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AGGIORNAMENTO AL 24.11.2018 (ore 23,59) |
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IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L'autore di un esposto resta riservato. Non è dalla
conoscenza del nome del denunciante che dipende la difesa
del denunciato.
La conoscenza della fonte all’origine di
un controllo di polizia non risponde a nessun interesse di
colui che subisce la attività ispettiva, poiché, qualunque
sia stata la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze
dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito
del controllo.
---------------
Con il presente ricorso per l’accesso è chiesto
l’annullamento del provvedimento di diniego dell’accesso
agli atti in data 30.04.2018 chiesto dalla ricorrente in
relazione all’eventuale esposto, denuncia o dichiarazione
cha ha sollecitato l’attività ispettiva da cui è
successivamente scaturito il provvedimento di divieto di
prosecuzione della attività asseritamente abusiva di
palestra sita nei locali di Via ... 35.
Il Comune si costituisce in replica.
Chiarisce che –con il ricorso– in buona sostanza la
ricorrente vuole acquisire il nominativo del soggetto che ha
sollecitato l’attività ispettiva
Il Comune precisa –richiamando gli artt. 5 e 5-bis del DLGS
33/2013– che l’obiettivo perseguito dalla ricorrente esula
dall’obiettivo esplicitato dalle norme (favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico).
Il Collegio concorda con le osservazioni del Comune.
Nella specie, il provvedimento è correttamente e
adeguatamente motivato sul seguente presupposto: <la
conoscenza della fonte all’origine di un controllo di
polizia non risponde a nessun interesse di colui che subisce
la attività ispettiva, poiché, qualunque sia stata la
ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze dannose per
l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo>.
La giurisprudenza si è espressa con due orientamenti
opposti.
Secondo un primo orientamento (cfr., recente sentenza
del Tar Toscana n. 898/2017) non c’è ragione di nascondere
il nome di chi fa una denuncia, un esposto o una
segnalazione: chi si trova al centro di una indagine o una
verifica deve poter accedere agli atti e conoscere le
ragioni da cui è partito il procedimento nei suoi confronti;
del resto, una volta che la denuncia o l’esposto arriva alle
autorità, essa costituisce un atto interno
all’amministrazione e, come tutti gli atti amministrativi da
cui derivano procedimenti per i cittadini, è sottoposto alla
massima «trasparenza».
Secondo un secondo diverso orientamento, invece (cfr.,
Tar Veneto Venezia, sent. n. 321/2015 e Cons. St. sent. n.
5779/2014) è stato affermato che l’esposto presentato alla
pubblica amministrazione, da cui trae origine una verifica,
un’ispezione o altri procedimenti di accertamento di
illeciti, non può essere oggetto di «accesso agli atti»,
poiché non è dalla conoscenza del nome del denunciante che
dipende la difesa del denunciato.
Peraltro, la conoscenza dei fatti e delle allegazioni
contestati risulta assicurata già dal verbale di
accertamento; non c’è quindi ragione di risalire al
precedente esposto.
Il Collegio ritiene preferibile aderire al secondo
orientamento.
In conclusione, il ricorso è da respingere nel merito (TAR
Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 17.10.2018 n. 772 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Accertamento
di conformità utilizzando volumetria non
sfruttata o acquistando la volumetria
mancante da altri soggetti.
(a) la conformità prevista dall’art. 36 del
DPR 06.06.2001 n. 380 per la
regolarizzazione degli abusi edilizi può
essere ottenuta anche individuando
volumetria residenziale non sfruttata in
precedenti edificazioni o ristrutturazioni,
o acquistando la volumetria mancante da
altri soggetti che ne siano titolari. Si
tratta di residui di diritti edificatori che
rimangono latenti finché non si presenta
l’opportunità di impiegarli per integrare la
volumetria già insediata;
---------------
(b) l’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995,
in vigore all’epoca della ristrutturazione
(v. ora l’art. 4 della LR 28.11.2014
n. 31), aveva la finalità di incentivare gli
interventi edilizi in grado di migliorare
l’efficienza energetica degli edifici. Lo
strumento incentivante scelto dal
legislatore consisteva (e consiste tuttora)
nell’attribuire agli interventi energeticamente virtuosi una minore capacità
di consumazione dei diritti edificatori
grazie allo scomputo dei muri perimetrali e
delle solette di copertura;
(c) la diversa modalità di calcolo si
traduce in un risparmio sulla volumetria
disponibile, ossia in un bonus edificatorio,
che può essere utilizzato immediatamente
nella stessa edificazione, ma può anche
essere impiegato in un secondo momento per
effettuare degli ampliamenti. Come tutti i
diritti edificatori, questo bonus è
liberamente negoziabile e cedibile, in
mancanza di disposizioni in senso contrario
nella disciplina urbanistica comunale;
(d) una serra solare bioclimatica è tale
proprio perché consente l’irraggiamento
solare, e dunque l’inserimento di una
schermatura fissa è un chiaro indizio della
trasformazione in volume residenziale, a
maggior ragione se si accompagna ad altre
opere coerenti con l’uso residenziale, come
quelle realizzate dal ricorrente. Di
conseguenza, per evitare la rimessione in
pristino è necessario verificare se la
volumetria risparmiata nel corso
dell’intervento di ristrutturazione del 2009
sia sufficiente, applicando i criteri
dell’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, a
sanare la volumetria residenziale abusiva;
(e) poiché la quota di
volumetria risparmiata attribuibile
all’unità abitativa del ricorrente appare
inferiore alla volumetria abusiva, il
permesso di costruire in sanatoria può
essere rilasciato solo qualora i proprietari
confinanti, all’epoca coinvolti nella
ristrutturazione, cedano la volumetria di
rispettiva pertinenza fino alla concorrenza
della volumetria da regolarizzare. Occorre
precisare che deve trattarsi di vera e
propria cessione di volumetria, e non di
semplice costituzione di servitù sulla
volumetria. L’atto di cessione dovrà essere
trascritto, in modo che non si formino
aspettative nei terzi circa la possibilità
di utilizzare nuovamente questi diritti
edificatori in futuro.
---------------
1. Il ricorrente, proprietario di un’unità
abitativa in un edificio situato nel Comune
di Salò, in via del Seminario, ha ottenuto
nel 2013 il permesso di costruire per
realizzare una serra solare bioclimatica in
corrispondenza della terrazza dell’ultimo
piano. Il risultato dell’edificazione (v.
relazione paesistica e documentazione
fotografica) è costituito da una torretta
dove era prevista la posa di una copertura
in vetro e di pareti ugualmente in vetro.
Con queste caratteristiche, il locale non
era computabile nella volumetria
residenziale dell’edificio.
2. Nel corso dei lavori il ricorrente ha
invece abusivamente trasformato la serra in
un volume residenziale (113,06 mc),
collocando un assito in legno al di sotto
della copertura in vetro, realizzando un
vano tecnico e una vasca a uso fioriera, e
installando una pompa di calore per la
climatizzazione.
3. In data 08.06.2016 il ricorrente ha
chiesto il rilascio di un permesso di
costruire in sanatoria, per consolidare la
destinazione residenziale, anche allo scopo
di collegare la ex serra solare bioclimatica
al piano inferiore mediante una scala
interna. Secondo il ricorrente, la
volumetria a disposizione per l’ampliamento
residenziale deriverebbe dal risparmio di
volumetria realizzato nell’intervento di
ristrutturazione ultimato nel 2009. Più
precisamente, il risparmio sarebbe dovuto
all’art. 2, comma 1-ter, della LR 20.04.1995 n. 26 (disciplina regionale sull’efficientamento
energetico degli edifici), che consente lo
scomputo dei muri perimetrali e delle
solette di copertura quando siano raggiunti
determinati obiettivi di risparmio
energetico.
4. Il Comune, con provvedimento del
responsabile dell’Area Tecnica del 29.11.2016, ha respinto la richiesta del
ricorrente, in quanto (come chiarito nel
preavviso di diniego del 10.10.2016) le
modalità di calcolo più favorevoli
potrebbero essere applicate solo agli
interventi edilizi non ancora realizzati.
5. Contro i suddetti provvedimenti il
ricorrente ha presentato impugnazione,
riproponendo la tesi della scomputabilità
dei muri perimetrali e delle solette di
copertura, da cui deriverebbe volumetria
aggiuntiva utilizzabile per sanare
l’ampliamento residenziale dell’edificio. I
proprietari confinanti, parimenti
interessati dalla ristrutturazione del 2009,
sarebbero disposti a cedere la loro quota di
volumetria da efficientamento energetico.
6. Il Comune si è costituito in giudizio,
chiedendo la reiezione del ricorso.
7. Questo TAR, con ordinanza n. 77 del 02.02.2017, ha accolto la domanda
cautelare, vincolando il Comune a ripronunciarsi dopo aver verificato sia la
volumetria recuperabile grazie alle norme
sull’efficientamento energetico, sia la
cessione di volumetria da parte dei
proprietari confinanti. Nell’appello
cautelare, il Consiglio di Stato Sez. VI,
con ordinanza n. 1708 del 24.04.2017, ha
sollevato il Comune dall’obbligo di adottare
un nuovo provvedimento espresso, ma ha
confermato gli adempimenti istruttori.
8. In seguito, il ricorrente (v. deposito di
data 30.04.2018) ha trasmesso agli
uffici comunali la tabella con il calcolo
della volumetria recuperata, nonché il
preliminare per la costituzione di una
servitù di utilizzo esclusivo della suddetta
volumetria. Gli uffici comunali non hanno
finora dato il loro assenso, avendo rilevato
incongruenze nelle quote rispetto agli
elaborati di progetto, e un eccesso di
scomputo relativamente alle porzioni di
muratura non costituenti involucro esterno.
L’interlocuzione è ancora in corso.
9. Così sintetizzata la vicenda contenziosa,
sulle questioni rilevanti ai fini della
decisione si possono svolgere le seguenti
considerazioni, riprendendo quanto
anticipato in sede cautelare:
(a) la conformità prevista dall’art. 36 del
DPR 06.06.2001 n. 380 per la
regolarizzazione degli abusi edilizi può
essere ottenuta anche individuando
volumetria residenziale non sfruttata in
precedenti edificazioni o ristrutturazioni,
o acquistando la volumetria mancante da
altri soggetti che ne siano titolari. Si
tratta di residui di diritti edificatori che
rimangono latenti finché non si presenta
l’opportunità di impiegarli per integrare la
volumetria già insediata;
(b) l’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995,
in vigore all’epoca della ristrutturazione
(v. ora l’art. 4 della LR 28.11.2014
n. 31), aveva la finalità di incentivare gli
interventi edilizi in grado di migliorare
l’efficienza energetica degli edifici. Lo
strumento incentivante scelto dal
legislatore consisteva (e consiste tuttora)
nell’attribuire agli interventi energeticamente virtuosi una minore capacità
di consumazione dei diritti edificatori
grazie allo scomputo dei muri perimetrali e
delle solette di copertura;
(c) la diversa modalità di calcolo si
traduce in un risparmio sulla volumetria
disponibile, ossia in un bonus edificatorio,
che può essere utilizzato immediatamente
nella stessa edificazione, ma può anche
essere impiegato in un secondo momento per
effettuare degli ampliamenti. Come tutti i
diritti edificatori, questo bonus è
liberamente negoziabile e cedibile, in
mancanza di disposizioni in senso contrario
nella disciplina urbanistica comunale;
(d) una serra solare bioclimatica è tale
proprio perché consente l’irraggiamento
solare, e dunque l’inserimento di una
schermatura fissa è un chiaro indizio della
trasformazione in volume residenziale, a
maggior ragione se si accompagna ad altre
opere coerenti con l’uso residenziale, come
quelle realizzate dal ricorrente. Di
conseguenza, per evitare la rimessione in
pristino è necessario verificare se la
volumetria risparmiata nel corso
dell’intervento di ristrutturazione del 2009
sia sufficiente, applicando i criteri
dell’art. 2, comma 1-ter, della LR 26/1995, a
sanare la volumetria residenziale abusiva;
(e) poiché la quota di volumetria
risparmiata attribuibile all’unità abitativa
del ricorrente appare inferiore alla
volumetria abusiva, il permesso di costruire
in sanatoria può essere rilasciato solo
qualora i proprietari confinanti, all’epoca
coinvolti nella ristrutturazione, cedano la
volumetria di rispettiva pertinenza fino
alla concorrenza della volumetria da
regolarizzare. Occorre precisare che deve
trattarsi di vera e propria cessione di
volumetria, e non di semplice costituzione
di servitù sulla volumetria. L’atto di
cessione dovrà essere trascritto, in modo
che non si formino aspettative nei terzi
circa la possibilità di utilizzare
nuovamente questi diritti edificatori in
futuro.
10. Il ricorso deve quindi essere accolto,
con il conseguente annullamento degli atti
impugnati.
11. L’effetto conformativo della pronuncia
vincola il Comune a ultimare le verifiche
tecniche sopra descritte, e a chiudere la
procedura con un provvedimento espresso, nel
termine di 60 giorni dal deposito della
presente sentenza. Qualora le verifiche
tecniche diano esito favorevole al
ricorrente, il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria potrà essere
condizionato alla trascrizione dell’atto di
cessione della volumetria, attribuendo per
tale adempimento un termine non inferiore a
30 giorni
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 10.10.2018 n. 970 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Scomputo
del costo di costruzione.
Le previsioni di cui
all’articolo 16 del D.P.R. 380/2001 e
dell’articolo 45 della L.R. Lombardia n.
12/2015, che ammettono la possibilità di
scomputare totalmente o parzialmente il
contributo relativo agli oneri di
urbanizzazione, non possono interpretarsi
come volte a precludere in termini assoluti
la possibilità di scomputo dei costi di
costruzione, se prevista in via
convenzionale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1525 -
commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Preliminarmente occorre esaminare
l’eccezione di inammissibilità formulata dal
Comune resistente secondo il quale il
ricorso dovrebbe considerarsi tardivo perché
notificato oltre il termine decadenziale
previsto per l’azione di annullamento.
1.1. A sostegno dell’eccezione il Comune
osserva che l’atto impugnato richiede il
pagamento di una somma a titolo di
monetizzazione dello standard urbanistico e,
come tale, impone l’impugnazione entro il
termine di sessanta giorni previsto –in
generale– dal codice del processo
amministrativo.
1.2. L’eccezione è priva di fondamento per
le considerazioni che si procede ad esporre.
1.3. Il Comune di Milano richiama, a
sostegno dell’eccezione la decisione del
Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6706. Osserva il Giudice d’Appello
che, “se da un lato è pressoché irrilevante,
ai fini in esame, la qualificazione della monetizzazione come imposizione di tipo
tributario o come corrispettivo di diritto
pubblico, dall’altro lato assume, invece,
significativo rilievo la considerazione che
la prestazione patrimoniale richiesta non
vive in alcun modo della natura e delle
finalità proprie del contributo concessorio
costituito dagli oneri di urbanizzazione e
dal costo di costruzione che accompagna
naturaliter l’autorizzazione a costruire, la
cui debenza o meno, quanto al relativo
accertamento, può essere fatta valere, in
linea generale, nei termini prescrizionali”.
1.3.1. Infatti, prosegue il Consiglio di
Stato, “mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo
per la realizzazione delle opere stesse,
senza che insorga un vincolo di scopo in
relazione alla zona in cui è inserita l’area
interessata all’imminente trasformazione
edilizia, la monetizzazione sostitutiva
della cessione degli standard afferisce al
reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione
secondaria all’interno della specifica zona
di intervento; e ciò vale ad evidenziare la
diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione, di
talché, sotto il versante processuale, non
si può utilizzare lo strumento dell’azione
di accertamento ammesso per contestare la
legittimità del contributo […] o comunque la
insussistenza di tale obbligazione
pecuniaria ancorché già assolta”.
1.3.2. Conclude il Consiglio di Stato
notando che la monetizzazione non
costituisce una duplicazione del contributo
concessorio, venendo in rilievo un obbligo
diverso ed aggiuntivo e che “la prestazione
patrimoniale derivante dalla
“monetizzazione” accede intimamente alla
rilasciata concessione edilizia”, con la
conseguenza che “la pretesa di non
soggiacere a tale obbligo di pagamento deve
essere necessariamente fatta valere in sede
di contestazione della legittimità degli
atti e provvedimenti di imposizione, con
l’impugnazione (quanto meno) della
concessione, in parte qua, nel termine decadenziale previsto dal codice del
processo amministrativo”.
1.4. La decisione richiamata dal Comune e
riportata nel precedente punto non risulta,
tuttavia, sovrapponibile al caso di specie.
1.4.1. Nel caso esaminato dal Consiglio di
Stato la società propone azione di
accertamento “dell’inesistenza dell’obbligo
di pagamento della cd. “monetizzazione”
delle aree per urbanizzazioni secondarie
riconnesse al rilascio delle concessioni
edilizie n. 19/99-662 e n. 127/2001,
quantificato dal Comune di Putignano in
€ 10.039,92 ai sensi dell’art. 52 delle NTA
del PRG comunale, in aggiunta al contributo
di costruzione di cui all’art. 16 del TU
edilizia”, omettendo l’impugnazione dei
titoli.
1.4.2. Nel caso sottoposto all’attenzione
del Collegio il giudizio verte, al
contrario, sulla corretta interpretazione
delle disposizioni contenute nella
Convenzione integrativa del permesso e, in
particolare, sulle modalità attraverso le
quali attuare la prestazione relativa al
costo di costruzione per il primo intervento
realizzato.
Inoltre, diversamente da quanto
verificatosi nella fattispecie definita dal
Consiglio di Stato, la società non avanza
alcuna contestazione che sia mediatamente o
immediatamente incidente sul titolo edilizio
che, al contrario, è, come si vedrà, uno
degli elementi posti a fondamento
dell’interpretazione della convenzione
integrativa fornita dalla società
ricorrente.
1.4.3. In una fattispecie come quella in
esame trova, pertanto, applicazione il
consolidato insegnamento giurisprudenziale a
mente del quale “le controversie in tema di
oneri di urbanizzazione e di costo di
costruzione sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo” (cfr.
Cons. di Stato, Sez. V, 09.02.2001 n.
584, e Sez. IV, 19.07.2004 n. 5197);
tali controversie introducono, infatti, “un
giudizio su un rapporto, sicché le questioni
concernenti l'esistenza e l'entità del
debito, involgendo posizioni di diritto
soggettivo, sono sottratte agli ordinari
termini decadenziali del giudizio
impugnatorio, pur in presenza di atti
amministrativi da definire pertanto come
paritetici, presentandosi come un giudizio
di accertamento di un rapporto obbligatorio,
attivabile nell’ordinario termine di
prescrizione” (cfr. Cons. Stato, V Sezione,
14.10.2014 n. 5072; C.G.A. n. 462 e n.
466 del 27.05.2008; Tar per la Campania
– sede di Napoli, sez. VI, 08.09.2017,
n. 4322).
2. Passando al merito del ricorso si osserva
che i primi due motivi formulati dalla
società possono trattarsi congiuntamente in
quanto fondati su questione logicamente e
giuridicamente comune, consistente sulla
interpretazione delle previsioni della
Convenzione integrativa al permesso di
costruire n. 85/2006 per la disciplina
dell’esecuzione di opera a scomputo e per la
cessione di strada e, in particolare, sulle
possibilità di scomputo degli importi dovuti
a titolo di costo di costruzione per il
primo degli interventi realizzati dalla
società.
2.1. La disamina della questione indicata al
punto che precede impone di affrontare, in
primo luogo, la deduzione svolta dal Comune
resistente secondo cui la pretesa della
Al. s.p.a. risulterebbe in constato con
la previsione di cui all’articolo 16 del
D.P.R. 380/2001 e dell’articolo 45 della
L.R. Lombardia n. 12/2015.
Replica la
ricorrente osservando che: a) si tratta di
argomentazione esposta per la prima volta in
sede giudiziaria (evocando, in tal modo, il
divieto di integrazione postuma della
motivazione); b) la giurisprudenza
amministrativa ammette forme alternative di
pagamento e/o compensazione con opere
urbanistiche anche in relazione ai costi di
costruzione.
2.2. La tesi del Comune non può essere
condivisa.
2.2.1. La disposizione contenuta all’interno
dell’articolo 16, comma 2, del D.P.R.
380/2001 prevede testualmente: “la quota di
contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al comune
all'atto del rilascio del permesso di
costruire e, su richiesta dell'interessato,
può essere rateizzata. A scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il titolare del
permesso può obbligarsi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione, nel
rispetto dell'articolo 2, comma 5, della
legge 11.02.1994, n. 109, e successive
modificazioni, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente
acquisizione delle opere realizzate al
patrimonio indisponibile del comune”.
2.2.2. In coerenza con il precetto dettato
dalla legislazione statale, la previsione
dell’articolo 45 della L.R. 12/2005 dispone:
“1. A scomputo totale o parziale del
contributo relativo agli oneri di
urbanizzazione, gli interessati possono
essere autorizzati a realizzare direttamente
una o più opere di urbanizzazione primaria o
secondaria, nel rispetto dell'articolo 2,
comma 5, della legge 11.02.1994, n.
109 (Legge quadro in materia di lavori
pubblici). I comuni determinano le modalità
di presentazione dei progetti di valutazione
della loro congruità tecnico-economica e di
prestazione di idonee garanzie finanziarie,
nonché le sanzioni conseguenti in caso di in
ottemperanza. Le opere, collaudate a cura
del comune, sono acquisite alla proprietà
comunale. 2. Non possono essere oggetto di
scomputo le opere espressamente riservate,
nel programma triennale delle opere
pubbliche, alla realizzazione diretta da
parte del comune”.
2.2.3. Le due previsioni riprodotte
ammettono, pertanto, la possibilità di
scomputare totalmente o parzialmente il
contributo relativo agli oneri di
urbanizzazione. Tale previsione non pare,
tuttavia, potersi interpretare come volta a
precludere in termini assoluti la
possibilità di scomputo dei costi di
costruzione, se prevista in via
convenzionale.
