delle prove scritte), deve essere inquadrato nell'ottica della trasparenza dell'attività amministrativa perseguita dal legislatore, il quale pone l'accento sulla necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che è legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione.” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.03.2015 n. 1411).
3.2. La predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge pertanto ad elemento essenziale nello svolgimento di un concorso pubblico. La mancata predeterminazione dei criteri nel corso della prima riunione della Commissione, di per sé sola, rende illegittimo il procedimento di concorso per violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2016, n. 1567: “
Nei concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove”.
3.3. Nel caso di specie, per il vero, la commissione esaminatrice nella seduta del 04.08.2016 ha predisposto una serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e generali, che non sono accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e concorso nella formazione del giudizio finale di ogni candidato.
Ha fatto infatti difetto la doverosa fissazione dei criteri motivazionali.
Va al riguardo richiamato il recente precedente della Sezione secondo il quale
i “Criteri di valutazione [che] ad avviso della Sezione devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 25.07.2018 n. 8426).
3.4. Oltretutto va soggiunto che la necessità che i criteri di valutazione siano corredati anche dei criteri motivazionali, ovvero dei criteri di attribuzione dei punteggi è sancita expressis verbis dall’art. 5, co. 4, del Regolamento del personale ASI del 13.01.2012, il quale dispone che “La valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di attribuzione di punteggi resi noti dall’interno del bando”.
Occorreva quindi che già il bando facesse menzione specifica dei criteri di valutazione nonché di quelli di attribuzione dei punteggi.
Ed invero la ricorrente lamenta illegittimità anche del bando di concorso, laddove censura al primo motivo “un bando colpevolmente silente sul punto”.
Il primo motivo di ricorso è pertanto fondato e va accolto, con annullamento del verbale della commissione del 04.08.2016 nonché di tutti quelli successivi e dello stesso bando di concorso per omessa previsione dei criteri di valutazione e dei criteri di attribuzione dei punteggi.
4. Con il secondo mezzo parte ricorrente lamenta che il voto numerico è insufficiente a motivare le ragioni della valutazione di un elaborato, atteso che l’art. 5 del regolamento del personale ASI entrato in vigore a maggio 2012 stabilisce al comma 4 secondo periodo che “la valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di attribuzione dei punteggi resi noti all’interno del bando”.
4.1. La sintetizzata censura si presta a positiva considerazione e va dunque accolta.
E’ bensì noto che la giurisprudenza amministrativa, suggellata dalla Corte Costituzionale ha in subiecta materia sancito da tempo che nei concorsi pubblici la valutazione dei candidati è sufficientemente espressa con un voto numerico, idoneo a condensare la motivazione, avendo affermato che "il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di abilitazione) esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti" (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV,19.07.2004, n. 5175 e Sez. VI, 02.04.2012, n. 1939, sez. III 28.09.2015 n. 4518; Consiglio di Stato, Sez. V, 30.11.2015,n. 5407). Tale principio è stato definito "diritto vivente" dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze 30.01.2009, n. 20, e sentenza 15.06.2011, n. 175).
4.2. Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed opposta soluzione allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano invece una diversa regula iuris, sancendo, come nella specie, la necessità che venga allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico, anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico.
E’ quanto stabilisce l’art. 5, co. 4 del Regolamento per il personale approvato dall’ASI con deliberazione del Consiglio di amministrazione del 13.01.2012 n. CdA201XII/44/2012 (estratto dal Collegio dal Sito web dell’Amministrazione alla Sezione “Leggi, norme e regolamenti ASI”, sottosezione Regolamenti interni).
Tale norma dispone infatti che “La valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di attribuzione di punteggi resi noti dall’interno del bando”.
Ciascun elaborato doveva essere dunque valutato sia mercé l’assegnazione di un punteggio numerico sia mediante l’esternazione di un giudizio ancorché sintetico.
La norma regolamentare dettante la regola del caso concreto non è stata fatta oggetto di modifica da parte dell’amministrazione che era dunque tenuta a seguirla.
Viceversa la mancata espressione anche di un giudizio sintetico da parte della Commissione ha integrato un patente violazione del disposto del riportato art. 5, co. 4, del Regolamento del personale ASI, contribuendo a colorare di illegittimità l’intera procedura di gara.
In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni che precedono il ricorso si profila fondato e va accolto, potendosi assorbire il terzo motivo dedicato alla composizione della commissione e non potendosi scrutinare le censure svolte al quarto mezzo ed espressamente formulate dalla ricorrente in via gradata, ossia per l’ipotesi di negativo scrutinio di quelle trancianti dirette contro l’intera procedura di concorso.
L’annullamento degli atti concorsuali importa la caducazione del contrato di lavoro a tempo indeterminato stipulato il 22.12.2016 (produzione controinteressata del 27.07.2017 dall’ASI con la controinteressata Sa.Mi..
Le spese seguono la soccombenza nella misura definita in dispositivo.

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che la deroga all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9 della legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito dall’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie.
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2 Con il secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 9, lett. d), della legge n. 10 del 1977, eccesso di potere e difetto di motivazione.
Si sostiene che il costo di costruzione non potesse essere richiesto, in quanto l'intervento autorizzato rientrerebbe fra le ipotesi di esenzione contemplate dal richiamato articolo 9 il quale prevede che il contributo di concessione non sia dovuto ... “d) per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari”.
2.1 La censura non può essere condivisa. L’intervento in questione prevede la demolizione e la ricostruzione di un edificio preesistente, oltre al cambio di destinazione d’uso con opere di un annesso agricolo.
2.2 Si può prescindere dai contrasti giurisprudenziali sull’applicabilità della norma citata agli interventi di demolizione e ricostruzione (per la prima ipotesi, v. Tar Marche, 05.08.2009, n. 854 e 22.05.2012, n. 446; contra Tar Campania Napoli, 09.05.2012, n. 2136), dato che comunque i presupposti per l’esenzione non sono dimostrati nel caso concreto.
2.3 Difatti, la giurisprudenza ha chiarito che la deroga all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9 della legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito dall’art. 17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha un fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar Campania Salerno, 22.06.2015, n. 1416; Tar Lombardia Milano, 10.10.1996, n. 1480; Tar Toscana, 26.04.2017, n. 616; Tar Marche, 09.01.2018, n. 9)
(TAR Marche, sentenza 01.10.2018 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di compensare gli oneri di urbanizzazione con le somme versate dal privato per la realizzazione in proprio delle opere di urbanizzazione costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell'amministrazione (che ben può optare per soluzioni diverse senza obbligo di specifica motivazione) ed un vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente solo allorché, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di "accettazione" consensuale da parte della stessa amministrazione.
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3 Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 11 della richiamata legge n. 10 del 1977, per il mancato riconoscimento delle opere di urbanizzazione realizzate dai concessionari.
Sul punto il Collegio nota come la giurisprudenza più recente sia del tutto maggioritaria nel ritenere che la possibilità di compensare gli oneri di urbanizzazione con le somme versate dal privato per la realizzazione in proprio di tali opere costituisca oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell'amministrazione (che ben può optare per soluzioni diverse senza obbligo di specifica motivazione) e che un vero e proprio diritto sorge in capo al privato proponente solo allorché, a fronte della realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di "accettazione" consensuale da parte della stessa amministrazione (tra le tante decisioni, Cons. Stato, IV, 21.04.2008, n. 1811; Tar Toscana, 02.12.2013, n. 1718; Tar Campania, Napoli, 07.07.2010, n. 16606)
(TAR Marche, sentenza 01.10.2018 n. 631 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all'interno di un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, è necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell'immobile.
In linea con l'indirizzo suindicato si dispiega la giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente, evidenziato come la realizzazione di un soppalco rientra nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia qualora determini una modifica della superficie utile dell'appartamento con conseguente aggravio del carico urbanistico.

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1. Il sig. Fr.Ro. ha impugnato il provvedimento con il quale il Comune di Napoli ha ordinato, ai sensi dell’art. 33 TUED, il ripristino dello stato dei luoghi in relazione a un soppalco realizzato all’interno dell’immobile di via ... 16, privo di permesso di costruire, come accertato a seguito di sopralluogo della Polizia Municipale.
...
5. Il ricorso va respinto.
Il soppalco in questione ha superficie di 20 mq ed è impostato a m. 1,90 dal calpestio ed a m. 2,10 dalla copertura.
Come rilevato nel provvedimento impugnato, esso non rispetta le altezze minime previste per gli ambienti abitativi dall’art. 43 legge 457/1978 (il quale richiede che l’altezza dei locali sottostanti il soppalco non deve essere inferiore a mt. 2,70 per gli ambienti abitativi e a 2,40 per i vani accessori).
Il dato è, oltretutto, incontestato, e nessun riferimento ad esso viene fatto nel ricorso né nella memoria depositata dalla parte in vista del merito.
Ciò basta per decretare il rigetto del ricorso.
6. Per completezza si aggiungono le considerazioni che seguono.
6.1. L’eccezione relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento va respinta in quanto, per giurisprudenza consolidata e costante, gli ordini di demolizione di un'opera abusiva non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atti dovuti e rigorosamente vincolati, con riferimento ai quali non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
6.2. Gli ordini di demolizione di opere edilizie abusive non necessitano di apposita motivazione, essendo sufficientemente motivati con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime concessorio, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico né al decorso del tempo (sul punto si vedano le Ad. Pl. 8 e 9 del 2017), in quanto a fronte di un abuso edilizio -che arreca un vulnus all'assetto del territorio e che assume natura di illecito permanente ponendosi in perdurante contrasto con le leggi amministrative sino a quando non viene ripristinato lo stato dei luoghi- non può neppure invocarsi il principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, in quanto il giudizio di antigiuridicità dell'operato è già complessivamente contenuto nella legge e non vi è pertanto ragione di una specifica motivazione sulla preminenza dell'interesse pubblico.
6.3. Infine, alla stregua delle risultanze istruttorie in atti, e segnatamente dal verbale di sopralluogo del 07.08.2009, emerge che il soppalco in contestazione –oltre che a non essere conforme alle altezze minime stabilite dalla disciplina di settore e fissate in mt 2,70 per i vani con destinazione residenziali e mt 2,40 per i vani accessori- occupa l’intera superficie dell’appartamento e in esso è stato ricavato un locale wc, di talché si è determinato per effetto della sua realizzazione un incremento della superficie utile.
Per i profili qui in rilievo vanno condivise la qualificazione dell'illecito come ristrutturazione abusiva e la spedizione della misura ripristinatoria, come in più occasioni ha stabilito la giurisprudenza di questa Sezione (da ultimo, sentenza 28.03.2018, n. 1981).
Ha affermato il collegio che “la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all'interno di un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto. In linea di principio, è necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva, ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell'immobile (Consiglio di Stato, sez. VI, 02/03/2017, n. 985).
In linea con l'indirizzo suindicato si dispiega la giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente, evidenziato come la realizzazione di un soppalco rientra nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia qualora determini una modifica della superficie utile dell'appartamento con conseguente aggravio del carico urbanistico (cfr. Tar Sardegna, Sez. II, 23.09.2011, n. 952; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 11.07.2011, n. 1863; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 21.03.2011, n. 1586).
Lo stesso è a dirsi rispetto al frazionamento del manufatto in plurime unità abitative che, persino nei casi in cui avvenga senza aumento di superficie, a differenza della mera redistribuzione degli spazi interni, all'epoca della realizzazione dei lavori, era considerata dalla normativa edilizia quale ristrutturazione pesante, che necessitava del permesso di costruire (cfr. ex multis TAR Napoli, (Campania), sez. IV, 13/03/2017, n. 1434)
.”
Per completezza si aggiunga che non assumono rilievo, in ossequio al principio tempus regit actum, le sopravvenute modifiche confluite nella novellata lett. b), dell'art. 3, comma 1, del d.p.r. 380/2001, del d.l. n. 133 del 2014 (conv. in l.) secondo cui “nell'ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione di uso".
7. Il ricorso va quindi respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. IV. sentenza 27.09.2018 n. 5645 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Potere della Commissione di gara di riesaminare il procedimento di gara già espletato.
Non può negarsi il potere della Commissione di gara di riesaminare, nell’esercizio del potere di autotutela, il procedimento di gara già espletato, riaprendolo per emendarlo da errori commessi o da illegittimità verificatesi, in relazione all’eventuale illegittima ammissione o esclusione dalla gara di un’impresa concorrente.
Potere il cui esercizio richiede la previa revoca dell’aggiudicazione definitiva, proprio per creare le condizioni necessarie alla rinnovazione della fase del procedimento riconducibile alla specifica competenza della Commissione tecnica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 25.09.2018 n. 906 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Invero, ritiene il Collegio che l’improvvida schematizzazione non sia sufficiente a giustificare la revoca dell’aggiudicazione, a fronte di una difficile lettura dei documenti di gara, che ha addirittura indotto il RUP ad acquisire un parere terzo, per le ragioni che si andranno a chiarire nel prosieguo.
Non prima, però, di aver provveduto all’esame dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, fondata dall’ASSL sull’asserita applicabilità alla fattispecie della teoria dei vizi non invalidanti, dal momento che quello compiuto sarebbe un mero accertamento tecnico, privo di discrezionalità, la cui illegittimità, per ciò stesso, non potrebbe comunque condurre all’annullamento ex art. 21-octies citato.
In relazione a ciò appare innanzitutto necessario chiarire che, nel caso di specie, non ricorrono le condizioni di applicabilità né della prima parte del secondo comma di tale norma, né della seconda parte del secondo comma, espressamente correlata alla presenza del solo vizio della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, non ravvisabile nel caso di specie e la cui estensione analogica in presenza di altri vizi formali, operata negli anni dalla giurisprudenza, non potrebbe in alcun modo arrivare fino a comprendere l’ipotesi in cui l’atto sia affetto da incompetenza relativa, dal momento che, in assenza di una ratifica da parte dell’organo competente non potrebbe comunque affermarsi che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso, così come, invece, richiesto dalla disposizione in commento.
Diventa, dunque, essenziale stabilire se il RUP fosse o meno titolare non tanto del potere di adottare la revoca impugnata, quanto di ravvisare i presupposti per l’implicita esclusione dalla gara della ricorrente e la sua aggiudicazione alla controinteressata, dal momento che l’eventuale incompetenza non potrebbe essere superata alla luce della teoria dei vizi non invalidanti, nemmeno in ragione di quanto previsto dalla prima parte del secondo comma dell’art. 21-octies in parola, in quanto quello censurato non può comunque essere qualificato come un atto dovuto.
La revoca dell’aggiudicazione, infatti, sarebbe qualificabile come atto dovuto solo se fosse oggettivamente dimostrata la carenza di un requisito ritenuto essenziale per l’ammissibilità dell’offerta, oggettivamente rilevabile dal RUP.
È pur vero che, in applicazione di quella stessa giurisprudenza invocata da parte resistente (Consiglio di Stato, sentenza n. 742/2017), secondo cui la revoca del provvedimento spetta allo stesso soggetto che ha adottato l’atto di primo grado, nel caso di gara, colui che può procedere al ritiro degli atti è la stesso soggetto che ha disposto l’aggiudicazione e, dunque, nel caso in esame, il Dirigente dell’Ufficio Comune di ARO 7/BA, ma ciò può accadere tout court se il vizio dell’atto di primo grado sia imputabile alla sfera di competenza dello stesso, mentre, in caso contrario, ciò presuppone la rimessione della verifica della legittimità della fase viziata all’organo competente al suo espletamento.
Nella fattispecie in esame, l’illegittima aggiudicazione sarebbe derivata da un errore della commissione tecnica che, secondo il RUP, avrebbe equivocato sull’offerta tecnica della Di., ritenendo che il prodotto offerto possedesse tutti i requisiti essenziali richiesti e, in particolare, un “sistema automatico di aspirazione dei vapori” che, invece, non avrebbe corredato il processatore “Donatello”, ma solo la sua successiva evoluzione, sviluppata nelle more dell’aggiudicazione.
Considerato che la commissione tecnica, nel proprio verbale, afferma il contrario, a fronte del dubbio emerso dopo l’aggiudicazione, il RUP, anziché chiedere un parere terzo per confutare l’affermazione della commissione tecnica, avrebbe dovuto riconvocare quest’ultima per il rinnovo dell’attività.
Se, infatti, il giudizio è, nella fisiologia del procedimento di gara, demandato alla Commissione, che deve accertare il possesso del requisito e attribuire il relativo punteggio, il contrarius actus non può che essere demandato alla Commissione stessa, che deve procedere al rinnovo della valutazione.
Diversamente opinando, quel giudizio che ha condotto a ritenere ammissibile l’offerta da parte della Commissione tecnica, a tal fine appositamente costituita, finirebbe per essere sostituito da un giudizio personale del RUP, che avrebbe così superato la discrezionalità tecnica esercitata dalla Commissione nel ritenere che il sistema di aspirazione mediante pressione verso il basso dei gas, conglobati nel sistema di aerazione, previo passaggio nei filtri (attivata dunque dal basso), descritto negli atti di gara fosse idoneo a integrare quel sistema automatico di aspirazione richiesto dalla lex specialis di gara. E che di discrezionalità tecnica e non di mero accertamento del requisito si tratti pare confermato dal fatto che ciò che è contestato non è l’assenza del sistema descritto, ma la possibilità di ricondurlo al concetto di sistema di aspirazione automatica. Possibilità sussistente a fronte della generica descrizione del requisito richiesto, derivante dalla mancata specificazione delle modalità secondo cui l’aspirazione doveva essere garantita.
Tutto quanto sin qui rappresentato vale, in primo luogo, ad escludere che l’atto impugnato fosse un atto dovuto, non essendo oggettiva e comprovata la sussistenza del presupposto, ovvero l’effettiva carenza del requisito richiesto, ma conduce anche a ravvisare la illegittimità della revoca disposta dal RUP, in quanto soggetto non competente, non all’adozione dell’atto di secondo grado in sé, ma all’accertamento della sussistenza del presupposto oggettivo/tecnico per farne discendere le ulteriori conseguenze in ordine alla definizione della gara.
La censurata revoca dell’aggiudicazione risulta, dunque, illegittima per la dedotta carenza del presupposto essenziale, il cui accertamento avrebbe dovuto essere compiuto dalla Commissione tecnica all’uopo riconvocata, sì da consentire alla stessa la valutazione dell’ammissibilità dell’offerta alla luce di quanto successivamente emerso.
Conseguentemente il provvedimento impugnato deve essere annullato, ancorché nella sola parte in cui, dopo aver disposto la revoca dell’aggiudicazione definitiva, il RUP, al di fuori dei poteri propri di tale organo, ha ritenuto che sussistessero i presupposti per l’esclusione della ricorrente dalla gara e per l’aggiudicazione alla controinteressata.
A fronte della sussistenza del dubbio circa il possesso del requisito tecnico minimo di cui si controverte, infatti, il RUP avrebbe dovuto annullare l’aggiudicazione a favore di Di. s.p.a., riconvocare la commissione di gara per verificare, in sede di autotutela, se l’offerta di tale concorrente fosse stata legittimamente ammessa o avrebbe dovuto essere esclusa e solo in quest’ultimo caso avrebbe potuto disporre l’esclusione dalla gara della ricorrente e l’aggiudicazione alla controinteressata.
Come chiarito dal giudice d’appello, infatti,
non può negarsi il potere della Commissione di gara di riesaminare, nell’esercizio del potere di autotutela, il procedimento di gara già espletato, riaprendolo per emendarlo da errori commessi o da illegittimità verificatesi, in relazione all’eventuale illegittima ammissione o esclusione dalla gara di un’impresa concorrente (Consiglio di Stato, sez. III, 11/01/2018 n. 136): potere il cui esercizio richiedeva la previa revoca dell’aggiudicazione definitiva, proprio per creare le condizioni necessarie alla rinnovazione della fase del procedimento riconducibile alla specifica competenza della Commissione tecnica, che dovrà, quindi, provvedervi.
Data la natura interpretativa della questione dedotta e formale del rilevato vizio di incompetenza, le spese del giudizio possono trovare compensazione tra le parti in causa.

EDILIZIA PRIVATA: Localizzazione degli impianti per la telefonia mobile.
E' illegittima una prescrizione di un regolamento comunale recante la disciplina della localizzazione degli impianti per la telefonia mobile che ammette l’installazione di detti impianti negli ambiti soggetti a trasformazione urbanistica mediante pianificazione attuativa, purché venga sottoscritto un atto impegnativo da allegare all’istanza con il quale il gestore dell’impianto assume l’obbligo di procedere, a seguito di semplice richiesta del Comune, all’integrale rimozione dell’impianto al fine di consentire la trasformazione prevista dallo strumento urbanistico, e stabilisce che l’amministrazione può prescrivere la prestazione di fideiussione per un importo pari al presumibile costo di rimozione del manufatto e di remissione in pristino dell’area.
Nella sostanza, la statuizione persegue proprio l’obiettivo vietato dal legislatore, ossia l’introduzione di un divieto generalizzato –seppur temporalmente differito– di ubicazione delle strutture in aree estese del Comune, con un forte potere di dissuasione, atteso che l’operazione di allocazione dell’impianto risulterebbe del tutto aleatoria, esposta a tempo indefinito al rischio di uno spostamento coatto susseguente alle scelte discrezionali degli organi comunali, del tutto imprevedibili e del tutto scevre da limiti predefiniti (anche di carattere motivazionale)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.09.2018 n. 879 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Rilevato:
   - che, sotto il profilo della compatibilità urbanistica, il Comune di Bergamo ha sostenuto che il nuovo impianto ricade in ambito assoggettato a trasformazione urbanistica (At) n. 8 denominato “Porta Sud”;
   - che l’Ente locale ha invocato l’art. 7 del regolamento comunale di disciplina della localizzazione degli impianti per la telefonia e la minimizzazione dell’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici;
   - che detta disposizione ammette l’installazione negli ambiti soggetti a trasformazione urbanistica mediante pianificazione attuativa, “purché venga sottoscritto un atto impegnativo da allegare all’istanza con il quale il gestore dell’impianto assume l’obbligo di procedere, a seguito di semplice richiesta del Comune, all’integrale rimozione dell’impianto al fine di consentire la trasformazione prevista dallo strumento urbanistico”, e stabilisce che “l’amministrazione può prescrivere la prestazione di fidejussione per un importo pari al presumibile costo di rimozione del manufatto e di remissione in pristino dell’area”;
   - che il legislatore riconosce a tali impianti il carattere di “pubblica utilità” (art. 90 del D.Lgs. 259/2003), e assimila le infrastrutture di comunicazione elettronica alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7, del D.P.R. 380/2001 (art. 86, comma 3, del predetto D.Lgs.);
   - che, come ha sostenuto il Consiglio di Stato, sez. IV – 17/04/2018 n. 2308, “secondo la Corte costituzionale, la scelta di inserire le infrastrutture di reti di comunicazione tra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica (Corte cost., n. 336 del 27.07.2005)” e inoltre “Anche la giurisprudenza successiva ha concordemente sottolineato la necessità di una capillare distribuzione sul territorio delle reti di telecomunicazione (Cons. Stato, Sez. III, n. 2455 del 13.05.2014) e la loro compatibilità, in linea di principio, con qualsiasi destinazione urbanistica (Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 119 del 15.01.2014), fatto salvo il potere a contenuto pianificatorio dei Comuni di fissare, ai sensi dell'art. 8, ultimo comma, l. n. 36 del 2001, criteri localizzativi per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti in esame (Cons. Stato, Sez. VI, sentenza n. 3646 del 15.06.2011)”;
   - che, recentemente, questo TAR (cfr. sentenza sez. II – 15/02/2018 n. 188) ha ribadito che <<l’assimilazione delle SRB alle opere di urbanizzazione primaria e la considerazione che gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità rivestano “carattere di pubblica utilità”, postulano la possibilità che gli stessi siano ubicati in qualsiasi parte del territorio comunale, essendo compatibili con tutte le destinazioni urbanistiche (ex multis, TAR Campania, Salerno, sez. II, 06.06.2016, n. 1331; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 12.03.2015, n. 764; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 01.04.2014, n. 951)>>;
   - che l’interesse pubblico perseguito dal legislatore con le citate disposizioni “è quello di garantire una costante e/o continua ed omogenea erogazione del servizio pubblico di telefonia mobile, in modo da ottenere un’uniforme copertura e/o un dimensionamento ottimale di tale servizio pubblico su tutto il territorio nazionale, capace di collegare con un livello qualitativo accettabile gli utenti in qualsiasi parte del territorio e perciò anche durante il loro movimento ed all’interno degli edifici” (TAR Basilicata – 19/05/2018 n. 337, secondo la quale “.... i Piani comunali ex art. 8, comma 6, L. n. 36/2001, oltre a non poter stabilire valori di attenzione diversi da quelli determinati dallo Stato ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. a), L. n. 36/2001, non possono statuire limiti alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile generici e/o di carattere assoluto, come quelli oggetto della controversia in esame, ma possono prevedere criteri localizzativi, che, oltre a tutelare le aree più sensibili, garantiscano comunque il completamento della rete cellulare e l’efficace copertura di tale servizio su tutto il territorio comunale ...)”;
   - che la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può soccombere al cospetto di rilevanti interessi di natura pubblica;
   - che, infatti, il regolamento comunale previsto dall'art. 8, comma 6, della L. 36/2001, nel disciplinare il corretto insediamento nel territorio degli impianti, può contenere regole a tutela di particolari zone e beni di pregio paesaggistico o ambientale o storico artistico, o anche per la protezione dall'esposizione ai campi elettromagnetici di zone sensibili (scuole, ospedali etc.), mentre non può imporre limiti generalizzati all'installazione degli impianti;
   - che il Consiglio di Stato (cfr. sez. VI – 03/08/2017 n. 3891) ha nuovamente richiamato la giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze n. 331/2003 e 307/2003) la quale ha affermato che le disposizioni ostative si palesano come illegittime qualora rendano impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, con la conseguenza che i «criteri di localizzazione» si trasformerebbero in «limitazioni alla localizzazione», mentre le disposizioni poste a tutela di siti sensibili sono legittime se consentono «una sempre possibile localizzazione alternativa» e non determinano «l’impossibilità della localizzazione»;
   - che, di conseguenza, sono illegittimi gli atti che limitino la localizzazione delle infrastrutture di carattere generale e riguardanti intere ed estese porzioni del territorio comunale, in assenza di una plausibile ragione giustificativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 01/08/2017 n. 3853);
Evidenziato:
   - che l’art. 7 del regolamento comunale, ritualmente gravato, reca una disciplina che investe ampie porzioni di territorio (tutti gli Ambiti di Trasformazione assoggettati a pianificazione attuativa) e, pur consentendo l’iniziale installazione degli impianti, di fatto introduce una prescrizione che disincentiva i possibili investimenti delle Società di telecomunicazioni, in quanto al momento dell’approvazione del Piano attuativo il gestore dovrà rimuovere l’impianto dal punto in cui è collocato;
   - che, nella sostanza, la statuizione persegue proprio l’obiettivo vietato dal legislatore, ossia l’introduzione di un divieto generalizzato –seppur temporalmente differito– di ubicazione delle strutture in aree estese del Comune di Bergamo;
   - che la fattispecie ad effetto inibitorio, seppur futura ed eventuale, assume un forte potere di dissuasione;
   - che, infatti, l’operazione di allocazione dell’impianto risulterebbe del tutto aleatoria, esposta a tempo indefinito al rischio di uno spostamento coatto susseguente alle scelte discrezionali degli organi comunali, del tutto imprevedibili e del tutto scevre da limiti predefiniti (anche di carattere motivazionale);
Considerato:
   - che è altresì fondato il motivo che censura l’elevazione a profilo ostativo del mancato approfondimento di alcuni argomenti tecnici a supporto della scelta di delocalizzare l’impianto (impossibilità di disaccoppiamento con i gestori esistenti, sovraccarico statico, saturazione del campo elettromagnetico);
   - che, anzitutto, l’art. 89, comma 1, del Codice delle comunicazioni elettroniche, stabilisce testualmente che: “Quando un operatore che fornisce reti di comunicazione elettronica ha il diritto di installare infrastrutture su proprietà pubbliche o private … l’Autorità, anche mediante l’adozione di specifici regolamenti, può imporre la condivisione di tali infrastrutture o proprietà, nel pieno rispetto del principio di proporzionalità …”;
   - che la norma riserva all’Autorità nazionale di regolamentazione del settore il potere di imporre la co-ubicazione degli impianti, entro i limiti e con le modalità individuati dal legislatore;
   - che non spetta dunque al Comune assumere decisioni sulla co-localizzazione degli impianti, ed è illegittimo il diniego del rilascio del provvedimento autorizzatorio in caso di omesso accordo del richiedente con il gestore titolare dell’impianto preesistente (TAR Puglia Lecce, sez. II – 26/06/2018 n. 1070; sez. III – 29/12/2017 n. 2050; TAR Veneto, sez. II – 28/03/2013 n. 459);
   - che l’art. 9 del Regolamento comunale degli impianti esprime una netta “preferenza” per il co-siting;
   - che, in quest’ottica, impone all’operatore –nel caso di antenna esistente nelle immediate vicinanze– il deposito di una relazione tecnica che attesti l’impossibilità vera e propria di collocare il nuovo impianto in co-siting;
   - che, come già osservato, è consentito ai Comuni, nell'esercizio dei loro poteri di pianificazione territoriale, minimizzare l’impatto elettromagnetico, e in questi termini sono reputate legittime solo le disposizioni che non consentono (in generale) la localizzazione degli impianti nell'area del centro storico (o in determinate aree del centro storico) o nelle adiacenze di siti sensibili (come scuole ed ospedali), purché sia garantita la copertura di rete, anche nel centro storico e nei siti sensibili, con impianti collocati in altre aree (cfr. TAR Abruzzo Pescara – 14/06/2018 n. 200, e la giurisprudenza ivi citata);
   - che è per conseguenza inaccettabile la prescrizione, quale obbligo cogente, di dimostrare l’impossibilità assoluta di collocazione delle strutture in co-siting;
   - che, nel rispetto dei criteri generali di localizzazione, l’Ente locale non può interferire con le legittime valutazioni economiche delle Società del settore esigendo l’avallo di studi tecnici approfonditi, non richiesti dalla pertinente normativa primaria già richiamata;
   - che la relazione tecnica di supporto alla delocalizzazione –prodotta dalla parte ricorrente– non può essere invalidata adducendo il mancato approfondimento di alcuni profili tecnici e il dato fattuale della “poca distanza” all’impianto esistente, trattandosi di elementi che esulano dalla competenza specifica attribuita ai Comuni;
Ritenuto, in definitiva:
   - che il gravame è fondato e merita accoglimento;