2.2.4. Deve, infatti, considerarsi che:
- il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato
all'incidenza degli oneri di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione, è
determinato e liquidato all'atto del
rilascio del titolo edilizio (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1504);
- tale contributo è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura
non tributaria, posto a carico del
concessionario a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione e in
proporzione all'insieme dei benefici che le
nuove costruzioni inducono nel contesto
urbano, senza alcun vincolo di scopo in
relazione alla zona interessata dalla
trasformazione urbanistica e
indipendentemente dalla concreta utilità che
il concessionario può conseguire dal titolo
edificatorio e dall'ammontare delle spese
effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 29.10.2015, n. 4950; TAR Lombardia-Brescia,
02.03.2012, n. 355; TAR Piemonte, 26.11.2003 n. 1675);
- il contributo di urbanizzazione è, invece, commisurato al costo
delle opere di urbanizzazione da realizzarsi
concretamente nella zona, e differisce dal
contributo da pagare all'atto del rilascio
della concessione di costruzione, che ha
natura contributiva, rappresentando un
corrispettivo delle spese poste a carico
della collettività per il conferimento al
privato del diritto all'edificazione e dei
vantaggi che il concessionario ottiene per
effetto della trasformazione del territorio;
- si tratta, quindi, di istituti diversi, da cui deriva, quale
naturale conseguenza, la determinazione di
oneri altrettanto diversi, l'uno relativo al
costo sostenuto per rendere urbanizzata ed
edificabile la singola area, l'altro
relativo al contributo, di carattere
tributario, preordinato alla realizzazione
del generale assetto urbanistico del
territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
15.09.2014, n. 4685);
- la diversità tra i due istituti spiega la ragione per la quale il
legislatore prevede il solo scomputo degli
oneri di urbanizzazione nell’ipotesi in cui
il titolare del permesso di costruire si
obblighi alla realizzazione diretta di tali
opere; in tal caso, infatti, la prestazione
patrimoniale è sostituita dall’esecuzione
delle opere che il pagamento risulta
strumentale a finanziare;
- in altri termini, la previsione dell’articolo 16, comma 2,
contempla i soli oneri di urbanizzazione in
quanto solo questi sono immediatamente
irrelati alle opere di urbanizzazione e,
come tali, sostituibili nel caso di diretta
realizzazione delle stesse;
- ricostruita la ratio della disposizione di cui all’articolo 16,
comma 2, può escludersi che lo stesso funga
da perimetro applicativo dell’istituto dello
scomputo nel diverso caso dei costi di
costruzione che, come spiegato, hanno
diversa natura giuridica;
- la soluzione della questione non può quindi rinvenirsi
all’interno dell’articolo 16, comma 2, ma
necessita, al contrario, di un
approfondimento da condurre alla luce dei
principi regolatori della materia;
- a tal fine, deve, in primo luogo, evidenziarsi che il meccanismo
dello scomputo non elide la doverosità della
prestazione imposta e il carattere
indisponibile della stessa atteso che lo
scomputo agisce più propriamente nella fase
solutoria dell’obbligazione, postulando e
non denegando la prestazione dovuta;
- in altri termini, se la natura tributaria esclude la
disponibilità dell’an e del quantum debeatur,
non elimina, tuttavia, la possibilità di
sostituire il versamento con forme
alternative di pagamento e/o compensazione
con opere urbanistiche stabilite dalle parti
e, in particolare, dall’Ente comunale;
- il carattere indisponibile dell’obbligazione tributaria non si
traduce quindi nella imposizione di una sola
forma solutoria dei costi di costruzione
che, fermo il quantum e la doverosità della
prestazione, non ha alcuna tipizzazione
monetaria inderogabile;
- deve, pertanto, escludersi che l’articolo 16, comma 2, del D.P.R.
380/2001 possa decretare la nullità assoluta
della clausola compensativa convenzionale e
imporre una sostituzione automatica della
stessa con la regola del versamento
pecuniario, che, nel caso di specie, sarebbe
aggiuntivo ed implicherebbe il pagamento, da
parte del Comune, delle opere ulteriori
realizzate dalla società ricorrente (cfr.
TAR per l’Abruzzo – sede di Pescara, 18.10.2010, n. 1142);
- inoltre, deve, altresì, escludersi che la natura tributaria
dell’obbligazione possa, nella fattispecie
in esame, non ammettere un accordo tra le
parti inerente, come spiegato, la sola forma
solutoria dell’adempimento e, come tale,
inidoneo a ledere il principio di
indisponibilità che governa la materia.
3. Esclusa, pertanto, la sussistenza di un
divieto legale all’inserzione di una
clausola di scomputo dei costi di
costruzione, può procedersi a verificare la
concreta disciplina dettata dal rapporto
all’esame del Collegio.
3.1. Simile verifica deve essere preceduta
da una notazione di carattere generale sulla
natura giuridica dell’accordo in esame,
necessaria per la corretta interpretazione
della convenzione.
3.1. Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, le convenzioni
urbanistiche –come quella in esame-
rientrano infatti nel novero degli accordi
tra privati e amministrazione, ai sensi
dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990
(ex multis: Cass. civ., Sez. I, 28.01.2015, n. 1615; Cass., SS.UU.,
09.03.2012,
n. 3689; nella giurisprudenza di questa
sezione, cfr. TAR per la Lombardia – sede
di Milano, sez. II, 26.07.2016, n.
1507).
3.2. Tale qualificazione impone che
l’interpretazione della convenzione avvenga
utilizzando i criteri ermeneutici di cui
agli articoli 1362 e seguenti del codice
civile, visto l’esplicito richiamo di cui al
comma 2 dell’art. 11 medesimo e come del
resto confermato dalla giurisprudenza, sia
di questo Tribunale (cfr., ex multis, Tar
per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
05.05.2015, n. 1103, con la
giurisprudenza richiamata e sez. II, 11.05.2015, n. 1137),
sia del Consiglio di
Stato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 17.12.2014, n. 6164).
3.3. L’operazione ermeneutica deve
necessariamente prendere le mosse dalla
fondamentale disposizione contenuta
all’interno dell’articolo 1362 c.c. a mente
della quale: “1. Nell'interpretare il
contratto si deve indagare quale sia stata
la comune intenzione delle parti e non
limitarsi al senso letterale delle parole.
2. Per determinare la comune intenzione
delle parti, si deve valutare il loro
comportamento complessivo anche posteriore
alla conclusione del contratto”.
3.4. Sul punto, la giurisprudenza della
Corte di Cassazione chiarisce che:
- “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti
il primo e principale strumento è
rappresentato dal senso letterale delle
parole e delle espressioni utilizzate”
(cfr., da ultimo, Cassazione civile, sez.
III, 19.03.2018, n. 6675);
- “il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero
verificato alla luce dell'intero contesto
contrattuale, le singole clausole dovendo
essere considerate in correlazione tra loro
procedendosi al relativo coordinamento ai
sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per senso
letterale delle parole va intesa tutta la
formulazione letterale della dichiarazione
negoziale, in ogni sua parte ed in ogni
parola che la compone, e non già in una
parte soltanto, quale una singola clausola
di un contratto composto di più clausole,
dovendo il giudice collegare e raffrontare
tra loro frasi e parole al fine di chiarirne
il significato” (Cfr. Cassazione civile,
sez. III, 16.01.2007, n. 828; Cassazione
civile, sez. I, 22.12.2005, n. 28479).
3.5. Inoltre, la Corte di Cassazione
sottolinea che: “pur assumendo l'elemento
letterale funzione fondamentale nella
ricerca della reale o effettiva volontà
delle parti, il giudice deve invero a tal
fine necessariamente riguardarlo alla
stregua degli ulteriori criteri di
interpretazione, e in particolare di quelli
(quali primari criteri d'interpretazione
soggettiva, e non già oggettiva, del
contratto: v. Cass., 23/10/2014, n. 22513;
Cass., 27/06/2011, n. 14079; Cass.,
23/05/2011, n. 11295; Cass., 19/05/2011, n.
10998; con riferimento agli atti unilaterali
v. Cass., 06/05/2015, n. 9006)
dell'interpretazione funzionale ex art. 1369
c.c. e dell'interpretazione secondo buona
fede o correttezza ex art. 1366 c.c., avendo
riguardo allo scopo pratico perseguito dalle
parti con la stipulazione del contratto e
quindi alla relativa causa concreta (cfr.
Cass., 23/05/2011, n. 11295).
Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.)
consente di accertare il significato
dell'accordo in coerenza appunto con la
relativa ragione pratica o causa concreta.
L'obbligo di buona fede oggettiva o
correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio
d'interpretazione del contratto (fondato
sull'esigenza definita in dottrina di
"solidarietà contrattuale") si specifica in
particolare nel significato di lealtà,
sostanziantesi nel non suscitare falsi
affidamenti e non speculare su di essi, come
pure nel non contestare ragionevoli
affidamenti comunque ingenerati nella
controparte (v. Cass., 06/05/2015, n. 9006;
Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass.,
25/05/2007, n. 12235; Cass., 20/05/2004, n.
9628).
A tale stregua esso non consente di dare
ingresso ad interpretazioni cavillose delle
espressioni letterali contenute nelle
clausole contrattuali, non rispondenti alle
intese raggiunte (v. Cass., 23/05/2011, n.
11295) e deponenti per un significato in
contrasto con la ragione pratica o causa
concreta dell'accordo negoziale (cfr., con
riferimento alla causa concreta del
contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez.
Un., 18/02/2010, n. 3947).
Assume dunque fondamentale rilievo che il
contratto venga interpretato avuto riguardo
alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in
coerenza con gli interessi che le parti
hanno specificamente inteso tutelare
mediante la stipulazione contrattuale (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701),
con
convenzionale determinazione della regola
volta a disciplinare il rapporto
contrattuale (art. 1372 c.c.)” (cfr., da
ultimo, Cassazione civile, sez. III,
19.03.2018, n. 6675).
3.6. Nel declinare le coordinate sopra
tracciate al caso di specie, l’indagine deve
prendere le mosse dal testo della
convenzione il cui articolo 1 prevede: “1)
Il Comune, come sopra rappresentato,
autorizza la Società “Al. S.p.A.” a
realizzare –a scomputo degli importi dovuti
per la costruzione della predetta multisala
a titolo monetizzazione conguaglio standard
(€ 512.991,07…), oneri di urbanizzazione (€
539.670,89 …), quali indicati nelle premesse
che precedono, e per un totale pari ad €
1.052.661,96 (…)– l’opera viabilistica
costituita dal ripristino provvisorio del
sottopasso carrabile di collegamento fra
Largo Boccioni e Via Stephenson, e
parcheggi. Il tutto, come da elaborato
progettuale allegato sub “G” e relativo
computo metrico estimativo verificato dai
competenti Uffici comunali pari ad €
2.326.932,78 …, allegato sub “H”, in
riepilogo. L’intervento verrà assentito con
il predetto permesso di costruire in fase di
rilascio per la realizzazione dell’edificio
multisala, e verrà eseguito secondo le
modalità indicate negli articoli che seguono”.
3.7. In relazione alla clausola in esame, il
Comune resistente sottolinea che:
- lo scomputo è espressamente riferito agli importi dovuti a titolo
di monetizzazione conguaglio standards e di
oneri di urbanizzazione e non menziona il
costo di costruzione;
- la circostanza che l’importo indicato a titolo di oneri di
urbanizzazione, pari a € 539.670,89,
comprenda anche la quota del costo di
costruzione, non è sufficiente a desumere la
volontà delle parti di ammettere lo scomputo
anche del costo di costruzione.
3.8. La tesi del Comune non pare convincente
in quanto fondata su una lettura atomistica
della sola parte della clausola che esclude
lo scomputo dei costi di costruzione, senza,
tuttavia, considerare la diversa indicazione
numerica che non può ridursi ad un mero
errore trattandosi esattamente della somma
risultante dalla sommatoria degli oneri di
urbanizzazione e del costo di costruzione.
3.9. In presenza di una clausola
contrattuale contenenti indicazioni non
univoche, occorre verificare –ai fini di
ricavare l’esatta intenzione delle parti–
se la componente erronea dello stessa
risieda nella indicazione dei soli oneri di
urbanizzazione o, al contrario e come
pretende il Comune, nell’importo complessivo
indicato.
3.10. Nel compiere tale operazione deve
tenersi conto dell’insegnamento della
Suprema Corte secondo cui: “in tema di
interpretazione del contratto, ai fini della
ricerca della comune intenzione dei
contraenti il principale strumento è
rappresentato dal senso letterale delle
parole e delle espressioni utilizzate nel
contratto, il cui rilievo deve essere
verificato alla luce dell'intero contesto
contrattuale, sicché le singole clausole
vanno considerate in correlazione tra loro,
dovendo procedersi al loro coordinamento a
norma dell'art. 1363 c.c., e dovendosi
intendere per "senso letterale delle parole"
tutta la formulazione letterale della
dichiarazione negoziale, in ogni sua parte
ed in ogni parola che la compone, e non già
in una parte soltanto, quale una singola
clausola di un contratto composto di più
clausole, dovendo il giudice collegare e
raffrontare tra loro frasi e parole al fine
di chiarirne il significato" (Cass. nn.
14460/2011; 4670/2009, 18180/2007, 4176/2007 e
28479/2005).
Di qui l'erroneità dell'esegesi
fissata esclusivamente su di una singola
parola o frase, astratta dal resto della
stessa o di altre clausole del contratto,
cui pure deve applicarsi il medesimo canone
interpretativo (Cassazione civile, sez. VI,
03.05.2018, n. 10478).
3.11. Incentrando la disamina sull’intero
contenuto della Convenzione, si osserva che
l’importo complessivo di € 539.670,89
(comprensivo, come detto, dei costi di
costruzioni) risulta riprodotto –come
dedotto dalla società ricorrente– sia nelle
premesse della Convenzione stessa che nelle
previsioni contenute negli articoli 2 e 4,
laddove viene indicato l’importo complessivo
scomputabile salvo conguagli. Invero, anche
in tali passaggi la convenzione indica un
importo che include gli oneri di costruzioni
pur senza farne espresso riferimento.
Tale
circostanza non risulta, tuttavia, decisiva
per escludere lo scomputo degli oneri di
costruzioni. Infatti, ove si accedesse ad
una simile interpretazione si terminerebbe
per disattendere il criterio dettato
dall’articolo 1369 c.c. che, come spiegato
in precedenza, impone di aver riguardo allo
scopo pratico perseguito dalle parti con la
stipulazione del contratto, riducendo tale
indicazione ad un mero lapsus calami:
situazione difficilmente ipotizzabile ove si
consideri la rilevanza dell’importo
economico in esame che, come tale, non pare
potersi ritenere alieno dal concerto
negoziale.
Su quest’ultimo aspetto deve,
inoltre, osservarsi che la tesi comunale si
fonda su un dato meramente letterale senza,
tuttavia, giustificare l’eliminazione di
tale voce dallo scomputo in ragione di un
minor valore delle opere che, del resto, non
rinviene alcuna evidenza nella
documentazione versata in atti. Al
contrario, risulta un maggior costo
dell’opera, rimasto a carico della società
ricorrente ai sensi dell’articolo 2 della
convenzione.
L’interpretazione suggerita dal
Comune finirebbe, quindi, per far gravare
sulla società un ulteriore maggior costo: la
ritenuta prevalenza del nomen iuris
sul dato numerico riportato nella
convenzione si tradurrebbe, quindi,
nell’evidente alterazione dell’equilibrio
delle posizioni della parti e, in fondo,
della stessa causa concreta che in parte
qua, l’operazione negoziale ha inteso
realizzare consentendo al Comune
l’acquisizione delle opere indicate dal
medesimo articolo 1 in ragione dello
scomputo previsto che, ove non comprensivo
dei costi di costruzione, diverrebbe una
mera locupletatio cum aliena iactura
senza chiara giustificazione causale.
3.12. Deve, inoltre, considerarsi che la
tesi comunale risulta difficilmente
armonizzabile con il disposto di cui
all’articolo 1366 c.c. che, come ricordato
nella Relazione al codice civile (n. 622),
costituisce “il punto di sutura” tra i due
momenti dell’interpretazione e “li domina
entrambi”.
Come spiegato in precedenza,
l'obbligo di buona fede oggettiva o
correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio
d'interpretazione del contratto “si
specifica in particolare nel significato di
lealtà, sostanziantesi nel non suscitare
falsi affidamenti e non speculare su di
essi, come pure nel non contestare
ragionevoli affidamenti comunque ingenerati
nella controparte (v. Cass., 06/05/2015, n.
9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass.,
25/05/2007, n. 12235; Cass., 20/05/2004, n.
9628).
A tale stregua esso non consente di
dare ingresso ad interpretazioni cavillose
delle espressioni letterali contenute nelle
clausole contrattuali, non rispondenti alle
intese raggiunte (v. Cass., 23/05/2011, n.
11295) e deponenti per un significato in
contrasto con la ragione pratica o causa
concreta dell'accordo negoziale (cfr., con
riferimento alla causa concreta del
contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez.
Un., 18/02/2010, n. 3947)” (cfr., ancora,
Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018,
n. 6675).
Infatti, l’interpretazione
suggerita dal Comune finisce per ledere
l’affidamento riposto dalla società
nell’integrale scomputo della somma indicata
in convenzione chiedendo alla stessa una
prestazione patrimoniale ulteriore fondata,
in sostanza, sull’unilaterale rimozione dal
testo della convenzione di parte degli
importi ivi indicati in ragione
dell’asserita prevalenza di una sola
porzione del testo negoziale e senza
corrispondenza con il programma perseguito
con questa parte dell’accordo.
3.13. Le considerazioni sin qui esposte
rinvengono una rilevante conferma nel testo
del permesso di costruire n. 85 del 2006 a
cui accede la convenzione integrativa sin
qui esaminata. Infatti, il titolo
espressamente prevede che “il conguaglio di
cui all’art. 16 – comma del DPR 380/2001, è
determinato in € 539.670,89, salvo
conguaglio, di cui: ○ € 131.826,61 = per
oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria; ○ € 407.844,28 = per contributo
costo di costruzione”.
Tale documento non
risulta privo di significato per
l’interpretazione della convenzione che,
come spiegato al precedente paragrafo 3.1.
rientra nel novero degli accordi tra privati
e pubblica Amministrazione. Evidente come
nel caso di accordo integrativo di
provvedimento, quest’ultimo concorre ad
individuare l’intenzione della parte
pubblica attesa l’intima connessione tra i
due atti giuridici. In tal senso, appare
certamente corretto quanto affermato dalla
società ricorrente che osserva come il
permesso di costruire espliciti in modo
inequivocabile che “l’importo di €
539.670,89, passibile di scomputo unitamente
alla monetizzazione degli standard ai sensi
dell’art. 1 (per l’importo di totale di €
1.052.661,96), era riferito sia agli oneri
di urbanizzazione sia al costo di
costruzione”.
3.14. Tale esplicitazione si rinviene anche
in altra parte del permesso considerato che
al foglio 2 del titolo si legge
testualmente: “in luogo del pagamento di
detti contributi e monetizzazione, nel
rispetto di quanto stabilito dalla
Convenzione […], con il presente atto la
Società AL. S.p.a. è autorizzata a
realizzare le seguenti opere pubbliche a
scomputo di detti importi”.
3.15. Deve, in ultimo, considerarsi che,
come ricordato di recente dal Consiglio di
Stato, “nell’interpretazione del contratto e
comunque di strumenti negoziali l’esegesi
letterale deve integrarsi con l’indagine
sulla volontà delle parti, come obiettivizzata nelle clausole, e che
quest’ultima è desumibile anche dal
comportamento complessivo delle parti, anche
successivo alla conclusione del contratto,
ai sensi dell’art. 1362 cod. civ. (cfr. tra
le tante e più recenti Cass. Civ., Sez. I,
07.09.2017, n. 20888, che
precisa come sia “…necessario considerare il
negozio nella sua complessità, raffrontare e
coordinare tra loro parole e frasi, al fine
di ricondurle ad armonica unità e
concordanza, in particolare in presenza di
un collegamento negoziale o di contenuti non
riconducibili ad una unica causa negoziale,
essendo allora necessario ricostruire la
concreta funzione economica dell'intera
operazione negoziale”)” (Consiglio di Stato,
sez. IV, 18.04.2018, n. 2327).
3.16. Osservando il comportamento successivo
delle parti, si nota che:
a) "il verbale di collaudo tecnico–amministrativo evidenzia come
le opere di urbanizzazione a scomputo della monetizzazione e del contributo siano
collaudabili” (v. documento n. 7 di parte
ricorrente, foglio 19);
b) il verbale di presa in consegna dell’opera redatto dal Comune di
Milano in data 17.12.2010 (PG
977873/2010) testualmente sottolinea che “in
data 12/04/2006 è stata stipulata la
Convenzione Integrativa del permesso di
costruire n. 5 del 11/05/06… per la
disciplina dell’esecuzione di opere a
scomputo del contributo di costruzione e
della monetizzazione determinati dal
permesso di costruire medesimo”.
3.17. Pertanto, anche dalla disamina dei due
documenti successivi alla convenzione –e in
particolare nel documento indicato sub 3.16,
lettera b), redatto dal Comune- si conferma
che l’intenzione delle parti è quella di ricomprendere nello scomputo anche i costi
di costruzione.
4. In conclusione, i primi due motivi di
ricorso devono essere accolti con
conseguente declaratoria del diritto della
società di fruire dello scomputo del costo
di costruzione dovuto per la realizzazione
della multisala cinematografica assentita
con il Permesso di Costruire n. 85/2006 cui
accede la citata Convenzione e
dell’insussistenza del diritto di credito
fatto valere dal Comune di Milano con la
nota PG 584840/2016 del 17.11.2016.
5. Passando all’esame della domanda svolta
al paragrafo c) del ricorso introduttivo, si
osserva che l’importo di € 321.205,72,
richiesto dal Comune, corrisponde –per
difetto– alla differenza tra l’importo di €
455.427,38, dovuto a titolo di costo di
costruzione per la multisala e l’importo di
€ 134.661,65 versato in eccedenza da
Al. (€ 455.427,38 - € 134.661,65 =
321.205,72), per smaltimento dei rifiuti.
5.1. La constatazione sopra esposta consente
agevolmente di accertare la sussistenza del
diritto della Al. alla restituzione
dell’importo pari ad € 134.221,65, versato
in eccedenza dalla società a titolo di
contributo per lo smaltimento rifiuti.
5.2. Del resto, lo stesso provvedimento
impugnato indica l’importo dovuto per lo
smaltimento rifiuti come pari ad €
14.250,20. Anche la memoria difensiva
comunale osserva che la domanda di
restituzione si fonda “sull’interpretazione
della convenzione sostenuta dalla ricorrente
[…] che vorrebbe estendere lo scomputo al
costo di costruzione dell’intervento
relativo alla sala cinematografica”,
ritenendo, pertanto l’importo versato a
detrazione di quanto asseritamente ancora
dovuto. Di conseguenza, accertata
l’insussistenza del diritto di credito del
Comune di Milano pari ad € 455.427,38, a
titolo di costo di costruzione per la
multisala, consegue l’obbligo di
restituzione della somma in eccesso versata
dalla società ricorrente.
5.3. La domanda di restituzione
dell’indebito deve essere, pertanto, accolta
con condanna del Comune di Milano a
restituire alla società l’importo pari ad €
134.221,65, oltre interessi legali dal
giorno della domanda giudiziale.
5.4. La limitazione della decorrenza degli
interessi legali dal giorno della domanda
discende dall’espressa riduzione della
domanda da parte della società ricorrente
che nelle conclusioni rassegnate nel ricorso
introduttivo chiede di “condannare il Comune
di Milano a rimborsare ad Al. l’importo
pari a € 134.221,65 con maggiorazione degli
interessi legali dal dì della domanda al
saldo, ovvero quella che sarà ritenuta di
giustizia”.
La formula finale non si
riferisce, infatti, alla decorrenza
dell’interessi ma all’importo della somma
capitale. Lo conferma la proposizione che
chiude il motivo sub c) con la quale la
società afferma: “l’importo versato in
eccedenza, pari ad € 134.221,65, dovrà
essere restituito maggiorato degli interessi
legali dalla data della presente domanda al
dì del saldo, in applicazione di quanto
disposto dall’art. 2033 c.c. (ex multis TAR
Lombardia-Milano, sez. IV, 16.07.2013,
n. 1872; Cons. Stato, sez. IV, 20.05.2011, n. 3027)”.
Pertanto, verificato il
contenuto sostanziale della pretesa, deve
ritenersi che la società abbia limitato la
decorrenza degli interessi dalla data della
domanda giudiziale.
5.5. In ogni caso, si osserva che –pur non
volendo ritenere la domanda limitata in
punto decorrenza degli interessi– non
sussisterebbe il diritto della società di
conseguire gli stessi dalla data del
pagamento tenuto conto che:
- costituisce principio consolidato quello secondo cui, nella
ripetizione dell'indebito oggettivo ex art.
2033 c.c., il debito dell'accipiens, a meno
che egli non sia in mala fede, produce
interessi solo a seguito della proposizione
di un'apposita domanda giudiziale, atteso
che all'indebito si applica la tutela
prevista per il possessore in buona fede in
senso soggettivo dell'art. 1148 c.c., a
norma del quale questi è obbligato a
restituire i frutti soltanto della domanda
giudiziale, secondo il principio per il
quale gli effetti della sentenza
retroagiscono al momento della proposizione
della domanda (cfr. ex multis, Cass. 18.05.2016, n. 10161; 13.05.2016, n.
9934; 30.03.2015, n. 6401; 25.02.2014, n. 4436;
08.05.2013, n. 10815; 15.06.2012, n. 9845; 31.07.2009, n.
17848, la quale precisa che la buona fede
sussiste anche in presenza di dubbio circa
la debenza della somma corrisposta; 02.08.2006, n. 17558; 10.03.2005, n. 5330;
04.03.2005, n. 4745; 14.09.2004, n.
18518; 28.01.2004, n. 1581);
- nell'ipotesi di azione di ripetizione di indebito oggettivo ex
art. 2033 c.c., pertanto, in parziale deroga
rispetto a quanto previsto sia all'art.
1282, che all'art. 1224 c.c., il debito
dell'accipiens, pur avendo ad oggetto una
somma di denaro liquida ed esigibile, non
produce interessi a partire dal momento del
pagamento, a meno che l'accipiens non sia in
mala fede;
- si deve, dunque, avere riguardo all'elemento psicologico
esistente alla data di riscossione della
somma, a meno che il creditore non provi la
mala fede dell'accipiens: con la
precisazione che, anche in questo campo, la
buona fede si presume, ed essa può essere
esclusa soltanto dalla prova della
consapevolezza da parte dell'accipiens della
insussistenza di un suo diritto a ricevere
il pagamento (così Cass. 10.03.2005, n.
5330);
- nel caso di specie, alcuna evidenza in ordine alla mala fede del
Comune è stata fornita in giudizio con
conseguente piena operatività della
presunzione di buona fede. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione
in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due
titoli edilizi assentiti (concessione originaria e
variante), scomputando quanto già pagato al momento del
rilascio del titolo originario.
Per la concessione in
variante, però, la quota percentuale della parte del
contributo commisurato al costo di costruzione delle opere
ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle
norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa
e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono
oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e
quantificate) al momento del rilascio della concessione
originaria.
Con la concessione in variante il Comune deve
quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il
corrispondente contributo non in relazione all'intero
complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle
sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la
concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo
parametro vigente al momento del rilascio del titolo in
variante.
Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da
quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già
versata dalla società ricorrente.
---------------
Con ricorso notificato in data 09.09.2015 e depositato il
successivo 22 settembre, la Fi.In.In. Società di Gestione del Risparmio S.p.A. (di
seguito SGR) ha chiesto la condanna del Comune di Campobasso
al pagamento della somma di euro 250.691,86, oltre interessi
e rivalutazione monetaria, che la società afferma di aver
versato al Comune a titolo di oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione, in realtà non dovuti.
La ricorrente premette di gestire un fondo denominato “AM Sv.Im.” titolare di un complesso edilizio sito
in località Vazzieri e individuato nel Catasto Fabbricati
del Comune di Campobasso al foglio 60, mappale 1086,
edificato su un terreno originariamente individuato al
catasto terreni particelle 1032-1033-907-908.
Su tale
terreno veniva realizzato un complesso edilizio composto da
due edifici (denominati “fabbricato A” e “Fabbricato B”) in
esecuzione del predetto Piano di lottizzazione approvato con
delibera del 01.04.2003, n. 24 che recepiva la
convenzione con cui la società ricorrente si impegnava ad
eseguire direttamente le opere di urbanizzazione primaria a
scomputo dei relativi oneri.
Secondo quanto ulteriormente rappresentato, il Comune
rilasciava i relativi permessi di costruire per i quali
veniva corrisposta la somma di euro 167.903,00 a titolo di
oneri di urbanizzazione secondaria ed euro 286.916,50 a
titolo di costo di costruzione, mentre nulla veniva
corrisposto per oneri di urbanizzazione primaria in quanto
le relative opere venivano realizzate direttamente dalla
società ricorrente a scomputo della somma dovuta per oneri
di urbanizzazione primaria.
Ciò premesso, parte ricorrente rileva di aver proposto nel
corso della realizzazione delle opere una serie di varianti
e di aver realizzato opere di urbanizzazione di portata
molto maggiore rispetto a quelle previste sulla base del
progetto originario, trovandosi poi, su richiesta del
Comune, a dover corrispondere, con riserva di ripetizione,
anche le somme relative ai costi di urbanizzazione per una
somma che non sarebbe stata dovuta e ammontante ad euro
250.691,86.
La SGR agisce pertanto con il presente giudizio per chiedere
la restituzione delle somme asseritamente versate in eccesso
sulla base dei seguenti motivi.
...
Ciò premesso sul piano fattuale può passarsi allo scrutinio
del merito del giudizio che si incentra sulla determinazione
della somma che la SGR doveva effettivamente versare per la
realizzazione delle opere oggetto di causa. La SGR ritiene
che l’importo da corrispondere vada calcolato sulla base di
quanto concretamente realizzato e della destinazione
impressa alle aree oggetto di edificazione.
In particolare
la SGR afferma di aver direttamente realizzato sulla base
della convenzione di lottizzazione approvata con la delibera
del consiglio comunale del 01.04.2003, n. 24 tutte le
opere di urbanizzazione primaria e che pertanto dall’importo
dovuto per gli oneri di urbanizzazione andasse scomputato il
valore delle opere di urbanizzazione già realizzate oltre
che gli importi versati per costo di costruzione e oneri di
urbanizzazione secondaria.
Dal proprio canto l’Amministrazione comunale sostiene quanto
alle DIA eseguite in variante dalla ricorrente ai sensi del
Piano casa che le leggi regionali n. 30/2009 e 25/2008
subordinerebbero la premialità prevista nel ripetuto Piano
casa al pagamento integrale degli oneri, in quanto
costituenti un quid novi comportante un carico urbanistico
ulteriore, i cui oneri non possono essere scomputati dalla
somma già versata per la superficie originaria.
Giova rammentare che ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n.
380/2001: <<1. Salvo quanto disposto all'articolo 17, comma
3, il rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione, secondo le modalità indicate nel presente
articolo.
2. La quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione va corrisposta al comune all'atto del
rilascio del permesso di costruire e, su richiesta
dell’interessato, può essere rateizzata. A scomputo totale o
parziale della quota dovuta, il titolare del permesso può
obbligarsi a realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione, nel rispetto dell'articolo 2, comma 5, della
legge 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni,
(ora art. 1, comma 2, lett. e) e art. 36, commi 3 e 4,
d.lgs. n. 50 del 2016) con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, con conseguente acquisizione delle
opere realizzate al patrimonio indisponibile del comune…4.
L'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio
comunale in base alle tabelle parametriche che la regione
definisce per classi di comuni in relazione:
a) all'ampiezza ed all'andamento demografico dei comuni;
b) alle caratteristiche geografiche dei comuni;
c) alle destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici
vigenti;
d) ai limiti e rapporti minimi inderogabili fissati in applicazione
dall'articolo 41-quinquies, penultimo e ultimo comma, della
legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modifiche e
integrazioni, nonché delle leggi regionali;
d-bis) alla differenziazione tra gli interventi al fine di
incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore
densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia
di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), anziché quelli
di nuova costruzione;
d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi
su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con
cambio di destinazione d'uso. Tale maggior valore, calcolato
dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non
inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata
ed è erogato da quest'ultima al comune stesso sotto forma di
contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico,
in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di
costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da
realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione
di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica
utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche>>.
Dall’altra parte l’art. 9, co. 3, della legge regionale 11.12.2009, n. 30 prevede che <<È dovuto per intero il
contributo per gli oneri di urbanizzazione per gli
interventi di mutamento di destinazione d'uso di cui
all'articolo 2, commi 9 e 10, ed all'articolo 3, comma 6>>.
Ora, secondo l’Amministrazione resistente tale ultima norma
implicherebbe che quanto già versato per gli oneri di
urbanizzazione non debba essere computato e debba, invece,
essere calcolato per intero il costo di costruzione e gli
oneri di urbanizzazione delle varianti, senza tener conto di
quanto già pagato per il progetto originario; parte
ricorrente ritiene invece che l’importo da versare non possa
prescindere dal conguaglio con quanto già versato.
Tra le due impostazioni il Tribunale ritiene che
quest’ultima sia quella corretta.
Il Collegio aderisce
infatti all’impostazione giurisprudenziale preferibile
secondo cui <<il contributo per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione
in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due
titoli edilizi assentiti (concessione originaria e
variante), scomputando quanto già pagato al momento del
rilascio del titolo originario. Per la concessione in
variante, però, la quota percentuale della parte del
contributo commisurato al costo di costruzione delle opere
ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle
norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa
e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono
oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e
quantificate) al momento del rilascio della concessione
originaria. Con la concessione in variante il Comune deve
quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il
corrispondente contributo non in relazione all'intero
complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle
sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la
concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo
parametro vigente al momento del rilascio del titolo in
variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da
quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già
versata dalla società ricorrente>> (cfr. TAR Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n. 780).
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che per effetto
delle varianti richieste ed ottenute a norma del Piano casa,
la SGR avrebbe dovuto pagare nuovamente e per intero tutti
gli oneri di urbanizzazione ivi inclusi quelli già
corrisposti ovvero quelli di valore corrispondente alle
opere realizzate, significherebbe riconoscere alla
previsione della legge regionale una portata sanzionatoria
che essa invece obiettivamente non presenta, come confermato
dall’art. 1 della legge della Regione Molise 11.12.2009, n. 30 a mente del quale: <<La Regione promuove misure
straordinarie per il sostegno del settore edilizio,
attraverso interventi finalizzati al miglioramento della
qualità abitativa, per preservare, mantenere, ricostruire e
rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, promuovere
l'edilizia economica per le giovani coppie e le categorie
svantaggiate e meno abbienti e l'edilizia scolastica nonché
per migliorare le caratteristiche architettoniche,
energetiche, tecnologiche e di sicurezza dei fabbricati>>.
Le disposizioni premiali di cui alla citata normativa hanno
carattere straordinario e rispondono alla dichiarata
finalità di riqualificare il patrimonio edilizio e
contrastare la grave crisi economica e di tutelare i livelli
occupazionali attraverso il rilancio delle attività
edilizie, da attuare sui singoli edifici, in deroga agli
strumenti urbanistici vigenti, in relazione ad un arco di
tempo limitato, con casi di esclusione ben determinati (cfr.
TAR Campania, sez. II, n. 1502/2013).
Stando così le cose una previsione del tipo di quella
prefigurata dal Comune resistente che imponesse a chi
intenda giovarsi della premialità prevista dalla legge di
pagare nella sostanza due volte i medesimi oneri di
urbanizzazione, si porrebbe in aperto contrasto con la
finalità agevolativa e non sanzionatoria sottesa
all’intervento normativo in considerazione.
Ne consegue, in accoglimento di quanto prospettato da parte
ricorrente, che gli oneri di urbanizzazione corrisposti
dalla ricorrente al resistente Comune o comunque derivanti
dal valore delle opere direttamente realizzate in virtù
della convenzione di urbanizzazione devono essere detratti
da quanto corrisposto in aumento al medesimo Comune per
effetto delle varianti apportate.
Pertanto il Collegio, al fine di determinare in concreto
l’eventuale somma da restituire alla ricorrente, reputa
necessario disporre una verificazione ai sensi dell’art. 66
c.p.a. che, alla luce delle tabelle adottate dal Comune di
Campobasso ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 e
dei titoli edilizi abilitativi in variante rispetto al
progetto originario:
1) determini la somma effettivamente dovuta da parte
ricorrente al Comune di Campobasso per oneri di
urbanizzazione primaria, secondaria e per costi di
costruzione, tenendo conto delle varianti introdotte al
progetto originario;
2) scomputi dalla somma così determinata il valore degli
oneri di urbanizzazione primaria realizzati, e la somma già
versata da parte ricorrente per gli oneri di urbanizzazione
secondaria e per i costi di costruzione;
3) individui la somma eventualmente in eccesso corrisposta
al Comune di Campobasso da parte ricorrente sulla base del
criterio, più volte esplicitato nella presente decisione,
per cui gli oneri di urbanizzazione (primaria e secondaria)
e i costi di costruzione devono essere versati una sola
volta, anche nel caso di varianti introdotte in forza della
normativa premiale del Piano casa.
Tale incombente è posto a carico del Direttore del
Provveditorato alle Opere pubbliche per l’Abruzzo, il Lazio
e la Sardegna, con facoltà di delega in favore di un
qualificato funzionario della medesima Amministrazione, che
provveda a redigere una relazione al quesito sopra
prospettato.
Il predetto verificatore, nel contraddittorio delle parti
costituite, provvederà alla disamina della documentazione in
atti e a redigere una dettagliata e motivata relazione volta
ad illustrare le conclusioni che riterrà di rassegnare.
La relazione corredata dagli atti amministrativi di
riferimento, eventuali prospetti e rilievi (per i quali si
potrà, se del caso, utilizzare anche quelli versati in
atti), dovrà essere depositata, anche in formato digitale,
presso la Segreteria entro il termine di 60 giorni dalla
comunicazione della presente ordinanza.
Il compenso spettante al verificatore, ai sensi
dell'articolo 66, comma 4, cod. proc. amm., verrà liquidato
dopo l'espletamento dell'incarico.
Si rinvia pertanto alla sentenza definitiva la
determinazione dell’eventuale somma che il Comune di
Campobasso dovrà corrispondere in ripetizione alla
ricorrente (TAR Molise,
sentenza non definitiva 05.03.2018 n. 114 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R.
Cartasegna,
Anche la Regione Piemonte partecipa alla “demolizione”
(incostituzionale?) del D.M. n. 1444/1968 (11.11.2018).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
Riuso dell’edificato, dal Governo una “bocciatura di fatto” della nuova
legge del Piemonte (23.11.2018 - link a
www.casaeclima.com). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle
Entrate, 23.11.2018). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Conclusione del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13
della l.r. 33/2015, durante il quale è consentito il deposito della
documentazione di cui all’art. 6 della medesima L.R. 33/2015 e ss.mm.ii. in
formato sia elettronico che cartaceo, prorogato dal D.d.u.o. 21.05.2018 - n.
7262 (B.U.R.L. Serie Ordinaria n. 21 - 24.05.2018) (Regione
Lombardia,
nota 21.11.2018 n. 27479 di prot.). |
COMPETENZE
PROGETTUALI: Oggetto:
competenze professionali Dottori agronomi e forestali; inesistenza di
competenze esclusive nel settore delle valutazioni arboree. Consiglio di
Stato n. 6290/2018 - TAR Veneto n. 440/2018
(Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati,
nota 08.11.2018 n. 4998 di prot.). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Comitato dei garanti, art. 22 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 -
indirizzi alle amministrazioni in materia di procedimenti per responsabilità
dirigenziale (Comitato dei garanti,
nota-circolare
01.10.2018 n. DFP_CG-0000004 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R.
Cartasegna,
Anche la Regione Piemonte partecipa alla “demolizione”
(incostituzionale?) del D.M. n. 1444/1968 (11.11.2018).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
Riuso dell’edificato, dal Governo una “bocciatura di fatto” della nuova
legge del Piemonte (23.11.2018 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI: G.
Quinto,
Illegittimità
ella clausola che richieda, a pena di esclusione, il possesso congiunto e
non alternativo delle certificazioni “ISO 14001" ed “EMAS”
(09.11.2018 - tratto da www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La
difesa in giudizio è un appalto di servizi, anche se limitata a singole
vertenze episodiche
(08.11.2018 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento
di servizi legali: le Linee Guida Anac. Le Linee Guida n. 12 dell'ANAC in
materia di affidamenti di appalti legali e di incarichi agli avvocati dalle
Pubbliche Amministrazioni
(07.11.2018 - link a www.giurdanella.it). |
A.N.AC. |
APPALTI: Chiarimenti
bando tipo n. 3 - Schema di disciplinare di gara per
l’affidamento di servizi di architettura e ingegneria di importo pari o
superiore ad € 100.000 con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.
Pubblicati i chiarimenti nn. 1 e 2 sulla clausola del punto 7.4 del Bando –
tipo n. 3 relativi:
- il primo al divieto di frazionamento dei due servizi di
punta
- il secondo al possesso dei requisiti in misura
maggioritaria da parte della mandataria
(19.11.2018 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Indicazioni
alle stazioni appaltanti sull’applicabilità dell’art. 40, comma 2, del
Codice dei contratti pubblici agli acquisti di importo inferiore a 1.000
euro
(Comunicato
del Presidente 30.10.2018 - link a www.anticorruzione.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Linee
guida n. 12 - Affidamento dei servizi legali (delibera
24.10.2018 n. 907 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Il Consiglio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha approvato, con la
Delibera n. 907 del 24.10.2018, le Linee guida n. 12 che forniscono
chiarimenti sulle procedure da seguire per l’affidamento dei servizi legali
alla luce della nuova disciplina contenuta nel Codice dei contratti pubblici
(decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Le Linee guida entreranno in vigore quindici giorni dopo la
loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
---------------
"I. La natura delle linee guida adottate da Anac sull’affidamento dei
servizi legali.
Le linee guida in esame sono state adottate dall’Autorità nell’esercizio del
potere di regolazione riconosciutole dall’art. 213, comma 2, decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
Si è avvertita l’esigenza di intervenire per l’esistenza di dubbi
interpretativi insorti negli operatori del settore in seguito all’entrata in
vigore del nuovo codice dei contratti pubblici che ha profondamente innovato
la materia dell’affidamento dei servizi legali, oltre che per la riscontrata
disomogeneità dei procedimenti amministrativi seguiti dalle diverse
amministrazioni per l’affidamento dei servizi in questione.
Si tratta, dunque, di linee guida non vincolanti
che, alla luce dei criteri generali già definiti dal Consiglio di Stato
(comm. spec., parere 01.04.2016, n. 855), hanno natura di provvedimenti
amministrativi. ..." (Consiglio di Stato, Commissione speciale,
parere 03.08.2018 n. 2017). |
ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuova disciplina delle posizioni / Può un ente
decidere, autonomamente, di ridurre per un anno lo stanziamento delle
risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione e di
risultato delle posizioni organizzative, ai sensi dell’art. 15, comma 5, e
dell’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2017, per
avvalersi della facoltà di incrementare, nello stesso anno, il Fondo delle
risorse decentrate del personale, di cui all’art. 15, comma 7, del medesimo
CCNL del 21.05.2018?
Successivamente, potrà ripristinare l’originario ammontare dello
stanziamento di cui si tratta? Quale modello di relazioni sindacali è
necessario rispettare?
Relativamente a tale problematica, non sembrano sussistere impedimenti
contrattuali a che un ente riduca per un periodo definito, ad esempio per un
anno, lo stanziamento delle risorse destinate nel 2017 al finanziamento
della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative
previste dall’ordinamento dell’ente, ampliando in tal modo le possibilità di
incrementare, per quell’anno, le risorse del Fondo del personale (previo
confronto sindacale, ai sensi dell’art. 5, comma 2, lett. g), del CCNL del
21.05.2018 e utilizzando gli strumenti dell’art. 67 del medesimo CCNL del
21.05.2018).
L’anno, successivo, invece, l’ente potrà ripristinare lo stanziamento delle
risorse destinate nel 2017 al finanziamento delle posizioni organizzative,
senza necessità di ricorso alla contrattazione integrativa, come previsto
dall’art. 7, comma 3, lett. u), del CCNL del 21.05.2018.
Infatti, l’intervento della contrattazione integrativa, sulla base della
formulazione testuale della disciplina contrattuale, deve ritenersi
necessario solo nell’ipotesi di incremento delle risorse destinate al
finanziamento delle posizioni organizzative che vada al di là dell’ammontare
complessivo di quelle che, ai sensi dell’art. 15, comma 5, e dell’art. 67,
comma 1, del CCNL del 21.05.2018, sono state originariamente stornate dal
fondo nell’anno 2018 (anno di partenza del nuovo fondo ex art. 67 del CCNL
del 21.05.2018 ) e sono state vincolate al finanziamento della retribuzione
di posizione e di risultato delle posizioni organizzative (orientamento
applicativo 08.11.2018 CFL 38 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Previdenza
complementare / In relazione alle previsioni
dell’art. 56-quater del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, sussiste
l’obbligo di aderire al fondo di previdenza complementare Perseo-Sirio
oppure è fatta salva la volontà del lavoratore di poter aderire a diverse
forme pensionistiche individuali?
Qualora sussista l’obbligo di adesione al
fondo di previdenza complementare Perseo-Sirio, vi è anche l’obbligo
contestuale di far confluire il TFR o il TFS nello stesso fondo?
Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) a decorrere dal giorno successivo alla data di sottoscrizione
del CCNL del 21.05.2018 delle Funzioni Locali, l’art. 56-quater ha
individuato il Fondo Perseo-Sirio quale unico fondo destinatario delle
risorse derivanti dai proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie
riscosse dagli enti, nella quota da questi determinata, ai sensi dell’art. 208,
commi 4, lett. c), del D.Lgs. n. 285/1992 e destinata a tale finalità. Nel
contempo, la nuova disciplina non esclude che siano mantenute le posizioni
individuali eventualmente già esistenti presso altre forme pensionistiche
complementari e le relative risorse pregresse già confluite, nel rispetto
delle scelte ed autonome determinazioni individuali degli interessati;
b) l’obbligo di destinare le risorse di cui alla precedente lett. a)
al Fondo Pensione Perseo non comporta anche l’obbligo di conferire allo
stesso quota parte o la totalità del TFR, né la trasformazione del TFS in
godimento in TFR (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 36 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Orario
di lavoro / Alla luce delle previsioni dell’art. 27
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente l’orario di lavoro
flessibile, gli eventuali crediti residui risultanti a fine mese possono
essere utilizzati per compensare debiti orari del mese successivo?
Se a fine
mese il dipendente ha un saldo negativo tra crediti e debiti orari,
derivanti dall’utilizzo delle fasce di flessibilità, si deve procedere alla
decurtazione della retribuzione?
L’art. 27, comma 3, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nell’ambito
della disciplina dell’orario di lavoro flessibile, espressamente dispone “3.
L’eventuale debito orario derivante dall’applicazione del comma 1, deve
essere recuperato nell’ambito del mese di maturazione dello stesso, secondo
le modalità e i tempi concordati con il dirigente.”.
Innanzitutto, giova precisare che il mese considerato dalla clausola
contrattuale è il mese di calendario.
In ordine, poi, al vincolo per cui l’eventuale debito orario derivante dalla
fruizione da parte del lavoratore di spazi di flessibilità oraria, in
entrata o in uscita, deve essere recuperato nel mese di maturazione,
l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che esso non abbia una portata
assoluta, ma, possa, entro certi limiti, essere derogato.
A tal fine, viene, innanzitutto, in considerazione la fattispecie
dell’eventuale sopraggiungere di un impedimento, oggettivo ed imprevisto,
che non consenta al lavoratore il recupero orario entro il mese di
maturazione del debito orario.