URBANISTICA: Modificazione della pianificazione in presenza di una convenzione urbanistica già stipulata.
La stipulazione di una convenzione urbanistica attribuisce al privato una posizione di affidamento qualificato che deve essere adeguatamente ponderata dall’Amministrazione laddove questa intenda modificare la disciplina urbanistica dell’area.
La modificazione della pianificazione richiede, in questo caso particolare, una motivazione specifica, ordinariamente non richiesta per le scelte di piano, che sono di regola adeguatamente sorrette dai soli criteri generali di impostazione dello strumento
(TAR Lombardia-Milano, Sez0. II, sentenza 05.09.2018 n. 2047 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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8. Il ricorso è fondato, nei sensi e nei termini che si espongono di seguito.
9. Deve premettersi che l’esistenza di un corridoio ecologico primario nella porzione del territorio di Roncello interessata dal progetto SUAP 2 è stata esclusa dalla sentenza di questa Sezione n. 1138 del 2015, sopra richiamata, avverso la quale pende appello.
Il Collegio ritiene tuttavia che, a prescindere dalle conclusioni in fatto cui quella pronuncia è pervenuta, la Provincia di Monza e della Brianza non potesse comunque imporre il regime di tutela stabilito dal PTCP nell’area SUAP 2, senza valutare specificamente la particolare situazione dell’area, ad essa ben nota.
10. Come sopra detto, la Provincia aveva infatti partecipato alla conferenza di servizi indetta ai fini dell’esame del progetto SUAP 2, e aveva espresso in quella sede il proprio dissenso al progetto. Inoltre, la stessa Provincia aveva impugnato la determinazione finale della conferenza, con ricorso che è stato, peraltro, respinto da questo Tribunale amministrativo (dapprima con la sentenza n. 2466 del 2012, e poi con la sentenza n. 1138 del 2015).
In una tale situazione, la Provincia era tenuta, nell’elaborazione del PTCP, a prendere in considerazione la destinazione dell’area, risultante dalle determinazioni assunte in esito al procedimento di sportello unico alle attività produttive, cui lo stesso Ente aveva partecipato.
In particolare, deve tenersi presente che l’approvazione definitiva del progetto, con effetto di variante al PGT di Roncello, è avvenuta nell’agosto del 2011 e che la stipulazione della convenzione urbanistica accessoria e il rilascio del permesso di costruire risalgono al 22.12.2011, ossia alla medesima data di adozione del PTCP (avvenuta con deliberazione del Consiglio provinciale n. 31 del 22.12.2011); adozione poi resa nota con la pubblicazione dell’avviso sul BURL del 18.01.2012.
Alla data in cui è intervenuto il PTCP, il procedimento SUAP 2 era, perciò, concluso e la posizione del privato proponente era da ritenere particolarmente qualificata, stante la stipulazione anche della convenzione urbanistica. Di tale situazione la Provincia non avrebbe potuto non tenere conto, in quanto la sottoscrizione della convenzione in pari data all’adozione del PTCP –e quindi prima che il Piano potesse assumere concretamente efficacia, sia pure in via interinale– le era stata rappresentata dall’odierna ricorrente mediante la formulazione di osservazioni nel procedimento pianificatorio.
11. Al riguardo, occorre tenere presente che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, costantemente affermato anche da questa Sezione, la stipulazione di una convenzione urbanistica attribuisce al privato una posizione di affidamento qualificato, che deve essere adeguatamente ponderata dall’Amministrazione laddove questa intenda modificare la disciplina urbanistica dell’area. La modificazione della pianificazione richiede, in questo caso particolare, una motivazione specifica, ordinariamente non richiesta per le scelte di piano, che sono di regola adeguatamente sorrette dai soli criteri generali di impostazione dello strumento (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.03.2018, n. 615; Id., 25.10.2017, n. 2020; Id., 23.03.2015, n. 783; Id., 30.09.2014, n. 2404; Id., 22.07.2014, n. 1972).
Se è vero perciò che, in linea di principio, la Provincia non sarebbe stata tenuta a motivare specificamente l’imposizione di una disciplina di tutela, nel caso in esame la ponderazione dell’interesse privato era da ritenere necessaria, in considerazione della particolare posizione della parte.
12. Tale onere motivatorio non risulta essere stato assolto dalla Provincia, la quale ha basato la classificazione dell’area come AAS sui soli parametri di carattere generale assunti a questo scopo, e l’inclusione nella RV sulle previsioni della RER, senza prendere in considerazione l’affidamento qualificato del privato.
Anche in sede di controdeduzione alle osservazioni, la Provincia si è limitata a richiamare l’impugnazione da essa stessa proposta contro la delibera comunale di approvazione del progetto SUAP 2 (impugnazione, come detto, respinta in primo grado, con sentenza avverso la quale pende appello), aggiungendo che: “Vero è che il progetto di SUAP prevede, con un ulteriore spostamento verso sud delle compensazioni, il potenziale ripristino del corridoio ecologico mediante nuovi interventi di mitigazione ambientale; deve essere tuttavia considerato che esse ricadrebbero quasi totalmente nel territorio comunale di Trezzano Rosa (provincia di Milano), su terreni di proprietà privata, nei confronti dei quali nessuna efficacia previsionale può essere esercitata dal Comune di Roncello.
Si deve pertanto considerare che l'attuazione del SUAP andrebbe a precludere totalmente il corridoio ecologico primario all'interno del Comune di Roncello, nulla potendosi prevedere in relazione alla pianificazione del territorio esterno allo stesso Comune ed alla Provincia di Monza e Brianza
”.
In altri termini, la Provincia non esclude affatto che la soluzione oggetto dell’intervento approvato possa essere concretamente idonea a tutelare i valori ambientali, ma fa ricadere sul privato un potenziale difetto di coordinamento tra le competenze della Regione Lombardia (che ha stabilito il tracciato della RER), delle Province di Milano e di Monza e Brianza (nel cui ambito ricadono i territori, rispettivamente, dei Comuni di Trezzano Rosa e di Roncello) e dei Comuni interessati.
13. In definitiva, il ricorso va accolto, nei sensi e nei termini sin qui esposti, con assorbimento delle residue censure. Per l’effetto, deve essere disposto l’annullamento del PTCP, nella parte di interesse della ricorrente.

EDILIZIA PRIVATA: Opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su manufatto abusivo.
Non possono realizzarsi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, per il quale non sia stata ancora definita la procedura di sanatoria o di condono edilizio.
Infatti, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.09.2018 n. 2046 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3.3 Il motivo di censura di cui al punto 3) verte sulla qualificazione giuridica dell’intervento: si tratterebbe di un intervento di manutenzione e risanamento, ai fini anche di un adeguamento alle normative vigenti e sopravvenute, che prevede un accorpamento e un contestuale frazionamento, con adeguamento dei servizi igienici, senza aumento di volume o s.l.p. e senza modifica della destinazione d’uso. Al più, secondo la ricorrente, l’intervento può essere classificato come intervento di risanamento conservativo, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera c), del DPR 380/2001, come recentemente modificato dall'art. 65-bis della legge n. 96 del 2017.
Contra, l’Amministrazione ha applicato la diversa categoria della “ristrutturazione edilizia”, considerando l’intervento in modo unitario.
Va ricordato che la qualificazione dell’intervento ha rilevanza, in quanto non possono realizzarsi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, per il quale non sia stata ancora definita la procedura di sanatoria o di condono edilizio. Infatti, secondo l’orientamento consolidato, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione (ex multis Tar Bari, (Puglia), sez. III, 03/04/2018, n. 496; Tar Napoli, (Campania), sez. VI, 05/03/2018, n. 1407).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento, creando due nuove unità, rese indipendenti tra di loro dalla costruzione di una nuova parete trasversale di separazione realizzata in muratura piena, comporta l’alterazione sostanziale dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, stante la differente distribuzione della superficie interna e dei volumi, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile.
Non possono qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che determinano la creazione di un organismo nuovo che veda alterata la sua struttura; infatti, gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
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Il Collegio non ritiene vi siano elementi per discostarsi da quanto affermato in sede cautelare, circa la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia.
Va premesso che correttamente l’Amministrazione ha effettuato una valutazione globale delle opere, non dei singoli interventi: artificiose frammentazioni, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell'intervento, comportano una scomposizione virtuale delle opere finalizzata a “declassare” l’intervento, che deve invece essere complessivamente considerato.
E’ infatti sempre necessaria una visione globale e non atomistica dell'intervento edilizio, dal momento che la sua qualificazione deriva non dalla singola opera, ma dall’insieme delle variazioni apportate all’assetto del territorio.
Nel caso in esame le singole opere sono state puntualmente descritte nella relazione del tecnico comunale: all’esterno vengono eliminati “importanti e consistenti tratti di muratura perimetrale dell’originario fabbricato, (fronte interno) volti a consentire la fusione di questo con gli spazi dell’immobile antistante, anch’esso oggetto di significative opere di sostituzione degli elementi di tamponamento”; vengono poi create due unità, dotate di nuovi servizi igienici, con un nuovo sistema di reti di scarico; oltre alle nuove opere per il contenimento del consumo energetico, vengono sostituite le esistenti luci con nuove finestre, quindi con una modifica anche delle facciate.
L’intervento, creando due nuove unità, rese indipendenti tra di loro dalla costruzione di una nuova parete trasversale di separazione realizzata in muratura piena, comporta l’alterazione sostanziale dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, stante la differente distribuzione della superficie interna e dei volumi, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile. Non possono qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che determinano la creazione di un organismo nuovo che veda alterata la sua struttura; infatti, gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia (Tar Lecce, (Puglia), sez. I, 05/04/2018, n. 554).
Già la sola indicazione di voler procedere a demolizione, prevista per un ampio tratto di muratura perimetrale, mette in evidenza come l’intervento nel suo complesso sia tutt’altro che esiguo.
Né è pertinente il richiamo alla nuova disciplina del c.d. sblocca Italia: il d.l. n. 133/2014 (convertito nella L. n. 164/2014) ha ampliato la categoria di intervento della manutenzione straordinaria, includendovi una serie di opere tradizionalmente rientranti nella ristrutturazione edilizia con aumento di carico urbanistico (come, ad esempio, il frazionamento dell'immobile in più unità immobiliari e le opere che aumentano la superficie calpestabile “entro sagoma”) allo scopo di assoggettarle a SCIA “semplice” o a C.I.L. e non più a permesso di costruire.
Nel caso in esame, come detto, la qualificazione come ristrutturazione è determinata dal rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e dall'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono pur sempre la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e che cioè determinino la conservazione formale e funzionale dell’organismo edilizio.
Il motivo va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.09.2018 n. 2046 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Deposito incontrollato di rifiuti speciali non pericolosi - Deposito di macerie di demolizione edile a cielo aperto - Sottoprodotto - Esclusione della disciplina sui rifiuti - Onere della prova - Artt. 184-bis, 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di distinzione tra rifiuto e sottoprodotto, l'assunto secondo cui si verserebbe in presenza di materia prima secondaria, con conseguente sottrazione del materiale di specie alla nozione di rifiuto, non trova spazio alcuno spazio ad inficiare la sentenza di condanna laddove si sono implicitamente ritenuti mancanti gli specifici requisiti necessari, ex art. 184-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, per qualificare le sostanze come sottoprodotto e la cui prova è a carico di chi li invoca (Sez.3, n. 56066 del 19/09/2017, sacco e altro).
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RIFIUTI - Gestione di rifiuti - Attività qualificabile come di amministrazione di fatto - Apprezzabile attività gestoria svolta in modo non episodico né occasionale - Necessità - Gestione o cogestione societaria - Art. 2639 c.c. - Giurisprudenza.
In tema di gestione di rifiuti, al fine di ritenere sussistente un'attività qualificabile come di amministrazione di fatto, pur non richiedendosi l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, è necessario tuttavia, anche in relazione a quanto disposto dall'art. 2639 c.c. che, seppure dettato con riferimento ai reati societari, assume tuttavia una valenza interpretativa di carattere generale, "l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria svolta in modo non episodico né occasionale" (tra le altre, Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, Faruolo; Sez.3, n. 22108/15 del 19/12/2014, Berni ed altri; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino; Sez.5, n. 46962 del 22/11/2007, Cristiano; sez. 5, n. 43388 del 17/10/2005, Carboni); si è aggiunto che l'accertamento degli elementi sintomatici di una tale continuativa gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuto da motivazione congrua e logica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.08.2018 n. 39244 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Realizzazione di impianti di smaltimento e recupero rifiuti e pianificazione urbanistica.
Il Consiglio di Stato, in ordine all’effetto modificativo ex art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 delle previsioni urbanistiche relative all’aree in relazione alle quali viene autorizzata la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero rifiuti, precisa che la ratio della disposizione in esame -che è quella di dotare la nazione di una adeguata rete di impianti di smaltimento dei rifiuti superando le fisiologiche lungaggini insite nell’acquisizione di atti di assenso da parte dei molteplici livelli di governo territoriale (anche di natura espropriativa)- non consente di alterare la gerarchia dei valori che si compongono nella gestione del territorio e che vedono collocati al più basso gradino di una scala ideale, dal punto di vista spaziale e funzionale “quelli compendiati dalla pianificazione urbanistica comunale”.
La legge statale ha individuato il punto di equilibrio fra i contrapposti interessi coniugando il massimo della semplificazione burocratica facente capo ai tre livelli di governo territoriale (regione, provincia e comune) relativamente agli atti e provvedimenti individuali, con la compromissione dei poteri pianificatori al minore livello possibile (che è quello urbanistico comunale).
L’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 introduce quindi una norma eccezionale che deroga, per superiori esigenze pubbliche, il normale quadro degli assetti procedimentali e sostanziali in materia di costruzione e gestione di impianti di smaltimento di rifiuti (anche pericolosi); da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme agli obbiettivi (nazionali ed europei) di razionale gestione del ciclo dei rifiuti a tutela della salute pubblica, ma al contempo rispettosa degli ulteriori valori legati alla tutela del paesaggio, dell’ecosistema e comunque espressione di interessi fondamentali che necessitino, per la loro cura, di un livello dimensionale e funzionale superiore rispetto a quello assicurato dalla pianificazione urbanistica comunale (nel caso di specie, le previsioni contenute nel Piano di gestione dei rifiuti speciali e nel Piano Urbanistico Territoriale Tematico "Paesaggio" della Regione Puglia)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.08.2018 n. 5065 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Ciò premesso, l’appello è infondato.
18. Accantonato quanto evidenziato dalla stessa appellante in ordine ad una possibile improcedibilità del ricorso di primo grado contro il PRGRS del 2009 conseguente all’approvazione nel 2015 di un nuovo Piano regionale di gestione dei rifiuti speciali (tesi infondata in quanto il provvedimento impugnato si è formato sotto l’egida di quello strumento di pianificazione), va rilevato che con il primo e principale motivo di appello la società Fer.Live ha sostanzialmente negato di aver censurato anche il PRGRS del 2009.
Il Tar ha invece sottolineato che: “Il punto nodale della controversia è costituito dal divieto di localizzazione dell’impianto e della annessa discarica in area non industriale, ma agricola, ai sensi del PRGRS della Regione Puglia, oltre che in area classificata come Ambito Territoriale Esteso di tipo C del PUTT/Puglia.
L’impugnato diniego di AIA, alla luce della sua inequivocabile motivazione, configura un mero atto applicativo del PRGRS, il quale, rispetto al primo, costituisce l’atto generale presupposto che in esso trova la sua applicazione e che avrebbe dovuto essere impugnato congiuntamente allo stesso, al fine di costituire il presupposto processuale per l’auspicata accoglimento della domanda di annullamento.
Malgrado l’impugnativa in via subordinata del PRGRS così come svolta nell’ultima parte del ricorso introduttivo, il gravame così come strutturato non è stato notificato alla Regione Puglia, da considerarsi viceversa come parte necessaria del presente giudizio, nella qualità di Pubblica Amministrazione che ha emanato l’atto impugnato ex art. 41, comma 2, c.p.a..
”.
In sostanza, il giudice di prime cure ha posto a premessa della inammissibilità per mancata notifica alla Regione il rilievo diretto ed indiretto nella causa del Piano regionale.
19. Le conclusioni del Tar non possono che essere condivise.
Deve evidenziarsi l’inammissibilità delle prospettazioni contenute nel primo motivo di appello posto che le stesse tendono sostanzialmente a smentire una circostanza evidente del giudizio di primo grado (la contestazione e l’errata interpretazione del PRGRS del 2009) e ad introdurre un ulteriore profilo di censura del provvedimento impugnato.
20. E, infatti, principio pacifico (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 5 del 2015) che, in ordine logico, è preliminare l’esame da parte del giudice delle diverse declinazioni dell’interesse materiale avuto di mira dal ricorrente, il cui esito può rilevare, anche in relazione alle singole censure, ai fini della valutazione della sussistenza delle condizioni dell’azione, ma non assume valore dirimente per individuare se si è in presenza di una o più domande di annullamento, perché ciò che conta è l’effetto cassatorio avuto di mira, che è unico, se si dispiega nei confronti di singoli e ben individuati atti (nel caso in esame il provvedimento di diniego dell’AIA adottato con riferimento al PRGRS del 2009).
D’altra parte, anche le richiamate sentenze del Consiglio di Stato (sez. V n. 2683/2013 e n. 2432/2014) hanno avuto ad oggetto l’annullamento di una specifica previsione contenuta nell’ultimo comma del paragrafo 15 del Piano del 2009 (disciplina delle discariche in zone argillose) che non riguardava il caso in esame.
Seguendo la tassonomia propria delle questioni, infatti, l’esame della questione di inammissibilità del ricorso precede quello della questione di improcedibilità.
21. Il primo giudice, pertanto, non si è discostato dai principi elaborati dalla Plenaria n. 5 del 2015 per individuare l’ordine di esame delle questioni.
22. Anche gli ulteriori motivi di appello non sono fondati.
24. Innanzitutto, richiamando ancora l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2015, essendo stato respinto il motivo prioritario relativo alla declaratoria di omessa notifica del ricorso di primo grado alla Regione, risulterebbe inutile passare all’esame dei motivi che si incentrano sulla illegittimità di tale delibera.
25. Quanto al richiamato parere favorevole del comune di Bitonto al progetto della Fer. Live anche da un punto di vista ambientale, va rilevato che la stessa Amministrazione ha espresso un’esplicita clausola di riserva con un rinvio di approfondimento sulla localizzazione dell’impianto al procedimento di AIA (clausola peraltro non impugnata dalla società appellante).
26. Oltre alla evidente inammissibilità delle censure che a diverso titolo chiamano in causa il Piano regionale del 2009 e alla ininfluenza nel presente giudizio della proposizione del ricorso straordinario contro l’annullamento della determina di proroga della VIA, va poi evidenziato che anche la tesi incentrata sull’effetto modificativo ex art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 delle previsioni urbanistiche relative all’area non può essere condivisa.
Come ricordato dal Consiglio di Stato (sez. V, n. 5659/2015) la ratio della disposizione in esame -che è quella di dotare la nazione di una adeguata rete di impianti di smaltimento dei rifiuti superando le fisiologiche lungaggini insite nell’acquisizione di atti di assenso da parte dei molteplici livelli di governo territoriale (anche di natura espropriativa)- non consente di alterare la gerarchia dei valori che si compongono nella gestione del territorio e che vedono collocati al più basso gradino di una scala ideale, dal punto di vista spaziale e funzionale “quelli compendiati dalla pianificazione urbanistica comunale”.
La legge statale ha poi individuato il punto di equilibrio fra i contrapposti interessi coniugando il massimo della semplificazione burocratica facente capo ai tre livelli di governo territoriale (regione, provincia e comune) relativamente agli atti e provvedimenti individuali, con la compromissione dei poteri pianificatori al minore livello possibile (che è quello urbanistico comunale).
27. D’altra parte, come sottolineato dalla stessa sentenza del Consiglio di Stato n. 5659/2015, il sistema di principi, cristallizzati da una ormai consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte cost., 23.11.2011, n. 309; 29.10.2009, n. 272; 23.12.2008, n. 437; 07.11.2007, n. 367) e amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n, 4244 del 2010) salvaguarda una concezione del paesaggio quale valore “primario”, di “morfologia del territorio” per i contenuti ambientali e culturali che contiene (la cui conservazione è attribuita alla competenza esclusiva statale in separazione funzionale rispetto alla fruizione dello stesso affidata alla competente legislativa concorrente), la cui tutela trova espressione diretta nei piani territoriali a valenza ambientale o nei piani paesaggistici redatti dalle regioni.
28. L’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 introduce quindi una norma eccezionale che deroga, per superiori esigenze pubbliche, il normale quadro degli assetti procedimentali e sostanziali in materia di costruzione e gestione di impianti di smaltimento di rifiuti (anche pericolosi). Da qui l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp. prel. c.c., di una esegesi rigorosa della norma medesima che sia, ad un tempo, conforme agli obbiettivi (nazionali ed europei) di razionale gestione del ciclo dei rifiuti a tutela della salute pubblica ma al contempo rispettosa degli ulteriori valori (pure questi di rilievo costituzionale ed europeo dianzi evidenziati) legati alla tutela del paesaggio, dell’ecosistema e comunque espressione di interessi fondamentali che necessitino, per la loro cura, di un livello dimensionale e funzionale superiore rispetto a quello assicurato dalla pianificazione urbanistica comunale (nel caso di specie, le previsioni contenute nel PRGRS del 2009 e nel PUTT della Puglia).
29. In sostanza, la Provincia non avrebbe mai potuto derogare, ai sensi del citato art. 208, ai divieti di localizzazione dell’impianto e della annessa discarica in area non industriale, ma agricola, previsti dal PRGRS, oltre che la classificazione dell’area come Ambito Territoriale Esteso di tipo C indicata dal PUTT, consentendo la realizzazione di un impianto per il trattamento ed il recupero dei metalli da rifiuti con annessa discarica per l’abbancamento di due milioni di mc di rifiuti.
30. Infine, per quel che riguarda la dedotta incompetenza della Provincia in materia di discariche, va rilevato che le competenze in materia di autorizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti sono state delegate dalla regione Puglia alle province con legge regionale n. 30/1986 (cfr. art. 5 – delega successivamente confermata con legge regionale n. 17/2007).
31. A tale osservazione, va poi aggiunto che, contrariamente a quanto affermato dall’appellante, la Regione è l’unico soggetto competente a provvedere all’eventuale progetto con efficacia di variante urbanistica di cui all’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006, non avendo la stessa Amministrazione delegato, insieme a quelle ambientali, le funzioni urbanistiche (cfr. sul punto nota del Dirigente Assetto del territorio-urbanistica della regione Puglia prot. 5121 del 09.06.2003).
32. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata.