Ad esempio, una malattia insorta che si protragga per una durata tale nel
mese da non consentire la prestazione dovuta entro il termine prestabilito.
Oppure, anche l’ipotesi, ugualmente avente carattere di eccezionalità, della
fruizione della flessibilità oraria proprio nell’ultimo giorno del mese.
In questi casi, si ritiene possibile lo slittamento del termine al mese
successivo a quello di maturazione.
Sarà cura del dirigente concordare con il dipendente le modalità temporali
per garantire il recupero della prestazione dovuta ed evitare ulteriori
dilazioni del termine stesso.
Una altra fattispecie di possibile deroga può essere rappresentata dalla
necessità di soddisfare specifiche ed oggettive esigenze organizzative
dell’ente stesso.
Infatti, la scelta contrattuale, per cui il recupero del debito orario deve
avvenire entro il mese di maturazione del debito stesso, è finalizzata a
salvaguardare le esigenze organizzative e gestionali degli enti a fronte
della fruizione da parte del lavoratore di forme di flessibilità oraria, che
si sono comunque tradotte in una ridotta prestazione lavorativa nel corso
del mese.
Proprio per tale specifica finalizzazione, si ritiene che l’ente possa
decidere di concordare con il dipendente modalità di recupero del debito
orario anche nel mese successivo a quello di maturazione, ove una tale
opzione corrisponda ad una effettiva necessità di soddisfare future,
specifiche e precise esigenze organizzative ed operative dell’ente.
Occorre, tuttavia, sempre una certa prudenza nei comportamenti derogatori
del datore di lavoro pubblico.
Infatti, l’art. 27, comma 3, del CCNL del 21.05.2018, disciplinando un
particolare aspetto del rapporto di lavoro, ha inteso anche dettare una
regola unica e uniforme, a garanzia della trasparenza ed imparzialità dei
comportamenti datoriali nei confronti di tutti i lavoratori.
Pertanto, eventuali deroghe alla regola generale potrebbero, ove non
effettivamente giustificate, rappresentare il presupposto per la
formulazione di richieste emulative da parte di tutti i dipendenti,
comunque, potenzialmente interessati.
In tal modo, gli spazi ritenuti consentiti per una possibile deroga al
vincolo contrattuale, ai fini della soddisfazione di specifici interessi
dell’ente, finirebbero per ampliarsi per assumere così il carattere di
regola generale.
In ordine al secondo problema posto, si esprimono perplessità sulla stessa
ammissibilità di spazi di flessibilità positiva non collegati al recupero di
quelli negativi.
Infatti, al di fuori di tale fattispecie, la flessibilità positiva finisce
con l’identificarsi con eventuale tempo di lavoro prestato, comunque, dal
lavoratore, oltre i limiti di durata ordinaria della giornata lavorativa.
Tale aspetto assume un particolare rilievo, in quanto trattandosi di
prestazioni ulteriori, rispetto all’orario ordinario, potrebbe configurarsi
come orario di lavoro straordinario.
Pertanto, lo stesso non solo dovrebbe corrispondere a precise esigenze
organizzative dell’ufficio ma dovrebbe essere, sempre, preventivamente
autorizzato dal dirigente, secondo le regole generali.
Prestazioni lavorative che il personale potrebbe rendere in più, rispetto
all’orario ordinario dovuto nell’arco temporale di riferimento, nell’ambito
della cosiddetta flessibilità positiva ipotizzata, sostanzialmente secondo
esigenze personali, potrebbero determinare una forma patologica di
applicazione dell’istituto, con il rischio anche di ricadute negative ed
impreviste sull’entità delle risorse destinate al pagamento del lavoro
straordinario.
Infatti, proprio per questo aspetto, il lavoro straordinario deve essere
sempre preventivamente autorizzato, come detto, dal dirigente o comunque dal
responsabile del servizio.
Occorre, poi, ricordare anche che l’art. 38, comma 7, del CCNL del
14.09.2000, prevede espressamente che, solo su specifica richiesta in tale
senso del dipendente, le prestazioni di lavoro straordinario effettivamente
rese, in luogo del pagamento del relativo compenso, possono dare luogo a
riposo compensativo, da fruire compatibilmente con le esigenze organizzative
e di servizio (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 35 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità
disciplinare / In caso di applicazione della
sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione dalla
retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di sei mesi, ai sensi dell’art. 59,
comma 8, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, deve essere ancora
corrisposta l’indennità di cui all’art. 3, comma 6, del CCNL dell’11.04.2008?
In caso di applicazione delle sanzioni disciplinari di cui all’art. 59, commi
5, 6 e 7, del CCNL del 21.05.2018, deve essere applicata la medesima
disciplina?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene utile
evidenziare che la nuova disciplina in materia di codice disciplinare (art. 59
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018) non ha previsto, per nessuna
delle fattispecie ivi previste di sanzione della sospensione dal servizio
con privazione della retribuzione, l’erogazione dell’indennità cosiddetta
“alimentare“, a prescindere dalla durata della sospensione.
Infatti, è stata espressamente abrogata la previsione dell’art. 3, comma 6,
ultimo periodo, del CCNL dell’11.04.2008, che, per il caso della sospensione
dal lavoro con privazione della retribuzione da 11 giorni a sei mesi,
disponeva che: “Nella sospensione dal servizio prevista dal presente comma,
il dipendente è privato della retribuzione fino al decimo giorno mentre, a
decorrere dall’undicesimo, viene corrisposta allo stesso una indennità pari
al 50% della retribuzione indicata all’art. 52, comma 2, lett. b)
(retribuzione base mensile) del CCNL del 14.09.2000 nonché gli assegni del
nucleo familiare ove spettanti. Il periodo di sospensione non è, in ogni
caso, computabile ai fini dell’anzianità di servizio” (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 34 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici / L’art. 35, comma 5, del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018 stabilisce che i permessi per l’espletamento
di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, ove
fruiti cumulativamente per una intera giornata lavorativa, comportano una
riduzione del monte ore annuo di 18 ore a disposizione del dipendente pari
alla durata dell’orario di lavoro che il dipendente stesso avrebbe dovuto
osservare nella giornata di assenza.
Come raccordare tale disciplina con le
assenze previste dall’art. 55-septies, comma 5-ter, del D.Lgs. n. 165/2001,
per le quali non è previsto alcuna limitazione annuale?
Come applicare la
regola del riproporzionamento delle ore annuali di permesso spettanti al
dipendente nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale?
È necessario preliminarmente chiarire che l’art. 35 del CCNL del 21.05.2018
introduce un’organica ed esaustiva disciplina in materia di “assenze per
l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici”, che non si pone in contrasto, né su un piano diverso, rispetto
alla previsione normativa dell’art. 55-septies del d.lgs. 165/2001.
In coerenza con l’atto di indirizzo impartito all’A.RA.N., tale disciplina
contrattuale intende invece regolare organicamente ed esaustivamente una
tipologia di assenze, che la normativa di legge prende in considerazione
solo per un aspetto limitato (la giustificazione del permesso). Il contratto
collettivo nazionale, svolgendo pienamente la sua funzione regolatoria in
materia di rapporto di lavoro, si pone dunque in diretta continuità con la
disposizione di legge, anche al fine di dare ad essa contorni più definiti.
Più specificamente, la disciplina contrattuale in esame introduce, in primo
luogo, una nuova tipologia di permessi, prima non prevista dai CCNL, per
effettuare visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici.
Tali assenze si differenziano dalla malattia, pur essendo a questa
assimilabili, in quanto non caratterizzate da patologia in atto o incapacità
lavorativa. L’effettuazione di una terapia, di una visita o di un esame
diagnostico, come pure il ricorso a prestazioni specialistiche, anche con
finalità di mera prevenzione, vengono quindi a costituire il titolo che
determina l’insorgenza del diritto all’assenza in oggetto, che va pertanto
giustificata solo con la relativa attestazione di presenza.
Per tale prima tipologia di assenza, riconducibile più propriamente alla
nozione di “permesso”, viene previsto un plafond annuo di 18 ore.
Per esigenze di completezza della disciplina e per regolare organicamente
tutte le possibili fattispecie di assenze per l’espletamento di visite,
terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, l'articolo in
questione disciplina anche altre e diverse casistiche.
Si tratta, in particolare:
- del caso in cui la visita, l’esame o la terapia siano concomitanti ad una
situazione di incapacità lavorativa conseguente ad una patologia in atto
(comma 11);
- del caso in cui l'incapacità lavorativa sia determinata dalle
caratteristiche di esecuzione e di impegno organico di visite, accertamenti,
esami o terapie (comma 12);
- del caso in cui, a causa della patologia sofferta, il dipendente debba
sottoporsi, anche per lunghi periodi, ad un ciclo di terapie implicanti
incapacità lavorativa (comma 14).
Tutti e tre i casi in questione sono caratterizzati da uno stato di
incapacità lavorativa. Per questo specifico aspetto, essi si differenziano,
dunque, dai permessi regolati negli altri commi, presentando una più diretta
riconducibilità alla nozione di malattia (“la relativa assenza è imputata a
malattia”). Conseguentemente, in tali casi, l’assenza non è fruibile ad ore
e non vi è riduzione del monte ore annuo di 18 ore.
Relativamente alla fruizione delle 18 ore di permesso annuo di cui si
tratta, nei casi di rapporto a tempo parziale, si avrà:
- rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale: si procede al
riproporzionamento sia del numero annuo dei permessi orari spettanti, sia
della durata convenzionale della giornata lavorativa, ai fini del computo
del periodo di comporto. Possono valere a tal fine le indicazioni sopra
fornite con riferimento ai permessi orari per motivi personali. Eventuali
minuti residui di permesso fruito, anche in più occasioni, eccedenti le sei
ore, sono comunque valorizzate e sommate nell’anno, sempre ai fini del
computo del periodo di comporto;
- rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale: si procede al
riproporzionamento del numero annuo delle ore di permesso, tenendo conto dei
giorni di lavoro settimanali di presenza del titolare di tale tipologia di
rapporto di lavoro rispetto a quelli previsti per il lavoratore a tempo
pieno. Anche in questo caso, per i permessi per motivi personali, non si
procede al riproporzionamento della durata convenzionale della giornata
lavorativa, ai fini del computo del periodo di comporto. Infatti, nel
rapporto di lavoro a tempo parziale verticale la prestazione lavorative è
svolta a tempo pieno, ma, ai sensi dell’art. 54, comma 2, lett. b), del CCNL
del 21.05.2018: “limitatamente a periodi predeterminati nel corso della
settimana, del mese, dell’anno e con articolazione della prestazione su
alcuni giorni della settimana, del mese, o di determinati periodi dell'anno,
in misura tale da rispettare la media della durata del lavoro settimanale
prevista per il tempo parziale nell'arco temporale preso in considerazione
(settimana, mese o anno)” (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 33 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / Quali sono le
corrette modalità applicative della disciplina in materia di
riproporzionamento del numero di ore annuo di permesso per particolari
motivi personali o familiari nel caso di rapporto di rapporto di lavoro a
tempo parziale di tipo verticale, con articolazione dell’orario di lavoro,
rispettivamente, su 4 o 3 giorni in una settimana lavorativa di 5 giorni, ai
sensi dell’art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
Come deve essere riproporzionata in questi casi anche la durata
convenzionale di 6 ore, prevista dall’art. 32, comma 2, lett. e), del CCNL del
21.05.2018, ai fini della decurtazione del monte di 18 ore annue, ove il
dipendente fruisca cumulativamente dei permessi per la durata dell’intera
giornata lavorativa?
Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale, il
riproporzionamento andrà effettuato, tenendo conto dei giorni di lavoro
settimanali di presenza del titolare di tale tipologia di rapporto di lavoro
rispetto a quelli previsti per il lavoratore a tempo pieno.
Pertanto, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale
articolato su 4 giorni settimanali, in presenza di una settimana di 5 giorni
lavorativi, il dipendente potrà fruire di 14 ore e 24 minuti di permesso
retribuito per motivi personali (4/5 di 18).
Nel caso, invece, di rapporto di lavoro a tempo parziale verticale
articolato su soli 3 giorni di presenza in una settimana lavorativa di 5
giorni del lavoratore a tempo pieno, il dipendente potrà fruire di 10 ore e
48 minuti (3/5 di 18).
Non vi è necessità di arrotondamenti perché i permessi possono essere fruiti
anche per frazioni di ora, ricordando, però, che il lavoratore non può
avvalersi degli stessi per un arco temporale inferiore ad una sola ora.
Conseguentemente, il dipendente non potrà fruirne per 20 o anche per 50
minuti (dovendo in questo caso comunque contabilizzare un’intera ora),
mentre si ritiene possibile, in coerenza con la finalità ricordata,
l'utilizzo per periodi composti da un'ora o da un numero intero di ore,
seguiti da frazioni di ora (ad esempio, un'ora e quindici minuti, un'ora e
trenta, due ore e venti ecc.).
Si evidenzia anche che, nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di
tipo verticale, non si procede al riproporzionamento della durata
convenzionale, ai fini della decurtazione, in caso di fruizione dei permessi
per la durata dell’intera giornata lavorativa.
Infatti, nel rapporto di lavoro a tempo parziale verticale la prestazione
lavorative è svolta a tempo pieno, ma, ai sensi dell’art.54, comma 2, lett. b),
del CCNL del 21.05.2018: “limitatamente a periodi predeterminati nel corso
della settimana, del mese, dell’anno e con articolazione della prestazione
su alcuni giorni della settimana, del mese, o di determinati periodi
dell'anno, in misura tale da rispettare la media della durata del lavoro
settimanale prevista per il tempo parziale nell'arco temporale preso in
considerazione (settimana, mese o anno)” (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 32a - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Orario
d lavoro / In caso di prestazione di lavoro
individuale eccedente le sei ore (per un tempo limitato ad alcune decine di
minuti), volta a compensare le carenze di orario che si possono determinare
nell’ambito della fruizione della flessibilità dell’orario di lavoro, è
obbligatorio osservare la pausa di 30 minuti, di cui all’art. 26 del CCNL
delle Funzioni Locali del 21.05.2018?
In materia, si ritiene utile precisare che l’art. 26, comma 1, del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018, in coerenza con le previsioni del D.Lgs. n. 66/2003,
configura la pausa come obbligatoria in presenza di una prestazione di
lavoro giornaliera che ecceda le sei ore, qualunque sia la ragione
giustificativa di tale prolungata durata dell’orario di lavoro (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 31 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici / Ove il dipendente faccia richiesta di
fruire di permessi per visite, terapie, prestazioni, specialistiche od esami
diagnostici, di cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
su base oraria o anche giornaliera, che non determini incapacità lavorativa,
vi sono legittime motivazioni di diniego, quali le esigenze di servizio, in
analogia a quanto avviene per la disciplina dei permessi per particolari
motivi personali o familiari?
Relativamente alla particolare problematica prospettata, l’avviso della
scrivente Agenzia è nel senso che, ove richiesti in presenza dei presupposti
previsti dalla disciplina contrattuale, l’ente non possa legittimante
rifiutare al dipendente la fruizione dei permessi orari per l’espletamento
di visite, terapie, prestazioni, specialistiche od esami diagnostici, di cui
all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, anche in presenza
di esigenze di servizio.
Infatti, sulla base della specifica formulazione della clausola contrattuale
(“Ai dipendenti sono riconosciuti specifici permessi…..”), diversa da quella
utilizzata dall’art. 32 del CCNL del 21.05.2018 per i permessi per particolari
motivi personali o familiari (“Al dipendente possono essere concesse….), si
ritiene che il dipendente vanti un vero e proprio diritto soggettivo alla
fruizione dei permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni,
specialistiche od esami diagnostici.
Il diverso regime giuridico trova giustificazione nella particolare e
specifica motivazione che è alla base del riconoscimento di questa
particolare tipologia di permessi (l’esigenza di effettuazione di una
terapia, di una visita o di un esame diagnostico, come pure il ricorso a
prestazioni specialistiche, anche con finalità di mera prevenzione),
indubbiamente più rilevante e meritevole di tutela rispetto ai particolari
motivi personali o familiari che possono legittimare i permessi dell’art. 32
del CCNL del 21.05.2018 (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 30 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Welfare
integrativo / Un ente che non ha mai stanziato ed
impiegato in passato risorse per finalità di welfare, può attivare
ugualmente il welfare integrativo, ai sensi dell’art. 72 del CCNL delle
Funzioni Locali, e quali risorse può utilizzare a tal fine?
E’ possibile
destinare una somma a tale finalità mediante corrispondente riduzione di
altre voci di spesa di personale rientranti nel limite dell’art. 1, comma
557, della legge n. 296/2006?
In ordine a tale problematica, si ritiene opportuno precisare che, come
evidenziato dalla stessa formulazione dell’art. 72 del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018, gli oneri per la concessione al personale di benefici
di natura assistenziale e sociale possono trovare copertura nelle
disponibilità già stanziate dagli enti sulla base delle vigenti e specifiche
disposizioni normative in materia.
Pertanto, se l’ente non ha già in passato stanziato risorse a tale finalità,
sulla base di specifiche norme vigenti nel tempo, non potrà applicare la
citata disciplina dell’art. 72 del CCNL del 21.05.2018.
Il CCNL non prevede altre e diverse forme di finanziamento, neppure
attraverso l’utilizzo delle generali risorse decentrate.
Infatti, tale finalità non è presente tra diverse modalità di utilizzo delle
risorse decentrate fissate nell’art. 68 del medesimo CCNL del 21.05.2018 (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 29 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici / La fruizione dei permessi orari di
cui all’art. 35 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 è strettamente
legata a visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici
del dipendente che presenta richiesta o può essere estesa anche alle
medesime fattispecie relative a familiari?
Come si evince chiaramente dalla formulazione dell’art. 35 (comma 1, “Ai
dipendenti sono riconosciutiti specifici permessi per l’espletamento …..”;
comma 2: “I permessi di cui al comma 1, sono assimilati alle assenze per
malattia….") del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, gli specifici
permessi per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici, sono riconosciuti solo ai dipendenti che ne facciano
richiesta.
Pertanto, si esclude che gli stessi possano essere fruiti dal
dipendente anche per visite, terapie, ecc., connesse ad esigenze di
congiunti del lavoratore (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 28 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / I permessi per
particolari motivi personali e familiari, di cui all’art. 32 del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018 devono essere documentati dal dipendente che
ne fruisce? L’ente può entrare nel merito “dei particolari motivi personali
e familiari” addotti dal dipendente a giustificazione della fruizione dei
permessi?
La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni Locali 21.05.2018 in materia
di permessi retribuiti non prevede più la necessità di documentare i motivi
e le ragioni per le quali viene richiesto il permesso, anche se la
motivazione, che consente di ricondurre tale tutela alle esigenze personali
e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata nella richiesta
avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il presupposto
legittimante per la concessione del permesso.
Infatti, nell'ambito della complessiva disciplina dell’istituto, il
lavoratore non è titolare di un diritto soggettivo perfetto alla fruizione
dei permessi ed il datore di lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato
a concedere gli stessi. Quest’ultimo, ben può, nel rispetto dei principi di
correttezza e buona fede, anche negare la fruizione dei permessi in presenza
di ragioni organizzative e di servizio ritenute prevalenti rispetto
all'interesse del lavoratore evidenziato nella domanda.
E’ indubbio,
pertanto, che quanto più sarà motivata e giustificata la richiesta del
dipendente, tanto più sarà agevole la comparazione degli interessi
contrapposti e la concessione dei permessi. Conseguentemente, ove la
suddetta richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente
giustificata, a seguito della comparazione degli interessi coinvolti di cui
si è detto, il datore di lavoro potrà far valere la prevalenza delle
esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, quindi,
non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno
della ragione addotta, ma solo la sussistenza di ragioni organizzative od
operative che impediscano la concessione del permesso (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 27 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / Con riferimento
al rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, quali possono essere le
modalità di riproporzionamento delle sei ore previste dall’art. 32, comma 2,
lett. e), del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 quale decurtazione
convenzionale del monte ore annuo di permesso per motivi personali e
familiari, in caso di fruizione del permesso per l’intera giornata, nelle
seguenti ipotesi:
- personale a tempo parziale al 52,80%;
- personale a tempo parziale all’80,56%;
- personale a tempo parziale all’88,89%?
In presenza di un rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale,
applicando la regola del riproporzionamento, di cui all’art. 32, comma 4, del
CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nelle fattispecie ipotizzate, si
avrà che la decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di fruizione
del permesso per l'intera giornata, sarà pari a:
- 3 ore e 10 minuti per il rapporto di lavoro a tempo parziale al 52,80%
(52,80% di 6 ore e cioè 3,17 ore; rapportando i centesimi in minuti (0,17 x
60) si avrà il risultato finale di 3 ore e 10 minuti);
- 4 ore e 50 minuti per il rapporto di lavoro a tempo parziale all’80,56%
(applicando la medesima regola del punto precedente)
- 5 ore e 20 minuti per il rapporto di lavoro a tempo parziale all’88,89%
(applicando la medesima regola del punto precedente) (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 26a - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / Un dipendente
prima del 21.05.2018 ha già fruito di tutti i giorni di permesso per motivi
personali e familiari di cui all’art. 19 comma 2, del CCNL del 06.07.1995. Può
ancora fruire anche dei permessi per particolari motivi personali e
familiari, di cui all’art. 32 del CCNL delle Funzioni Locali nel corso del
2018?
Se prima della stipulazione del CCNL del 21.05.2018, il lavoratore ha già
fruito dei tre giorni di permesso retribuito per motivi personali, di cui
all’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, fino al 31.12.2018 lo stesso non
potrà fruire dei permessi orari retribuiti dell’art. 32 del citato CCNL del
21.05.2018 (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 25 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici / In relazione ad un lavoratore
titolare di un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale al
52%, già dall’inizio del 2018, come si applica la regola del
riproporzionamento delle ore annuali di permesso per particolari permessi
personali o familiari, di cui all’art. 32, comma 4, del CCNL delle Funzioni
Locali del 21.05.2018?
Se il medesimo dipendente, prima del 21.05.2018, abbia
già fruito di due giorni di permesso per motivi personali, ai sensi
dell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, come si determina il numero
delle ore di permesso ancora fruibili dal dipendente nel corso del 2018?
Applicando la regola del riproporzionamento, di cui all’art. 32, comma 4, del
CCNL delle Funzioni Locali alla particolare fattispecie prospettata di un
rapporto di lavoro a tempo parziale orizzontale, con orario di lavoro pari
al 52,80% dell’orario di lavoro a tempo pieno, si avrà che:
1) le ore di permesso per motivi personali annuali spettanti al lavoratore
saranno pari al 52,80% di 18 ore e cioè 9 ore e 30 minuti;
2) per coerenza ed al fine di assicurare trattamenti uniformi con il
personale a tempo pieno, nel caso del rapporto di lavoro a tempo parziale di
tipo orizzontale, caratterizzato da una ridotta prestazione oraria su tutti
i giorni lavorativi, si dovrà procedere anche al riproporzionamento delle
sei ore, previste dal comma 2, lett. e), del medesimo art. 32 del CCNL del
21.05.2018, quale decurtazione convenzionale del monte ore, in caso di
fruizione del permesso per l’intera giornata. Per effetto del suddetto riproporzionamento, nel caso prospettato, la durata convenzionale, ai fini
della decurtazione, in caso di fruizione dei permessi per la durata
dell’intera giornata lavorativa, sarà pari al 52,80% di 6 ore e cioè 3 ore e
10 minuti.