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è consolidata nel ritenere che le controversie inerenti la contestazione degli oneri di urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione del relativo atto di imposizione.
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici.
Fatta quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati.
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i criteri fissati in via normativa o regolamentare, indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere operazioni materiali o di calcolo.
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1. Con il ricorso originario, le parti ricorrenti impugnano il provvedimento emesso dal Comune di Carnago che dà avvio alla conclusione del procedimento per la determinazione degli oneri concessori inerenti il fabbricato di proprietà dei ricorrenti e al pagamento della sanzione prevista dall’articolo 36 del D.P.R. 380/2001, quantificata in euro 55.731,28, oltre agli interessi legali. Con il successivo ricorso per motivi aggiunti i ricorrenti impugnano la relativa ingiunzione di pagamento emessa dal Comune con nota del 23.12.2014.
2. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario e del ricorso per motivi aggiunti formulata dal Comune. Secondo l’Ente resistente le doglianze dei ricorrenti risultano incompatibili con la richiesta di accertamento di conformità ex articolo 36 del D.P.R. 380/2001.
L’eccezione è infondata tenuto conto che, come osservato dallo stesso Comune, la richiesta di pagamento è emessa nell’ambito del procedimento di permesso di costruire in sanatoria presentata il 04.03.2014. La questione relativa all’intervenuta formazione della D.I.A. 34/2009 costituisce un aspetto di merito –di seguito oggetto di esame da parte del Collegio– che, tuttavia, non inficia l’ammissibilità delle contestazioni svolte in ordine alla quantificazione delle somme dovute, effettuata dal Comune nell’ambito dello specifico procedimento in cui la richiesta di pagamento si inserisce.
2.1. Parimenti infondata è la seconda eccezione con la quale il Comune deduce che il ricorso originario risulterebbe inammissibile perché relativo ad un atto privo di valenza provvedimentale.
Va, infatti, considerato che la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che le controversie inerenti la contestazione degli oneri di urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione del relativo atto di imposizione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6281, id., sez. V, 09.02.2001, n. 584, id., sez. V, 21.04.2006, n. 2258, C.G.A.S., 02.03.2007, n. 64).
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici.
Fatta quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati (in questi termini: Consiglio di Stato, sez. V, 22.11.1996, n. 1388; in termini anche TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983; TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 15.11.2006, n. 12461; TAR per la Puglia – sede di Lecce, sez. III, 13.05.2005, n. 2744).
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i criteri fissati in via normativa o regolamentare, indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere operazioni materiali (TAR Campania, sede di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983) o di calcolo.
Pertanto, l’impugnazione svolta con il ricorso principale, qualificabile ai sensi dell’articolo 32, comma 2, del codice del processo amministrativo come un’azione di accertamento, risulta come tale ammissibile anche in difetto di immediata lesività del provvedimento impugnato.
...
5. Il motivo di ricorso svolto con il ricorso per motivi aggiunti è parimenti privo di fondamento.
Come affermato ancora di recente dal Consiglio di Stato, “il calcolo dei contributi dovuti al Comune per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione si esegue inserendo gli elementi caratteristici dell’immobile cui ci si riferisce –tipicamente la sua superficie e talune sue caratteristiche– in una tabella predisposta dal Comune, e spesso presentata anche nelle forme di un foglio di calcolo elettronico. Applicando agli elementi inseriti, che per forza di cose il privato interessato conosce, i coefficienti determinati in via generale dal Comune stesso, si ottiene il totale dovuto. In tal senso, si tratta di un procedimento automatico, e chiunque può controllarne l’esattezza, semplicemente eseguendo in proprio il calcolo ed evidenziando gli eventuali errori commessi. In tal senso, quindi, non si può parlare di un difetto di motivazione dell’atto, perché il percorso logico che porta a determinare il dovuto è sempre riproducibile” (Consiglio di Stato, sez. VI, 26.07.2018, n. 4566).
Inoltre, come affermato da questa sezione, “il […] procedimento di determinazione dell’importo dovuto non è che una mera applicazione delle tariffe ritenute operanti sulla base delle dimensioni dell’immobile che non sono contestate dalle parti” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 06.06.2018).
Del resto, deve considerarsi che “la posizione giuridica dedotta in giudizio dalla parte ricorrente ha natura di diritto soggettivo avente carattere patrimoniale, sicché la domanda proposta è qualificabile esclusivamente come azione di accertamento e non involge la legittimità dell’esercizio del potere pubblico” (Consiglio di Stato, sez. IV, 17.05.2018, n. 2830), con conseguente possibilità di diretta verifica dell’esattezza della pretesa che, in parte qua, non trova analitica contestazione da parte dei ricorrenti e che, al contrario, è esattamente individuata negli scritti difensivi comunali (cfr., ff. 23 ss della memoria del 27.02.2015).
6. In definitiva il ricorso introduttivo e il ricorso per motivi aggiunti devono essere respinti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.08.2018 n. 2020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istanza priva della documentazione prescritta o di uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio.
Per la formazione di un titolo edilizio è necessario che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può formarsi, considerato che l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso, trattandosi non di una deroga al regime autorizzatorio, ma di modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione.
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Con riferimento poi alla d.i.a., i presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell’autocertificazione, per cui il decorso del termine di trenta giorni non legittima l’intervento edilizio se la dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta, sicché l’Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal potere di inibire l’attività o di sospendere i lavori e ciò anche se la dichiarazione di inizio attività non dà vita ad una fattispecie provvedimentale di assenso tacito, bensì riflette un atto del privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.08.2018 n. 2020 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Entrando nel merito, occorre prende le mosse dall’esame del primo motivo (comune al ricorso introduttivo e al ricorso per motivi aggiunti) che può vagliarsi unitamente al terzo motivo di tali atti processuali per evidente connessione tra le questioni sottoposte all’attenzione del Collegio. Le parti ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione della mancata notificazione del provvedimento di esercizio del potere inibitorio in relazione alla D.I.A. 34/2009, da cui deriverebbe l’intervenuta formazione del titolo.
3.1. Il Collegio ritiene che il titolo non possa ritenersi formato a prescindere dalla valenza preclusiva della mera adozione dell’atto, non seguita da rituale notificazione. Infatti, nel caso in esame, la D.I.A. 34/2009 presenta comunque delle carenze consistenti nella mancanza: a) della dichiarazione relativa al collegamento con la precedente pratica edilizia; b) del documento di regolarità contributiva; c) della documentazione di cui alla legge 10/1991 e al d.lgs. 192/2005; d) del computo metrico estimativo e della tabella di determinazione della classe di edificio; e) della documentazione fotografica; f) dell’esatta descrizione delle opere proposte sia con riferimento allo stato di fatto iniziale che alle opere di ampliamento di cui alla D.I.A. 54/2008.
Ora, secondo un consolidato insegnamento della giurisprudenza amministrativa –a cui il Collegio ritiene di aderire– per la formazione di un titolo edilizio è necessario che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può formarsi, considerato che l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso, trattandosi non di una deroga al regime autorizzatorio, ma di modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.04.2018, n. 882; TAR per la Puglia, sede di Bari, III, 12.05.2017, n. 492).
Con riferimento alla d.i.a., poi, è stato rilevato che i presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell’autocertificazione, per cui il decorso del termine di trenta giorni non legittima l’intervento edilizio se la dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta, sicché l’Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal potere di inibire l’attività o di sospendere i lavori (v., ex multis, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 28.07.2017 n. 1706), e ciò anche se la “dichiarazione di inizio attività” non dà vita ad una fattispecie provvedimentale di assenso tacito, bensì riflette un atto del privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge (v., tra le altre, TAR Lazio, II, 05.07.2017 n. 7858).
Né può omettersi di rammentare, infine, la posizione espressa dal Consiglio di Stato secondo cui "in caso di presentazione di dichiarazione di inizio attività, l'inutile decorso del termine previsto ai fini dell'esercizio del potere inibitorio all'effettuazione delle opere ... non comporta che l'attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata corrispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04.03.2015, n. 1058; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.11.2014, n. 5888; Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.04.2013, n. 1909).
Pertanto, in considerazione di quanto esposto, il primo motivo del ricorso introduttivo e del ricorso per motivi aggiunti deve ritenersi infondato.

URBANISTICA: Obblighi di ripubblicazione del PGT a seguito dell’accoglimento di osservazioni.
In sede di approvazione del PGT, nel caso in cui, recependo una osservazione della Commissione del paesaggio, venga introdotta una nuova destinazione, privando in tal modo il privato della facoltà di presentare osservazioni sulla nuova destinazione, occorre procedere a una nuova pubblicazione dello strumento urbanistico (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.08.2018 n. 2004 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1) Il presente ricorso è proposto avverso la delibera di approvazione del PGT, con cui l’Amministrazione ha impresso all’area della ricorrente una destinazione di inedificabilità, variando quella prevista nel piano adottato, in cui era stata riconosciuta una parziale edificabilità.
2) La ricorrente nella memoria del 24.04.2018 ha sollevato l’eccezione di tardività della costituzione del Comune; con la memoria di replica sono state sollevate due eccezioni di tardività: una rispetto alla memoria difensiva comunale e l’altra rispetto alla documentazione prodotta in ottemperanza all’ordinanza collegiale.
L’eccezione di tardività della costituzione è infondata, in quanto è vero che il Comune si è costituito il 04.09.2017, dopo la prima udienza di discussione del 15.06.2017, tuttavia con l’ordinanza n. 1798 del 15.6.2017, il Collegio ha rinviato il giudizio all’udienza pubblica del 30.05.2018, per cui la tempestività della costituzione e delle memorie deve essere calcolata in relazione alla nuova udienza.
Con altra eccezione la ricorrente osserva che la memoria difensiva comunale, in quanto depositata in data 30.04.2018 alle ore 16.34, quindi oltre 30 giorni liberi previsto dal c.p.a., sarebbe tardiva e dunque inutilizzabile, in quanto avrebbe dovuto essere depositata entro e non oltre il giorno di venerdì 27.04.2018, entro le ore 12.
Infatti, il giorno di scadenza (ossia il 31° giorno) coincideva con il giorno di domenica 29.04.2018, per cui il deposito, come prescritto dal combinato disposto dell’art. 73 c.p.a. con l’art. 52, commi 3 e 4, c.p.a., avrebbe dovuto essere anticipato al giorno antecedente non festivo, ossia venerdì 27.04.2018.
L’eccezione va accolta, ma con la precisazione che la memoria avrebbe dovuto essere depositata in data 28.04.2018, non il venerdì 27 aprile.
Infatti secondo quanto statuito dal Consiglio di Stato, il sabato è equiparato ai giorni festivi (in virtù della novella di cui all'art. 2, co. 11, d.l. n. 263 del 2005, in vigore dal 01.03.2006) solo al fine del compimento degli atti processuali svolti fuori dell'udienza che scadono di sabato, onde consentire agli avvocati di procedere ai relativi adempimenti, concernenti i termini di notifica e deposito che scadono di sabato, il successivo lunedì; a tutti gli altri effetti il sabato è considerato giorno lavorativo. Il c.p.a. esplicita l'applicabilità della disciplina sul sabato anche al processo amministrativo (art. 52, co. 5, c.p.a).
Questa regola, però, vale solo per i termini che si calcolano in avanti, e non anche per i termini che si calcolano a ritroso; infatti l'art. 52, co. 5, c.p.a. estende al sabato solo la proroga di cui al comma 3, ossia la proroga dei giorni che scadono di giorno festivo, e dunque non anche il meccanismo di anticipazione di cui al co. 4; ne consegue che se un termine a ritroso scade di sabato, esso non va anticipato al venerdì, così come se il termine a ritroso scade di domenica, va anticipato al sabato e non al venerdì (Cons. St. Sez. V, 31.05.2011 n. 3252, Sez. V - 25.07.2011, n. 4454).
Pertanto l’eccezione va accolta.
Rispetto al deposito documentale, osserva il Collegio che il palese mancato rispetto del termine non rende non utilizzabile la documentazione prodotta, in quanto il termine assegnato dal giudice è meramente ordinario e non perentorio, non potendo trovare applicazione in subiecta materia la generale previsione dell'art. 52, comma 1, c.p.a., bensì la sola disposizione speciale del successivo art. 68 c.p.a. per i termini dell'istruttoria, che rinvia alle disposizioni del c.p.c. e, tra queste, all'art. 152, comma 1, c.p.c., secondo cui i termini possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente.
Tuttavia nel caso in esame, oltre al mancato rispetto dei termini, seppur non perentori, risulta evidente la mancata ottemperanza all’ordinanza, essendosi limitato il Comune a depositare un rilievo planimetrico, a fronte di un ordine chiaro circa il contenuto di quanto doveva essere prodotto.
3) Il ricorso è fondato.
Come emerge dalla ricostruzione in fatto il Consiglio Comunale, in sede di approvazione definitiva del PGT ha modificato la destinato delle aree della ricorrente, rispetto a quanto statuito in sede di adozione, recependo le indicazioni della Commissione Comunale per il paesaggio.
E’ pacifico che l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità nella scelta pianificatoria, discrezionalità a cui non corrisponde, generalmente, una posizione di affidamento del privato, per cui ben può variare il contenuto di una piano tra la fase di adozione e quella di approvazione.
Ugualmente, quando sono introdotte modifiche al piano adottato, solo ove queste superino il limite di rispetto dei canoni-guida del piano, sussiste l'obbligo della ripubblicazione da parte del Comune. Tuttavia nel caso in esame, l’Amministrazione è incorsa in una evidente violazione procedimentale: come osserva la ricorrente nella prima censura, la nuova destinazione è stata introdotta, recependo una osservazione della Commissione del paesaggio, privando in tal modo la stessa ricorrente della facoltà di presentare osservazioni sulla nuova destinazione.
E’ pacifico che la pubblicazione del piano, finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati, non è generalmente richiesta per le successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti modificato a seguito dell'accoglimento di alcune osservazioni o in sede di approvazione regionale.
Tuttavia, la peculiarità del caso in esame, risiede nel fatto che l’Amministrazione d’ufficio (e non a seguito dell’accoglimento di una osservazione del proprietario), ha introdotto una modifica radicale della disciplina del piano, relativamente all’area della ricorrente, privando quindi la stessa proprietà di quel potere collaborativo proprio delle osservazioni. Tra l’altro l’osservazione è stata presentata da una Commissione che è parte integrante dell’apparato comunale, per cui in sostanza la variazione della destinazione si è concretizzata in una modifica d’ufficio della destinazione prima impressa con il piano adottato.
L’illegittimità della delibera emerge anche sotto il profilo del difetto di motivazione.
La variazione della destinazione d’uso dell’area è stata introdotta in recepimento all’osservazione di una Commissione Comunale, che invero, avrebbe dovuto esprimere il parere in sede di redazione del piano, con la finalità di tutelare “il Castello”.
Il Castello, al di là del nome, è un immobile certamente di pregio, che ha perso le caratteristiche originarie a causa dei numerosi interventi superfetativi e parcellizzati; non è mai stato destinatario di alcun vincolo e si trova in uno stato di scarsa manutenzione.
Il Consiglio Comunale ha quindi ritenuto di recepire acriticamente l’osservazione, senza una precisa motivazione sul valore del bene da preservare e senza alcuna puntuale istruttoria sullo stato di fatto del bene.
Non solo.
Da quanto emerge dalla memoria di replica di parte ricorrente, il Consiglio Comunale avrebbe richiamato generiche esigenze di preservare equilibri urbanistici della zona: anche questa motivazione sarebbero frutto di un travisamento dello stato dei luoghi. Al di là della circostanza che l’Amministrazione avrebbe dovuto dare precise indicazioni in risposta all’ordinanza istruttoria, tuttavia come osserva la ricorrente il lotto in questione è estraneo rispetto al sistema insediativo circostante in quanto è un segmento dell’unità produttiva e da sempre incluso nel più vasto compendio immobiliare che comprende anche i laboratori tessili della Is. s.n.c..
Pertanto anche sotto questo profilo la destinazione appare illogica e non motivata.
4) Il ricorso va quindi accolto, con conseguente annullamento della delibera nella parte in cui classifica l’area identificata al mappale 5217, foglio 9, della ricorrente come “Area non idonea ai fini edificabili”.

EDILIZIA PRIVATA: Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134, primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni, restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con l'eventuale provvedimento di fermo.
La giurisdizione amministrativa non viene meno a seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto, “in materia di opposizione all'ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14 aprile 1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla cognizione di altro giudice”.
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva del giudice amministrativo.
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I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario di dieci anni ex art. 2946 c.c.. Il "dies a quo", in generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e, quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo.
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1. In via preliminare occorre soffermarsi sulle questioni in rito.
Il Comune di Prato ha eccepito l’inammissibilità, per difetto di giurisdizione, della quarta e della quinta censura proposta con i motivi aggiunti, trattandosi da un lato di questioni dedotte dalla ricorrente in relazione alla validità formale dell’impugnata ingiunzione e non di contestazioni del momento autoritativo del rapporto tra pubblica amministrazione e privato, e dall’altro della attuale persistenza del credito per decorso del termine di prescrizione, appartenente alla cognizione del giudice civile.
L’eccezione è infondata.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (fra le più recenti, TAR di Cagliari, Sez. II, n. 555/2016, Cass. Civ. Sez. Un., n. 15209/2015 e TAR Lombardia, Milano, IV, n. 389/2014), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134, primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni, restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con l'eventuale provvedimento di fermo (TAR Sicilia, Catania, II, 11.10.2016, n. 2531; TAR Campania, Salerno, II, 04.04.2008, n. 474).
La giurisdizione amministrativa non viene meno a seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto, “in materia di opposizione all'ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla cognizione di altro giudice” (Cons. Stato, VI, 29.11.2005, n. 6748).
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva del giudice amministrativo.
Ciò premesso, entrando nel merito della trattazione del ricorso e dei motivi aggiunti, valgono le seguenti considerazioni.
...
9. Con la quarta censura in cui si articolano i motivi aggiunti (ottava doglianza, considerando anche quelle dedotte in via principale) l’esponente ha eccepito la prescrizione quinquennale degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Il rilievo è infondato.
I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario di dieci anni ex art. 2946 c.c. (ex multis: TAR Puglia, Bari, III, 09.05.2018, n. 678; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.06.2014 n. 1493, 11.02.2014 n. 412 e 16.10.2014 2013 n. 1888; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 152). Il "dies a quo", in generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e, quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Definizione di deposito controllato o temporaneo non disciplinato dalla normativa sui rifiuti - Rispetto delle norme tecniche - Nozione e differenza tra deposito preliminare, messa in riserva, deposito incontrollato o abbandono e discarica abusiva - Giurisprudenza - Art. 183, 208, e 256 d.lgs n. 152/2006.
Per deposito controllato o temporaneo, si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, quando siano presenti precise condizioni relative alla quantità e qualità dei rifiuti, al tempo di giacenza, alla organizzazione tipologica del materiale ed al rispetto delle norme tecniche elencate nel d.lgs. n. 152 del 2006 (Sez. 3 n. 38676 del 20/05/2014).
Tale deposito è libero, non disciplinato dalla normativa sui rifiuti, (ad eccezione degli adempimenti in tema di registri di carico e scarico e del divieto di miscelazione) anche se sempre soggetto ai principi di precauzione ed azione preventiva che, in base alle direttive comunitarie, devono presiedere alla gestione dei rifiuti e che solo in difetto di anche uno dei menzionati requisiti, il deposito non può ritenersi temporaneo, ma deve essere considerato:
   ­ deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti è prodromico ad una operazione di smaltimento che, in assenza di autorizzazione o comunicazione, è sanzionato penalmente dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1;
   ­ messa in riserva, se il materiale è in attesa di una operazione di recupero che, essendo una forma di gestione, richiede il titolo autorizzativo la cui carenza integra gli estremi del reato previsto dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1);
   ­ deposito incontrollato o abbandono quando i rifiuti non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Tale condotta è sanzionata come illecito amministrativo se posta in essere da un privato e come reato contravvenzionale se tenuta da un responsabile di enti o titolare di impresa.
Invece, quando l'abbandono dei rifiuti è reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi, il fenomeno può essere qualificato come discarica abusiva
(Sez. 3, n. 49911 del 10/11/2009, Manni) e il reato di discarica abusiva è configurabile anche in caso di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado dell'area su cui insistono, anche se collocata all'interno dello stabilimento produttivo (Sez. 3, n. 41351 del 18/09/2008, Fulgori).

...
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata - Reato contravvenzionale - Elemento psicologico dolo e colpa - Errore scusabile e ignoranza della legge penale - Buona fede - Elementi e limiti - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 256, comma l), del d.lgs. n. 152 del 2006 è reato contravvenzionale, punito in via generale, quanto all'elemento psicologico, sia a titolo di dolo che di colpa (art. 42, comma 4, cod. pen.) colpa la quale nella fattispecie, attese le modalità della condotta, si appalesa all'evidenza dalla oggettività degli accertamenti. Costituisce, del resto, principio generale che lo svolgimento di un'attività in uno specifico campo comporta un dovere di informazione sulle norme che regolano detta attività, con la conseguenza che l'inosservanza di tale obbligo rende colpevole e non scusabile l'eventuale ignoranza della legge penale (Sez. 3, n. 23998 del 12/05/2011; Sez. 3, n. 18928 del 15/03/2017).
Va ricordato che, la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo, non può essere determinata dalla mera non conoscenza della legge ma da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell'interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta (Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015; Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2018 n. 34145 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull'area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l'esatta dimensione, consistenza, finalità, dell'erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l'eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente.
In particolare è stato affermato che:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che -fatte salve le precisazioni di seguito esposte- si intende realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata.
Una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente; in quest'ambito assume un ruolo importante l'eventuale presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia;
   b) l'obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad eventuali controinteressati di far valere le proprie doglianze innanzi all'autorità amministrativa.
La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e concordante ai fini della integrazione della prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del ricorrente;
   c) la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti.
Ed infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.
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2.2. Il Collegio ritiene di aderire a quanto affermato dal Consiglio di Stato in ordine ai criteri di verifica della tempestività del ricorso, onde verificarne la ricevibilità, con particolare riguardo all'ambito dell'attività edilizia (cfr., in termini, Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.03.2017, n. 998).
L’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull'area), mentre laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda palese l'esatta dimensione, consistenza, finalità, dell'erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l'eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.03.2016 n. 1135; Consiglio di Stato, Sez. IV 28.10.2015, n. 4910 e n. 4909; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all'insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici corollari).
In particolare è stato affermato che:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che -fatte salve le precisazioni di seguito esposte- si intende realizzata al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata; una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata all'interesse del ricorrente; in quest'ambito assume un ruolo importante l'eventuale presenza del cartello dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia;
   b) l'obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad eventuali controinteressati di far valere le proprie doglianze innanzi all'autorità amministrativa (cfr., Cass. pen., Sez. III, 22.05.2012, n. 40118). La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e concordante ai fini della integrazione della prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del ricorrente;
   c) la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti. Ed infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2018 n. 1747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermessi, deroghe sono tassative. Cds su strutture sanitarie private.
Le circostanze che ammettono deroghe alla normale onerosità del permesso di costruire sono tassative e di stretta interpretazione.

Lo ha affermato la quarta sezione del Consiglio di stato che, con sentenza 09.07.2018 n. 4159, ha limitato il campo interpretativo dell'art. 17 del Testo unico edilizia, relativo all'esenzione del pagamento del contributo di costruzione, con particolare riferimento alla realizzazione di strutture sanitarie private.
L'imposizione del pagamento degli oneri di urbanizzazione a soggetti privati che intendono realizzare strutture sanitarie non è sempre stata pacifica dal momento che gli orientamenti giurisprudenziali sul punto sono stati spesso ondivaghi a volte negando l'esenzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2467/2013) a volte affermandola (cfr. Tar Toscana, Sez. III, n. 1570/2016). La quarta sezione evidenzia ora che occorre distinguere tra ciò che gli strumenti urbanistici locali consentono e ciò che espressamente dispongono.
Nel caso specifico della realizzazione di strutture sanitarie private, ai fini dell'esenzione, è necessario che gli strumenti urbanistici prevedano espressamente che l'esecuzione dell'opera sia destinata al servizio di interessi generali. Solo in virtù di una espressa disposizione in tal senso la struttura sanitaria, realizzata da un soggetto privato, costituisce attuazione ed esecuzione di una specifica previsione di piano, rientrando così nell'ipotesi di esenzione prevista dall'articolo 17, comma 3, lett. c), del Testo Unico Edilizia.
Ne risulta una restrizione di campo dell'operatività del citato articolo. La ratio sottesa è quella di evitare una contribuzione a carico di un'opera destinata a soddisfare esclusivamente interessi generali. Il principio enucleato dal Consiglio di Stato supera, dunque, quell'orientamento giurisprudenziale che non prevede la necessità che lo strumento urbanistico indichi con esattezza o con effetti vincolanti la distribuzione delle varie opere su ogni singola porzione di terreno (cfr. Cons. Giust. Amm. Sicilia, n. 223/2014) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018).
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SENTENZA
L’appello non è fondato e va come tale respinto, con integrale conferma della sentenza gravata.
Con il primo motivo l’appellante sostiene che la normativa vigente attribuisce la competenza a realizzare e gestire le infrastrutture urbanizzative dell’area ASI al relativo Consorzio, di talché il comune non sopporta alcun onere e non ha quindi titolo a pretendere alcun ristoro per le trasformazioni edilizie che intervengono nell’agglomerato.
Il mezzo –benché dedotto in forma articolata e assai suggestiva– va disatteso.
In limine sul piano testuale si ricorda che, ai sensi del comma 9 dell’art. 39 citato, il pagamento del contributo concessori costituisce (diversamente da quanto avvenuto con la legge n. 47 del 1985 ) condizione per il rilascio del titolo in sanatoria e che “Coloro che in proprio o in forme consortili abbiano eseguito o intendano eseguire parte delle opere di urbanizzazione primaria, secondo le disposizioni tecniche dettate dagli uffici comunali, possono invocare lo scorporo delle aliquote, da loro sostenute, che riguardino le parti di interesse pubblico.”.
Dal momento che la legge consente eventualmente lo scorporo degli interventi urbanizzativi realizzati in proprio o in forma consortile, è evidente a contrario che in linea generale il contributo concessorio per condoni ex legge n. 724 di interventi realizzati in aree ASI è dovuto al comune condonante.
A prescindere da questi rilievi testuali, sul piano generale la Giurisprudenza della Sezione, confermando gli indirizzi assunti da ultimo dal TAR Salerno, ha ormai chiarito la debenza del contributo anche per gli interventi realizzati in area ASI, sia perché –in sintesi– il comune partecipa strutturalmente alla provvista dei mezzi finanziari necessari al funzionamento dei Consorzi, sia perché soprattutto la competenza del Consorzio alla gestione dell’agglomerato non esonera il comune dall’obbligo di realizzare le infrastrutture essenziali all’esterno e anche all’interno dell’area (cfr. per tutte IV sez. n. 5546 del 2016 cui si fa integrale riunivo per ragioni di sinteticità).
Con il terzo e centrale motivo ( del quale si anticipa l’esame) l’appellante sostiene che il poliambulatorio (in quanto accreditato e convenzionato col SSR) costituisce esso stesso opera di urbanizzazione secondaria ed è dunque esente dal contributo, giusta il disposto dell’art. 10, c. 1, L. n. 10 del 1977 (ora art. 16, c. 8, Tu n. 380 del 2001).
Anche questo mezzo, benché supportato da argomentazioni di grande spessore, risulta in realtà non fondato e va pertanto disatteso.
Come è noto, l’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha introdotto nell’ordinamento il principio fondamentale secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa agli oneri da essa derivanti.
Gli oneri di urbanizzazione sono previsti, infatti, a carico del costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione e dal maggior carico urbanistico che si realizza per effetto della costruzione. Detti oneri prescindono dall'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e vengono determinati indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare siffatte opere.
La partecipazione del privato a tali spese, quando ottiene la concessione a costruire, si atteggia quindi come assunzione di una quota dei costi della vocazione edificatoria impressa al territorio, e trova giustificazione nel beneficio, economicamente rilevante in termini di valore del suolo, che il privato medesimo riceve per effetto della concreta attuabilità del suo progetto di costruzione (cfr. tra le molte TAR Liguria n. 955 del 2016)
L’onerosità del permesso di costruire costituisce inoltre principio fondamentale della normativa di settore, quindi non derogabile dalla legislazione regionale (cfr. ad es. Corte cost. n. 231 del 2016)
Rispetto a tale regime generale oggi riprodotto dall’art. 11, c. 2, TU n. 380 del 2001, l’art. 17 del citato T.U. contempla alcune ipotesi di riduzione o esonero dal contributo di costruzione.
Queste ipotesi devono considerarsi –e questo profilo va sottolineato perché decisivo- tassative e di stretta interpretazione proprio perché, come chiarito dalla costante giurisprudenza della Sezione, derogatorie rispetto alla regola della normale onerosità del permesso (cfr. tra le molte IV sez. n. 2754 del 2012).
Per quanto rileva nella presente controversia, l’art. 17, comma 3, lettera c), prevede dunque che il contributo di costruzione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Nel caso all’esame la pretesa dell’appellante poggia sul fatto che l’intervento ha realizzato una “attrezzatura sanitaria” la quale per espressa previsione di legge costituisce appunto opera di urbanizzazione secondaria ex art. 16, comma 8, T.U..
Al riguardo è però da osservare che l’opera di cui si discute –anche a volerla annoverare fra quelle di urbanizzazione secondaria benché a rigore edificata per private ragioni imprenditoriali e cioè non pertinente al SSN- non risulta comunque eseguita in attuazione di specifica previsione dello strumento urbanistico, come la legge richiede.
Infatti –come evidenziato dalla giurisprudenza della Sezione- l’opera di urbanizzazione consegue l’esenzione solo se sia specificamente prevista e così espressamente qualificata dallo strumento urbanistico (cfr. IV Sez. n. 595 del 2016).
Infatti, ai fini dell’esenzione dal contributo per opere di urbanizzazione devesi utilizzare lo stesso criterio che vige nel caso simmetrico dello scomputo per realizzazione diretta dell’infrastruttura secondaria, nel quale la materiale realizzazione dell’opera da parte del privato non rileva se non è preceduta da un atto della p.a. che individui il tipo e l’entità delle opere ammesse a scomputo. (cfr. CGA n. 223 del 2014).
Applicando detta regola si rileva che nel caso all’esame la variante al prg approvata dal comune non ha apposto all’area di insistenza la qualificazione propria delle attrezzature di interesse comune o a disposizione della collettività, con la conseguenza che la struttura non costituisce attuazione o esecuzione di una specifica previsione di piano.
In realtà, come si vedrà subito, è da dubitare in radice che la destinazione d’uso conferita all’immobile fosse pienamente rispondente alla previsione di piano.
Tuttavia, ciò che qui importa, non basta comunque che il piano consenta ma occorre –ai fini dell’esenzione– che il piano preveda quell’opera destinata ( e qualificata) al servizio di interessi generali.
Detto questo sul punto nodale, è comunque da osservare che l’ambulatorio ricade in zona omogenea D4 (piccola industria, artigianale, commercio): quindi è anche in radice da dubitare, come si è anticipato, della ricomprensione dell’intervento nell’ambito di quelli ivi consentiti.
Peraltro, anche sul piano logico è evidente come un poliambulatorio sanitario solo con molte difficoltà possa essere assimilato alle strutture di impianto tipico in un’area di sviluppo industriale la quale ha come finalità (cfr. art. 8 Statuto Consorzio ASI Salerno) la creazione e lo sviluppo di attività imprenditoriali nei settori industria e servizi alle imprese.
Il punto però non va approfondito perché il comune ha definitivamente ritenuto (come confermano le modalità di calcolo dell’oblazione) la compatibilità dell’opera con la destinazione ( genericamente) terziaria imposta dal prg.
Da ultimo l’appellante lamenta l’applicazione di interessi moratori al 10%, da considerare sproporzionati rispetto al tasso legale (1%) all’epoca vigente.
Anche questo mezzo va disatteso, in quanto l’espressa previsione contenuta nell’art. 39 ridetto non rinvia al saggio legale ma quantifica l’interesse dovuto dagli istanti nella misura del 10% in caso di ritardato pagamento del contributo (cfr. IV Sezione n. 1817 del 2018).
D’altra parte, come evidenziato dal TAR, tale pretesa attiene al ritardato pagamento di somme dovute per l’adozione di un provvedimento di assoluto favore, mediante il quale l’autore di un intervento abusivo ne consegue la piena regolarizzazione, e quindi non può dubitarsi della ragionevolezza del saggio speciale, fissato dal Legislatore nella sua discrezionalità.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello va pertanto respinto, con integrale conferma della gravata sentenza.

EDILIZIA PRIVATA: In ordine al fondamento giuridico dell’art. 96 del RD 523/1904, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che i divieti previsti da tale disposizione “sono informati alla ragione pubblicistica di assicurare, oltre che alla possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque di fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”, così giungendo ad affermare che la fascia di rispetto implica e giustifica un regime di inedificabilità assoluta.
Di conseguenza si è ritenuto che “il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua demaniali (c.d. fascia di servitù idraulica), contenuto nell’art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904 n. 523, abbia carattere assoluto ed inderogabile”.
Anche la giurisprudenza di merito si è allineata a tale impostazione, rilevando che “la norma suddetta risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto”.
Quanto al rapporto tra le normativa statale e quella locale, sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha osservato che “alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi”.
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La disciplina di cui all’art. 96 RD 523/1904 “ha carattere sussidiario, essendo destinata a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale; tuttavia, a fronte dei fini di tutela e sicurezza perseguiti, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare alla norma statale deve essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale”.
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Nel merito il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.
Potendosi prescindere dall’esame del primo motivo, anch’esso oramai improcedibile, con cui è stata censurata la violazione del giudicato cautelare, occorre esaminare il secondo motivo aggiunto, con cui è stata dedotta la violazione dell’art. 96 del RD 523/1904 e dell’art. 12 delle NTA dello studio del reticolo idrico minore.
In ordine al fondamento giuridico del sopra citato art. 96, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito che i divieti previsti da tale disposizione “sono informati alla ragione pubblicistica di assicurare, oltre che alla possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque di fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici” (SS.UU. 05.07.2004, n. 12271; id., 30.07.2009, n. 17784), così giungendo ad affermare che la fascia di rispetto implica e giustifica un regime di inedificabilità assoluta.
Di conseguenza si è ritenuto che “il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua demaniali (c.d. fascia di servitù idraulica), contenuto nell’art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904 n. 523, abbia carattere assoluto ed inderogabile” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814; id. 23.06.2014, n. 3147).
Anche la giurisprudenza di merito si è allineata a tale impostazione, rilevando che “la norma suddetta risponde all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia di rispetto (TAR Toscana, sez. III, 08.03.2012, n. 439)” (cfr. altresì, TAR Lombardia–Brescia, 02.10.2013, n. 814).
Quanto al rapporto tra le normativa statale e quella locale, sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha osservato che “alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18.07.2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2011, n. 2544)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 23.06.2014, n. 3147).
Rispetto a tali profili di sicurezza idraulica, dall’esame degli atti si registra quanto segue:
   a) con nota del 10.03.2015 il sig. Br. ha personalmente dichiarato che “l’edificio oggetto d’intervento è già situato ad una quota di sicurezza rispetto all'alveo, e che quindi le opere previste non comprometteranno la sicurezza dell'edificio in caso di piena torrente Visina”;
   b) nella memoria del 10.04.2017 il difensore del Comune di Carate Urio ha sostenuto che “la sponda del torrente sia molto "incisa", profonda, e presenti un dislivello molto accentuato: più che un torrente una cascata. Ciò non esclude in radice la possibilità di esondazioni ma le rende realisticamente molto improbabili. Verosimilmente l’allagamento potrebbe interessare la sottostante via Regina ma non via De Cristoforis e l'abitazione del signor Br. o quelle circostanti” (cfr. pagg. 4 – 5);
   c) nella memoria di replica del 06.04.2018 il difensore del controinteressato ha sostenuto che “nella fattispecie, gli interessi pubblici tutelati dalla normativa non risultano pregiudicati, non essendo ravvisabile alcun reale rischio per il corso d’acqua, che certo non viene in alcun modo impedito”; e, ancora, che nella relazione tecnica del progettista di fiducia, ing. Ma., sarebbe stato “chiarito che le opere sono previste ad una quota di oltre 11 metri rispetto alla scalinata pedonale su via De Cristoforis ed ha descritto le caratteristiche del reticolo idrico minore in cui è classificato il torrentello, caratterizzato da un letto e da pareti in roccia che costituiscono gli argini fortemente inclinati che ne delimitano il corso e si incanala sotto la strada provinciale n. 71 (via Regina Teodolinda vecchia) attraverso un cunicolo, che non ha mai innescato situazioni di criticità in termini di drenaggio e scarico delle acque meteoriche rispetto alla strada carrabile” (cfr. pag. 13);
   d) nel parere reso in data 17.11.2016 il geologo incaricato dal Comune ha preso atto di “una nuova soluzione progettuale che comporta una ridistribuzione del sottotetto con formazione di locali accessori che presentano altezze inferiori ai minimi richiesti per locali abitabili”, facendo discendere da tale premessa che “la nuova proposta non è in contrasto con la normativa vigente di carattere idraulico relativa ai corsi d'acqua di gestione comunale”.
Ad avviso del Collegio il sopra citato parere geologico –indipendentemente dal fatto che il professionista (dott. St.Fr.) sia stato il redattore delle norme tecniche di attuazione dello studio del reticolo idrico minore, adottate nel 2005– è palesemente inidoneo a sostanziare, sul piano tecnico, l’ammissibilità dell’intervento oggetto del contendere, viceversa reputato scevro da qualsiasi rischio a leggere la spontanea dichiarazione del diretto interessato sig. Br., i sopra citati scritti difensivi e, infine, la relazione elaborata da un tecnico di parte dello stesso controinteressato.
È singolare avvedersi della perentorietà di tali valutazioni (prive –tranne che nel caso della relazione tecnica del giugno 2016– di connotazione tecnica), quella che, invece, sarebbe stato imprescindibile pretendere proprio dal geologo comunale, il quale, nel parere del 3.11.2014, ha richiamato la disciplina di cui all’art. 11 delle NTA dello studio del RIM (che ammette gli “interventi di ristrutturazione che non comportino aumenti volumetrici o di capacità insediativa all'interno della fascia di rispetto”), evidenziando che tale norma “ha come finalità il non aggravio di una situazione di rischio già esistente in quanto l'edificio non presenta una distanza di sicurezza dall'alveo del torrente e limita i possibili interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sullo stesso”.
Rapportando la prescrizione generale al caso particolare sarebbe stato, dunque, doveroso e tecnicamente imprescindibile che l’Amministrazione acquisisse dal tecnico incaricato una valutazione reale e approfondita (anziché poche righe) sull’intervento oggetto del contendere.
Il proprium tecnico dell’autorizzazione idraulica –cioè escludere possibili pericoli per la corretta e regolare regolazione delle acque– è stato esaurito in una formalistica presa d’atto dell’ammissibilità dell’aumento volumetrico prefigurata, ma in linea generale, dal combinato disposto tra l’art. 11 delle norme del RIM e la disciplina del piano delle regole (art. 16.2).
Non vi è stato un apprezzamento in concreto dello stato dei luoghi; neppure si è ritenuto di pronunciarsi, nel solco della prevalente interpretazione giurisprudenziale (cfr. sezioni unite n. 12271/2004), sull’attuale presenza, o meno, di una massa d’acqua pubblica, e ciò al fine di motivare il superamento di ciò che, nell’orientamento recente della Suprema Corte (cfr. Cassazione civile, sezioni unite, 28.09.2016, n. 19066), continua ad essere definita la “perdurante operatività del divieto di costruire a meno di dieci metri dall’alveo”.
Vero è, inoltre, che la disciplina di cui all’art. 96 “ha carattere sussidiario, essendo destinata a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale; tuttavia, a fronte dei fini di tutela e sicurezza perseguiti, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare alla norma statale deve essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale” (cfr. TAR Liguria, 12.03.2013, n. 476). Ma nella normativa comunale non è stata prevista una distanza specifica.
È, perciò, ravvisabile un travisamento di fondo nell’istruttoria procedimentale, ossia che l’assenso alla deroga al regime di inedificabilità –sotteso alla (pacifica) circostanza che l’immobile del controinteressato ricada parzialmente nella fascia di rispetto idraulico– potesse essere subordinato al mero contenimento della volumetria.
Si è detto che così non è.
Nella specie è stato proposto un intervento di ristrutturazione edilizia (sostanzialmente riconducibile al recupero di un sottotetto: il che, dunque, comporta la reiezione del quarto motivo aggiunto), comportante un aumento volumetrico di circa mc 30, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 27, comma 1, lett. d), della legge regionale 12/2005, connotato dalla riduzione dell’altezza interna del nuovo corpo edilizio a mt. 2,38, dunque ad una quota molto prossima al limite previsto dall’art. 63, comma 6 della citata legge regionale (“altezza media ponderale di metri 2,40”) per l’abitabilità.
In più, dal primo al secondo progetto è stata proposta una modificazione non significativa della destinazione d’uso della programmata unità edilizia (da “nuovo locale sgombero e una piccola toilette” a “locale sgombero come ad esempio guardaroba-spogliatoio-stireria e una piccola lavanderia, di pertinenza all'unità residenziale unifamiliare”), pur sempre correlata alle “esigenze abitative familiari” del controinteressato (cfr. pag. 7 della replica): il che, a maggior ragione, avrebbe reso necessaria una verifica reale sulla capacità insediativa e, di riflesso, sul possibile incremento del carico urbanistico, altro profilo disatteso nel corso dell’istruttoria comunale.
Al riguardo, il Collegio registra che è stato il sig. Br., nella dichiarazione del 10.3.2015, ad affermare che “l’ampliamento previsto non determinerà un incremento del peso insediativo dell'immobile in quanto di fatto subirà solo un incremento della superficie non residenziale”; e ciò con il probabile intento di superare il rilievo contenuto nel primo parere del geologo, in cui è stato significato –questa volta con richiamo appropriato– che “la capacità insediativa di un immobile ad uso residenziale può essere valutata sulla base sia della superficie netta di abitazione, sia del numero delle stanze da letto disponibili e delle relative superfici (vedi regolamento locale di igiene). Nel caso il recupero del sottotetto determini, quindi, la formazione di nuove stanze da letto all'interno della fascia di rispetto e/o un aumento della superficie netta calpestabile ad uso abitativo, tale intervento di fatto rende l'immobile idoneo ad ospitare un maggior numero di residenti con conseguente aumento della capacità insediativa”.
Nell’ordinanza cautelare n. 738/2016 la Sezione ha inteso sollecitare un approfondimento su tale situazione, disponendo un riesame che, però, l’Amministrazione comunale ha inopinatamente ritenuto di eludere per il sol fatto che, medio tempore, fosse stata presentata una domanda di permesso in variante, finendo per accordare un nuovo assenso edilizio, per giunta sulla base di un parere geologico (quello del 17.11.2016) notevolmente deficitario (per le ragioni sopra illustrate).
È, pertanto, fondato anche il sesto motivo aggiunto, con cui è stata dedotto il difetto d’istruttoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2018 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La distanza di 10 metri tra edifici antistanti va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti frontistanti.
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Il decreto ministeriale 1444/1968, in quanto emanato su delega dell'art. 41-quinquies inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi nella redazione o revisione dei loro strumenti urbanistici, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati.
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La distanza legale di 10 metri tra fabbricati è stata reputata inderogabile dalla prevalente giurisprudenza:
   - “in presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879, comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse”.
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Meritevole di accoglimento è anche il terzo motivo aggiunto, con cui è stata censurata la violazione del regime delle distanze legali articolato nell’art. 9 del DM 1444/1968 e dell’art. 5 delle NTA del piano delle regole del PGT.
Ad avviso del controinteressato, nella specie non sarebbe applicabile il citato DM in quanto i fabbricati non si fronteggerebbero, né, comunque, sarebbe preclusiva l’esistenza di una distanza inferiore ai 10 metri (7,20 metri, come prospettato dai ricorrenti: circostanza non contestata ai sensi dell’art. 64, comma 2, del codice del processo amministrativo), invocando la deroga prevista dall’art. 879, comma 2, del codice civile in ragione della via pubblica De Cristoforis.
Quanto al primo rilievo, l’art. 5 delle NTA del piano delle regole ha definito “distanza tra edifici: la misura minore della distanza tra tutti i punti dei due edifici valutata su ciascun piano orizzontale fino alle altezze massime dei due edifici”. Tale definizione risulta coerente con l’orientamento secondo cui la distanza di 10 metri tra edifici antistanti va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti frontistanti (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909, che riprende id., sez. V, 16.02.1979, n. 89). Dunque, anche in caso di allineamento sussisterebbe il presupposto per l’applicazione della normativa nazionale.
Con riguardo, invece, all’ammissibilità della deroga, occorre considerare, “sulla scorta della sentenza delle sezioni unite 01.07.1997 n. 5889, (…) che il decreto ministeriale, in quanto emanato su delega dell'art. 41-quinquies inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17 ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi nella redazione o revisione dei loro strumenti urbanistici, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (v., tra le più recenti, le sentenze 19.11.2004 n. 21899, 30.03.2006 n. 7563, 11.02.2008 n. 3199)” (cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 07.07.2011, n. 14953; sulla prevalenza sulla potestà legislativa regionale, cfr. Corte Costituzionale, 16.06.2005, n. 232; sulla prevalenza sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731).
La distanza legale di 10 metri tra fabbricati –confermata, nella specie, dallo stesso art. 5 delle citate NTA– è stata reputata inderogabile dalla prevalente giurisprudenza (“in presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art. 9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante, in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di natura urbanistica, superiore a quello individuale dei proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879, comma 2 c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si applica in luogo delle stesse”, cfr. TAR Liguria, 20.07.2011 n. 1148).
Lo spazio per un’applicazione temperata sarebbe stato, in ogni caso, riscontrabile solo in caso di edifici “tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli” (art. 9 del citato DM), mentre alcuna disciplina particolare è stata dettata per il caso di edifici separati da strada pubblica pedonale, come pare essere quella oggetto del presente giudizio (le fotografie raffigurano inequivocabilmente una scalinata).
Conseguentemente, la minore distanza di 10 metri tra l’immobile dei ricorrenti e quello del sig. Br. viola sia la disciplina nazionale, sia quella locale; non potendosi già in partenza ravvisare il rispetto di tale standard, resta, pertanto, assorbito il quinto motivo aggiunto, con cui i ricorrenti hanno dedotto che la costruzione del controinteressato sarebbe in contrasto con la disciplina di cui all’art. 8 del DM 1444/1968.
In conclusione, il ricorso principale dev’essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse e il ricorso per motivi aggiunti va accolto, con annullamento dell’impugnato permesso di costruire (la domanda risarcitoria non è stata più coltivata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2018 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' posto in capo al proprietario, o al responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito.
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L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata dell'Amministrazione, con la conseguenza che i relativi provvedimenti -tra cui l'ordinanza di demolizione- costituiscono atti doverosi per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, la mancata comunicazione di avvio del procedimento, laddove considerata anche in quest’ipotesi dovuta, sarebbe derubricata a mera irregolarità non invalidante, secondo lo schema disegnato dall'art. 21-octies L. n. 241/1990.
In altri termini, in materia di repressione degli abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché all'individuazione e alla qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito e al ripristino della legalità.
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3.- Infondato è anche il secondo motivo.
L’assunto circa la preesistenza del manufatto non è assistito da una valida prova, il cui onere incombe sull’interessato, come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. sentenza, 27.08.2016 n. 4108).
Al riguardo, l’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito (cfr., sempre questa Sezione, sentenza 10.10.2017, n. 4732 con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd. Legge ponte, ma estensibile, per analogia, anche all’ipotesi controversa).
...
5.- Infondato, infine, si palesa il quarto motivo.
5.1.- Riguardo all’asserita mancanza di partecipazione al procedimento, costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata dell'Amministrazione, con la conseguenza che i relativi provvedimenti -tra cui l'ordinanza di demolizione- costituiscono atti doverosi per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014 n. 4279; id., 07.07.2014 n. 3438; id., 20.05.2014 n. 2568; id., 09.05.2014 n. 2380; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 06.10.2016 n. 4574; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 22.05.2014 n. 1324; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 16.05.2014 n. 2718; id., sez. II, 15.05.2014 n. 2713; anche questa Sezione, 19.12.2017, n. 5967).
5.2.- In ogni caso, la mancata comunicazione di avvio del procedimento, laddove considerata anche in quest’ipotesi dovuta, sarebbe derubricata a mera irregolarità non invalidante, secondo lo schema disegnato dall'art. 21-octies L. n. 241/1990.
In altri termini, in materia di repressione degli abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e vincolato che, in linea generale, non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto nonché all'individuazione e alla qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione con l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito e al ripristino della legalità (cfr. sul punto questa Sezione, 28.08.2017 n. 4142; Cons. St., sez. IV, 28.02.2017 n. 908; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 21.06.2017 n. 3377).
Nel caso di specie, l'ordinanza demolitoria impugnata adempie ad entrambi gli elementi motivazionali, posto che indica nel dettaglio le opere abusive riscontrate e le normative applicabili, con riguardo anche ai molteplici regimi vincolistici esistenti sull'area (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.05.2018 n. 2989 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel valutare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere si deve operare una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione.
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Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
Quanto alla prima censura, la parte ricorrente sostiene che si tratta di opere meramente interne, mentre per i capannoni sarebbe stata presentata domanda di condono. Orbene, occorre in primo luogo osservare come tale domanda di condono non sia stata allegata; mentre, dalla documentazione allegata dal Comune, si evince che anche i capannoni sono abusivi, e che sono già stati oggetto di precedenti ordinanze di demolizione.
Comunque, per costante giurisprudenza, “Nel valutare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere si deve operare una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” (così, tra le più recenti, TAR Campania Napoli Sez. VI, 23.03.2018, n. 1907) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
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Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
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L’indicazione dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, si tratta di una specificazione che ben può intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
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Ai fini della valutazione della legittimità di un ordine di demolizione di un manufatto abusivo, deve ritenersi non configurabile il vizio di disparità di trattamento, atteso che gli atti sanzionatori che vengono in rilievo in materia edilizia hanno carattere vincolato e non discrezionale.
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Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata sull’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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È infondata anche la seconda censura.
Per giurisprudenza costante, per la motivazione dell'ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la specificazione intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione (tra le tante, Tar Campania, Napoli, VI, n. 2000/2012).
È infondata anche la terza censura, con cui ci si duole del fatto che il provvedimento impugnato sia stato adottato senza una preventiva valutazione della sanabilità delle opere.
Infatti dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale. Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
È infondata anche la quarta censura, con cui ci si duole della mancata indicazione dell'area concretamente necessaria alla realizzazione di un’opera analoga a quella abusiva.
Infatti, così come l’indicazione dell'area di sedime destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, si tratta di una specificazione che ben può intervenire nella successiva fase dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
È infondata la quinta censura, con cui ci si duole di una disparità di trattamento, attesa la mancata sanzione di opere analoghe esistenti nella stessa zona.
Per giurisprudenza costante, “Ai fini della valutazione della legittimità di un ordine di demolizione di un manufatto abusivo, deve ritenersi non configurabile il vizio di disparità di trattamento, atteso che gli atti sanzionatori che vengono in rilievo in materia edilizia hanno carattere vincolato e non discrezionale” (così TAR Sicilia Palermo Sez. III, 06.12.2013, n. 2404).
Infine, risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata sull’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2970 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dall’effettiva conoscenza dell’atto, senza che rilevino forme di pubblicità quale l'apposizione nel cantiere di un cartello indicante gli estremi del titolo o l'affissione dell'atto all'albo pretorio.
Chi intende eccepire la tardività del ricorso ha dunque l’onere di provare che il ricorrente aveva già una piena ed effettiva conoscenza dell’atto impugnato; conoscenza che, per il terzo controinteressato, di regola coincide col momento in cui le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche.
Tale orientamento, tuttavia, appare ragionevole se riferito –nel caso del permesso di costruire– al “vicino” che è in grado di seguire i lavori e di percepirne, ad un certo punto, la lesività per i propri interessi.
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Secondo una consolidata giurisprudenza, la legittimazione ex lege delle associazioni ambientaliste può esser riconosciuta non solo nel caso di atti inerenti la materia ambientale, ma anche per quelli che "incidono sulla qualità della vita in un dato territorio"; tali associazioni sono state ritenute legittimate ad agire in giudizio non solo per la tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche per quelli ambientali in senso lato, comprendenti la conservazione e la valorizzazione dell'ambiente, del paesaggio urbano, rurale, naturale e dei centri storici "intesi tutti quali beni e valori idonei a caratterizzare in modo peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico territoriale rispetto ad altri".
Dunque, per un verso non può ritenersi che manchi il “danno ambientale” –come si vedrà oltre, il fatto che i box siano interrati non è, di per sé, sufficiente ad evitare un pregiudizio di natura ambientale, atteso che trattasi comunque di un intervento edilizio molto invasivo ed idoneo a pregiudicare la destinazione naturale dell’area– per altro verso non può sostenersi che la legittimazione ex lege n. 349/1986, stante la sua natura eccezionale, debba essere limitata soltanto alla deduzione di censure che concernono direttamente l’assetto normativo di tutela dell’ambiente oppure la violazione di norme poste a salvaguardia dell’ambiente.
Al contrario, la giurisprudenza riconosce che gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni, attesa “l'ormai pacifica compenetrazione delle problematiche ambientali in quelle urbanistiche”.
Né può sostenersi che manchi la legittimazione per mancanza di uno specifico legame dell’associazione col territorio della penisola sorrentina.
Infatti, come ritenuto da giurisprudenza costante, quando si è in presenza di una legittimazione riconosciuta ex lege (cioè per effetto dell'inclusione nell'elenco delle "associazioni di protezione ambientale riconosciute" ai sensi dell'art. 13 della L. n. 349 del 1986, come accade nel caso di specie) non è necessario accertare la sussistenza dei requisiti che, in mancanza del riconoscimento ex lege, sono ritenuti necessari per poter radicare, in capo all’associazione, la legittimazione a ricorrere in base ad una valutazione caso per caso: requisiti che sono relativi, per l’appunto:
   a) alle finalità statutarie dell'ente, ovvero al perseguimento, in modo non occasionale, di obiettivi di tutela ambientale;
   b) alla stabilità del suo assetto organizzativo;
   c) nonché alla c.d. vicinitas rispetto all'interesse sostanziale che si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e a tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende (recte: può essere ammesso ad) agire in giudizio.
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L’eccezione è infondata.
Per giurisprudenza costante, infatti, il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dall’effettiva conoscenza dell’atto, senza che rilevino forme di pubblicità quale l'apposizione nel cantiere di un cartello indicante gli estremi del titolo o l'affissione dell'atto all'albo pretorio (così, tra le tante, TAR Campania Napoli Sez. VIII, 24/11/2016, n. 5466).
Chi intende eccepire la tardività del ricorso ha dunque l’onere di provare che il ricorrente aveva già una piena ed effettiva conoscenza dell’atto impugnato (così Cons. Stato Sez. V, 16.04.2013, n. 2107); conoscenza che, per il terzo controinteressato, di regola coincide col momento in cui le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche (così, tra le tante, TAR Campania Napoli Sez. VIII, 23.08.2016, n. 4049).
Tale orientamento, tuttavia, appare ragionevole se riferito –nel caso del permesso di costruire– al “vicino” che è in grado di seguire i lavori e di percepirne, ad un certo punto, la lesività per i propri interessi.
Nel caso di specie, ad impugnare il permesso di costruire è un’associazione ambientalista, sicché non può pretendersi –ai fini della decorrenza del termine di impugnazione– la proposizione del ricorso entro sessanta giorni dal momento in cui le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche; perché, per l’appunto, non si tratta di un soggetto che vive nelle vicinanze del luogo in cui l’opera dev’essere realizzata.
Dunque, l’Amministrazione resistente avrebbe dovuto provare una conoscenza anticipata del provvedimento impugnato da parte dell’associazione ricorrente; e tale prova non appare fornita.
L’Amministrazione eccepiva inoltre l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione in capo all’associazione ricorrente. Infatti, eccepiva il Comune di Meta, i box, del tutto interrati, non recano alcun pregiudizio all’ambiente; né l’Associazione ricorrente ha provato l’effettivo e concreto danno ambientale che deriverebbe dall’esecuzione delle opere.
Eccepiva inoltre che la legittimazione ex lege n. 349/1986, stante la sua natura eccezionale (in quanto derogatoria del principio generale di cui all’art. 81 c.p.c.), deve essere limitata soltanto alla deduzione di censure che concernono direttamente l’assetto normativo di tutela dell’ambiente oppure la violazione di norme poste a salvaguardia dell’ambiente, mentre essa deve essere esclusa con riferimento agli atti e ai profili che abbiano una valenza di carattere urbanistico: ciò significa che non possono essere proposti motivi aventi una diretta valenza urbanistico-edilizia, e che soltanto in via strumentale ed indiretta possano determinare un effetto utile (anche) ai fini della tutela dei valori ambientali.
Anche i controinteressati eccepivano la carenza di legittimazione e di interesse a ricorrere dell’associazione, atteso che per un verso non sarebbe provato alcun danno ambientale che determini l’interesse dell’associazione a ricorrere, per altro verso non vi sarebbe alcun legame tra il territorio del comune di Meta e la Onlus ricorrente.
Anche tale eccezione è infondata.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza, la legittimazione ex lege delle associazioni ambientaliste può esser riconosciuta non solo nel caso di atti inerenti la materia ambientale, ma anche per quelli che "incidono sulla qualità della vita in un dato territorio" (Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2011, n. 2329; TAR Lombardia Milano Sez. II, 22.10.2013, n. 2336); tali associazioni sono state ritenute legittimate ad agire in giudizio non solo per la tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche per quelli ambientali in senso lato, comprendenti la conservazione e la valorizzazione dell'ambiente, del paesaggio urbano, rurale, naturale e dei centri storici "intesi tutti quali beni e valori idonei a caratterizzare in modo peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico territoriale rispetto ad altri" (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sentenza n. 811/2012).
Dunque, per un verso non può ritenersi che manchi il “danno ambientale” –come si vedrà oltre, il fatto che i box siano interrati non è, di per sé, sufficiente ad evitare un pregiudizio di natura ambientale, atteso che trattasi comunque di un intervento edilizio molto invasivo ed idoneo a pregiudicare la destinazione naturale dell’area– per altro verso non può sostenersi che la legittimazione ex lege n. 349/1986, stante la sua natura eccezionale, debba essere limitata soltanto alla deduzione di censure che concernono direttamente l’assetto normativo di tutela dell’ambiente oppure la violazione di norme poste a salvaguardia dell’ambiente.
Al contrario, la giurisprudenza riconosce che gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni (così Cons. Stato Sez. IV, 19.02.2015, n. 839), attesa “l'ormai pacifica compenetrazione delle problematiche ambientali in quelle urbanistiche” (così Cons. Stato Sez. V, 28.07.2015, n. 3711).
Né può sostenersi, contrariamente a quanto sostenuto dai controinteressati, che manchi la legittimazione per mancanza di uno specifico legame dell’associazione col territorio della penisola sorrentina.
Infatti, come ritenuto da giurisprudenza costante, quando si è in presenza di una legittimazione riconosciuta ex lege (cioè per effetto dell'inclusione nell'elenco delle "associazioni di protezione ambientale riconosciute" ai sensi dell'art. 13 della L. n. 349 del 1986, come accade nel caso di specie) non è necessario accertare la sussistenza dei requisiti che, in mancanza del riconoscimento ex lege, sono ritenuti necessari per poter radicare, in capo all’associazione, la legittimazione a ricorrere in base ad una valutazione caso per caso: requisiti che sono relativi, per l’appunto:
   a) alle finalità statutarie dell'ente, ovvero al perseguimento, in modo non occasionale, di obiettivi di tutela ambientale;
   b) alla stabilità del suo assetto organizzativo;
   c) nonché alla c.d. vicinitas rispetto all'interesse sostanziale che si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e a tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende (recte: può essere ammesso ad) agire in giudizio (così anche questa Sezione, sent. n. 2025/2016) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le normative comunali, che ammettono una limitata possibilità di realizzare in zona agricola interventi edilizi, devono essere interpretate nel senso che si deve comunque assicurare tutela al territorio agricolo e alla sua concreta utilizzazione a fini alimentari, dovendo al contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità di una zona agricola la realizzazione di strutture che ne pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio e comportano la sua deruralizzazione.
Dunque, se l’area è classificata come agricola, ciò significa che tutti gli interventi che su di essa insistono devono essere interpretati e riguardati nella prospettiva degli usi agricoli, come del resto si evince dall’art. 16, comma 1, del PRG; le utilizzazioni infrastrutturali di mobilità che la norma consente, in quanto compatibili con l’area de qua, sono dunque quelle infrastrutture leggere e funzionali all’uso agricolo che non incidano sullo stesso, prevaricandolo.
Nel caso di specie sono state autorizzate due autorimesse interrate per un numero complessivo di 47 box pertinenziali: costruzioni, evidentemente, del tutto slegate da un rapporto di funzionalità con l’uso agricolo, ma funzionali all’utilizzo residenziale intenso, escluso in zona agricola.
Ed è pacifico, in giurisprudenza, che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all'esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell'espansione urbana.
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Deve peraltro ritenersi fondata anche la seconda censura.
Infatti, “Le normative comunali, che ammettono una limitata possibilità di realizzare in zona agricola interventi edilizi, devono essere interpretate nel senso che si deve comunque assicurare tutela al territorio agricolo e alla sua concreta utilizzazione a fini alimentari, dovendo al contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità di una zona agricola la realizzazione di strutture che ne pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio e comportano la sua deruralizzazione” (così TAR Piemonte Torino Sez. II, 18.01.2017, n. 134).
Dunque, come osservato da parte ricorrente, se l’area è classificata come agricola, ciò significa che tutti gli interventi che su di essa insistono devono essere interpretati e riguardati nella prospettiva degli usi agricoli, come del resto si evince dall’art. 16, comma 1, del PRG; le utilizzazioni infrastrutturali di mobilità che la norma consente, in quanto compatibili con l’area de qua, sono dunque quelle infrastrutture leggere e funzionali all’uso agricolo che non incidano sullo stesso, prevaricandolo.
Nel caso di specie sono state autorizzate due autorimesse interrate per un numero complessivo di 47 box pertinenziali: costruzioni, evidentemente, del tutto slegate da un rapporto di funzionalità con l’uso agricolo, ma funzionali all’utilizzo residenziale intenso, escluso in zona agricola.
Ed è pacifico, in giurisprudenza, che la destinazione agricola del suolo non deve rispondere necessariamente all'esigenza di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell'espansione urbana (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16.12.2016 n. 5334; id. 12.05.2016 n. 1917; Sez. II, 07.03.2013 n. 1066; Sez. IV, 16.11.2011 n. 6049; id. 27.07.2011 n. 4505; 18.01.2011 n. 352; 13.10.2010 n. 7478; 27.07.2010 n. 4920).
Attesa la fondatezza della seconda e della terza censura, la prima può ritenersi assorbita (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI: Sul negato riconoscimento, tra i debiti fuori bilancio, dell’indennità di fine mandato al Sindaco uscente.
Il riconoscimento fuori bilancio è una procedura di regolarizzazione contabile necessaria all’adempimento del debito eventualmente assunto senza il preventivo impegno di spesa, ma non incide sulla qualificazione giuridica delle posizioni giuridiche involte, in quanto il rapporto di debito/credito tra le parti, è, in astratto, del tutto indipendente dalle ricadute contabili date dal riconoscimento della legittimità del debito e sussiste a prescindere da quel riconoscimento.
Nel caso di mancato riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio, ai fini della sua iscrizione in bilancio, la sostanziale lesività nei confronti del creditore è data dall'inadempimento del rapporto sostanziale e non già dalla deliberazione consiliare che neghi i presupposti per il riconoscimento.
Del resto la giurisprudenza ha già avuto occasione di affermare che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente a oggetto l'impugnazione di una deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha escluso il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000; ciò in quanto l'atto di regolarizzazione contabile -il riconoscimento del debito fuori bilancio- non ha natura provvedimentale, ma solo ricognitiva del presupposto (vale a dire, l'arricchimento per l'Ente), ai fini dell'inserimento nel bilancio dell'Amministrazione locale del debito irregolarmente assunto, sicché la posizione correlata non è di interesse legittimo, bensì di diritto soggettivo, con conseguente cognizione spettante al g.o..