Poiché il lavoratore era titolare del rapporto di lavoro a tempo
parziale, con tali caratteristiche orarie, già dall’inizio del 2018, ai fini
della decurtazione dei giorni di permesso già fruiti ai sensi dell’art. 19,
comma 2, del CCNL del 06.07.1995 prima del CCNL del 21.5.2018, si ritiene che,
secondo criteri di logica e ragionevolezza, le due giornate da detrarre
dovranno essere valutate secondo la durata prevista per ciascuna all’interno
del rapporto a tempo parziale e cioè tenendo conto di 3 ore e 10 minuti.
Pertanto, dal monte ore annuo di 9 ore e 30 minuti dovranno essere detratte
6 ore e 20 minuti, con conseguente disponibilità per il lavoratore di sole 3
ore e 10 minuti fino al 31.12.2018 (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 24a - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / Qualora prima
della sottoscrizione del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, un
dipendente abbia già fruito di due giorni di permesso per particolari motivi
personali di cui all’art. 16, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, di quante ore
di permesso per particolari motivi personali o familiari, di cui all’art. 32
del citato CCNL del 21.05.2018, può ancora fruire nel corso del 2018?
Qualora
l’articolazione oraria settimanale preveda un giorno di 4 ore ed il
dipendente proprio in quel giorno intende fruire cumulativamente dei
permessi dell’art. 32 per l’intera giornata lavorativa, la decurtazione deve
essere effettuata tenendo conto della durata convenzionale prevista dall’art. 32,
comma 2, lett. e), del CCNL del 21.05.2018 oppure di quella formalmente
prevista per quel giorno?
In base a quanto espressamente previsto dal comma 2, lett. e), dell’art. 32
del CCNL delle Funzioni Locali stipulato il 21.05.2018, in caso di fruizione
del permesso orario per l’intera giornata lavorativa, la riduzione del monte
ore annuo di permessi sarà sempre di sei ore (durata convenzionale), sia nel
caso di giornata lavorativa con orario superiore a sei ore (ad esempio, 8
ore) che in quello di orario inferiore alle 6 ore (ad esempio, 5 ore).
Non si determina, quindi, né un recupero né un credito orario.
Si coglie l’occasione per evidenziare anche che la disciplina previgente,
contenuta nell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, come noto,
consentiva il riconoscimento dei permessi per motivi personali e familiari
con una modalità di fruizione esclusivamente giornaliera, nel limite di tre
giorni annui.
Tale disciplina è stata modificata e sostituita da quella contenuta nell’art. 32,
comma 2, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo la quale: “Al
dipendente, possono essere concesse, a domanda, compatibilmente con le
esigenze di servizio, 18 ore di permesso retribuito nell'anno, per
particolari motivi personali o familiari.”.
Non si tratta di una forma di permesso ulteriore ed aggiuntiva.
Vengono in considerazione, infatti, sempre i permessi per particolari motivi
personali o familiari, ma cambia solo la modalità di fruizione da
giornaliera, ai sensi del precedente art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995,
ad oraria, come disposto dal nuovo contratto.
Pertanto, i tre giorni annui di permesso di cui si tratta si sono
semplicemente “trasformati” nelle 18 ore annue di cui al citato art. 32,
comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
Per effetto di quanto sopra detto, conseguentemente, se un lavoratore, prima
del 21.05.2018, ha già fruito di uno o più giorni di permesso per motivi
personali, secondo la pregressa regolamentazione, questi dovranno essere,
comunque, portati in detrazione dal monte delle 18 ore di permesso
retribuito, di cui al sopra richiamato art. 32, comma 1, del CCNL del
21.05.2018.
Al fine della corretta determinazione del numero delle ore da detrarre, gli
enti possono fare riferimento alle previsioni del comma 2, lett. e) del
medesimo art. 32, secondo le quali i permessi orari di cui si tratta
“possono essere fruiti, cumulativamente, anche per la durata dell’intera
giornata lavorativa; in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore
a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a sei ore”.
Tale regola, finalizzata espressamente alla quantificazione delle modalità
di decurtazione del monte orario annuale dei permessi orari, nel caso in cui
essi siano fruiti cumulativamente per una intera giornata, nell’ambito della
nuova regolamentazione introdotta, consente, indirettamente, di determinare
anche la decurtazione da operare nella diversa ipotesi di avvenuta
fruizione, prima del nuovo CCNL, di giorni di permesso, ai sensi dell’art. 19,
comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
Infatti, secondo principi di logica e ragionevolezza, non possono applicarsi
regole diverse in presenza di fattispecie sostanzialmente assimilabili.
Pertanto, se un dipendente ha già fruito, ai sensi del più volte citato art. 19,
comma 2, del CCNL del 06.07.1995, di due giorni di permesso per particolari
motivi personali e familiari, l’ente procederà ad una decurtazione di 12 ore
di quel monte orario annuo di 18 ore previsto dall’art. 32, comma 1, del CCNL
del 21.05.2018 (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 23 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / In relazione
alla disciplina dei permessi orari retribuiti per l’espletamento di visite,
terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, di cui all’art. 35
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, qualora un dipendente
comunichi di aver dimenticato di chiedere al medico o alla struttura il
rilascio di tale giustificazione, l’assenza può essere autocertificata?
L’art. 35, comma 9, del CCNL del 21.05.2018 prevede espressamente che, ai
fini della fruizione dei permessi di cui si tratta, l’assenza sia
giustificata solo mediante una specifica attestazione di presenza, anche in
ordine all’orario, redatta dai soggetti ivi specificati.
In mancanza di una
indicazione in tal senso nella disciplina contrattuale, si esclude,
pertanto, che l’assenza possa essere giustificata anche mediante
autocertificazione, qualunque sia la causa della mancanza della
documentazione giustificativa richiesta (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 22 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
per motivi personali o familiari / Come deve essere
computato il termine massimo di 7 giorni lavorativi dal decesso per la
fruizione dei permessi per lutto?
Si ritiene che il computo del termine massimo di 7 giorni lavorativi dal
decesso per la fruizione dei tre giorni di permesso retribuito del lutto, ai
sensi dell’art. 31, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
debba essere effettuato secondo la generale disciplina civilistica, di cui
all’art. 2963 del codice civile ed all’art. 155 del codice di procedura
civile (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 20 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici / In relazione alle previsioni dell’art. 35,
commi da 1 a 10, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernenti
le 18 ore annuali di permesso per l’espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici, ai fini del computo del
periodo di comporto, in caso di fruizione di un giorno di permesso, deve
essere computato un giorno di comporto o il conteggio del comporto deve
avvenire in base al numero effettivo di ore di lavoro che il dipendente
avrebbe dovuto osservare nella giornata di assenza?
In materia deve farsi riferimento alla espressa previsione dell’art. 35,
comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale: “Ai
fini del computo del periodo di comporto, sei ore di permesso fruite su base
oraria corrispondono convenzionalmente ad una intera giornata lavorativa.”.
Pertanto, nel caso di permessi orari per visite, terapie, prestazioni
specialistiche od esami diagnostici fruiti cumulativamente per una intera
giornata lavorativa, ove questa abbia una durata di 9 ore (per effetto del
rientro pomeridiano in presenza di una settimana lavorativa con orario
articolato sul 5 giorni), ai fini del computo del periodo di comporto, sarà
considerato sempre un solo giorno.
Tuttavia, le ulteriori tre ore di permesso (rispetto alle sei già
precedentemente valutate) saranno, comunque, considerate.
Infatti, esse si potranno sommare alle ulteriori ore di permesso
eventualmente fruite al medesimo titolo nel corso dell’anno di riferimento
e, ove, si raggiunga, di nuovo, il numero di sei, esse daranno luogo al
computo di un altro giorno nel periodo di comporto (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 19 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici / L’art. 35, commi da 1 a 10, del CCNL
delle Funzioni Locali del 21.05.2018 ha introdotto la nuova tipologia di
permessi orari retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni
specialistiche od esami diagnostici.
Poiché il contratto è entrato in vigore
il 22.05.2018, è corretto ritenere che, per il 2018, le 18 ore annue di tale
tipologia di permessi devono essere riproporzionate in modo da tenere conto
della data di decorrenza degli effetti del nuovo CCNL?
In ordine a tale problematica si ritiene utile precisare quanto segue.
L’art. 35 del CCNL del 21.05.2018 ha introdotto un’organica ed esaustiva
disciplina in materia di “assenze per l’espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici”.
Il nuovo istituto contrattuale, applicabile dal 22.05.2018, infatti, prevede
un quantitativo di 18 ore annue che, potranno essere fruite, alle condizioni
espressamente stabilite dal citato art. 35 del CCNL del 21.05.2018.
Trattandosi di un istituto del tutto nuovo, che non trova precedenti e non
si collega in alcun modo, direttamente o implicitamente, alla pregressa
disciplina applicabile in materia, l’eventuale fruizione, ai sensi
55-septies del D.Lgs. n. 165/2001, nei primi mesi del 2018, di assenze
giornaliere per visite specialistiche non può avere alcuna incidenza sul
quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina contrattuale
riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà sempre fruire di permessi
retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici, nel limite delle 18 ore annue, anche se
precedentemente al 21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la medesima
motivazione (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 18 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni
sindacali / Un ente che non ha sottoscritto il
contratto integrativo relativo all’anno 2017, può prevedere, nel contratto
integrativo firmato oltre l’anno di competenza, i criteri per la
distribuzione del compensi relativi alla performance per il suddetto 2017?
Relativamente al problema della eventuale retroattività del contratto
integrativo, si ritiene opportuno evidenziare che, in diverse occasioni, in
passato, la Corte dei Conti ha ritenuto che l’erogazione di compensi per
produttività, in riferimento ad anni ormai decorsi, non fosse lecita per la
mancanza delle condizioni oggettive che legittimano, a monte, tali
emolumenti.
Tuttavia, si deve sottolineare che di recente, la Corte dei Conti, Sezione
di controllo della regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, con la
deliberazione n. FVG/20/2018/Par ha fornito ulteriori elementi che consentono
di affrontare la problematica posta in modo parzialmente diverso.
Tale pronuncia affronta il caso in cui, pur in presenza di un contratto
integrativo sottoscritto l’anno successivo, sussistano tutti i requisiti
sostanziali per l’erogazione dei compensi correlati alla performance: oltre
a un’adeguata, formale e definitiva costituzione del Fondo entro l’anno,
certificato dall’Organo di revisione, anche una tempestiva assegnazione
degli obiettivi (individuali e/o collettivi) in modo che il personale
dipendente “abbia potuto dispiegare consapevolmente e proficuamente le
proprie energie lavorative a fronte dell’attività incentivata e
nell’interesse finale dell’ente”.
Sussistendo tali requisiti sostanziali ed avendo la contrattazione
integrativa -ancorché definitasi nell’anno successivo- operato nei limiti
del suo ambito di riferimento, senza avere alcuna parte nell’individuazione
degli obiettivi, nella determinazione del loro valore e del personale da
coinvolgere, nella fissazione dei criteri di valutazione, le somme destinate
ad incentivare la produttività possono comunque essere erogate.
Per operare in tal senso, devono necessariamente sussistere anche gli
ulteriori presupposti fissati dalle norme contabili affinché le risorse non
impegnate nell’anno di riferimento possano confluire nella parte vincolata
dell’avanzo di amministrazione (ovverosia, la previa costituzione del Fondo
nel corso dell’esercizio e la intervenuta emissione della certificazione
dell’organo di revisione) (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 17 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Orario
di lavoro / Alla luce delle previsioni dell’art. 27
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernente l’orario di lavoro
flessibile, gli eventuali crediti residui risultanti a fine mese possono
essere utilizzati per compensare debiti orari del mese successivo?
Se a fine
mese il dipendente ha un saldo negativo tra crediti e debiti orari,
derivanti dall’utilizzo delle fasce di flessibilità, si deve procedere alla
decurtazione della retribuzione?
L’art. 27, comma 3, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
nell’ambito della disciplina dell’orario di lavoro flessibile, espressamente
dispone “3. L’eventuale debito orario derivante dall’applicazione del
comma 1, deve essere recuperato nell’ambito del mese di maturazione dello
stesso, secondo le modalità e i tempi concordati con il dirigente.”.
Innanzitutto, giova precisare che il mese considerato dalla clausola
contrattuale è il mese di calendario.
In ordine, poi, al vincolo per cui l’eventuale debito orario derivante dalla
fruizione da parte del lavoratore di spazi di flessibilità oraria, in
entrata o in uscita, deve essere recuperato nel mese di maturazione,
l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che esso non abbia una portata
assoluta, ma, possa, entro certi limiti, essere derogato.
A tal fine, viene, innanzitutto, in considerazione la fattispecie
dell’eventuale sopraggiungere di un impedimento, oggettivo ed imprevisto,
che non consenta al lavoratore il recupero orario entro il mese di
maturazione del debito orario.
Ad esempio, una malattia insorta che si protragga per una durata tale nel
mese da non consentire la prestazione dovuta entro il termine prestabilito.
Oppure, anche l’ipotesi, ugualmente avente carattere di eccezionalità, della
fruizione della flessibilità oraria proprio nell’ultimo giorno del mese.
In questi casi, si ritiene possibile lo slittamento del termine al mese
successivo a quello di maturazione.
Sarà cura del dirigente concordare con il dipendente le modalità temporali
per garantire il recupero della prestazione dovuta ed evitare ulteriori
dilazioni del termine stesso.
Una altra fattispecie di possibile deroga può essere rappresentata dalla
necessità di soddisfare specifiche ed oggettive esigenze organizzative
dell’ente stesso.
Infatti, la scelta contrattuale, per cui il recupero del debito orario deve
avvenire entro il mese di maturazione del debito stesso, è finalizzata a
salvaguardare le esigenze organizzative e gestionali degli enti a fronte
della fruizione da parte del lavoratore di forme di flessibilità oraria, che
si sono comunque tradotte in una ridotta prestazione lavorativa nel corso
del mese.
Proprio per tale specifica finalizzazione, si ritiene che l’ente possa
decidere di concordare con il dipendente modalità di recupero del debito
orario anche nel mese successivo a quello di maturazione, ove una tale
opzione corrisponda ad una effettiva necessità di soddisfare future,
specifiche e precise esigenze organizzative ed operative dell’ente.
Occorre, tuttavia, sempre una certa prudenza nei comportamenti derogatori
del datore di lavoro pubblico.
Infatti, l’art. 27, comma 3, del CCNL del 21.05.2018, disciplinando un
particolare aspetto del rapporto di lavoro, ha inteso anche dettare una
regola unica e uniforme, a garanzia della trasparenza ed imparzialità dei
comportamenti datoriali nei confronti di tutti i lavoratori.
Pertanto, eventuali deroghe alla regola generale potrebbero, ove non
effettivamente giustificate, rappresentare il presupposto per la
formulazione di richieste emulative da parte di tutti i dipendenti,
comunque, potenzialmente interessati.
In tal modo, gli spazi ritenuti consentiti per una possibile deroga al
vincolo contrattuale, ai fini della soddisfazione di specifici interessi
dell’ente, finirebbero per ampliarsi per assumere così il carattere di
regola generale.
In ordine al secondo problema posto, si esprimono perplessità sulla stessa
ammissibilità di spazi di flessibilità positiva non collegati al recupero di
quelli negativi.
Infatti, al di fuori di tale fattispecie, la flessibilità positiva finisce
con l’identificarsi con eventuale tempo di lavoro prestato, comunque, dal
lavoratore, oltre i limiti di durata ordinaria della giornata lavorativa.
Tale aspetto assume un particolare rilievo, in quanto trattandosi di
prestazioni ulteriori, rispetto all’orario ordinario, potrebbe configurarsi
come orario di lavoro straordinario.
Pertanto, lo stesso non solo dovrebbe corrispondere a precise esigenze
organizzative dell’ufficio ma dovrebbe essere, sempre, preventivamente
autorizzato dal dirigente, secondo le regole generali.
Prestazioni lavorative che il personale potrebbe rendere in più, rispetto
all’orario ordinario dovuto nell’arco temporale di riferimento, nell’ambito
della cosiddetta flessibilità positiva ipotizzata, sostanzialmente secondo
esigenze personali, potrebbero determinare una forma patologica di
applicazione dell’istituto, con il rischio anche di ricadute negative ed
impreviste sull’entità delle risorse destinate al pagamento del lavoro
straordinario.
Infatti, proprio per questo aspetto, il lavoro straordinario deve essere
sempre preventivamente autorizzato, come detto, dal dirigente o comunque dal
responsabile del servizio.
Occorre, poi, ricordare anche che l’art. 38, comma 7, del CCNL del
14.09.2000, prevede espressamente che, solo su specifica richiesta in tale
senso del dipendente, le prestazioni di lavoro straordinario effettivamente
rese, in luogo del pagamento del relativo compenso, possono dare luogo a
riposo compensativo, da fruire compatibilmente con le esigenze organizzative
e di servizio (orientamento
applicativo 30.10.2018 CFL 16 - link a www.aranagenzia.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso agli atti fai-da-te. La consultazione on-line non incide
sull’attività. I consiglieri possono entrare negli applicativi in modalità
visualizzazione
È coerente con la disciplina recata dall'art. 43, comma 2, del dlgs.
n. 267/2000, in materia di diritto di accesso, consentire ai consiglieri
comunali di accedere a tutti i documenti in arrivo e in partenza, oggetto di
registrazione, scansionati otticamente, con possibilità di salvare i file o
stamparli? I consiglieri comunali possono visualizzare tutti gli applicativi
software gestionali utilizzati dal comune accedendo anche a tutti i dati,
agli iter, anche in corso, e alla documentazione collegata?
A norma dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, in
relazione al munus rivestito, al consigliere comunale deve essere
riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal
semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al
consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza
ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr., Cds n. 4525
del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez.
21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. stato, V
sez. 02.04.2001 n. 1893).
Il Tar Campania, Salerno, sez. II, con decisione 25.06.2010, n. 9584, ha
affermato che «la finalizzazione dell'accesso all'espletamento del
mandato costituisce, al tempo stesso, il presupposto legittimante l'accesso
e il fattore che ne delimita la portata. Le disposizioni richiamate,
infatti, collegano l'accesso a tutto ciò che può essere effettivamente
funzionale allo svolgimento dei compiti del singolo consigliere comunale e
provinciale e alla sua partecipazione alla vita politico-amministrativa
dell'ente; questo orientamento è confermato dalla giurisprudenza, che ha
avuto occasione di precisare che il consigliere può accedere non solo ai
«documenti» formati dalla pubblica amministrazione di appartenenza ma, in
genere, a qualsiasi «notizia» o «informazione» utili ai fini dell'esercizio
delle funzioni consiliari (cfr. Cass. civ. sez. III, sent. n. 8480 del
03.08.1995)».
Peraltro, lo stesso Tar della Campania, sezione staccata di Salerno (sezione
seconda), con la decisione n. 2040/2012 del 13/11/2012, pur riconoscendo
l'ampio diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti comunali, ha
specificato che si afferma pure in giurisprudenza che «il consigliere
comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli
dall'ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi o
aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro gli immanenti
limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta
funzionalità amministrativa dell'ente civico».
Lo stesso Tar ha ritenuto, nel caso esaminato, che fossero stati varcati i
confini di proporzionalità e ragionevolezza tracciati dal Consiglio di stato
(sez. V, 02.09.2005, n. 4471), in quanto le istanze di accesso si riferivano
a una notevole congerie di atti e documenti, aventi peraltro natura
eterogenea, il cui reperimento non poteva che comportare un insopportabile
aggravio a carico dei compulsati uffici comunali.
Pertanto, il consigliere comunale, sebbene abbia la possibilità di avere
accesso diretto al sistema informatico interno dell'ente attraverso l'uso
della password di servizio, tuttavia, può esercitare tale diritto nei limiti
che consentano di evitare intralci all'ordinario svolgimento dei servizi
degli uffici.
Nel caso di specie, considerato che lo statuto dell'ente consente
l'acquisizione di informazioni mediante consultazione di atti e documenti
con modalità tali da non incidere negativamente sulla normale attività delle
strutture dell'amministrazione comunale, e che la gestione dei servizi
tramite l'informatizzazione costituisce ormai la regola nell'attività della
pubblica amministrazione, potrebbe consentirsi al consigliere comunale
l'accesso ai vari applicativi, in semplice visualizzazione, in modalità che
non incidano nelle procedure in corso e non provochino intralci nella
ordinaria trattazione delle pratiche da parte degli uffici, con la
possibilità di estrarre autonomamente copia degli atti di interesse,
acquisibili anche dal registro di protocollo informatico
(articolo ItaliaOggi del 23.11.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso atti
di polizia.
Domanda
Una segnalazione/esposto presentato alla polizia può essere oggetto di
diritto di accesso agli atti?
Risposta
Cerchiamo di riassumere efficacemente l’ampia disciplina riguardante
l’argomento oggetto della domanda, al fine di poter tracciare chiaramente,
seppur in breve, la prassi da seguire.
Innanzitutto è doveroso distinguere. Se si tratta di denuncia di rilievo
penale la procedura è quella prevista dallo stesso codice di procedura
penale: l’attività di polizia rientra nella funzioni della polizia
giudiziaria ex art. 55 del c.p.p. e gli atti sono coperti dal segreto ex
art. 329 c.p.p.; diverso il caso in cui la segnalazione ha rilievo
amministrativo, in cui la violazione di legge o di regolamento che viene
denunciata determina una sanzione amministrativa, evento che non obbliga al
segreto di indagine da parte dell’organo di polizia.
Gli orientamenti dei diversi TAR e del Consiglio di Stato sono oscillanti,
tra gli istituti della tutela della “privacy” e la garanzia dell’accesso
agli atti.
Al proposito va citata l’innovativa e recentissima sentenza del TAR
Emilia-Romagna del 17.10.2018, n. 772.
A seguito di un controllo su esposto da parte della polizia locale, il
titolare di una palestra richiede al comune di Bologna l’accesso agli atti
per conoscere il “delatore”. Al diniego, l’interessato si rivolge al TAR,
che a sua volta conferma le argomentazioni addotte dal comune, evidenziando
che “la conoscenza della fonte all’origine di un controllo di polizia non
risponde a nessun interesse di colui che subisce l’attività ispettiva,
poiché, qualunque sia la ragione che ha mosso gli agenti, le conseguenze
dannose per l’interessato possono nascere solo dall’esito del controllo”.
Per il Tar Emilia Romagna è pertanto preferibile l’interpretazione per cui
l’esposto o la segnalazione non può essere oggetto di accesso agli atti
perché “non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipenda la
difesa del denunciato”. “La conoscenza dei fatti –conclude la sentenza– e
delle allegazioni contestati risulta assicurata già dal verbale di
accertamento; non c’è quindi ragione di risalire al precedente esposto”.
Interessante, su questa linea di indirizzo, anche una sentenza TAR Veneto
del 04.04.2004, n. 934 che in maniera meno decisa e più “equilibrata”,
tra i due diritti, non nega la possibilità di accedere all’esposto, ma
ritiene necessaria tutelare la “privacy” dell’autore omettendone il nome per
evitare possibili ritorsioni.
Quindi, risulta del tutto legittimo, alla luce di quanto sostenuto dai
tribunali amministrativi, negare in tutto o in parte l’accesso all’esposto
con cui la polizia amministrativa si attivi e accerti una violazione
amministrativa, la cui conseguenza è del tutto autonoma rispetto all’impulso
iniziale, espressione del privato cittadino (23.11.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Calcolo termini permesso lutto.
Domanda
Il permesso per lutto va fruito entro 7 giorni lavorativi dal decesso. Il
giorno del decesso è compreso oppure escluso dal computo iniziale?
Risposta
L’art. 31, comma 1, secondo alinea, fornisce un preciso termine temporale
entro il quale il permesso per lutto deve essere fruito.
La clausola contrattuale precisa che il permesso è da fruirsi entro 7 giorni
lavorativi dal decesso.
A questo proposito l’Aran ha di recente pubblicato un parere (CFL9 del 09.10.2018) offrendo i riferimenti al codice civile e al codice di
procedura civile utili a definire il termine massimo in relazione al quale
operare il computo.
Le regole sono indicate all’art. 2963 del codice civile dove è precisato che
non si computa il giorno nel corso del quale cade il momento iniziale del
termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell’ultimo istante del
giorno.
Inoltre, se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al
giorno seguente.
Il secondo riferimento al quale rimanda l’Agenzia è l’art. 155 del codice di
procedura civile dove è ribadito che nel computo dei termini a giorni, si
esclude il giorno iniziale.
Così come se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di
diritto al primo giorno seguente non festivo.
Quindi, il giorno del decesso deve essere escluso dal computo del termine
dei 7 giorni lavorativi (22.11.2018 - tratto da e link a
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APPALTI:
CIG e quinto
d’obbligo.
Domanda
Il Comune deve appaltare un servizio per una durata triennale del valore
certo di € 120.000,00 al netto dell’IVA, con opzione di proroga tecnica ai
sensi dell’art. 106, comma 11 del codice, e aumento della prestazione fino
ad un quinto ai sensi del comma 12 del citato articolo.
Nella richiesta del CIG come deve essere considerata l’eventuale la proroga
tecnica e l’aumento della prestazione prevista negli atti di gara ai sensi
dell’art. 106, comma 12?
Risposta
La quantificazione del valore del CIG presenta spesso problemi pratici per
le diverse posizioni dottrinarie e di prassi che conducono a situazioni di
evidente incertezza. Il codice CIG (codice identificativo gara) è quello
strumento che consente di assolvere agli obblighi di comunicazione
all’Osservatorio/pubblicazione sul sito del MIT, di contribuzione e di
tracciabilità dei flussi finanziari, acquisito dal responsabile del
procedimento, e riportato a seconda della tipologia delle procedure nel
bando o avviso di gara, nella lettera d’invito e, negli acquisti privi di
tali modalità, prima della stipula del relativo contratto.
Per dare una risposta al quesito in oggetto occorre considerare le seguenti
disposizioni:
• Art. 35, co. 4, del codice, rubricato: Soglie di rilevanza
comunitaria e metodo di calcolo del valore stimato degli appalti. Il calcolo
del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e forniture è
basato sull’importo totale pagabile, al netto dell’IVA, valutato
dall’Amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore. Il calcolo
tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di
eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei
documenti di gara.
• Relazione A.I.R. dell’ANAC al Bando-tipo n. 1/2017: Proroga
tecnica – Computazione dell’importo dell’appalto – Non possibile. La proroga
tecnica è un’opzione la cui durata e il cui importo non sono né prevedibili,
né quantificabili alla data di pubblicazione del bando. Tuttavia il bando
tipo ha previsto che, ove le stazioni appaltanti lo ritengano possibile,
possano procedere ad una stima di massima ai fini del computo sulla base
d’asta (art. 4.2 Opzioni e rinnovi del Bando-tipo n. 1/2017 Disciplinare di
gara per FFSS);.
• Relazione A.I.R. dell’ANAC al Bando-tipo n. 1/2017: Quinti
d’obbligo – Previsione nel disciplinare – Non necessaria: L’art. 106, co. 12
del Codice non richiede che il ricorso al quinto d’obbligo sia specificato
nel disciplinare di gara.
• TAR Campania, sez. V, sentenza n. 5380 del 2018: […]
l’Amministrazione avrebbe dovuto considerare della determinazione del valore
anche l’eventuale proroga da calcolarsi fino ad un quinto dell’importo a
base d’asta secondo il disposto di cui all’art. 106, comma 12, avendo
richiamato nel disciplinare di gare tanto l’opzione della proroga tecnica
che del quinto d’obbligo.
Pertanto, al momento si può ritenere, che nel calcolo del valore del CIG,
qualora non venga quantificata l’opzione di proroga tecnica prevista nel
disciplinare di gara, questa non deve essere computata.
Qualora venga richiamato all’interno del disciplinare di gara l’art. 106,
co. 12 (quinto d’obbligo), è necessario quantificare l’opzione ai fini del
calcolo del valore del CIG.
Si invita a prestare particolare attenzione nell’inserimento delle opzioni
di cui ai commi 11 e 12 in particolare negli affidamenti i cui importi sono
prossimi alla soglia comunitaria, per le evidenti violazioni delle normative
previste in ordine alla disciplina da applicare, alla procedura, nonché
all’eventuale capacità contrattuale delle Amministrazioni (21.11.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Piano anticorruzione e rotazione personale.
Domanda
Siamo in fase di predisposizione del nuovo PTPCT, potreste darci qualche
spunto nell’individuazione di criteri per la rotazione “ordinaria” del
personale”?
L’aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione, benché
ancora in consultazione, ha apportato modifiche in materia?
Risposta
La rotazione del personale all’interno delle pubbliche amministrazioni,
nelle aree a più elevato rischio di corruzione, è stata introdotta come
misura di prevenzione della corruzione dall’art. 1, comma 5, lettera b),
della legge 190/2012, ai sensi del quale le pubbliche amministrazioni devono
definire e trasmettere all’ANAC «procedure appropriate per selezionare e
formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica
amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente
esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di
dirigenti e funzionari».
Inoltre, secondo quanto disposto dall’art. 1, comma
10, lettera b) della legge medesima legge, il Responsabile della prevenzione
della corruzione (RPCT) deve verificare, d’intesa con il dirigente
competente, «l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti
allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che
siano commessi reati di corruzione».
Questo tipo di rotazione, definita
“ordinaria” è da tenere ben distinta dalla rotazione “straordinaria”, già
prevista dal d.lgs. 30.03.2001 n. 165, c.d. Testo Unico sul pubblico
impiego (art. 16, comma 1, lettera l-quater), che prevede, infatti, come
misura di carattere successivo al verificarsi di fenomeni illeciti, la
rotazione «del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva».
In applicazione delle disposizioni della legge Severino e delle successive
indicazioni contenute nel PNA 2016, le pubbliche amministrazioni sono,
pertanto, tenute ad adottare adeguati criteri per realizzare la rotazione
del personale, dirigenziale e non, con funzioni di responsabilità
(dirigenti, titolari di posizione organizzativa e responsabili di
procedimento) operante nelle aree a più elevato rischio di corruzione.
Tale
rotazione rappresenta una misura d’importanza cruciale tra gli strumenti di
prevenzione della corruzione. L’alternanza tra più professionisti
nell’assunzione delle decisioni e nella gestione delle procedure, infatti,
riduce il rischio che possano crearsi relazioni particolari tra
amministrazioni ed utenti, con il conseguente consolidarsi di situazioni di
privilegio.
E’ del tutto evidente che l’istituto della rotazione può
determinare gravi inefficienze e malfunzionamenti negli enti piccoli, dove
sarà necessario ragionare dell’efficacia di misure alternative, tra le
quali, un rilevante peso, è determinato dall’obbligo di evitare il controllo
esclusivo, sui procedimenti amministrativi, da parte della figura apicale
(di norma Posizione organizzativa), per il quale non si sia provveduto alla
rotazione dell’incarico.
La rotazione del personale, che deve comunque essere attuata in modo tale da
garantire l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa, deve tenere
conto delle professionalità esistenti nella pubblica amministrazione.
Potrebbe, pertanto, essere effettuata, in primis per i suddetti dipendenti,
sulla base dei seguenti criteri oggettivi generali:
• coerenza con il curriculum ed il titolo di studio posseduto;
• individuazione di un termine massimo di durata dell’incarico (tre
anni?!); alla scadenza del quale l’incarico deve essere di regola affidato
ad altro dipendente, a prescindere dall’esito della valutazione;
• il nuovo incarico non può avere ad oggetto ambiti di attività
attribuiti nel triennio precedente (ad es. ambito organi istituzionali e
segreteria generale; personale ed organizzazione; gestione economica,
finanziaria, programmazione e controllo di gestione; gestione delle entrate
tributarie e servizi fiscali; gestione dei beni demaniali e patrimoniali;
anagrafe, stato civile, elettorale, leva e servizio statistico; polizia
locale; istruzione pubblica, scuole materne, asili nido e servizi per
l’infanzia; cultura e beni culturali; ambiente, viabilità e trasporti;
sociale; sviluppo economico; urbanistica ed edilizia; lavori pubblici;
società partecipate).
• ricevimento da parte del Responsabile dell’Anticorruzione di un
numero consistente (da definire) di comunicazioni circa situazioni di
conflitto di interessi, anche potenziale, provenienti dallo stesso dirigente
nel corso di un anno, che costituisce indice di incompatibilità al
mantenimento della posizione ricoperta.
La rotazione, come auspicato da ANAC, potrebbe successivamente essere estesa
a tutto il personale assegnato alle aree e attività ad alto rischio previste
dal PNA (acquisizione e progressione del personale, affidamento di lavori
servizi e forniture , provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei
destinatari) sulla base di criteri meno stringenti e generalmente riferibili
alla sola competenza professionale ed al periodo di permanenza nell’ultimo
ufficio o servizio. A minori responsabilità possono invero seguire minori, o
comunque più moderate, misure di allerta e prevenzione.
Sul punto l’aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione, sebbene
non ancora efficace in quanto in fase di pubblica consultazione, non
presenta sostanziali novità.
L’ANAC, richiamando il succitato quadro normativo, nonché i primi esiti di
vigilanza sull’attuazione dell’istituto della rotazione “ordinaria”, ne ha
comunque ribadito l’importanza rinnovando “la raccomandazione alle
amministrazioni e agli enti di osservare una maggiore attenzione sia nella
programmazione della misura da effettuare nel PTPCT, sia nell’applicazione
stessa”; ed ha ricordato alle pubbliche amministrazioni che la legge n.
190/2012 prevede all’art. 1, co. 14, precise responsabilità in caso di
violazione delle misure di prevenzione previste nel PNA, tra le quali
rientra chiaramente l’istituto in esame (20.11.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso senza motivazioni. I consiglieri non devono spiegare le
ragioni. Va rivisto il regolamento che affida al sindaco il potere di
verifica.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, le norme del
regolamento comunale che impongono al consigliere comunale di motivare la
propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che limitano il diritto di
visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di
ispezione o di verifica»; oppure che affidano al sindaco il potere di
verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere,
possono considerarsi legittime ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000?
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 disciplina il diritto di
accesso e il diritto di informazione dei consiglieri comunali circa gli atti
in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del
proprio mandato. Tale disciplina specifica si differenzia dal pur ampio
diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo
decreto legislativo; infatti il termine «utili», contenuto nella
citata disposizione del Tuel, garantisce l'estensione di tale diritto di
accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr.
Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale
natura riservata delle informazioni richieste (vedi anche Consiglio di
stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V,
17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere
reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del Consigliere non
può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe
introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici,
sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
La Commissione, infatti, ha ritenuto, in considerazione del fatto che il
consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, che gli unici limiti
all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano,
per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste
assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al
fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto
stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo
da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi,
oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data
06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino Alto
Adige, Trento, Sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Pertanto, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare
il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni
avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus
da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto del principio di separazione dei poteri (art. 4 e
art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancito, per gli enti locali,
dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 secondo cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica.
Del resto, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo
di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il
controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe
in contrasto con tale normativa.
Pertanto, nel caso di specie, è opportuna la revisione delle disposizioni
regolamentari che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri
richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Del
resto l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare,
può optare, tra le varie alternative possibili per la disciplina che, in
concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate
all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di
salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della
sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio
(articolo ItaliaOggi del 16.11.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Turno notturno e permessi l. 104/1992.
Domanda
Nel caso in cui un lavoratore turnista faccia richiesta di 1 giorno di
permesso ex l. 104/1992 in corrispondenza di un turno notturno, a cavallo
cioè tra due giornate, quanti giorni di permesso devono essere computati? 1
o 2?
Risposta
Le fonti del diritto che disciplinano il lavoro a turno sono l’art. 1 del
d.lgs. 66/2003 e l’art. 23 del CCNL del 21.05.2018 all’interno dei quali
sono definiti gli elementi e le modalità organizzative che identificano
detta articolazione dell’orario di lavoro.
Per lavoro a turno si intende quindi ogni forma di organizzazione
dell’orario di lavoro, diversa dal normale lavoro giornaliero, in cui
l’orario può coprire l’intero arco delle 24 ore e la totalità dei giorni
settimanali.
La disciplina contrattuale identifica i presupposti che devono ricorrere
come segue:
• effettiva rotazione del personale in prestabilite articolazioni orarie
giornaliere;
• distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni nell’arco del mese;
• orario di servizio giornaliero di almeno 10 ore.
Tale modalità organizzativa può comprendere anche il lavoro notturno e il
lavoro prestato durante le giornate festive.
Il messaggio INPS n. 3114 del 07.08.2018, prende in esame l’ipotesi in
cui 1 giorno di permesso di cui all’art. 33, comma 3, della legge 104/1992
venga fruito in corrispondenza di un turno notturno, indicando la corretta
modalità di computo del permesso.
Al riguardo va ricordato che l’art. 33, comma 3, della legge 104/1992
prevede la fruizione dei permessi mensili retribuiti “a giornata”,
indipendentemente, cioè, dall’articolazione della prestazione lavorativa
nell’arco delle 24 ore o della settimana e dal numero di ore che il
dipendente avrebbe dovuto concretamente effettuare nel giorno di interesse.
L’INPS precisa che, in caso di turno di lavoro notturno, la prestazione
lavorativa, pur attraversando due giorni solari, rimane riferita ad un unico
turno di lavoro.
Pertanto, nel computo del permesso fruito, va considerato 1 solo giorno
anche nel caso in cui la prestazione lavorativa sia a cavallo di due giorni
solari. Questo in quanto la prestazione è riferita ad un unico turno di
lavoro in cui si articola l’organizzazione (15.11.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
APPALTI
FORNITURE:
Acquisto
suppellettili.
Domanda
Per effetto di imminenti nuove assunzioni, l’ente deve procedere con
l’acquisto di arredi. Come RUP mi sono posto il problema dell’esistenza di
eventuali limiti di spesa ed a tal proposito si chiede di sapere se siano
ancora vigenti specifici divieti sulla spendita.
Risposta
La questione degli acquisti di arredi/mobili –al netto delle ipotesi di
arredi destinati ad uso scolastico e per i servizi dell’infanzia– ha, nel
tempo, ricevuto varie limitazioni.
Le ultime sono risalenti alla legge 228/2012 (art. 1, comma 141) poi
modificata con il D.L. 210/2015 convertito con la legge 21/2016.
In particolare, i contingentamenti previsti dalla normativa richiamata
operavano –originariamente– per gli anni 2012/2016 (in realtà poi per il
2016 le limitazioni sono state sospese proprio con il decreto legge appena
richiamato).
Tale disciplina stabilisce che le “amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’art. 1, comma 3,
della L. n. 196/2009, nonché le autorità indipendenti e la Commissione
nazionale per le società e la borsa (CONSOB), non possono effettuare spese
di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli
anni 2010 e 2011 per l’acquisto di mobili e arredi, se non destinati all’uso
scolastico e dei servizi all’infanzia, salvo che l’acquisto sia funzionale
alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal
caso il collegio dei revisori dei conti o l’ufficio centrale di bilancio
devono verificare preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere
superiori alla minore spesa derivante dall’attuazione del presente comma. La
violazione della presente disposizione è valutabile ai fini della
responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti”.
La questione della vigenza dei limiti di spesa è stata di recente
riaffrontata dalla Corte dei Conti, sezione reg. Veneto delibera n. 173/2018
che appare utile richiamare per fornire un preciso riscontro al quesito.
La deliberazione appena richiamata (così come la delibera della sezione
Regionale della Puglia con n. 140/2017) ha confermato che l’obbligo di
contenimento (il tetto di spesa) già non si applicava nel 2017 ed a maggior
ragione non trova applicazione nel 2018.
Pertanto, deve ritenersi che l’acquisto possa essere espletato fermo
restando il suggerimento della Corte dei Conti secondo cui “se pure il
limite di spesa per l’acquisto di mobili ed arredi non sia, allo stato,
tuttora vigente, spetterà comunque all’ente locale valutare la piena
compatibilità di tale tipologia di spesa con la complessiva situazione
finanziaria e patrimoniale nonché, nelle ipotesi di acquisto, procedere alla
corretta applicazione della disciplina prevista dall’allegato 4/3 al D.Lgs.
n. 118/2011 in tema di contabilità economico-patrimoniale” (Corte dei Conti,
sezione reg. Veneto delibera n. 173/2018).
Si tratta in sostanza di limitare gli acquisti a quelli effettivamente
necessari (14.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Aggiornamento piano triennale anticorruzione.
Domanda
A livello di unione dei comuni abbiamo costituito un gruppo di lavoro per la
redazione della bozza di Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza, a supporto dell’attività dei RPCT. Successivamente ogni comune
e l’unione, approveranno il loro piano.
La questione che si sottopone alla
vostra attenzione è la seguente: è sempre necessario approvare un piano
triennale nuovo o è possibile approvare un semplice aggiornamento annuale
del piano già in vigore?
Risposta
La legge 06.11.2012, n. 190 (meglio nota come Legge Severino, dal nome
dell’allora ministro della Giustizia, del governo Monti), all’articolo 1,
comma 8, dispone che l’adozione da parte dell’organo di indirizzo politico
(nei comuni: la Giunta) del Piano triennale per la prevenzione della
corruzione e trasparenza, avvenga su proposta del Responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT).
L’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC), in più circostanze, ha già avuto modo di
evidenziare che, anche se la prospettiva temporale del Piano è di durata
triennale, il comma 8, sopra richiamato, non è equivocabile nello
specificare che il Piano debba essere adottato, per ogni anno, entro il 31
gennaio, a scorrimento, esattamente come accade per gli altri strumenti di
programmazione pluriennali presenti in un ente locale (bilancio; piano dei
fabbisogni di personale; piano OO.PP., eccetera).
Nel corso del corrente anno, l’ANAC ha leggermente modificato il suo
iniziale orientamento che prevedeva (si veda Comunicato del Presidente del
13.07.2015), la possibilità di adottare, dopo il primo PTPCT, degli
aggiornamenti annuali nei due successivi anni di validità del Piano.
La nuova posizione dell’ANAC è ora rinvenibile nel Comunicato del Presidente
Cantone, datato 18.03.2018, con il quale è stato precisato che: “le
amministrazioni sono tenute ad adottare, ciascun anno, alla scadenza
prevista dalla legge, un nuovo completo PTPC, che include anche una apposita
sezione dedicata alla trasparenza, valido per il successivo triennio (ad
esempio, per l’anno in corso, il PTPC 2018-2020).
Tale chiarimento si è reso necessario alla luce degli esiti dell’attività di
vigilanza svolta dall’ANAC sui PTPC. Si è riscontrato, infatti, che in sede
di aggiornamento molte amministrazioni procedono con numerosi rinvii e/o
soppressioni ed integrazioni di paragrafi, con conseguenti difficoltà di
coordinamento tra le diverse disposizioni e di comprensione del testo.
Alla luce di quanto sopra si richiama l’obbligo, per i soggetti tenuti, di
adottare un nuovo completo PTPC entro il 31 gennaio di ogni anno. L’omessa
adozione di un nuovo PTPC è sanzionabile dall’Autorità ai sensi dell’art.
19, co. 5, del decreto legge 24.06.2014, n. 90”.
Identiche indicazioni si possono trovare anche nell’Aggiornamento 2018 al
Piano Nazionale Anticorruzione. Documento, per ora in sola consultazione
sino al 15.11.2018, rinvenibile nel sito dell’ANAC,
cliccando qui.
Al paragrafo 3 della bozza (pagine 6 e 7), si ribadisce l’obbligo, per tutti
gli enti, senza distinzione di soglia, di procedere, per ogni anno
all’approvazione di un nuovo completo PTPCT, che includa anche un’apposita
sezione dedicata alla trasparenza.
Per quanto sopra, il nuovo piano anticorruzione 2019/2021, da approvare
entro il 31.01. 2019, dovrà essere NUOVO e COMPLETO, risultando non ammesso
procedere all’aggiornamento del Piano 2018/2020 (13.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO:
Sponsorizzazione per manutenzione aiuola.
Domanda
Una ditta ci ha proposto di occuparsi della manutenzione di un’aiuola
comunale gratuitamente in cambio dell’esposizione di un cartello
pubblicitario. Qual è il corretto trattamento fiscale e contabile di tale
operazione?
Risposta
Come previsto dall’articolo 43 dalla legge n. 449/1997 “Al fine di favorire
l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori
economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati, le pubbliche
amministrazioni possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi
di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro,
costituite con atto notarile”.
Nella risoluzione 88/E dell’11.07.2005 l’Agenzia delle Entrate ha
affermato che l’operazione di sponsorizzazione va assoggettata a Iva con
l’aliquota ordinaria, da applicare sulle somme versate dallo sponsor a
fronte della prestazione di servizi dello “sponsee”. Ciò in quanto la
sponsorizzazione è stata qualificata come una «forma atipica di pubblicità
commerciale», alla quale si deve di conseguenza riconoscere, in base
all’articolo 4, comma 5, lettera i), del Dpr 633 del 1972, carattere «in
ogni caso commerciale», anche se la prestazione è resa da un ente pubblico o
privato che non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
attività commerciali.
Questa conclusione vale anche con riferimento alle sponsorizzazioni tecniche
e a quelle “miste”, che realizzano un’operazione permutativa, da
assoggettare all’imposta separatamente da quella in corrispondenza della
quale è effettuata. In questo caso, pertanto, sia lo sponsor che lo
“sponsee” sono tenuti alla fatturazione sulla base del valore della
prestazione e ai successivi adempimenti previsti dalla legge.
Si rileva sul caso specifico una prassi diffusa in diversi enti secondo la
quale il comune compensa solo la parte imponibile mentre introita l’IVA che
poi dovrà versare all’Erario. In tal caso, ipotizzando una fattura reciproca
di € 1000 + IVA, il comune:
• dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
• per 1000 € compenserà mandato e reversale;
• in entrata chiuderà i restanti 220 con la reversale di introito
da parte del manutentore;
• in uscita chiuderà i restanti 220 con un mandato a favore delle
proprie partite di giro in entrata atto ad innescare il meccanismo di
gestione dello split payment.
Al contrario, si evidenzia che la circolare 27/E/2017 prevede: “la scissione
dei pagamenti non sia applicabile ai rapporti tra fornitori e PA e Società
che siano riconducibili nell’ambito di operazioni permutative di cui
all’art. 11 del DPR n. 633 del 1972 secondo cui “Le cessioni di beni e le
prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni
o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono
soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali
sono effettuate”.