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La giurisprudenza contabile, con riferimento proprio all’ipotesi dell’erogazione dei ratei di indennità di funzione e di fine mandato ad un ex Sindaco, ai sensi dell’art. 82 del d.lgs. n. 267 del 2000, in assenza di corrispondente stanziamento nei relativi bilanci consuntivi e di previsione, ha ribadito che «la prestazione del Sindaco discende dalla legge, ossia dalla consultazione elettorale, e la prestazione indennitaria è prevista anch’essa dalla normativa di settore; quindi, la verifica dell’utilità e dell’arricchimento dell’Ente sono superate e non necessarie nel caso di specie».
Ove non siano stati previsti i necessari stanziamenti di bilancio, una volta acclarato che il credito è giuridicamente esistente (valutazione rimessa all’Ente) ciò che necessita è il reperimento delle risorse di bilancio; «[l]’Ente, pertanto, può ricorrere in modo atipico alla procedura di cui all’art. 194 al fine di reperire le risorse necessarie, qualora gli stanziamenti di bilancio finalizzati alle spese in esame non siano capienti. Di contro, qualora le risorse siano già presenti nel bilancio dell’Ente, nulla esclude che si possa dare copertura alla spesa in esame sul bilancio corrente».
Da quanto esposto deriva che la controversia portata all’attenzione di questo Collegio involge, quindi, la lesione di diritti soggettivi estranea alla giurisdizione di legittimità del g.a..
In conclusione deve dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario.
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1. Con ricorso n. 870/2015, il sig. Or.Ma. ha impugnato la D.C.C. n. 45 del 05.08.2015, chiedendone l’annullamento nella parte in cui è stato negato il riconoscimento, tra i debiti fuori bilancio, dell’indennità di fine mandato a Sindaco nei riguardi dello stesso ricorrente e in ogni altra parte lesiva della posizione giuridica dello stesso, nonché, ogni altro atto presupposto, conseguente e/o comunque connesso, ivi comprese la D.C.C. n. 46 del 05.08.2015 e la D.C.C. n. 44 del 05.08.2015.
2. Si è costituito il Comune di Polino, nella persona del Sindaco pro-tempore, contestando l’avverso ricorso, in quanto irricevibile, improcedibile, inammissibile e, comunque, infondato nel merito, chiedendone, pertanto, il rigetto. In particolare, si eccepisce il difetto di giurisdizione e la prescrizione dell’indennità relativa alle annualità 2004-2008.
3. In vista dell’udienza pubblica il ricorrente ha depositato una nota di discussione eccependo la tardività delle memorie di controparte.
4. La controversia ha ad oggetto le deliberazioni del Consiglio comunale richiamate per quanto concerne il mancato riconoscimento quali debiti fuori bilancio dell’indennità di fine mandato reclamata dall’odierno ricorrente relative alla carica di Sindaco ricoperta dallo stesso per due mandati consecutivi.
5. Preliminarmente va esaminata la questione di giurisdizione che, benché oggetto di eccezione tardiva, può comunque essere vagliata, potendo essere affrontata anche d’ufficio dal Collegio.
Il decreto ministeriale 04.04.2000, n. 119, in attuazione dell’art. 82, commi 1 e 8, del d.lgs. n. 267 del 2000, determina l’indennità di funzione spettante tra gli altri al sindaco, prevedendo all’art. 10 che «[a] fine mandato, l'indennità dei sindaci e dei presidenti di provincia è integrata con una somma pari ad una indennità mensile spettante per 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per periodi inferiori all'anno».
Quella richiesta dal ricorrente si configura come una indennità puntualmente prevista dalla legge e predeterminata nel suo ammontare. La natura giuridica della posizione sostanziale effettivamente azionata dal ricorrente è di diritto soggettivo, riguardando un credito derivante da un trattamento necessariamente previsto dalla norma -nella specie, oltre ad essere stabilito nella debenza, è anche preventivamente quantificato nell’importo- senza che, in proposito, assuma rilievo dirimente il fatto che, ove il Comune non abbia provveduto negli anni alla corretta iscrizione di tali spettanze, possa risultare necessaria per l'adempimento lo svolgimento della procedura di iscrizione fuori bilancio.
Il riconoscimento fuori bilancio è, infatti, una procedura di regolarizzazione contabile necessaria all’adempimento del debito eventualmente assunto senza il preventivo impegno di spesa, ma non incide sulla qualificazione giuridica delle posizioni giuridiche involte, in quanto il rapporto di debito/credito tra le parti, è, in astratto, del tutto indipendente dalle ricadute contabili date dal riconoscimento della legittimità del debito e sussiste a prescindere da quel riconoscimento. Nel caso di mancato riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio, ai fini della sua iscrizione in bilancio, la sostanziale lesività nei confronti del creditore è data dall'inadempimento del rapporto sostanziale e non già dalla deliberazione consiliare che neghi i presupposti per il riconoscimento (in tal senso TAR Liguria, sez. I, 05.02.2014, n. 187).
Del resto la giurisprudenza ha già avuto occasione di affermare che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente a oggetto l'impugnazione di una deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha escluso il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000; ciò in quanto l'atto di regolarizzazione contabile -il riconoscimento del debito fuori bilancio- non ha natura provvedimentale, ma solo ricognitiva del presupposto (vale a dire, l'arricchimento per l'Ente), ai fini dell'inserimento nel bilancio dell'Amministrazione locale del debito irregolarmente assunto, sicché la posizione correlata non è di interesse legittimo, bensì di diritto soggettivo, con conseguente cognizione spettante al g.o. (TAR Molise, Campobasso, sez. I, 13.03.2015, n. 90).
Si evidenzia che anche la giurisprudenza contabile, con riferimento proprio all’ipotesi dell’erogazione dei ratei di indennità di funzione e di fine mandato ad un ex Sindaco, ai sensi dell’art. 82 del d.lgs. n. 267 del 2000, in assenza di corrispondente stanziamento nei relativi bilanci consuntivi e di previsione, ha ribadito che «la prestazione del Sindaco discende dalla legge, ossia dalla consultazione elettorale, e la prestazione indennitaria è prevista anch’essa dalla normativa di settore; quindi, la verifica dell’utilità e dell’arricchimento dell’Ente sono superate e non necessarie nel caso di specie».
Ove non siano stati previsti i necessari stanziamenti di bilancio, una volta acclarato che il credito è giuridicamente esistente (valutazione rimessa all’Ente) ciò che necessita è il reperimento delle risorse di bilancio; «[l]’Ente, pertanto, può ricorrere in modo atipico alla procedura di cui all’art. 194 al fine di reperire le risorse necessarie, qualora gli stanziamenti di bilancio finalizzati alle spese in esame non siano capienti. Di contro, qualora le risorse siano già presenti nel bilancio dell’Ente, nulla esclude che si possa dare copertura alla spesa in esame sul bilancio corrente» (Corte conti, sez. reg. controllo Liguria, del. 12.12.2016, n. 99).
Da quanto esposto deriva che la controversia portata all’attenzione di questo Collegio involge, quindi, la lesione di diritti soggettivi estranea alla giurisdizione di legittimità del g.a..
6. In conclusione deve dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario, innanzi al quale la causa potrà essere riassunta con salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne risulta munito, secondo le disposizioni di cui all’art. 11 cod. proc. amm. (TAR Umbria, sentenza 03.05.2018 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ legittima l’ordinanza di demolizione, per assenza del permesso di costruire, adottata nei confronti di un intervento di installazione di una manufatto realizzato in zona agricola che, sebbene definita dai ricorrenti come “roulotte” costituita da tubolari e poggiante su ruote, in realtà costituisce un’opera di natura edilizia di dimensioni rilevanti (70 mq) e non precaria, poiché realizzata su una soletta in calcestruzzo dello spessore di 5 cm che palesa la strumentalità del posizionamento dei pilastrini su ruote gommate.
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Col ricorso in esame i sigg. Ge.Bo. e An.Ma.Ur. impugnano l'ordinanza dirigenziale n. 137 del 22.11.2013 con cui il Comune di Palma Campania ha ingiunto loro, nella rispettiva qualità di autore degli abusi e di proprietaria del fondo, la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi con riferimento alla realizzazione, in difetto di titolo edilizio, di una pluralità di opere sul suolo sito in Palma Campania alla Via ... s.n.c., censito in catasto al foglio 19, p.lla 1355, siccome costituenti, nel loro insieme, un unico organismo edilizio con specifica rilevanza autonomamente utilizzabile con significativa alterazione della destinazione d’uso del lotto (ricadente in zona agricola) ed aggravio urbanistico, così descritte nel provvedimento: «1) vialetto di circa 250 mq. (1000 x 2,5) eseguito con quadroni lapidei di cm.40 x 40;
2) forno a legna prefabbricato di circa 3 mq;
3) box prefabbricato tipo container di mq. 7,70 (m. 3,50 x 2,20), alto m. 2,30, pari a un volume di 18 mc;
4) tettoia (gazebo) in legno aperto su tutti e 4 i lati con copertura di manto di tegole a falde inclinate avente una superficie di mq. 21,0 (5,00 x 4,20), un’altezza media di m. 3,35 (2,90 + 3,80 )/2, sorretta da 4 pilastrini infissi a terra;
5) manufatto di mq. 70,00 (10,00 x 7,00) un'altezza media di m. 3,35 (2,90 + 3,80)/2 e un volume di 220 mc., realizzato con pannelli coibentati tipo "isopan" e getto di soletta in calcestruzzo montati sulla vecchia struttura costituita da tubolari in ferro sorretta da terra da 6 pilastrini montati su altrettante ruote gommate;
6) piscina domestica di mq. 40,5 (m. 9,0 x 4,5), mediamente profonda m. 1,30;
7) manufatto di m. 26,10, alto m. 2,30, pari a mc. 60, realizzato sul confine est dell'attuale particella catastale n. 1355, costruito in parte con blocchi di lapillo e in parte con lamiere coibentate, formato da varie celle destinate al ricovero di animali domestici
».
...
Il ricorso è infondato.
I ricorrenti, sostenendo di aver installato semplicemente “una roulotte costituita da tubolari e poggiante su ruote”, priva di impianto idrico, scarichi ed energia elettrica, costituente una struttura amovibile, non infissa al suolo, che non andrebbe ad aggravare il carico urbanistico e non richiederebbe alcuna autorizzazione o concessione edilizia da parte del Comune di Palma Campania, con un unico motivo di doglianza denunciano il difetto di motivazione del provvedimento impugnato –che non avrebbe dato conto delle ragioni per cui sarebbe stato sanzionato con l’ordine di demolizione un manufatto assolutamente precario– e l’illegittima assegnazione, a suo tempo, di un termine ridotto per il ripristino dello stato dei luoghi, pur in assenza di motivate ragioni di celerità ed urgenza, in violazione all'art. 44 L. 47/1985.
Il motivo non ha pregio, atteso che esso si riferisce ad una struttura che i ricorrenti definiscono “roulotte” ma che, in realtà, costituisce un’opera di natura edilizia di dimensioni rilevanti (70 mq) e non precaria, poiché realizzata su una soletta in calcestruzzo dello spessore di 5 cm che palesa la strumentalità del posizionamento dei pilastrini su ruote gommate (cfr. la relazione tecnica di sopralluogo del 22.11.2013, prot. 20578: «l'attuale manufatto, artatamente montato su 6 ruote gommate che sorreggono altrettanti pilastrini in ferro che distanziano il piano di calpestio di circa 55 cm. da terra, ha una superficie lorda d'uso di mq. 70,00 (10,00 x 7,00) ed un volume lordo di mc. 220,0, essendo l'altezza media di m. 3,15 [(3,25 + 3,05)/2]. Il pavimento è costituito da una soletta di calcestruzzo di circa 5 cm. di spessore. Al suo interno sono stati rinvenuti alcuni pannelli in gesso poggiati a terra per delineare probabilmente l'ingombro di un wc e di una stanza. Altri pannelli simili erano poggiati su alcuni bancali avvolti in cellophane stivati all'esterno vicino ai manufatti abusivi»).
I restanti manufatti costituiscono chiaramente un insieme di opere unitariamente destinate, con quella testé menzionata, alla trasformazione urbanistica dell’area, classificata in zona agricola.
Infine, non corrisponde al vero che l’amministrazione abbia assegnato un termine ridotto per il rispristino dello stato dei luoghi, il quale, nel provvedimento in questa sede impugnato non diversamente che nella precedente ordinanza di demolizione n. 91 dell’08.07.2013 (non impugnata e solo in parte eseguita: cfr. relazione di sopralluogo cit.), risulta ordinariamente fissato in novanta giorni.
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 11.04.2018 n. 2339 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa ha più volte esplorato le caratteristiche che connotano il restauro ed il risanamento conservativo anche per distinguere detta categoria da quella più prossima della ristrutturazione.
Si è affermato in giurisprudenza che ricorre la prima categoria allorquando sussiste un’attività rivolta «… a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso) …, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «…il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente, … di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie.
Di recente la Sezione ha ribadito i capisaldi dell’istituto, riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31 della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia risiede essenzialmente nella conservazione formale e funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi rispetto alla seconda.
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5.- Il ricorso è infondato alla stregua delle considerazioni che seguono.
6.- I ricorrenti affidano le proprie difese alla circostanza che sul fondo di loro proprietà era preesistente un fabbricato rurale che essi avrebbero semplicemente risanato, senza chiedere alcun titolo edilizio.
Ritengono che le opere eseguite siano ascrivibili alla categoria del risanamento conservativo e come tali da assoggettare, stante la loro realizzazione in assenza di Scia, a semplice sanzione pecuniaria.
6.1.- La giurisprudenza amministrativa ha più volte esplorato le caratteristiche che connotano il restauro ed il risanamento conservativo anche per distinguere detta categoria da quella più prossima della ristrutturazione.
Si è affermato in giurisprudenza che ricorre la prima categoria allorquando sussiste un’attività rivolta «… a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso) …, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «…il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente, … di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 17.03.2014 n. 1326; id., 17.07.2014 n. 3796; id., 05.09.2014 n. 4253).
Di recente la Sezione (cfr. Cons. St., IV, 25.07.2013 n. 3968) ha ribadito i capisaldi dell’istituto, riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31 della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento, il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia risiede essenzialmente nella conservazione formale e funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi rispetto alla seconda (ex multis Cons. St. n. 3505 del 2015) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.04.2018 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un intervento sul “fabbricato rurale semidiruto” parimenti sarebbe richiesto il permesso di costruire.
E’ pacifico in giurisprudenza che è ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente.
Le disposizioni testé citate non hanno quindi sottratto al regime del permesso di costruire le opere delle quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata.
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7.- Ad ogni modo, anche laddove volesse configurarsi, in ipotesi, un intervento sul “fabbricato rurale semidiruto” –di cui, comunque, non è provata la preesistente consistenza- parimenti sarebbe richiesto il permesso di costruire (ex multis Cons. St. n. 1725 del 2018).
7.1.- E’ pacifico in giurisprudenza che è ancora oggi da escludere che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare: in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV, sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia, sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
Le disposizioni testé citate non hanno quindi sottratto al regime del permesso di costruire le opere delle quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione (cfr. Cass. pen., sez. III, sentenza n. 40342 del 03.06.2014).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla stregua di un'area non edificata (Cons. St., sez. V, sentenza n. 1025 del 15.03.2016) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.04.2018 n. 530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione delle regole urbanistiche ed edilizie.
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1.‒ Con il secondo motivo di gravame, l’appellante invoca il principio del legittimo affidamento. Il Comune, prima di ordinare la demolizione dell’opera abusiva, avrebbe dovuto verificare se, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e per il protrarsi dell’inerzia degli organi preposti alla vigilanza, si fosse ingenerato un affidamento nel privato, al quale l’immobile era pervenuto in via ereditaria.
1.1.‒ La censura è stata respinta dall’Adunanza plenaria, con la predetta sentenza n. 9 del 2017, con le seguenti motivazioni.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione delle regole urbanistiche ed edilizie (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.04.2018 n. 2134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce ‒ai sensi dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990‒ l’annullamento del provvedimento quando, come accade nella vicenda in esame, emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato.
Per le ragioni espresse dall’Adunanza plenaria, i contenuti partecipativi che gli appellanti lamentano di non aver potuto rappresentare ‒la risalenza nel tempo degli abusi realizzati dalla loro comune dante causa; il legittimo affidamento riposto nella mancata adozione di provvedimenti repressivi da parte dell’autorità; il contegno contraddittorio serbato dal Comune di Fiumicino, il quale aveva continuato nel corso degli anni ad introitare i tributi locali per l’immobile in parola, in tal modo rafforzando il convincimento circa la mancata attivazione dei poteri repressivi‒ non avrebbero potuto distogliere l’Amministrazione dal rispristino della legalità sul territorio. Il vizio di mancata comunicazione procedimentale, dunque, nel caso in esame, non rileva perché la comunicazione, ove effettuata, comunque non avrebbe potuto condurre all’adozione di un provvedimento diverso.
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2.‒ Con il primo motivo di appello viene lamentata l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha ritenuto infondata la censura di violazione delle norme in materia di partecipazione procedimentale.
2.1.‒ La censura non può essere accolta.
È dirimente richiamare il consolidato orientamento della Sezione secondo cui, nei procedimenti preordinati all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio dell’iter procedimentale non produce ‒ai sensi dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990‒ l’annullamento del provvedimento quando, come accade nella vicenda in esame, emerga che il contenuto dell’ordinanza conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto adottato (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 12.08.2016, n. 3620; Consiglio Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880; IV, 17.02.2014, n. 734; IV, 04.02.2013, n. 666).
Per le ragioni espresse dall’Adunanza plenaria, i contenuti partecipativi che gli appellanti lamentano di non aver potuto rappresentare ‒la risalenza nel tempo degli abusi realizzati dalla loro comune dante causa; il legittimo affidamento riposto nella mancata adozione di provvedimenti repressivi da parte dell’autorità; il contegno contraddittorio serbato dal Comune di Fiumicino, il quale aveva continuato nel corso degli anni ad introitare i tributi locali per l’immobile in parola, in tal modo rafforzando il convincimento circa la mancata attivazione dei poteri repressivi‒ non avrebbero potuto distogliere l’Amministrazione dal rispristino della legalità sul territorio. Il vizio di mancata comunicazione procedimentale, dunque, nel caso in esame, non rileva perché la comunicazione, ove effettuata, comunque non avrebbe potuto condurre all’adozione di un provvedimento diverso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.04.2018 n. 2134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
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3.‒ Neppure può essere ritenuta condivisibile la censura relativa alla legittimità dell'ordinanza di demolizione emanata ai sensi dell'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3.1.‒ L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione». La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, sez. VI 29.11.2017, n. 5585; sez. VI, 12.04.2013, n. 2001) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.04.2018 n. 2134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cattiva insonorizzazione dell’immobile: perché rispondono costruttore, progettista ed esecutore.
Il TRIBUNALE di Savona, sentenza 06.04.2018 n. 532, accoglie la domanda risarcitoria proposta dall'acquirente per i gravi vizi di insonorizzazione dell'immobile acquistato, soffermandosi sul riparto di responsabilità tra costruttore-venditore, progettista ed esecutore.
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ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi: Trib. Milano sez. VII 13/11/2015; App. Bologna 26/09/2017; App. L'Aquila 11/01/2017; Trib. Pistoia 04/03/2010; Trib. Padova 21/10/2013; Trib. Roma, sez. X, 23/06/2014, n. 13550.
Difformi: Non si rinvengono precedenti.
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La questione sottoposta al Tribunale è un classico caso di responsabilità ex art. 1669 c.c. L'attore, in particolare, aveva acquistato un appartamento, edificato da una società costruttrice in esecuzione di contratto di appalto intercorso con la società proprietaria dell'area; la progettazione e la direzione lavori erano state affidate ad una società terza.
L'acquirente, dunque, lamentava come l’appartamento acquistato fosse risultato privo di fondamentali requisiti acustici, in altri termini malamente insonorizzato, ed aveva promosso un atp e, poi, il giudizio contro le suddette società (committente, appaltatrice e progettista/DL), chiedendo il risarcimento dei danni, consistenti nei costi necessari per riparare i difetti acustici riscontrati e nel minor valore dell’immobile. Il CTU aveva accertato che, come denunciato, l'appartamento aveva un inadeguato isolamento acustico, causato sia dalla mancanza di una progettazione acustica, sia dall’utilizzo di materiali non adeguati.
Il problema preliminare, come in quasi tutte le cause in materia di appalto, è quello della prescrizione/decadenza.
La responsabilità del costruttore, come noto, dura dieci anni con decorrenza dal giorno in cui i lavori sono stati ultimati; entro un anno dalla scoperta della rovina, o del pericolo di rovina, o dei gravi difetti, affinché possa esercitare l’azione di responsabilità, il proprietario dell’immobile dovrà farne denunzia all’appaltatore, mentre nell’anno successivo a tale denunzia si prescrive il diritto ad esercitare l’azione giudiziaria.
Quindi, scoperto il difetto, entro un anno, deve essere fatta la denuncia, a pena di decadenza (art. 1669, comma 2, c.c.) e, entro un anno dalla denuncia, deve essere iniziato il giudizio, a pena di prescrizione (art. 1669, ultimo comma).
La giurisprudenza consolidata, tuttavia, afferma che il termine decorre non dal momento in cui il committente o i suoi aventi causa abbiano percepito meri segni o manifestazioni esteriori dei vizi dell’opera, bensì in quello in cui essi abbiano acquistato un apprezzabile grado di conoscenza, obiettiva e completa e non soltanto presuntiva, non solo della consistenza dei difetti e del pericolo che ne deriva, ma anche del loro collegamento causale con l’attività di esecuzione dell’opera.
Ed una tale conoscenza, salvo casi eclatanti, presuppone la presa visione dell’elaborato peritale, da cui risulti dimostrata la piena comprensione dei fenomeni e la chiara individuazione ed imputazione delle loro cause.
In sostanza, detto termine decorre immediatamente solo quando si tratti di un problema di immediata percezione, anche per un profano, nella sua reale entità e nelle sue possibili origini (Cass. n. 9966/2014); nella fattispecie, la causa della eccessiva rumorosità dell’appartamento era stata accertata solo a seguito dell'espletata CTU.
Con riferimento al particolare problema della rumorosità, infatti, numerose sentenze, menzionate da quella in esame (Trib. Milano sez. VII, sentenza, 13/11/2015; App. Bologna 26/09/2017; App. L'Aquila, 11/01/2017; Trib. Pistoia 04/03/2010, Trib. Padova, sentenza, 21/10/2013; Trib. Roma, sez. X, 23/06/2014, n. 13550), hanno riconosciuto la necessità, per l'accertamento del vizio acustico e delle sue cause, dell'esecuzione di specifici rilievi acustici da parte di tecnici abilitati: solo con l'indagine sulle cause dei difetti denunciati, il termine per la denuncia comincia a decorrere.
Con l'ulteriore precisazione che il deposito dell’Atp determina l’effetto interruttivo della prescrizione (Cass. n. 3357/2016), ed è quindi solo è solo con il deposito della relazione del consulente nominato in sede di ATP che deve presumersi che il committente abbia acquisito la conoscenza non solo dell’esistenza dei difetti, ma pure delle loro specifiche cause. Sicché è dal momento di detto deposito che va fatta risalire la scoperta dei difetti dell’opera ed il decorso del termine annuale per la denuncia ai fini della decadenza, cui risulta collegato, sotto il profilo cronologico, quello successivo di prescrizione, anch’esso annuale per l’esercizio dell’azione di responsabilità.
Entrando nello specifico della problematica tecnica dell'insonorizzazione, la sentenza diventa estremamente tecnica, perché le parti avevano lungamente dibattuto in ordine alla normativa tecnica applicabile ratione temporis.
Sul punto viene richiamata la nutrita giurisprudenza in tema di immissioni, che esclude che le leggi speciali anti-inquinamento, acustico e atmosferico, dettate per difendere la salute dei cittadini o l'ambiente possano applicarsi direttamente ai rapporti interprivatistici in quanto rivolte alla PA, ma possono rilevare ai fini della valutazione dell’intollerabilità delle immissioni, nel senso che il superamento dei limiti fissati è sintomatico dell’illiceità delle immissioni, mentre il rispetto di tali limiti non comporta automaticamente che queste siano lecite.
Rimandiamo al testo della sentenza per questi approfondimenti, che il Tribunale risolve prendendo il sacco dalla cima: nel determinare se l’opera presenta o meno difetti, spiega la sentenza, bisogna confrontarla con quella realizzata secondo le leges artis del buon costruire, che devono determinare l'edificazione di un’abitazione idonea a preservare la tranquillità domestica, con un’adeguata insonorizzazione. Il punto, quindi, non è quale sia la normativa tecnica di riferimento, ma piuttosto la vivibilità degli immobili acquistati dagli attori e l'adeguatezza dell'isolamento acustico, secondo le regole dell'ars media.
Gli accertamenti compiuti avevano accertato che la casa era troppo rumorosa, al punto da impedire il riposo delle persone: tanto basta per integrare il “grave difetto” che giustifica l'applicazione della responsabilità prevista dall'art. 1669 c.c.
Tocca, ora, al riparto di responsabilità tra i soggetti coinvolti.
Ferma restando la responsabilità solidale nei confronti di parte attrice, i tre convenuti sono da ritenersi egualmente responsabili, in quanto “L’aspetto dei requisiti acustici passivi degli edifici non è stato preso in considerazione né nella fase progettuale né in quella realizzativa”.
Vi è, quindi, un concorso di responsabilità tra tutti i soggetti coinvolti: del committente, per non aver svolto le dovute verifiche della rispondenza acustica del progetto; del progettista, per le carenze in fase progettuale e di direzione dei lavori; dell’esecutore, per non aver controllato, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente.
Come noto, infatti, rientra nei compiti dell'appaltatore verificare che il progetto non presenti delle evidenti criticità, come nel caso di specie e “...può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale "nudus minister", per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori” (Cass. 23594/2017).
Nel caso di specie, come evidenziato dal ctu, l'appaltatore ben poteva e doveva accorgersi delle deficienze acustiche del progetto consegnatogli.
La sentenza è chiara, condivisibile e ben motivata; è quasi una sentenza “paradigmatica”, per come dovrebbero essere articolate le pronunce in questa materia: attenta analisi delle questioni preliminari, approfondita valutazione delle risultanze tecniche ed esame accurato delle rispettive responsabilità dei soggetti coinvolti (commento tratto da www.quotidianogiuridico.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizioni edilizie, basta la Scia se non c'è ricostruzione con modifica di volume.
Deve escludersi che interventi di demolizione di opere già esistenti, versanti in condizioni fatiscenti e prive di qualsiasi valore storico e/o artistico, possano essere annoverati fra gli interventi che richiedano il rilascio del permesso di costruire, in luogo della segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA).