Se si applicasse tale previsione, ipotizzando ancora una fattura reciproca
di € 1000 + IVA, contabilmente il comune:
• dovrà registrare un accertamento di 1220 ed un impegno di 1220;
• per 1220 € compenserà mandato e reversale (12.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla natura del silenzio ex art. 37, comma 4,
del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 22 della l.r. 15/2008 – Area Vigilanza
urbanistico-edilizia e contrasto all'abusivismo (Regione Lazio,
nota 09.11.2018 n. 705439 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'applicazione del punto A.31. dell'Allegato
A del d.P.R. 31/2017. Traslazione dell'area di sedime - Comune di Marino
(Regione Lazio,
nota 09.11.2018 n. 705371 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, parla lo statuto.
Presidenza al vicesindaco se è consigliere.
L’assessore esterno non può guidare l’assemblea non facendone parte.
È
possibile affidare la carica di vice presidente del Consiglio comunale al
vice sindaco, assessore esterno, in un comune con popolazione inferiore a
15.000 abitanti?
Il vice sindaco facente funzioni può assumere il ruolo di
presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative
operazioni?
In merito al primo quesito, l'art. 64, comma 3, del Tuel (dlgs n. 267/2000),
prevede che, nei comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, non
vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore
nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio
fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47,
comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto riguarda le funzioni
di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del citato dlgs
prevede che nei comuni sino a 15 mila abitanti le stesse siano svolte dal
sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1,
stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo
statuto non dispone diversamente, siano esercitate dal consigliere anziano.
La normativa statale, pertanto, anche in carenza di specifiche disposizioni
dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nel caso di
specie, lo statuto del comune attribuisce al sindaco il potere di presiedere
il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia
assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la presidenza è assunta dal
consigliere che, nella graduatoria di anzianità… occupa il posto
immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al
sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza
o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove
questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età. La
disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma
statutaria. Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche
all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla
legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria
dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
Tuttavia, circa la
possibilità, nei comuni fino a 15 mila abitanti, di far presiedere il
consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere
comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21.02.1996
(richiamato dal successivo parere n. 501 del 14.06.2001) (con riferimento
all'estensione dei poteri del vice sindaco) ha affermato che il vice sindaco
può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio
comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di
consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nella
fattispecie in esame, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il
consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un
soggetto che non ne faccia parte». La seconda questione prospettata trova
adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di Stato, espresso con
pareri n. 94/96 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che,
nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in
materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto Consesso, rilevando che le funzioni del sindaco
sospeso vengono svolte dal vice sindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che in caso di vicarietà,
nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e
vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta
confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione
di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza
implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare,
con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima. Se a ciò
si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa
dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto
giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente
necessari nell'interesse pubblico, è necessario riconoscere al vicesindaco
reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in ordine alla specifica fattispecie,
il dpr 20.03.1967, n. 223, all'articolo 14, stabilisce che la commissione
elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza,
impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o
dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di
ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario
prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di specie, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il
vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione
elettorale in sostituzione del sindaco assente (articolo ItaliaOggi del 09.11.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Consultazione registri stato civile.
Domanda
Un avvocato chiede la possibilità di consultare direttamente i registri di
stato civile, asserendo che si tratta di atti pubblici secondo il codice
civile. È possibile concedere tale autorizzazione?
Risposta
I registri e gli atti di stato civile sono soggetti, rispetto all’ordinaria
documentazione amministrativa, a una specifica disciplina che permette a chi
vi abbia interesse, fatta eccezione per i divieti eventualmente previsti
dalle norme, di accedere a notizie e informazioni in essi riportate, ma
esclude la possibilità di libera consultazione diretta di questi non
“filtrata” dall’intervento dell’ufficiale dello stato civile.
Il codice civile dedica agli atti dello stato civile il Titolo XIV del Libro
primo (artt. 449-455).
In particolare, l’art. 449 (Registri dello stato civile) prevede che:
“I registri dello stato civile sono tenuti in ogni comune in conformità
delle norme contenute nella legge sull’ordinamento dello stato civile.”
Mentre l’art. 450 (Pubblicità dei registri dello stato civile) chiarisce
che: “I registri dello stato civile sono pubblici.
Gli ufficiali dello stato civile devono rilasciare gli estratti e i
certificati che vengono loro domandati con le indicazioni dalla legge
prescritte.
Essi devono altresì compiere negli atti affidati alla loro custodia le
indagini domandate dai privati.”
Come possiamo notare, il codice civile, con l’articolo per ultimo riportato,
afferma in apertura il principio della pubblicità dei registri dello stato
civile, ma nel comma successivo chiarisce in che modo è da intendere questo
concetto: non prevedendo che i registri possano essere consultati
direttamente dai privati, ma demandando agli ufficiali di stato civile il
compito di rilasciare estratti o certificati e di svolgere negli atti
affidati alla loro custodia le indagini domandate dai privati.
D’altro canto gli artt. 106 e 107 del regolamento di stato civile (D.P.R. n.
396/2000) prevedono che possano essere richiesti estratti per riassunto o
per copia integrale degli atti di stato civile, a determinate condizioni da
verificare (espressa richiesta da parte di chi vi ha interesse…), purché il
rilascio non sia vietato dalla legge.
Pertanto, la consultazione diretta da parte di un privato e senz’altro da
ritenersi esclusa (09.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Il
subappalto nelle concessioni.
Domanda
In una concessione di servizi con lavori di manutenzione straordinaria, ai
sensi del d.lgs. 50/2016, l’eventuale subappalto della prestazione
accessoria incontra il limite del 30% previsto per gli appalti ai sensi
dell’art. 105 del citato codice?
Risposta
Il legislatore comunitario con la direttiva 2014/23/UE del 26.02.2014
per la prima volta interviene in modo rilevante sulle concessioni, e
conseguentemente a livello locale il d.lgs. 50/2016, prevede una normativa
che attribuisce alla materia una dignità negoziale e una disciplina organica
e specifica anche con riferimento alla fase esecutiva.
La maggior parte delle concessioni, siano esse di servizi o di lavori, sono
caratterizzate da prestazioni eterogenee, quali servizi di progettazione,
esecuzione di lavori e gestione della struttura, con una incidenza
funzionale che varia in base all’obiettivo che l’Amministrazione vuole
perseguire, ma con un elemento distintivo fondamentale, rispetto
all’appalto, rappresentato dal rischio in capo al concessionario (sulla
definizione dei rischi si rinvia all’art. 3 del d.lgs. 50/2016).
Nella parte III del codice, dedicata appunto alle concessioni, ed in
particolare nell’art. 174 viene disciplinato l’istituto del subappalto che
secondo un’autorevole dottrina si differenzia da quello della subconcessione,
consentita solo se prevista in sede di gara e configurabile in ragione
dell’assunzione di parte del rischio in capo al sub-concessionario.
Dalla lettura dell’articolo emerge che l’eventuale subappalto, sia esso
necessario, ovvero ai fini della qualificazione, o meramente facoltativo non
prevede limiti quantitativi e neppure la previsione di una specifica
autorizzazione da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice, limitandosi ad
indicare al comma 2 l’obbligo di precisare in sede di offerta le parti del
contratto di concessione che intendono subappaltate a terzi, a cui si
aggiunge, nel caso di contratti di valore sopra soglia, l’onere di indicare
una terna di nominativi, con l’eccezione:
“a) concessione di lavori, servizi e forniture per i quali non sia
necessaria una particolare specializzazione;
b) concessione di lavori, servizi e forniture per i quali
risulti possibile reperire sul mercato una terna di nominativi di
subappaltatori da indicare, atteso l’elevato numero di operatori che
svolgono dette prestazioni” (07.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito alla prevalenza tra NTA del PTP e del PTPR e
tavole grafiche in vaso di contrasto tra di esse - Comune di Cervara di Roma
(Regione Lazio,
nota 06.11.2018 n. 693103 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'annullamento in autotutela di una licenza
edilizia in sanatoria, rilasciata ai sensi della legge 47/1985, ottenuta
sulla base di una falsa dichiarazione dell'epoca dell'abuso – Comune di
Mazzano Romano (Regione Lazio,
nota 06.11.2018 n. 693050 di prot.). |
APPALTI:
Pubblicazione dati commissari concorso.
Domanda
Nel nostro ente abbiamo nominato una commissione di concorso. Il presidente
e il segretario della commissione sono dipendenti interni. I due
componenti/esperti, sono esterni. Uno è ex dipendente di una PA ora in
pensione e l’altro è un dipendente in servizio presso un altro comune.
Quali
obblighi di pubblicazione di atti e documenti abbiamo, ai sensi del d.lgs.
33/2013?
Risposta
Il decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, alla luce delle modifiche
introdotte con il d.lgs. 97/2016, prevede, all’articolo 19, quanto segue:
Art. 19 Bandi di concorso
1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le pubbliche
amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il reclutamento, a
qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione, nonché i criteri di
valutazione della Commissione e le tracce delle prove scritte.
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente aggiornato
l’elenco dei bandi in corso.
Come si può notare, a parte il riferimento agli altri obblighi di pubblicità
legale, nessuna parte del testo, tratta della pubblicazione dei dati dei
componenti delle commissioni di concorso, in modo differente a come avviene
–ad esempio– per i componenti delle commissioni di gara, i cui obblighi di
pubblicazione sono ben definiti nell’art. 29, comma 1, primo periodo, del d.lgs. 50/2016
[1].
Per i componenti delle commissioni di concorso, quindi, occorre rifarsi ad
altre disposizioni del d.lgs. 33/2013 ed, in particolare, all’articolo 15,
rubricato Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi di
collaborazione o consulenza.
Per i due componenti esterni, infatti, trattandosi di “collaboratori”, in
qualche modo retribuiti, la cui designazione trova fondamento nell’art. 7,
comma 6, del d.lgs. 165/2001, gli obblighi di pubblicazione di dati e
documenti risultano i seguenti:
a) estremi dell’atto di conferimento dell’incarico;
b) curriculum vitae;
c) dati relativi a incarichi o titolarità di cariche in enti di diritto
privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione, o lo
svolgimento di attività professionali;
d) compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di collaborazione o
consulenza specificando le eventuali componenti variabili o legate alla
valutazione del risultato.
A tali obblighi, si aggiunge quanto previsto dall’art. 53, comma 14, del
d.lgs. 165/2001, il quale prevede l’obbligo di pubblicare anche
l’attestazione dell’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni di
conflitto di interessi, anche potenziale.
Le informazioni richieste vanno pubblicate entro tre mesi dal conferimento
dell’incarico e devono essere mantenute per i tre anni successivi alla
cessazione. La mancata pubblicazione degli estremi degli atti di
conferimento degli incarichi e dell’attestazione di avvenuta verifica, ex
art. 53 d.lgs. 165/2001, comporta l’inefficacia dell’atto, non consentendo,
quindi, né l’utilizzo della prestazione eventualmente resa, né la
liquidazione del compenso.
Nel caso in cui questo sia stato, comunque, corrisposto si determina una
responsabilità disciplinare in capo a chi l’ha disposto e l’irrogazione di
una sanzione, pari alla somma pagata.
Premesso quanto sopra, si risponde al quesito evidenziando quanto segue:
a) per ciò che concerne il presidente e il segretario della commissione –dipendenti dell’ente che bandisce il concorso– non ci sono obblighi
particolari di pubblicazione, su Amministrazione trasparente;
b) per i due componenti esterni, gli obblighi che il comune è tenuto ad
osservare, sono quelli previsti dall’art. 15, del d.lgs. 33/2013 e vanno
assolti nella sezione Amministrazione trasparente > Collaboratori e
consulenti;
c) l’ente che autorizza un proprio dipendente, a far parte di una
commissione di concorso di un altro comune (ex art. 53, commi 6 e seguenti,
d.lgs. 165/2001), dovrà assolvere i propri obblighi di pubblicazione, come
sancito all’art. 18, del d.lgs. 33/2013, nella sezione Amministrazione
trasparente > Personale > Incarichi conferiti o autorizzati ai dipendenti.
È bene ricordare, infine, che per tutti i componenti della commissione di
concorso e per il segretario, vigono, inoltre, gli obblighi “dichiarativi”
stabiliti nell’art. 35-bis, del d.lgs. 165/2001 [2]. Mentre per il comune
che bandisce il concorso, restano da assolvere gli obblighi di verifica
sulle dichiarazioni rese dai commissari. Obbligo che può essere agevolmente
assolto acquisendo, per tutti i componenti, segretario compreso, il
certificato penale e quello dei carichi pendenti, onde verificare l’assenza
di condanne, anche non definitive, per i reati previsti nel capo I, del
titolo II, del libro secondo, del codice penale (reati dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione).
---------------
[1] Art. 29, co. 1, d.lgs. 50/2016 “…alla composizione della commissione
giudicatrice e ai curricula dei suoi componenti… devono essere pubblicati e
aggiornati sul profilo del committente, nella sezione “Amministrazione
trasparente”, con l’applicazione delle disposizioni di cui al decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33.”
[2] Articolo 35-bis. Prevenzione del fenomeno della corruzione nella
formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici (06.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ CONSIGLI/ Presidenti non revocabili.
Sfiducia per motivi istituzionali, non politici. La
figura è allontanabile se non è più super-partes.
Il Consiglio comunale può presentare una mozione di sfiducia nei confronti
del proprio presidente?
Nella fattispecie in esame, la mozione di sfiducia nei confronti del
presidente del consiglio è disciplinata dallo statuto. Tuttavia, il
regolamento comunale limita la possibilità di un voto all'espressione di «un
giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o
della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo
dell'amministrazione».
Inoltre, la disposizione regolamentare, nel disciplinare le adunanze, affida
addirittura al sindaco la presidenza del consiglio e non contiene alcuna
norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio,
mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione
di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti. L'articolo
38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del
consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto». Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni
caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del
consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la
giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (v., tra
l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04.09.2009, n. 2248).
Nel caso di specie il Consiglio ha utilizzato, nonostante la mancanza di una
disciplina regolamentare di dettaglio, la normativa statutaria (ritenendola
sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; pertanto,
l'applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero
obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto
alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del
presidente del consiglio.
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria
che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito
che la figura del Presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto
funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e
minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo
esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve
essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a
un rapporto di fiducia». Peraltro, il Tar Piemonte, con la citata sentenza,
ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e
procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a
fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo
istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare
nell'Assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013,
ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale
non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al
corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale,
ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della
maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere
attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta
e ingiustificata omissione della convocazione del Consiglio o le ripetute
violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (si veda anche,
Consiglio di stato, sez. V, 18.01.2006, n. 114)
(articolo ItaliaOggi del 02.11.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il
preavviso di rigetto.
Domanda
Abbiamo ricevuto un’istanza di trasferimento di residenza da un altro
comune, ma gli accertamenti relativi alla dimora abituale sono risultati
negativi. Abbiamo inviato la raccomandata con il preavviso di rigetto
all’indirizzo dichiarato che però è tornata con la spunta sulla dicitura
“irreperibile”.
In che modo dobbiamo procedere ora e quali sono i termini da
rispettare?
Risposta
L’art. 10-bis ha introdotto il preavviso di rigetto nell’ambito delle norme
sul procedimento amministrativo come strumento di partecipazione del
cittadino al procedimento stesso, al fine di ridurre i contenziosi nelle
fasi successive all’adozione di provvedimenti negativi da parte della
Pubblica Amministrazione.
L’ufficiale di anagrafe, come nel caso descritto nel quesito, comunica,
prima dell’adozione del provvedimento negativo agli istanti i motivi che
ostano all’accoglimento della domanda. Segnaliamo che nel caso del
procedimento di iscrizione anagrafica, è necessario effettuare tale
comunicazione prima del decorso dei 45 giorni dalla data dell’istanza, che
porterebbero in ogni caso alla formazione del silenzio-assenso.
Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli
istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni,
eventualmente corredate da documenti.
La comunicazione del preavviso di rigetto interrompe i termini per
concludere il procedimento, i quali iniziano nuovamente a decorrere dalla
data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del
termine di 10 giorni di cui abbiamo detto sopra.
La comunicazione deve essere inviata all’indirizzo presso il quale è stata
dichiarata la residenza oppure, in alternativa, all’indirizzo indicato dal
cittadino nella sezione recapiti dell’apposito modulo ministeriale (se
compilata).
Nel caso previsto dal quesito la raccomandata non è stata consegnata
all’interessato ed è stata restituita al Comune dal servizio postale con
l’indicazione destinatario “IRREPERIBILE”. Pertanto la notifica non è
avvenuta.
L’eventuale mancata consegna della raccomandata, può costituire un elemento
in più da valutare nella fase istruttoria del procedimento. Infatti se la
raccomandata non viene recapitata e ritorna al mittente con l’indicazione
destinatario “IRREPERIBILE”, è una dimostrazione del fatto che l’assenza non
è solo momentanea e la decisione di adottare un provvedimento negativo è
corretta.
In questo caso unico modo per calcolare il termine di dieci giorni dal
ricevimento della comunicazione, è quello di fare ricorso a quanto previsto
dall’art. 143 del Codice di procedura Civile: “Se non sono conosciuti la
residenza, la dimora e il domicilio del destinatario e non vi è il
procuratore previsto nell’art. 77, l’ufficiale giudiziario esegue la
notificazione mediante deposito di copia dell’atto nella casa comunale
dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita
del destinatario. […] Nei casi previsti nel presente articolo e nei primi
due commi dell’articolo precedente, la notificazione si ha per eseguita nel
ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità
prescritte“.
Non è più necessaria la pubblicazione all’albo del Comune a seguito
dell’entrata in vigore dell’art. 174 del D.Lgs. 30.06.2003, n. 196, il quale
ha abrogato tale obbligo (02.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Il
criterio del minor prezzo.
Domanda
L’ufficio sta predisponendo una indagine di mercato –con avviso pubblico–
per procedere con un acquisto da aggiudicare entro il 31.12.2018.
Considerato che si tratta di bene mobile con caratteristiche standardizzate
(più alcune specifiche che avremmo cura di indicare già in fase di avviso a
manifestare interesse) possiamo serenamente procedere con l’utilizzo del
criterio del minor prezzo o è necessario che tale scelta venga chiaramente
motivata?
Risposta
Come noto, il nuovo codice –nonostante alcune modifiche apportate con il
decreto correttivo (decreto legislativo 56/2017– supera il concetto di equiordinazione tra criteri di aggiudicazione dell’appalto. In sostanza,
semplificando, nel pregresso regime l’utilizzo del criterio del minor prezzo
o l’offerta economicamente più vantaggiosa risultava rimesso alle
valutazione del RUP. In giurisprudenza poi, ed in certa legislazione
regionale, il multi criterio (ovvero la scelta dell’offerta valutando
qualità e prezzo) veniva imposta in relazione agli appalti di servizi e,
segnatamente, in relazione all’aggiudicazione dei servizi sociali.
Con l’attuale codice dei contratti, come anticipato, tale situazione è stata
superata ed oggi –nonostante alcune recenti estensioni avvenute con il
correttivo– la possibilità di aggiudicare al minor prezzo deve considerarsi
ipotesi residuale e “subalterna” rispetto al criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Le possibilità di utilizzo del mono criterio sono pertanto chiaramente
delimitate dal legislatore con l’articolo 95, commi 4 e 5, del codice dei
contratti.
In relazione agli acquisti/forniture con caratteristiche in parte
standardizzate dal mercato in marte rimesse alla scelta
dell’amministrazione, è sicuramente utile prendere in considerazione quanto
puntualizzato nel comma 4 dell’articolo citato nelle lettere b) e c).
Nella lettera b) si legge che “per i servizi e le forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal
mercato;”
Nella lettera c), infine, si chiarisce la soglia entro cui il mono criterio
può essere utilizzato ovvero “per i servizi e le forniture di importo fino a
40.000 euro, nonché per i servizi e le forniture di importo pari o superiore
a 40.000 euro e sino alla soglia di cui all’articolo 35 solo se
caratterizzati da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di
notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo".
Nel caso sottoposto si è in presenza di una fornitura contenuta entro i
40mila euro con affidamento diretto sulla base di una indagine informale su
preventivi.
La necessità di adeguare la scelta del criterio si impone al RUP nel caso
specifico per il fatto che alcune “condizioni” non sono “predefinite” dal
mercato ma, la stazione appaltante, esige un prodotto che abbia alcune
caratteristiche “soggettive” specifiche per rispondere alle proprie
esigenze.
A sommesso parere, nulla osta all’utilizzo del criterio del prezzo più basso
a condizione che le caratteristiche ulteriori (rispetto di quelle
standardizzate/fisse) siano di tipo “generale” ma, soprattutto, vengano
dettagliatamente chiarite già nell’avviso pubblico (o ancora prima nella
determinazione che avvia il procedimento informale di gara). Se tali
caratteristiche risultano chiaramente esplicitate nella determina che avvia
la procedura, il RUP avrà cura di indicare una specifica motivazione che
giustifica la scelta del criterio del minor prezzo.
A sostegno di quanto evidenziato si può anche citare recente giurisprudenza
(Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, sentenza del 23.10.2018 n. 783).
In particolare, in relazione alla fornitura di protesi per cui il ricorrente
cercava di dimostrare l’illegittimo uso del criterio del prezzo più basso,
il Collegio riconosce che pur nella temperata discrezionalità, nel regime
introdotto dal D.Lgs. n. 50 del 2016 rispetto alla previgente disciplina (D.Lgs.
n. 163 del 2006), delle amministrazioni appaltanti di scegliere il criterio
di aggiudicazione della gara pubblica ritenuto maggiormente rispondente alle
proprie esigenze di approvvigionamento delle forniture, pur nel rispetto del
favor innovativamente attribuito al criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa e ove sussistano i presupposti per utilizzare il criterio del
prezzo più basso (v. Cons. Stato A.P. n. 4 del 2018) e soprattutto a fronte
di una lex specialis che individua n. 4 specifiche e precise caratteristiche
tecniche che i dispositivi medici (protesi cocleari) offerti devono
possedere, con la conseguenza che l’amministrazione appaltante ha
precisamente individuato, descritto e valutato le caratteristiche e gli
standards tecnici che le “protesi cocleari” devono soddisfare (v. avviso di
indagine di mercato: doc. n. 1 della ricorrente).
È pertanto evidente che,
una volta individuati e specificati tali caratteristiche e standards
tecnici, la scelta del criterio di aggiudicazione operata dalla stazione
appaltante non appare immotivata o, tanto meno, viziata da manifesta
illogicità, con la conseguenza che la fornitura di protesi cocleari proposta
da ciascuna concorrente ben poteva essere valutata dall’amministrazione
appaltante esclusivamente in termini di ribasso dal prezzo base stabilito
dalla lex specialis.
Il giudice, in sostanza, ha “premiato” il comportamento del RUP che ha
chiaramente esplicitato le caratteristiche del prodotto per poter utilizzare
il criterio in commento (31.10.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri politici? No.