E' quanto ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 27.03.2018 n. 3416, accogliendo il ricorso contro la determina con la quale Roma Capitale aveva contestato al proprietario di uno stabilimento di aver demolito due manufatti aderenti all'edificio principale in assenza del permesso di costruire, ed ingiunto allo stesso la rimessa in pristino ai sensi degli articoli 10 e 33 del testo unico dell'edilizia (di seguito "TUE").
Provvedimento che il ricorrente aveva impugnato deducendo che gli interventi contestati erano stati erroneamente qualificati come di "ristrutturazione edilizia" e non semplici demolizioni di opere, prive di valore storico–artistico, in pessimo stato di manutenzione e, per di più, realizzate sulla scorta di titoli edilizi.
TESTO UNICO EDILIZIA, NORME A CONFRONTO
Articolo 10 (interventi subordinati a permesso di costruire)
Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire:
   a) gli interventi di nuova costruzione;
   b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
   c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti
Articolo 22 (Interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio attività)
Sono realizzabili mediante SCIA:
   a) gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio;
   b) gli interventi di restauro e di risanamento conservativo, qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio;
   c) gli interventi di ristrutturazione edilizia. Sono anche soggette alla SCIA le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire.
La pronuncia
Il Tar Lazio ha rilevato che l'amministrazione capitolina ha "sanzionato non la trasformazione dei luoghi mediante la realizzazione di nuove opere, bensì l'avvenuto rispristino allo stato originario di questi ultimi" sulla base di una interpretazione strettamente letterale dell'articolo 3, comma 1, lettera e), del TUE ("si intendono per ‘interventi di nuova costruzione': […] quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio").
Interpretazione per effetto della quale l'amministrazione ha ricompreso gli interventi di demolizione fra quelli soggetti al permesso di costruire, anziché a SCIA, senza peraltro tener conto che il vaglio sugli interventi di cui all'articolo 10 del TUE (nuova costruzione, ristrutturazione urbanistica eccetera) si connota per la complessità e l'ampiezza degli elementi oggetto di verifica, tali da giustificare il più articolato procedimento finalizzato al rilascio di un permesso di costruire, a differenza della demolizione di opere, "rispetto alla quale è […] del tutto coerente al sistema ritenere idonea la denuncia di inizio di attività [ora SCIA]" (Tar Puglia-Lecce, sentenza 27.01.2011, n. 172).
Indirizzo giurisprudenziale
La Corte di Cassazione ha costantemente affermato che la semplice demolizione di un manufatto:
   - non integra il reato di cui all'articolo 44, comma 1, lettera b), del testo unico dell'edilizia (TUE), "in quanto per tale tipo di intervento è sufficiente la DIA la cui mancanza costituisce illecito amministrativo" (sentenza 17.06.2011, n. 24423);
   - non rientra fra gli interventi subordinati al permesso di costruire perché estranea alle fattispecie contemplate dall'articolo 10 del TUE (sentenza 04.10.2007, n. 4098), ed ha escluso il carattere reità anche nel caso in cui un soggetto, munito di titolo edilizio per procedere alla ristrutturazione di un fabbricato, "abbia demolito l'intero immobile con l' intento di una totale ricostruzione e l'illecito si sia esaurito nel solo fatto della demolizione senza ulteriore attività edilizia" (Cassazione, Sezione III, sentenza 27.05.2004, n. 30127).
Principi ai quali la giurisprudenza prevalente si è attenuta anche dopo l'entrata in vigore della legge 25.03.1982, n. 94 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23.01.1982, n. 9 recante norme per l'edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti) che, all'articolo 7, lettera c), prevedeva una specifica autorizzazione per le opere di demolizione, i reinterri e gli scavi. Con l'effetto che l'esecuzione di interventi di demolizione in assenza di tale autorizzazione non veniva configurata un'ipotesi di reato (articolo Edilizia e Territorio del 29.05.2018).

APPALTI: Il fatto che una stazione appaltante ricorra all’“affidamento diretto” non significa che essa sia esonerata dal rispetto dei principi generali di pubblicità e trasparenza, stante il chiarissimo disposto contenuto nell’art. 36, comma 1, del D.L.vo 50/2016, il quale stabilisce che “L’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese…”.
I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale, richiamati dall’art 30 d.lgs. 50/2016, implicano che le fasi salienti debbano essere effettuate in seduta pubblica, qualsiasi sia la tipologia di procedura: la pubblicità investe tutte quelle operazioni della commissione di gara (tra cui l’apertura della documentazione e delle offerte), attraverso cui si effettuano le operazioni di “accoppiamento” tra partecipanti e offerte e controllo del contenuto della documentazione richiesta.
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Il D.L.vo n. 56/2017 ha introdotto nel corpo dell’art. 95 D.L.vo 50/2016 la previsione secondo cui “La stazione appaltante, al fine di assicurare l'effettiva individuazione del miglior rapporto qualità/prezzo, valorizza gli elementi qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30 per cento”.
La norma testé riportata si riferisce chiaramente alla ipotesi in cui l’aggiudicazione di un appalto pubblico debba avvenire secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, e deve conseguentemente ritenersi norma di portata vincolante in tutti i casi in cui il ricorso al citato criterio di aggiudicazione sia obbligatorio.
Come noto, nel sistema disegnato dal D.L.vo 50/2016 il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, quale criterio di aggiudicazione di un appalto pubblico, è ormai divenuto la regola, potendosi derogare ad esso, in favore del criterio del minor prezzo, solo in determinate circostanze da considerarsi tassative.
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Posto che l’Amministrazione resistente eccepisce che nella fattispecie si è proceduto con un affidamento ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, occorre domandarsi se gli affidamenti disposti ai sensi di tale norma siano effettivamente soggetti all’obbligo generale di aggiudicazione secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, poiché in tal caso essi sarebbero automaticamente vincolati anche al rispetto della previsione di cui all’art. 95, comma 10-bis, del Codice.
La risposta è, ad avviso del Collegio, negativa, in quanto gli affidamenti ex art. 36, comma 2, lett. a), del Codice sono tenuti al rispetto dei principi generali menzionati all’art. 30, comma 1, tra i quali il criterio di aggiudicazione in esame non pare rientrarvi.
Valga del resto la considerazione che gli affidamenti diretti, ancorché preceduti da una consultazione tra più operatori, sono contraddistinti da informalità e dalla possibilità per la stazione appaltante di negoziare le condizioni contrattuali intavolando anche con vari operatori trattative parallele: ebbene, rispetto alla informalità di tali consultazioni l’obbligo di scegliere il contraente secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, quantomeno nella forma rigidamente disciplinata dall’art. 95, appare distonico e, dunque, incompatibile.
 Anche il Consiglio di Stato, nel parere della Commissione Speciale n. 782 del 30.03.2017, reso sulla proposta del c.d. “decreto correttivo”, ha riconosciuto che “ferma restando la spiccata preferenza per l'aggiudicazione tramite il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, il decreto correttivo ha proceduto, modificando l'art. 95 recante “Criterio di aggiudicazione dell'appalto”, a meglio perimetrare l'obbligo di utilizzo di tale criterio: a) introducendo una possibile deroga per gli appalti di cui all'art. 95, comma 3, lett. a), nel caso di affidamenti diretti sino a € 40.000;……”.
Tenuto conto della dianzi esposte considerazioni il Collegio ritiene che nel corso delle procedure di cui all’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, cioè le procedure finalizzate all’affidamento di un contratto di valore inferiore ai 40.000,00 Euro, ancorché caratterizzate dalla consultazione di due o più operatori, la stazione appaltante non è tenuta al rispetto dell’art. 95, sia nel senso che può liberamente disporre l’affidamento secondo il criterio del minor prezzo anche nei casi in ciò sarebbe vietato dall’art. 95, sia nel senso che può disporre l’affidamento secondo il criterio del miglior rapporto tra qualità e prezzo derogando ai principi dettati dall’art. 95, tra i quali anche il principio secondo il quale il punteggio relativo alla offerta economica non può superare il 30% del punteggio totale.
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10. Risulta invero manifestamente fondato il primo dei motivi di ricorso, a mezzo del quale parte ricorrente censura il mancato rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza, violati per il fatto che nessuna delle operazioni di gara, e segnatamente l’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa, l’offerta tecnica e l’offerta economica, risulta essere stata effettuata nel corso di seduta pubblica.
11. Va chiarito, a miglior comprensione di quanto infra si dirà, che il fatto che una stazione appaltante ricorra all’“affidamento diretto” non significa che essa sia esonerata dal rispetto dei principi generali di pubblicità e trasparenza, stante il chiarissimo disposto contenuto nell’art. 36, comma 1, del D.L.vo 50/2016, il quale stabilisce che “L’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese…”.
12. Come, poi, la Sezione ha già avuto modo di chiarire (sentenza n. 1324 del 07.12.2017) “I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale, richiamati dall’art 30 d.lgs. 50/2016, implicano che le fasi salienti debbano essere effettuate in seduta pubblica, qualsiasi sia la tipologia di procedura: la pubblicità investe tutte quelle operazioni della commissione di gara (tra cui l’apertura della documentazione e delle offerte), attraverso cui si effettuano le operazioni di “accoppiamento” tra partecipanti e offerte e controllo del contenuto della documentazione richiesta”.
13. Ciò chiarito, è evidente che ove pure la gara per cui è causa dovesse effettivamente qualificarsi come procedura finalizzata a pervenire ad un affidamento diretto, ciò non escluderebbe la necessità di rispettare i principi di pubblicità e trasparenza, che si declinano –come dianzi ricordato– anche nella necessità di effettuare in seduta pubblica taluni adempimenti, tra i quali l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche ed economiche, ciò che nel caso di specie pacificamente non è avvenuto, nonostante l’autovincolo al rispetto dei principi di trasparenza e pubblicità enunciato nell’avviso pubblico indetto dall’Istituto scolastico.
14. La acclarata fondatezza del primo motivo di ricorso, avente portata di per sé assorbente, dovrebbe comportare l’annullamento di tutti gli atti di gara a partire dal momento di apertura delle buste; tuttavia, tenuto conto del fatto che le buste contenenti le offerte economiche sono state ormai aperte, che in ossequio a consolidato orientamento di giurisprudenza si impone la retrocessione del procedimento alla fase di presentazione delle offerte e che dunque la gara deve praticamente essere nuovamente celebrata quasi dall’inizio, reputa il Collegio che nella specie sussista l’interesse del ricorrente alla disamina del secondo motivo di ricorso, dal cui accoglimento conseguirebbe l’annullamento della lettera di invito ma anche, correlativamente, la tutela dell’interesse del ricorrente a che la gara venga reiterata nel rispetto della legislazione vigente ed emendata dai vizi denunciati.
15. Con il secondo motivo, dunque, il ricorrente ha fatto valere l’illegittimità della lettera di invito nella parte in cui, all’art. 12, essa prevede che alla offerta economica sono attribuiti fino a 50 punti su cento, in violazione di quanto prevede l’art. 95, comma 10-bis, del D.L.vo 50/2016.
16. La censura è fondata.
17. Il D.L.vo n. 56/2017 ha introdotto nel corpo dell’art. 95 D.L.vo 50/2016 la previsione secondo cui “La stazione appaltante, al fine di assicurare l'effettiva individuazione del miglior rapporto qualità/prezzo, valorizza gli elementi qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30 per cento”.
18. La norma testé riportata si riferisce chiaramente alla ipotesi in cui l’aggiudicazione di un appalto pubblico debba avvenire secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, e deve conseguentemente ritenersi norma di portata vincolante in tutti i casi in cui il ricorso al citato criterio di aggiudicazione sia obbligatorio.
19. Come noto, nel sistema disegnato dal D.L.vo 50/2016 il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, quale criterio di aggiudicazione di un appalto pubblico, è ormai divenuto la regola, potendosi derogare ad esso, in favore del criterio del minor prezzo, solo in determinate circostanze da considerarsi tassative.
20. Posto che l’Amministrazione resistente eccepisce che nella fattispecie si è proceduto con un affidamento ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, occorre domandarsi se gli affidamenti disposti ai sensi di tale norma siano effettivamente soggetti all’obbligo generale di aggiudicazione secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, poiché in tal caso essi sarebbero automaticamente vincolati anche al rispetto della previsione di cui all’art. 95, comma 10-bis, del Codice.
21. La risposta è, ad avviso del Collegio, negativa, in quanto gli affidamenti ex art. 36, comma 2, lett. a), del Codice sono tenuti al rispetto dei principi generali menzionati all’art. 30, comma 1, tra i quali il criterio di aggiudicazione in esame non pare rientrarvi. Valga del resto la considerazione che gli affidamenti diretti, ancorché preceduti da una consultazione tra più operatori, sono contraddistinti da informalità e dalla possibilità per la stazione appaltante di negoziare le condizioni contrattuali intavolando anche con vari operatori trattative parallele: ebbene, rispetto alla informalità di tali consultazioni l’obbligo di scegliere il contraente secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, quantomeno nella forma rigidamente disciplinata dall’art. 95, appare distonico e, dunque, incompatibile.
Anche il Consiglio di Stato, nel parere della Commissione Speciale n. 782 del 30.03.2017, reso sulla proposta del c.d. “decreto correttivo”, ha riconosciuto che “ferma restando la spiccata preferenza per l'aggiudicazione tramite il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, il decreto correttivo ha proceduto, modificando l'art. 95 recante “Criterio di aggiudicazione dell'appalto”, a meglio perimetrare l'obbligo di utilizzo di tale criterio: a) introducendo una possibile deroga per gli appalti di cui all'art. 95, comma 3, lett. a), nel caso di affidamenti diretti sino a € 40.000;……”.
22. Tenuto conto della dianzi esposte considerazioni il Collegio ritiene che nel corso delle procedure di cui all’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, cioè le procedure finalizzate all’affidamento di un contratto di valore inferiore ai 40.000,00 Euro, ancorché caratterizzate dalla consultazione di due o più operatori, la stazione appaltante non è tenuta al rispetto dell’art. 95, sia nel senso che può liberamente disporre l’affidamento secondo il criterio del minor prezzo anche nei casi in ciò sarebbe vietato dall’art. 95, sia nel senso che può disporre l’affidamento secondo il criterio del miglior rapporto tra qualità e prezzo derogando ai principi dettati dall’art. 95, tra i quali anche il principio secondo il quale il punteggio relativo alla offerta economica non può superare il 30% del punteggio totale (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.03.2018 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La circolare costituisce mero atto normativo interno, nella specie specificamente indirizzato alle commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale «nominate in esecuzione di provvedimenti giurisdizionali», e non già fonte normativa a diretta rilevanza esterna integrativa dell’ordinamento giuridico generale, con conseguente non impugnabilità autonoma se non unitamente all’eventuale provvedimento di attuazione lesivo della posizione del soggetto destinatario.
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7. Premesso che la censura di omessa pronuncia, dedotta con i primi tre motivi d’appello, non comporta l’annullamento dell’impugnata sentenza con rinvio al primo giudice ai sensi dell’art. 105, comma 1, cod. proc. amm., bensì il potere/dovere del giudice d’appello di decidere le questioni ritualmente introdotte in primo grado, non affrontate nell’impugnata sentenza e devolute in secondo grado con l’atto d’impugnazione, si osserva che nel caso di specie il Tar effettivamente, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., non ha affrontato le censure dedotte in primo grado avverso al circolare M.i.u.r. n. 0001844 dell’11.02.2016, sicché, per quanto innanzi detto, occorre esaminarle nella presente sede.
I relativi profili di censura, tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, sono, tuttavia, inammissibili e, comunque, infondati nel merito, in quanto:
   - la circolare costituisce mero atto normativo interno, nella specie specificamente indirizzato alle commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale «nominate in esecuzione di provvedimenti giurisdizionali», e non già fonte normativa a diretta rilevanza esterna integrativa dell’ordinamento giuridico generale, con conseguente non impugnabilità autonoma se non unitamente all’eventuale provvedimento di attuazione lesivo della posizione del soggetto destinatario;
   - nella specie, l’odierna appellante ha, bensì, presentato (in data 29.03.2016) al M.i.u.r. «istanza di riesame in autotutela con contestuale istanza di estensione del giudicato», ma non risulta che sia stato adottato un eventuale atto di diniego basato sulla menzionata circolare, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione di quest’ultima;
   - in ogni caso, la circolare ha fatto corretta applicazione del principio per cui l’efficacia erga omnes ed ex tunc del giudicato di annullamento di un atto regolamentare a contenuto generale e inscindibile trova un suo limite nei rapporti esauriti, non essendo idoneo a incidere sugli effetti irreversibili già prodottisi, poiché la retroattività degli effetti del giudicato di annullamento di una norma regolamentare incontra un limite negli effetti che la stessa, ancorché successivamente rimossa dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora resi intangibili dall’esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento giuridico, per intervenuta decadenza o mancata impugnazione del provvedimento attuativo della disposizione regolamentare annullata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.03.2018 n. 1777 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per ricorrente giurisprudenza, la realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza. Il manufatto costituisce, infatti, parte integrante dell'edificio e la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua conformità alle disposizioni del testo unico dell'edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e alle norme dallo stesso richiamate in tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr. art. 12), tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
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Gli appellanti insistono nel sostenere che la realizzazione di una tettoia in legno non può qualificarsi come un intervento di ristrutturazione né tanto meno come nuova costruzione, assumendo che la tettoia in questione non determina alcuna volumetria in quanto aperta su tre lati ed è coperta da un cannucciato di bambù rimovibile.
La tesi non è condivisibile perché la natura precaria e temporanea della struttura realizzata, secondo noto e consolidato orientamento, non può certamente inferirsi dal genere del materiale di costruzione impiegato, bensì dall'essere o meno la costruzione destinata al soddisfacimento di esigenze temporanee … e nella specie la struttura realizzata è all'evidenza preordinata al soddisfacimento di esigenze non temporanee.
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1. La sig.ra Lu.Ca., comproprietaria insieme al sig. An.Am. di un immobile sito in Bari alla via ... n. 28, presentava in data 16.02.2009 una D.I.A. (n. 321/2009) per la realizzazione di una tettoia amovibile, al quarto piano del suddetto immobile.
Il progetto prevedeva la realizzazione di una struttura in legno lamellare, con pilastri e arcarecci sui quali poggiava un cannucciato in bambù e un pannello di policarbonato, aperta su tre lati e poggiata sul muro della costruzione.
La sig.ra Ca. presentava la documentazione richiesta dal Comune e versava la somma di €. 1.637,92 a titolo di oneri concessori e con nota del 09.11.2009 comunicava di aver concluso i lavori in data 03.09.2009, secondo il progetto proposto alla presentazione della D.I.A..
In data 26.10.2009, la società Nu.Ge.Im. s.p.a., proprietaria di un immobile sito in Bari alla via ... n. 64, di fronte a quello di proprietà dei sigg. Ca. e Am., proponeva ricorso al TAR per la Puglia per l'accertamento dei presupposti per l'ammissibilità dell'intervento oggetto della D.I.A..
Il TAR con sentenza n. 3032 del 04.12.2009, resa in forma semplificata, ha accolto il ricorso ed ha dichiarato l'insussistenza dei presupposti per la formazione della D.I.A..
...
2. Con un primo motivo di censura gli appellanti lamentano la violazione degli artt. 3, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001 nonché degli artt. 14 e 18 delle N.T.A. del Piano Regolatore Generale del Comune di Bari.
Con un ulteriore motivo di censura, strettamente collegato al primo, gli appellanti lamentano la violazione dell'art. 22 del D.P.R. n. 380/2001 con riferimento all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 e dell'art. 49 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Bari.
3. Si può prescindere da approfondimenti in ordine alla eccezione sollevata dalla società Nu.Ge.Im. s.p.a. circa l'inammissibilità della produzione documentale versata dagli appellanti agli atti del giudizio in data 04.01.2018, che sarebbe preclusa nel giudizio di appello ai sensi dell'art. 104, comma 2, del c.p.a. e ciò in considerazione del fatto che l'appello è infondato e va respinto.
4. Nel merito gli appellanti assumono che il TAR avrebbe errato nel ritenere che la struttura in questione, pur avendo natura accessoria e pertinenziale rispetto alla costruzione principale, avrebbe dovuto considerarsi come nuova costruzione a tutti gli effetti e ciò in quanto la stessa sarebbe preordinata al soddisfacimento di esigenze non temporanee e, ulteriormente, che la sentenza del TAR sarebbe erronea laddove il giudice di prima istanza ha ritenuto violata la disciplina relativa alle distanze legali tra le pareti finestrate previste dal D.M. n. 1444/1968 e dalle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Bari.
E ciò perché l'art. 22 del D.P.R. n. 380/2001 consentirebbe la realizzazione di interventi mediante D.I.A. ad eccezione di quelli indicati nell'art. 10, che riguardano una ristrutturazione urbanistica o edilizia o la realizzazione di nuove costruzioni.
4.2. Orbene, il Collegio osserva che il TAR Puglia ha correttamente evidenziato che l'effetto autorizzativo che consegue alla D.I.A. (e che tiene luogo, per equivalenza, del provvedimento amministrativo favorevole esplicito) non deriva direttamente dalla dichiarazione del privato, bensì consegue al decorso del termine, finalizzato proprio a consentire all'Amministrazione di procedere alla verifica dei necessari presupposti (e) nell'ipotesi di cattivo esercizio da parte dell’Amministrazione dei poteri di verifica e di controllo della sussistenza dei presupposti sostanziali richiesti, è data tutela innanzi al Giudice Amministrativo.
Nel caso di specie a rilevare non è quale sia il titolo utile per realizzare la copertura in questione (D.I.A. o permesso di costruire), bensì l'illegittimità dell'intervento, per assenza dei presupposti legali alla sua esecuzione.
L'opera attiene, infatti, ad una copertura realizzata in legno lamellare con copertura in policarbonato e e cannucciato, posata su tre pilastri in legno ancorati con basamento in cemento e bulloni al pavimento che, a prescindere dalla sua incidenza in termini di superficie o di incremento volumetrico, per il suo carattere di costruzione rileva in ordine alla distanza tra edifici.
4.3. Per ricorrente giurisprudenza, invero, la realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza. Il manufatto costituisce, infatti, parte integrante dell'edificio e la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua conformità alle disposizioni del testo unico dell'edilizia (D.P.R. n. 380/2001) e alle norme dallo stesso richiamate in tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr. art. 12), tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
4.4. Non può trovare condivisione la tesi degli appellanti che l'art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 prevederebbe che gli interventi come quello di interesse possono essere considerati nuova costruzione solo se le N.T.A. del P.R.G. del Comune lo evidenzino espressamente o nel caso in cui si realizzino opere che abbiano un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale, atteso che nulla si evince al riguardo dalla disciplina di settore del Comune e, comunque, a rilevare è, come si è accennato, la disciplina statale sulle distanze tra edifici, che essendo volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, è tassativa ed inderogabile nell'imporre al proprietario dell'area confinante di costruire il proprio edificio ad almeno 10 metri, senza alcuna deroga.
5. Gli appellanti insistono nel sostenere, ancora, che la realizzazione di una tettoia in legno non può qualificarsi come un intervento di ristrutturazione né tanto meno come nuova costruzione, assumendo che la tettoia in questione non determina alcuna volumetria in quanto aperta su tre lati ed è coperta da un cannucciato di bambù rimovibile.
5.2. La tesi, ripetitiva di quanto già sostenuto ai punti precedenti, non è condivisibile, perché, come rilevato dal TAR Puglia la natura precaria e temporanea della struttura realizzata, secondo noto e consolidato orientamento, non può certamente inferirsi dal genere del materiale di costruzione impiegato, bensì dall'essere o meno la costruzione destinata al soddisfacimento di esigenze temporanee … e nella specie la struttura realizzata è all'evidenza preordinata al soddisfacimento di esigenze non temporanee.
Né quanto osservato dai tecnici comunali a seguito del sopralluogo effettuato in data 17.11.2009, su disposizione del Giudice nel parallelo procedimento civile azionato dagli appellanti, inficia la conclusione cui si è pervenuti in ordine alla qualificazione sul piano giuridico dell'intervento edilizio de quo e al mancato rispetto delle distanze tra edifici (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2018 n. 1309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Secondo l’indirizzo giurisprudenziale formatosi in questa materia, come è noto, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma solo un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, di modo che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato purché, però, esso risulti puntualmente e rigorosamente giustificato.
Se un'offerta non può, pertanto, ritenersi anomala ed essere esclusa per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, è però ben possibile dubitare della sua congruità ove la discordanza dalle tabelle sia considerevole e ingiustificata.
Per quanto precede non vi è dubbio, allora, che l’onere di giustificazione degli scostamenti, quando –come nella specie- significativi, incomba sull’offerente, come conferma l’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016.

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6c Quanto alle articolate deduzioni elaborate dalla parte ricorrente in merito ai propri costi orari del lavoro, si presentano decisive, in proposito, le obiezioni pregiudiziali sollevate ex adverso dalla difesa del Consorzio Umana Solidarietà.
La medesima ha fatto notare, invero, che le appellanti, nelle giustificazioni presentate alla Commissione di gara, avevano indicato delle voci di costo della manodopera sensibilmente inferiori a quelle recate dalle tabelle ministeriali -con uno scarto quantificato dalla Commissione in misura non inferiore al 13%- senza fornire, però, alcuna spiegazione in merito, così rendendosi inadempienti al proprio onere di dimostrare il carattere giustificato dei relativi scostamenti tabellari.
Questa obiezione coglie nel segno.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale formatosi in questa materia, come è noto, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma solo un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, di modo che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato purché, però, esso risulti puntualmente e rigorosamente giustificato (cfr. C.d.S., V, 17.11.2014, n. 5633; IV, 22.03.2013, n. 1633; V, 12.03.2009, n. 1451; VI, 21.07.2010, n. 4783).
Se un'offerta non può, pertanto, ritenersi anomala ed essere esclusa per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, è però ben possibile dubitare della sua congruità ove la discordanza dalle tabelle sia considerevole e ingiustificata (cfr. C.d.S., V, 30.03.2017, n. 1465; III, 15.04.2016, n. 1533; 09.12.2015, n. 5597; n. 3329 del 03.07.2015).
Per quanto precede non vi è dubbio, allora, che l’onere di giustificazione degli scostamenti, quando –come nella specie- significativi, incomba sull’offerente, come conferma l’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016.
Parimenti chiaro, inoltre, è che l’attuale appellante sia rimasta inottemperante a tale onere: le giustificazioni da essa fornite (doc. 9 della sua produzione d’appello) si risolvevano, in punto di costo del personale, in una mera tabella riassuntiva, preceduta dalla vaga affermazione che segue: “Disporre di una collaudata “struttura di governo” della commessa è certamente garanzia di una più sinergica e razionale utilizzazione del personale in particolare con riferimento alla fruizione delle ferie e dei permessi maturati nonché in occasione di eventi quali le malattie ed in generale al verificarsi di assenze non comunicate preventivamente”.
Donde l’immunità da vizi della conclusione raggiunta dalla Commissione, con il provvedimento impugnato, che non fossero state fornite idonee giustificazioni in relazione alla mancata applicazione delle tariffe salariali di cui alla vigente tabella del Ministero del Lavoro.
Da qui l’ulteriore conseguenza che la ricorrente non può essere seguita nelle sue deduzioni tese a giustificare direttamente in sede contenziosa la congruità delle singole voci di costo del lavoro da essa esposte, in quanto tutte le giustificazioni possibili andavano da essa fornite già a tempo debito, in sede procedimentale; e il Giudice non potrebbe certo sostituirsi all’Amministrazione nella relativa disamina (CGARS, sentenza 31.01.2018 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ pacifico in giurisprudenza che ai sensi dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001, il silenzio-assenso previsto in tema di permesso di costruire non si forma per il solo fatto dell’inutile decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa dell’amministrazione comunale e dell’adempimento degli oneri documentali necessari per l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo edilizio, tra i quali rientra, dal punto di vista oggettivo, la conformità dell’intervento progettato alla normativa urbanistico-edilizia.
Ne deriva che il titolo abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto ove la domanda sia conforme al relativo modello legale e, quindi, sia in grado di comprovare che ricorrano tutte le condizioni previste per il suo accoglimento, inclusa la conformità urbanistico-edilizia, impedendo in radice la mancanza di talune di queste che possa avviarsi (e concludersi) il procedimento autorizzativo.

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5.- Preliminarmente il Collegio deve sottoporre a scrutinio la doglianza articolata con il primo motivo di ricorso inteso a censurare la circostanza, ritenuta dirimente, e cioè che il diniego è intervenuto quanto ormai era maturato il silenzio assenso sulla richiesta di permesso di costruire e si era quindi consumato il potere di provvedere, eventualmente riesercitabile solo con le garanzie proprie del procedimento di autotutela.
Nella prospettazione attorea sussisterebbero i presupposti per l’applicazione della relativa normativa di semplificazione (art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001), quali il decorso di 100 giorni dalla presentazione dell’istanza, nel mentre il Comune ha provveduto ad esitare la domanda di p.d.c. dopo 230 giorni dalla presentazione dell’istanza e 153 giorni dall’invio del preavviso di rigetto.
Aggiunge che alla formazione del silenzio-assenso, tipizzata dalla norma evocata, non sarebbe di ostacolo neppure la non conformità urbanistica dell’istanza.
5.1.- Il Collegio ritiene di non potere condividere la censura in esame.
E’ pacifico in giurisprudenza che ai sensi dell’art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001, il silenzio-assenso previsto in tema di permesso di costruire non si forma per il solo fatto dell’inutile decorso del termine prefissato per la pronuncia espressa dell’amministrazione comunale e dell’adempimento degli oneri documentali necessari per l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo edilizio, tra i quali rientra, dal punto di vista oggettivo, la conformità dell’intervento progettato alla normativa urbanistico-edilizia.
Ne deriva che il titolo abilitativo tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso soltanto ove la domanda sia conforme al relativo modello legale e, quindi, sia in grado di comprovare che ricorrano tutte le condizioni previste per il suo accoglimento, inclusa la conformità urbanistico-edilizia, impedendo in radice la mancanza di talune di queste che possa avviarsi (e concludersi) il procedimento autorizzativo (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.07.2015 n. 3661; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 25.02.2016 n. 1032; Sez. VI n. 4493/2017) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 06.12.2017 n. 1248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ pacifico in giurisprudenza che:
   - il volume dei fabbricati è determinato dalla somma dei prodotti delle superfici utili di ogni piano per le relative altezze lorde, misurate da pavimento a pavimento;
   - i regolamenti edilizi possono disporre in ordine al computo dei volumi interrati in ragione della loro destinazione d’uso, laddove questi ultimi siano destinati a residenza, uffici o attività produttive;
   - in mancanza di disposizioni in tal senso, nel calcolo del volume complessivo dell’edificio rientra anche il seminterrato per la sola parte emergente dal piano di campagna;
   - in particolare, per calcolare quale sia la volumetria assentibile (in un intervento edilizio su immobile preesistente) non può rilevare qualsiasi situazione in fatto esistente ma la sola volumetria legittimamente esistente.

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Nella specie, il Collegio è dell’avviso –in applicazione del principio onus probandi incumbit ei qui dicit- che non risulta dimostrata l’invocata conformità urbanistico-edilizia dell’istanza denegata, per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre.
6.- E’ pacifico in giurisprudenza che:
   - il volume dei fabbricati è determinato dalla somma dei prodotti delle superfici utili di ogni piano per le relative altezze lorde, misurate da pavimento a pavimento;
   - i regolamenti edilizi possono disporre in ordine al computo dei volumi interrati in ragione della loro destinazione d’uso, laddove questi ultimi siano destinati a residenza, uffici o attività produttive;
   - in mancanza di disposizioni in tal senso, nel calcolo del volume complessivo dell’edificio rientra anche il seminterrato per la sola parte emergente dal piano di campagna;
   - in particolare, per calcolare quale sia la volumetria assentibile (in un intervento edilizio su immobile preesistente) non può rilevare qualsiasi situazione in fatto esistente ma la sola volumetria legittimamente esistente (ex multis Cons. St. n. 5196/2016);
6.1.- Trasponendo le riferite acquisizioni giurisprudenziali al caso in esame, deve ritenersi legittimo il diniego opposto dall’amministrazione che, nell’atto impugnato, ha precisato di non potere assentire la richiesta di p.d.c. con i benefici del c.d. piano casa “in quanto nel calcolo della volumetria esistente è considerata in toto la volumetria del piano seminterrato e non solamente la parte fuori terra”, escludendo sostanzialmente che l’intero piano seminterrato potesse essere computato “in toto” (e non per la sola parte emergente dal piano di campagna) nel calcolo della volumetria assentibile con il bonus volumetrico.
6.2.- Né la circostanza che il piano seminterrato sia stato oggetto del permesso di sanatoria n. 68 del 27.01. 2004, rilasciato ex l. n. 47/1985, arreca utilità alla tesi del ricorrente che al riguardo invoca la previsione dell’art. 4 della l.r. n. 14/2009 (in ordine alla computabilità delle volumetrie sanate) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 06.12.2017 n. 1248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che:
   - la domanda di condono edilizio concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale);
   - la domanda di condono (ontologicamente diversa dalla domanda di accertamento di conformità) ammette la regolarizzazione, nella misura in cui le specifiche norme di legge lo consentano, di manufatti che, oltre a non essere formalmente autorizzati, risultino eventualmente anche in contrasto con le prescrizioni urbanistiche.
La materia del condono, cioè, è regolata da un corpus normativo speciale e autonomo rispetto all’ordinario regime urbanistico ed edilizio, soggetto a specifici presupposti e a definite modalità per la concessione, nonché limitato a precisi ambiti temporali.
Infatti, la concessione del condono non implica una modifica dello strumento urbanistico, a meno che non sia adottata nelle forme previste dall’ordinamento un’apposita variante finalizzata al recupero degli insediamenti abusivi, e non comporta alcuna legittimazione o giustificazione in ordine alla realizzazione di opere ulteriori di trasformazione e ampliamento, sia pur “migliorative”, destinate al mutamento delle destinazioni d’uso, sia pur “convenienti”, dei manufatti condonati, che restano invece assoggettati alle prescrizioni urbanistiche vigenti, non modificate per effetto del condono, che non ha certamente gli effetti di una variante.

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6.2.1.- In proposito la giurisprudenza, con valutazione che il Collegio condivide e da cui non vi è motivo per discostarsi, ha chiarito che:
   - la domanda di condono edilizio concerne il perdono ex lege per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione sostanziale) (TAR Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011, n. 124 e 22.12.2010, n. 38207; TAR Campania Napoli, sezione VI, 03.09.2010, n. 17282);
   - la domanda di condono (ontologicamente diversa dalla domanda di accertamento di conformità) ammette la regolarizzazione, nella misura in cui le specifiche norme di legge lo consentano, di manufatti che, oltre a non essere formalmente autorizzati, risultino eventualmente anche in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (ex multis, Cons. St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
La materia del condono, cioè, è regolata da un corpus normativo speciale e autonomo rispetto all’ordinario regime urbanistico ed edilizio, soggetto a specifici presupposti e a definite modalità per la concessione, nonché limitato a precisi ambiti temporali.
Infatti, la concessione del condono non implica una modifica dello strumento urbanistico, a meno che non sia adottata nelle forme previste dall’ordinamento un’apposita variante finalizzata al recupero degli insediamenti abusivi, e non comporta alcuna legittimazione o giustificazione in ordine alla realizzazione di opere ulteriori di trasformazione e ampliamento, sia pur “migliorative”, destinate al mutamento delle destinazioni d’uso, sia pur “convenienti”, dei manufatti condonati, che restano invece assoggettati alle prescrizioni urbanistiche vigenti, non modificate per effetto del condono, che non ha certamente gli effetti di una variante.
6.3.- Chiarito quanto sopra, la circostanza che l’amministrazione comunale abbia assentito in sanatoria ex l. n. 47/1985 l’immobile abusivo attuale (compreso il piano seminterrato) non autorizza a ritenere che -in sede di rilascio del permesso in sanatoria n. 68 del 2004- abbia preso in considerazione l’intera volumetria del piano seminterrato e non solamente quella relativa alla sola parte emergente dal piano di campagna.
Né parte ricorrente ha offerto al Collegio elementi di prova in tal senso depositando copia della domanda di condono edilizio, utile a dimostrare -con la voce riportata alla parte seconda del modello predisposto dal Ministero Lavori Pubblici, relativa al volume complessivo, oggetto della domanda– che nel calcolo dell’oblazione e del contributo di concessione, l’intera volumetria del seminterrato sia stata computata a tal fine.
Può concludersi per la reiezione del ricorso (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 06.12.2017 n. 1248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per le recinzioni con reti amovibili non serve un titolo edilizio.
Una recinzione costituita da rete metallica sorretta da paletti in ferro a “T” senza opere murarie non richiede il previo rilascio di un titolo edilizio. Diversamente, la realizzazione di muri di cinta, cordoli in calcestruzzo o simili vanno assoggettati a Scia o a permesso di costruire, a seconda della loro entità e dell'impatto.
Come affermato dalla giurisprudenza, "la valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria".
L'orientamento prevalente del Consiglio di Stato, inoltre, è nel senso di ritenere "che più che all'astratto genus o tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui fondi finitimi) occorrere far riferimento all'impatto effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul territorio: con la conseguenza che si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie".
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Sulla base di tale approccio sostanzialista, attento al rapporto effettivo dell'innovazione con la preesistenza territoriale e che prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per qualificare l'opera realizzata, è possibile affermare che una recinzione costituita da rete metallica sorretta da paletti in ferro a “T”, senza opere murarie, avente un ridotto impatto visivo e quindi non comportante una permanente e apprezzabile alterazione dello stato dei luoghi, non richiede il previo rilascio di un titolo edilizio: diversamente, la realizzazione di muri di cinta, cordoli in calcestruzzo o simili vanno assoggettati al regime della DIA o, in seguito, della SCIA ovvero al regime del permesso di costruire, a seconda della loro entità e dell'impatto, per dimensioni e tipologia, che generano sull'ambiente circostante in termini di trasformazione urbanistica o edilizia.
Va acclarata quindi, sul piano strettamente edilizio, l’insussistenza del presupposto –connesso alla necessità di acquisizione della s.c.i.a.– posto a fondamento del provvedimento ripristinatorio impugnato (fermo restando che, anche in caso contrario, sarebbe stato precluso l’esercizio del potere demolitorio, ai sensi dell’art., 37, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, secondo cui “la realizzazione di interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 516 euro”).
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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 29 del 01.12.2015, con la quale si è ordinato al ricorrente, quale erede testamentario di An.Ma.Co., responsabile delle asserite opere abusive, la demolizione di una recinzione realizzata con paletti a “T” e rete metallica zincata lungo il fondo agricolo sito in località Scaragonelle del Comune di Pietrastornina, di tutti gli atti connessi e presupposti.
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Espone il ricorrente di essere proprietario iure hereditatis di un fondo agricolo sito nel Comune di Pietrastornina, località Sacaragonelle, recinto con paletti a “T” e rete metallica zincata, la cui esistenza veniva constatata dall’amministrazione in occasione del sopralluogo eseguito in data 18.09.2015, a seguito del quale il ricorrente rappresentava che la recinzione era stata realizzata da tempo immemore dal defunto genitore e trasmetteva al Comune la c.i.l. prot. n. 7747 del 24.12.2010, con la quale il de cuius aveva notiziato l’amministrazione dei lavori di recinzione del fondo.
Per mero tuziorismo, inoltre, il ricorrente presentava in data 20.11.2015 istanza di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, risultando l’intervento pienamente conforme alle Norme Generali di Salvaguardia di cui all’allegato 2B del Parco Regionale del Partenio.
Lamenta quindi che il Comune di Pietrastornina, con il provvedimento impugnato, ha ordinato la demolizione della suddetta recinzione metallica, assumendo che l’intervento non rientrerebbe tra quelli disciplinati dall’art. 6 d.P.R. n. 380/2001 ma sarebbe subordinato a s.c.i.a. di cui all’art. 22, comma 1, d.P.R. cit..
Mediante le censure formulate in ricorso, viene dedotto che la recinzione, per le sue modalità costruttive, non produce alcun effetto di irreversibile trasformazione del territorio, rientrando quindi nell’ambito dell’attività edilizia libera, in quanto mera estrinsecazione dello ius excludendi alios immanente alle facoltà dominicali del proprietario, né la conclusione potrebbe essere diversa in considerazione del vincolo ambientale esistente in zona, tanto più in quanto il ricorrente si è premurato di attivare il procedimento per la sanatoria paesaggistica dell’intervento, essendo conforme alle norme di tutela ambientale.
In ogni caso, conclude la parte ricorrente, anche assumendo che la recinzione richieda la presentazione di una s.c.i.a., la sua mancanza sarebbe sanzionabile con una mera sanzione pecuniaria, restando precluso all’amministrazione l’esercizio del potere demolitorio.
Né potrebbe addivenirsi a diverse conclusioni sulla scorta del fatto che l’area ricade all’interno del Parco del Partenio, sancendo l’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 380/2001 l’obbligo del Comune di richiedere all’Autorità preposta alla tutela del vincolo un parere vincolante circa l’obbligo di restituzione in pristino ovvero l’applicazione della sanzione pecuniaria, tanto più in quanto il ricorrente, in data 20.11.2015, ha presentato una richiesta di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, non ancora definita, ma che sarà certamente esaminata favorevolmente attesa la conformità della recinzione alle modalità costruttive di cui al punto 2.2 delle Norme Generali di Salvaguardia di cui all’allegato 2B del Parco regionale del Partenio.
Il Comune intimato si oppone all’accoglimento del ricorso, deducendone l’infondatezza.
Tanto sinteticamente premesso, la domanda di annullamento è meritevole di accoglimento.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, "la valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria" (in termini, TAR Puglia Bari, sez. III, 15.09.2015, n. 1236; in senso conforme, TAR Piemonte Torino, sez. II, 15.09.2015, n. 1342; TAR Umbria, sez. I, 07.08.2013, n. 434; TAR Salerno, sez. I, 07.03.2011, n. 430).
L'orientamento prevalente del Consiglio di Stato, inoltre, è nel senso di ritenere "che più che all'astratto genus o tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui fondi finitimi) occorrere far riferimento all'impatto effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul territorio: con la conseguenza che si deve qualificare l'intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie" (Cons. Stato, VI, 04.01.2016, n. 10 e 04.07.2014, n. 3408).
Sulla base di tale approccio sostanzialista, attento al rapporto effettivo dell'innovazione con la preesistenza territoriale e che prescinde dal mero e astratto nomen iuris utilizzato per qualificare l'opera realizzata, è possibile affermare che una recinzione, come quella oggetto di giudizio, costituita da rete metallica sorretta da paletti in ferro a “T”, senza opere murarie, avente un ridotto impatto visivo e quindi non comportante una permanente e apprezzabile alterazione dello stato dei luoghi, non richiede il previo rilascio di un titolo edilizio: diversamente, la realizzazione di muri di cinta, cordoli in calcestruzzo o simili vanno assoggettati al regime della DIA o, in seguito, della SCIA ovvero al regime del permesso di costruire, a seconda della loro entità e dell'impatto, per dimensioni e tipologia, che generano sull'ambiente circostante in termini di trasformazione urbanistica o edilizia.
Acclarata quindi, sul piano strettamente edilizio, l’insussistenza del presupposto –connesso alla necessità di acquisizione della s.c.i.a.– posto a fondamento del provvedimento ripristinatorio impugnato (fermo restando che, anche in caso contrario, sarebbe stato precluso l’esercizio del potere demolitorio, ai sensi dell’art., 37, comma 1, d.P.R. n. 380/2001, secondo cui “la realizzazione di interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 516 euro”), deve rilevarsi che, per i profili di carattere paesaggistico, la parte ricorrente ha avuto cura di presentare istanza di autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi dell’art, 167 d.lvo n. 42/2004, sì che sarebbe stato obbligo dell’amministrazione di provvedere espressamente sulla stessa prima di intervenire in chiave repressiva.
Il ricorso, in conclusione, deve essere accolto, potendo disporsi l’assorbimento delle censure non esaminate (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.04.2017 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Chi presenta istanza di permesso di costruire ha l'onere di accludere dati, documenti e misurazioni idonei a dare esatta contezza della situazione dei luoghi con la conseguenza che, ove invece fornisca dati incompleti, non rispondenti alla superficie e al volume impegnati dalla progettata edificazione e comunque tali da fornire un’errata rappresentazione dello stato dei luoghi, l'Amministrazione legittimamente interviene sul piano dell'autotutela e annulla d'ufficio il titolo abilitativo già rilasciato.
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2. Passando al merito, il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il permesso di costruire è stato annullato in quanto prevedeva la costruzione in aderenza a pareti dotati di aperture. Non v’è dubbio, come sostiene parte ricorrente, che la normativa sopra citata consenta la costruzione in aderenza. Ovviamente, però, tale normativa non può consentire la costruzione in aderenza a pareti finestrate.
In particolare, è incontestato come il permesso annullato –autorizzando la costruzione in aderenza sul prospetto est dell’edificio– avrebbe comportato la chiusura delle aperture finestrate presenti su tale prospetto in corrispondenza del piano primo dell'edificio, non di proprietà dei ricorrenti. Nel provvedimento impugnato sono richiamate le norme del codice civile (l’art. 907 prevede una distanza minima di 3 metri) e la disciplina urbanistica riguardo le distanze tra pareti finestrate.
Di conseguenza l’amministrazione ha correttamente annullato il permesso di costruire rilasciato ai ricorrenti.
2.1 Come dedotto dal Comune resistente, chi presenta istanza di permesso di costruire ha l'onere di accludere dati, documenti e misurazioni idonei a dare esatta contezza della situazione dei luoghi con la conseguenza che, ove invece fornisca dati incompleti, non rispondenti alla superficie e al volume impegnati dalla progettata edificazione e comunque tali da fornire un’errata rappresentazione dello stato dei luoghi, l'Amministrazione legittimamente interviene sul piano dell'autotutela e annulla d'ufficio il titolo abilitativo già rilasciato (Cons. Stato. IV, 27.01.2012 n. 422, si veda anche Tar Marche 03.06.2016 n. 358).
2.2 E’ incontestato, nel caso in esame, che le citate pareti finestrate non comparissero negli elaborati progettuali allegati alla domanda presentata dai ricorrenti. Non era quindi necessaria alcuna valutazione dell’interesse pubblico in sede di annullamento in autotutela del permesso di costruire 268/2003 (TAR Marche, sentenza 24.01.2017 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano di lottizzazione – convenzioni – opere di urbanizzazione – prescrizioni.
Sulle convenzioni di lottizzazione, sugli oneri previsti dal piano di lottizzazione.
Ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora utilizzate, che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività, si rende necessario un piano attuativo (particolareggiato o di lottizzazione), quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
Lo scopo è di garantire che all’edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, con il rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti.
La possibilità di derogare all’obbligo dello strumento attuativo è –in verità– ammissibile ma esclusivamente in ipotesi del tutto eccezionali, caratterizzate da una situazione di fatto che da quello strumento consenta di prescindere con sicurezza, in quanto oggettivamente non più necessario, essendo stato pienamente raggiunto il risultato (in termini di adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie previste dal piano regolatore) cui lo stesso strumento è finalizzato.
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Il piano di lottizzazione –previsto dall’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall’art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765– perde efficacia alla scadenza del termine massimo di dieci anni (così come avviene per il piano particolareggiato): affinché tale strumento possa ritenersi perfezionato è, altresì, necessaria la stipulazione di un’apposita convenzione (la quale accede al piano stesso), cui resta subordinato anche il rilascio dei titoli abilitativi necessari per la realizzazione delle opere.
Incidendo la convenzione sulla stessa procedura di perfezionamento del Piano di lottizzazione e, dunque, sull’efficacia di quest’ultimo, la mancata stipula della convenzione inibisce il rilascio da parte dell’Amministrazione dei titoli abilitativi utili per la realizzazione del Piano stesso.
Ove, invece, la convenzione sia stata stipulata, il rilascio dei titoli abilitativi di cui si discute è possibile, con l’ulteriore precisazione che –a tale fine– non è comunque necessario che le parti abbiano già provveduto all’adempimento di tutti gli incombenti sugli stessi gravanti, realizzando le opere di urbanizzazione primarie e secondarie prescritte. Come ampiamente riconosciuto in giurisprudenza, “il rilascio delle licenze edilizie nell’ambito dei singoli lotti è” meramente “subordinato all’impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi” e non, quindi, all’effettiva e concreta realizzazione di quest’ultime.
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Ancorché la convenzione sia scaduta e, quindi, risulti maturato il termine ultimo prescritto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione previste, ove quest’ultime risultino incomplete l’obbligo per i lottizzanti di ultimare le stesse permane.
La completa realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria contemplate nella convenzione di lottizzazione non costituisce –di per sé– una condizione per il rilascio di titoli edilizi da parte dell’Amministrazione.
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Con il decorso del termine di dieci anni per il piano di lottizzazione, diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, “cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva”.
Scaduta la convenzione, l’Amministrazione riassume pienamente le proprie potestà di pianificazione territoriale, risultando pienamente reintegrata nella discrezionalità in ordine alle scelte sul governo del territorio, ivi compresa quella di imprimere alle aree una destinazione diversa da quella convenzionale, con l’unico limite della tutela di stati di affidamento, eventualmente suscitati dalla convenzione stessa qualora questa “sia stata … pienamente adempiuta”
(massima tratta da www.dirittoamministrazioni.it).
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1. Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e, pertanto, vada respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, il ricorrente lamenta l’illegittimità del permesso di costruire n. 22, prot. n. 3407, rilasciato dal Comune di Labico in data 20.05.2011.
A tale fine il ricorrente denuncia violazione di legge (in particolare, art. 17 della legge n. 1150/1942) ed eccesso di potere sotto svariati profili, sostenendo essenzialmente che –essendo cessata l’efficacia della convenzione per il piano di lottizzazione– per le aree in cui il piano è rimasto inattuato “non è più possibile l’edificazione” e “spirato il termine di durata decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la non esecuzione e predisposizione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria porta al divieto, per la Pubblica Amministrazione, di rilasciare nuovi ed ulteriori permessi di costruire”.
Tali censure non sono meritevoli di condivisione per le ragioni di seguito indicate.
2. Ai fini del decidere, appare opportuno ricordare che:
   - è noto che -ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora utilizzate, che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano attuativo (particolareggiato o di lottizzazione), quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire (cfr., tra le altre, C.d.S., 04.12.2007, n. 6171; C.d.S., Sez. IV, 22.05.2006, n. 3001);
   - i c.d. piani particolareggiati o di lottizzazione hanno, infatti, “lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, con il rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti” (TAR Campania, Sez. VIII, 12.06.2014, n. 3272; cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. V, 03.03.2004, n. 1013);
   - in termini più generali, costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del P.R.G. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 3001/2006, già citata);
   - la possibilità di derogare all’obbligo dello strumento attuativo è –in verità– ammissibile ma esclusivamente in ipotesi del tutto eccezionali, caratterizzate da una situazione di fatto che da quello strumento consenta di prescindere con sicurezza, in quanto oggettivamente non più necessario, essendo stato pienamente raggiunto il risultato (in termini di adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie previste dal piano regolatore) cui lo stesso strumento è finalizzato (cfr., ex multis, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 03.09.2014, n. 2247).
Tenuto conto delle peculiarità che connotano il caso di specie, va rilevato ancora che:
   - il piano di lottizzazione –previsto dall’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall’art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765– perde efficacia alla scadenza del termine massimo di dieci anni (così come avviene per il piano particolareggiato);
   - affinché tale strumento possa ritenersi perfezionato è, altresì, necessaria la stipulazione di un’apposita convenzione (la quale accede al piano stesso), cui resta subordinato anche il rilascio dei titoli abilitativi necessari per la realizzazione delle opere (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 05.08.2014, n. 2133);
   - si introduce così la tematica delle c.d. convenzioni urbanistiche, inquadrabili –secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza– nel novero degli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’articolo 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 08.07.2013, n. 3597; C.d.S., Sez. IV, 21.01.2013, n. 324);
   - secondo quanto di recente ribadito dal Consiglio di Stato, “la giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare, all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti, si è affermato (C.d.S., Sez. V, 10.01.2003, n. 33; C.d.S., Sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampa giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile” (Sez. IV, 22.01.2013, n. 351, che richiama testualmente il precedente della stessa Sezione IV, 01.04.2011, n. 2040);
   - la causa tipica di tali convenzioni è –in ogni caso– quella di disciplinare diritti e obblighi delle parti in relazioni alla realizzazione delle trasformazioni previste dallo strumento attuativo e si caratterizzano proprio per l’assunzione dell’impegno della parte pubblica al rilascio dei titoli abilitativi, alle condizioni previste, a fronte dell’esecuzione delle obbligazioni poste a carico della parte private;
   - mediante la stipulazione della Convenzione, i Comuni pattuiscono, dunque, le modalità per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie ai fini dell’insediamento abitativo e, in genere, convengono di porre tali opere a carico della parte privata, rinunciando così a percepire gli importi in danaro ordinariamente richiesti a titolo di oneri di urbanizzazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.07.2014, n. 1997).
Da tali assunti si trae che:
   - incidendo la convenzione sulla stessa procedura di perfezionamento del Piano di lottizzazione e, dunque, sull’efficacia di quest’ultimo, la mancata stipula della convenzione inibisce il rilascio da parte dell’Amministrazione dei titoli abilitativi utili per la realizzazione del Piano stesso (cfr., tra le altre, TAR Puglia, Lecce, n. 2133/2014, già citata);
   - ove, invece, la convenzione sia stata stipulata, il rilascio dei titoli abilitativi di cui si discute è possibile, con l’ulteriore precisazione che –a tale fine– non è comunque necessario che le parti abbiano già provveduto all’adempimento di tutti gli incombenti sugli stessi gravanti, realizzando le opere di urbanizzazione primarie e secondarie prescritte. Come ampiamente riconosciuto in giurisprudenza, “il rilascio delle licenze edilizie nell’ambito dei singoli lotti è” meramente “subordinato all’impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi” e non, quindi, all’effettiva e concreta realizzazione di quest’ultime (C.d.S., Sez. IV, 26.08.2014, n. 4278);
   - ancorché la convenzione sia scaduta e, quindi, risulti maturato il termine ultimo prescritto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione previste, ove quest’ultime risultino incomplete l’obbligo per i lottizzanti di ultimare le stesse permane. Come precisato anche dalla Sezione in epoca recente (cfr. sent. 26.03.2014, n. 3326), sussiste, infatti, la possibilità per l’Amministrazione di chiedere l’esecuzione coercitiva in forma specifica delle obbligazioni poste in convenzione di lottizzazione entro il termine prescrizionale di dieci anni e -a tale fine- il dies a quo va individuato nella data di “scadenza del termine per adempiere, a norma dell’art. 2935 c.c.”, ossia del termine ultimo concesso alle parti per l’ultimazione delle opere di urbanizzazione.
In base a tali considerazioni il Collegio ritiene, dunque, di poter affermare che la completa realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria contemplate nella convenzione di lottizzazione non costituisce –di per sé– una condizione per il rilascio di titoli edilizi da parte dell’Amministrazione.
Del resto, non è riscontrabile alcuna previsione normativa che disponga in tale senso ed, anzi, anche la disamina del caso in trattazione –in cui proprio il ricorrente ha ottenuto l’idoneo titolo abilitativo per realizzare il proprio immobile– dimostra il contrario.
2.1. Stanti le peculiarità del caso, è necessario passare ad un’analisi più specifica e, precipuamente, sorge l’esigenza di valutare l’iniziative assumibili dall’Amministrazione in presenza di una convenzione “scaduta”.
Come già detto, la predetta è comunque titolare del potere di agire per pretendere l’esecuzione in forma specifica della convenzione.
Per quanto attiene, invece, al rilascio di permessi di costruire il Collegio riconosce la rilevanza dell’art. 17, comma 1, della legge n. 1150 del 1942, il quale dispone che: “Decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che:
   - le previsioni del piano attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata;
   - in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   - con il decorso del termine di cui sopra (dieci anni per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, “cosicché non potranno più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha efficacia ultrattiva” (C.d.S., n. 4278 del 2014, già citata; cfr., tra le altre, anche C.d.S., Sez. IV, 04.12.2007, n. 6170; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 19.02.2014, n. 429);
   - scaduta la convenzione, l’Amministrazione riassume pienamente le proprie potestà di pianificazione territoriale, risultando pienamente reintegrata nella discrezionalità in ordine alle scelte sul governo del territorio, ivi compresa quella di imprimere alle aree una destinazione diversa da quella convenzionale, con l’unico limite della tutela di stati di affidamento, eventualmente suscitati dalla convenzione stessa qualora questa “sia stata … pienamente adempiuta” (TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 17.11.2011, n. 1737; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 10.04.2006, n. 374), ma, “fino a quando tale potere non viene esercitato” –come risulta essere avvenuto nel caso di specie– “l’assetto urbanistico dell’area rimane definito nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione” (C.d.S., Sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
In definitiva, alla scadenza del piano di lottizzazione e della relativa convenzione non sovviene il divieto assoluto di edificare sulle aree in cui il piano è rimasto inattuato, attesa l’ultrattività generalmente riconosciuta alle disposizioni del piano scaduto disciplinanti l’edificazione e le prescrizioni di zona, “affinché non sia alterato lo sviluppo urbanistico-edilizio così come programmato dallo strumento scaduto” (cfr. TAR Lazio, Sez. II-bis, 20.01.2010, n. 612), mentre la non completa realizzazione delle opere di urbanizzazione da parte dei lottizzanti a ciò tenuti può comportare l’assunzione di iniziative da parte dell’Amministrazione utili per l’adempimento degli impegni assunti ma –in alcun modo– rappresenta un elemento –di per sé- preclusivo del rilascio di nuovi titoli edilizi.
Ciò trova –del resto– conferma anche in quelle pronunce del giudice amministrativo che –valutando la legittimità di richieste di contributi di oneri di urbanizzazione in sede di rilascio di nuovi permessi di costruire sulla base dello stadio di realizzazione delle opere di urbanizzazione contemplate in convenzioni di lottizzazione scadute– implicitamente ammettono o, meglio, riconoscono la piena facoltà dell’Amministrazione di procedere al rilascio di titoli edilizi pur in presenza di un adempimento parziale da parte dei lottizzanti agli obblighi assunti (cfr., ex multis, TAR Marche, Ancona, Sez. I, 08.02.2010, n. 31; TAR Marche, Ancona, Sez. I, 14.06.2006, n. 422).
Orbene, in ragione di quanto su riportato il Collegio ritiene che le asserzioni su cui poggia il ricorso secondo cui:
   - “una volta scaduto il termine di efficacia della convenzione, nella zona considerata non è più possibile l’edificazione”;
   - “la non esecuzione e predisposizioni delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria porta al divieto, per la Pubblica Amministrazione, di rilasciare nuovi ed ulteriori permessi di costruire”;
   - siano prive di fondamento, attesa la necessità di valutare ogni singolo caso in relazione alle previsioni del piano di lottizzazione e del P.R.G. e allo stato di avanzamento delle opere di urbanizzazione, nel rispetto dell’ordinato sviluppo della zona.
Ciò detto e fatta –comunque– salva la persistenza dell’obbligo di realizzare le opere di urbanizzazione primaria e secondaria previste nella convenzione, è doveroso pervenire alla conclusione che le censure formulate non sono meritevoli di positivo riscontro.
3. In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 22.09.2014 n. 9907 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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