L'ordinamento vigente consente al sindaco di un comune di nominare
«consiglieri politici», figure non previste dallo statuto comunale, deputate
a svolgere funzioni di supporto all'azione amministrativa, assicurando
maggiore incisività ed efficacia al governo della comunità locale, senza
alcun onere per il comune?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere
politico»; i consiglieri, gli assessori e il sindaco, quali organi di
governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
L'art. 117, lettera p) della Costituzione attribuisce allo Stato la potestà
legislativa esclusiva in materia di «... organi di governo e funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane»; all'ente
locale, invece, è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa,
organizzativa ed amministrativa, nel rispetto dei principi fissati dal
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del T.U.O.E.L., lo statuto stabilisce le norme
fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli
organi. L'art. 90 del citato decreto legislativo prevede, inoltre, la
possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione
politica; in particolare, il comma 1, demanda al regolamento degli uffici e
dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per
l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla
legge.
In merito a tale istituto, la giurisprudenza contabile ha evidenziato il
carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di
funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/PAR).
Circa la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri,
tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per
l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle
frazioni e, ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle
assemblee consortili
(articolo ItaliaOggi del 26.10.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Fuori dalle commissioni. Chi si esclude
dai gruppi non può farne parte. La facoltà concessa
dallo Statuto desta comunque dubbi di legittimità.
Nell'ambito di una commissione consiliare consultiva, può essere sostituita,
con atto del presidente del consiglio comunale, una consigliera che ha
dichiarato la propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il
sindaco?
Nella fattispecie in esame la consigliera comunale, nel dichiarare la
propria indipendenza dalla maggioranza che sostiene il sindaco, si è
sostanzialmente avvalsa della facoltà, prevista dallo Statuto comunale, che
consente di «non appartenere ad alcun gruppo».
Il regolamento comunale, che disciplina la costituzione dei gruppi, non
ripropone la medesima possibilità contenuta nello statuto di autoescludersi
dai gruppi, prevedendo che, nel caso in cui una lista presentata alle
elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, a questi sono riconosciute
le prerogative e la rappresentanza spettanti a un gruppo consiliare.
In base alle norme statutarie e regolamentari dell'ente i gruppi autonomi
possono essere costituiti solo se formati da almeno tre consiglieri.
Inoltre, lo statuto rinvia al regolamento la disciplina del funzionamento e
della composizione delle commissioni consiliari, nel rispetto del criterio
proporzionale.
Il regolamento affida a «ciascun gruppo» il compito di designare i
propri rappresentanti nelle singole commissioni permanenti, stabilisce che i
consiglieri possono fare parte di più di una commissione e prevede che le
sostituzioni siano demandate al singolo capogruppo.
Ciò posto, occorre ricordare che le commissioni consiliari previste
dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, una volta
istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono
disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal
legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò
significa che le forze politiche presenti in consiglio debbano essere il più
possibile rappresentate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di
esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Quanto al rispetto del criterio proporzionale previsto dal citato articolo
38, comma 6, il legislatore non precisa come lo stesso debba essere
declinato in concreto. Il regolamento, a cui sono demandate la
determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina
dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, dovrebbe
stabilire anche i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
L'indirizzo giurisprudenziale prevalente in materia -con l'eccezione della
sentenza contraria del Tar Puglia-Lecce n. 516/2013- stabilisce che il
criterio proporzionale può dirsi rispettato solo ove sia assicurata, in ogni
commissione, la presenza di ciascun gruppo anche se formato da un solo
consigliere, presente in consiglio (Tar Lombardia Brescia 04.07.1992 n. 796;
Tar Lombardia, Milano, 03.05.1996, n. 567).
Tale principio, peraltro, è stato ribadito dal Consiglio di stato il quale
con parere n. 4323/2009 del 14.04.2010, ha osservato che «come da
consolidata giurisprudenza dalla quale la sezione non intende discostarsi,
il criterio di proporzionalità di rappresentanza della minoranza non può
prescindere dalla presenza in ciascuna commissione permanente di almeno un
rappresentante di ciascun gruppo consiliare. In tal caso il criterio di
proporzionalità si può esplicare attraverso il voto ponderato (v. anche Tar
Lombardia sez. II, 19.11.1996, n. 1661) o plurimo assegnato a ciascun
componente della commissione in ragione corrispondente a quello della forza
politica rappresentata nel consiglio comunale, vale a dire corrispondente al
numero di voti di cui dispone il gruppo di appartenenza in seno al
consiglio, diviso per il numero dei rappresentanti della stessa lista nella
commissione interessata».
Dal complesso della giurisprudenza citata, nonché dalle disposizioni
regolamentari dell'ente interessato, si evince che una volta ammessa la
costituzione dei gruppi, questi vanno a riflettere la loro composizione
all'interno delle commissioni consiliari in proporzione al loro peso
complessivo.
Premesso che teoricamente, nel caso di specie, la consigliera, qualora
facente parte di un gruppo unipersonale, avrebbe avuto diritto a partecipare
a tutte le commissioni, tuttavia, fermi restando dubbi di legittimità in
ordine alla facoltà concessa dallo Statuto comunale di escludersi da ogni
gruppo, il concreto esercizio del diritto di autoesclusione da parte del
consigliere comunale impedisce allo stesso, ai sensi del regolamento, di
essere designato all'interno delle commissioni; ciò in quanto il diritto di
designare rappresentanti all'interno delle commissioni, riservato
esclusivamente ai capigruppo, può essere esercitato solo nei confronti dei
consiglieri facenti parte di un «gruppo».
L'interessata, pertanto, proprio perché collocatasi all'esterno della
struttura dei gruppi, non potrebbe rivendicare alcuna lesione dei propri
diritti, non avendo assunto la titolarità di alcun gruppo.
Ciò, peraltro, è confermato dalle già richiamate norme che consentono la
costituzione dei gruppi unipersonali solo nel caso in cui una lista
presentata alle elezioni abbia avuto eletto un solo consigliere, e la
costituzione di nuovi gruppi solo se formati da almeno tre consiglieri,
condizioni che, dunque, non si verificano nei riguardi della fattispecie
esaminata
(articolo ItaliaOggi del 19.10.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Delibere
urgenti motivate. L’immediata eseguibilità deve essere approvata.
La dichiarazione deve ricevere l’ok della maggioranza dei
componenti
È necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di
«immediata eseguibilità» per le deliberazioni del consiglio e della giunta
che, in caso di urgenza, vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il
voto espresso dalla maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134,
comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?
In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come
disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n.
267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti;
quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata
votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della
maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto
della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione
dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto
all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente
distinta.
In merito, il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sez. II, con
decisione n. 2/2007, ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di
immediata eseguibilità, per motivi di urgenza, di una delibera di consiglio
o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale
dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa.
Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la
clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni
delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale
dell'amministrazione procedente, basata sul requisito dell'urgenza.
In merito al caso in esame, devono ritenersi condivisibili le osservazioni
formulate dal Tribunale Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014, in
materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della
dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di
immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito
dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello
stesso atto»
(articolo ItaliaOggi del 12.10.2018). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque
pubbliche ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. b), del R.D.
11.12.1933, n. 1775, circa l'impugnazione del provvedimento
comunale concernente le spese relative ad un intervento di
manutenzione dell’alveo di un corso d’acqua pubblico, cioè
di un provvedimento di polizia demaniale idraulica attinente
al buon regime delle acque pubbliche ex art. 2 R.D.
25.07.1904, n. 523, adottato dall’autorità amministrativa
preposta alla materia in ragione della porzione di
territorio interessata (art. 93 L.R. Liguria 21.06.1999, n.
18).
Invero, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933, n. 1775, “appartengono alla cognizione
diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche:
a) i
ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per
violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi
dall'amministrazione in materia di acque pubbliche;
b) i
ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti
definitivi dell'autorità amministrativa adottata ai sensi
degli artt. 217 e 221 della presente legge; nonché contro i
provvedimenti definitivi adottati dall'autorità
amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai
sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere
idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523 […]".
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Con ricorso notificato in data 14.11.2012 il Condominio di via
... n. 30, ubicato in fregio al torrente omonimo, sul
quale è collocata una passerella pedonale che ne costituisce
l'unica via di accesso, ha impugnato il provvedimento
22.08.2012, prot. 256393, con cui il comune di Genova,
nell’informare dell'avvio di operazioni di pulizia e
allontanamento dei detriti dall’alveo del torrente, ha
comunicato che il condominio dovrà concorrere alle relative
spese in qualità di frontista di sponda sinistra, ai sensi
degli artt. 868 e 917 cod. civ..
A sostegno del gravame ha dedotto sei motivi di ricorso,
come segue:
1. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 93 L.R. n.
18/1993, anche in relazione agli artt. 2 e 12 R.D. n. 523/1904 -
Difetto assoluto di presupposto – Travisamento.
2. Eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità
manifesta - Violazione della distinzione fra modalità di
azione amministrativa iure imperii e facoltà di agire iure privatorum.
3. Violazione dell'art. 10 R.D. n. 523/1904 e dell'art. 868
cod. civ. anche in relazione all'art. 11 delle preleggi e
agli artt. 2, 12 e 14 D.P.R. n. 8/1972 - Difetto assoluto di
presupposto.
4. Violazione dell'art. 10 R.D. n. 523/1904 e dell'art. 917
cod. civ. anche in relazione all'art. 11 delle preleggi e
agli artt. 2, 12 e 14 D.P.R. n. 8/1972 - Difetto assoluto di
presupposto.
5. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 L. n.
241/1990 – Difetto assoluto di istruttoria con riferimento a
presunti obblighi dei concessionari.
6. Violazione degli art. 7 e segg. L. n. 241/1990 - Omissione
della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo
e conseguente mancata possibilità di fornire apporti procedimentali.
Si è costituito in giudizio il comune di Genova,
preliminarmente eccependo l’inammissibilità del ricorso
sotto il duplice profilo della carenza di immediata lesività
del provvedimento (che rimanda a successivi atti la
quantificazione delle spese e del concorso alle stesse) e
del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo
(rientrando la controversia nella giurisdizione del
Tribunale superiore delle acque pubbliche), nel merito
controdeducendo ed instando per la reiezione del ricorso.
Alla pubblica udienza del 17.10.2018 il ricorso è stato
trattenuto dal collegio per la decisione.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a) e b), r.d. 11.12.1933, n. 1775, “appartengono alla cognizione
diretta del Tribunale superiore delle acque pubbliche: a) i
ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per
violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi
dall'amministrazione in materia di acque pubbliche; b) i
ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti
definitivi dell'autorità amministrativa adottata ai sensi
degli artt. 217 e 221 della presente legge; nonché contro i
provvedimenti definitivi adottati dall'autorità
amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai
sensi dell'art. 2 del testo unico delle leggi sulle opere
idrauliche approvato con R.D. 25.07.1904, n. 523 […]".
Nel caso di specie, si tratta di un provvedimento
concernente le spese relative ad un intervento di
manutenzione dell’alveo di un corso d’acqua pubblico, cioè
di un provvedimento di polizia demaniale idraulica attinente
al buon regime delle acque pubbliche ex art. 2 R.D.
25.07.1904, n. 523, adottato dall’autorità amministrativa
preposta alla materia in ragione della porzione di
territorio interessata (art. 93 L.R. Liguria 21.06.1999, n.
18).
Donde la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque
pubbliche ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. b), del R.D.
11.12.1933, n. 1775, giudice che si indica ai sensi
dell’art. 11, comma 1, c.p.a. e dinanzi al quale potrà essere
riproposto il giudizio (TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 21.11.2018 n. 915 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria le conseguenze dell’omessa indicazione
degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Costo della manodopera – Omessa indicazione separata –
Conseguenza – Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Esclusione o soccorso istruttorio – Contrasto
giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza plenaria.
Devono essere rimesse all’Adunanza
plenaria, stante il contrasto di giurisprudenza, le
questioni
1) se, per le gare bandite nella vigenza del d.lgs. 18.04.2016, n.
50, la mancata indicazione separata del costo della
manodopera (e degli oneri di sicurezza) determini
immediatamente e incondizionatamente l’esclusione del
concorrente, senza possibilità di soccorso istruttorio,
anche quando non è in discussione l’adempimento da parte del
concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei
relativi costi e oneri nella formulazione dell’offerta, né
vengono in rilievo profili di anomalia dell’offerta, ma si
contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di
prezzo corrispondente ai predetti costi oneri;
2) se, ai fini della eventuale operatività del soccorso
istruttorio, assuma rilevanza la circostanza che la lex
specialis taccia sull’onere di indicazione del costo della
manodopera e degli oneri di sicurezza ovvero richiami
espressamente l’obbligo di dichiarare il costo della
manodopera e gli oneri di sicurezza (1).
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Analoga rimessione
è stata disposta dal
Cga, ord., 20.11.2018, n. 773.
Vedi anche le rimessioni disposte dalla sez. V,
ord., 25.10.2018, n. 6069 e
26.10.2018, n. 6122.
(1) Il primo indirizzo interpretativo fa capo alla sentenza del
Consiglio di Stato, V, 07.02.2017, n. 815.
In tale occasione la V Sezione di questo Consiglio ha
ritenuto che, per ciò che attiene l’obbligo di indicare
puntualmente l’ammontare degli oneri per la sicurezza c.d.
interni o aziendali, trova applicazione l’art. 95, comma 10,
d.lgs. n. 50 del 2016 che, superando legislativamente le
precedenti incertezze, ha statuito la necessità
dell’indicazione di tale oneri per le gare indette nella
vigenza del nuovo Codice dei contratti pubblici, per le
quali non troverebbero dunque applicazione i principi di
diritto formulati dalla sentenza dell’Adunanza
plenaria 27.07.2016, n. 19, in tema di
ammissibilità del soccorso istruttorio per il caso di
mancata separata indicazione.
Non sarebbe infatti possibile utilizzare l’istituto del
soccorso istruttorio nel caso di incompletezze e
irregolarità relative all’offerta economica anche al fine di
“evitare che il rimedio… che corrisponde al rilievo non
determinante di violazioni meramente formali possa
contrastare il generale principio della par condicio
concorrenziale, consentendo in pratica ad un concorrente
(cui è riferita l’omissione) di modificare ex post il
contenuto della propria offerta economica”.
A questo indirizzo interpretativo sembra aver aderito le
sentenze della V Sezione del
Consiglio di Stato 28.02.2018, n. 1228,
12.03.2018, n. 1228 e 25.09.2018, n. 653.
Il secondo indirizzo interpretativo è stato, invece,
espresso da
Cons. St., sez. III, 27.04.2018, n. 2554 e dal
Cga con la sentenza 07.06.2018, n. 344. Tale
indirizzo qui in esame fa leva essenzialmente sulla
(disciplina e sulla) giurisprudenza della Corte di
Giustizia, in particolare sulle pronunce 02.06.2016, in
C-27/15 e 10.11.2016, in C-140/2016, e sul ricordato
precedente dell’Adunanza plenaria del 2016, ispirato ad una
visione e ad una soluzione sostanzialista del problema.
Tanto premesso, non è dubitabile che il legislatore del 2016
prescriva adesso che “Nell’offerta economica l’operatore
deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri
aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in
materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”.
Si tratta piuttosto di stabilire quali siano le conseguenze
nel caso in cui un simile obbligo non sia adempiuto e, in
particolare, se ciò debba determinare in via automatica
l’esclusione del concorrente dalla gara tanto più in un
caso, come quello odierno, in cui la lex specialis
nulla indicava in tema di oneri di sicurezza e costi della
manodopera.
A questa domanda il precedente del Cga n. 344 del 2018 ha
ritenuto che si debba rispondere muovendo da due
considerazioni.
La prima è che testualmente il codice non commina alcun
effetto espulsivo per l’inadempimento di tale obbligo.
La seconda considerazione ha a che vedere con la finalità di
questo obbligo di legge, che è in funzione della verifica
della congruità dell’offerta economica, fase per la quale,
ove si dubiti di tale serietà, è previsto, in primo luogo
dal diritto euro-unitario, un vero e proprio subprocedimento,
da svolgersi in contraddittorio con l’offerente.
Il Cga ha così disatteso un’interpretazione della nuova
normativa sui contratti pubblici, quale quella seguita nella
sentenza qui impugnata, che faccia discendere dall’omessa
indicazione dei costi per la sicurezza un effetto
automaticamente espulsivo, in quanto tale approdo
ermeneutico si porrebbe in contrasto con il quadro del
diritto euro-unitario (v. art. 57, par. 6, della direttiva
24/2014), per come interpretato costantemente dalla Corte di
giustizia UE; in precedenti in cui la Corte ha più volte
ribadito che non è legittimo escludere il concorrente solo
per un vizio formale della domanda o dell’offerta, a
condizione che -nel caso degli oneri per la sicurezza– gli
stessi siano stati sostanzialmente ricompresi nel prezzo
dell’offerta, pur in difetto della loro preventiva
specificazione. Con ciò avvalorando l bontà della soluzione
già fatta propria dalla Plenaria n. 19 del 2016, nella
vigenza del codice del 2006, nel senso che la mancata
indicazione degli oneri per la sicurezza interna non
giustifica l’immediata esclusione dalla gara o
l’annullamento dell’aggiudicazione.
Nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria il Cga
dichiara di propendere per la tesi che consente il soccorso
istruttorio.
Oltre agli argomenti già esposti dal precedente n. 344 del
2018, aggiunge che:
a) consentire il soccorso istruttorio in presenza di una omissione
formale non significa affatto consentire che l’operatore
economico possa comprimere la tutela dei lavoratori; non è
in discussione che gli oneri di sicurezza e il costo della
manodopera vadano giustificati e debbano rispettare tutte le
norme vigenti;
b) trasformare in elemento costitutivo dell’offerta un elemento che
è invece una giustificazione dell’offerta (attesa la diretta
incidenza causale del costo della manodopera e degli oneri
di sicurezza sull’importo finale dell’offerta), si traduce
in un contrasto con il diritto europeo, per come
interpretato dalla Corte di giustizia, che ha sempre
ritenuto che le giustificazioni dell’offerta debbano essere
successive e non preventive (CGARS,
ordinanza 20.11.2018 n. 772 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dichiarazione mendace presentata dall’operatore economico
con riguardo alla posizione dell’impresa ausiliaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara - Per dichiarazione mendace – Con riferimento
alla posizione dell’ausiliaria – Legittimità.
Ai sensi del combinato disposto
dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis e dell’art. 89, comma 1,
d.lgs. n. 50 del 2016 la dichiarazione mendace presentata
dall’operatore economico, anche con riguardo alla posizione
dell’impresa ausiliaria, comporta l’esclusione dalla gara
(1).
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(1)
Ha chiarito la Sezione che la dichiarazione non veritiera è
sanzionata in quanto circostanza che rileva nella
prospettiva dell’affidabilità del futuro contraente, a
prescindere dalla gravità, fondatezza e pertinenza degli
episodi non dichiarati, e dunque anche a prescindere dal
fatto che il precedente penale non influisca sulla moralità
professionale dell’impresa ausiliaria.
La condanna penale, quand’anche non rilevi di per sé, per
non essere contemplata tra quelle previste dal comma 1
dell’art. 80, assume valore quale “grave illecito
professionale” ai sensi del comma 5, lett. c), dello
stesso art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, con conseguente
configurabilità dell’obbligo dichiarativo al riguardo.
Vi è una differenza però sotto il profilo degli effetti, in
quanto, ove la condanna rientri tra quelle previste
dall’art. 80, comma 1, l’esclusione è atto vincolato, mentre
nell’ipotesi dell’art. 80, comma 5, lett. c), la valutazione
è rimessa alla stazione appaltante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.11.2018 n. 6529 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Il motivo è fondato e va accolto.
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di irricevibilità
del ricorso di primo grado svolta dalla Provincia di
Frosinone nella propria memoria di costituzione nell’assunto
che il ricorso non è stato proposto tempestivamente (ai
sensi dell’art. 120, comma 2-bis, Cod. proc. amm.) avverso
l’ammissione della società Ie., intervenuta nella seduta
pubblica del 14.06.2017.
Basti al riguardo considerare che, seppure non svolta in
primo grado, l’eccezione di tardività può essere rilevata
d’ufficio anche nel giudizio di appello in assenza di
limitazioni ad un siffatto rilievo d’ufficio (Cons. Stato,
V, 27.09.2018, n. 5567); tuttavia l’eccezione è infondata,
in quanto nella presente controversia non è stata contestata
l’ammissione di Ie., ma la sua mancata esclusione,
successiva all’acquisizione, all’esito della comprova dei
requisiti, del certificato del casellario giudiziale dell’ex
direttore tecnico dell’impresa ausiliaria.
Ciò premesso, va rilevato che l’art. 80, comma 5, lett.
f-bis, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede quale causa di
esclusione dalla gara l’ipotesi in cui «l’operatore
economico […] presenti nella procedura di gara in corso e
negli affidamenti di subappalti documentazione o
dichiarazioni non veritiere».
Con riferimento alla fattispecie dell’avvalimento, che qui
viene in rilievo, l’art. 89, comma 1, dello stesso corpus
normativo, dopo avere disposto che l’operatore economico
avvalentesi delle capacità di altri soggetti è tenuto ad
allegare una dichiarazione sottoscritta dalla impresa
ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima
dei requisiti generali di cui all’art. 80, aggiunge che «nel
caso di dichiarazioni mendaci […] la stazione appaltante
esclude il concorrente e escute la garanzia».
Dal combinato disposto di queste norme contenute nel codice
dei contratti pubblici emerge dunque inequivocabilmente che
la dichiarazione mendace presentata dall’operatore
economico, anche con riguardo alla posizione dell’impresa
ausiliaria, comporta l’esclusione dalla gara.
La sentenza impugnata, pur rilevando il carattere non
veritiero della dichiarazione, ha ritenuto che il precedente
penale non influisca sulla moralità professionale
dell’impresa ausiliaria riferendosi ad un reato di scarsa
rilevanza, sanzionato nel 2011 (per fatti risalenti al
2008), precedente alla indizione della gara ed anche alla
costituzione della società, avvenuta nel 2012.
La dichiarazione non veritiera è però sanzionata dalla norma
in linea generale, in quanto circostanza che rileva nella
prospettiva dell’affidabilità del futuro contraente, a
prescindere da considerazioni su fondatezza, gravità e
pertinenza degli episodi non dichiarati.
La sanzione della reticenza è funzionale all’affermazione
dei principi di lealtà ed affidabilità, in una parola, della
correttezza dell’aspirante contraente, che permea la
procedura di formazione dei contratti pubblici ed i rapporti
con la stazione appaltante, come indirettamente inferibile
anche dall’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Nella fattispecie in esame la dichiarazione relativa alle
condanne penali non è mendace sotto il profilo dell’obbligo
dichiarativo delle condanne penali definitive in sé, in
quanto, anche a prescindere dal perimetro temporale di
rilevanza giuridica desumibile dal comma 10 dell’art. 80,
quella oggetto di controversia non rientra proprio tra le
condanne espressamente contemplate dal comma primo dello
stesso art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016. La condanna
riportata dal sig. Li., secondo quanto emerge dal
certificato del casellario giudiziale, è per “attività di
gestione di rifiuti non autorizzata-Art. 256 D.Lvo
03/04/2006, n. 152 (accertato il 16/10/2008 in Cave)” e
non è compresa dunque nell’ambito della previsione
contemplata dall’art. 80, comma 1, lett. a), del d.lgs. n.
50 del 2016, che fa riferimento all’art. 260 del predetto
d.lgs. n. 152 del 2006, concernente la “attività
organizzata per il traffico illecito di rifiuti”.
La condanna assume peraltro rilievo in quanto espressione di
“grave illecito professionale” ai sensi dell’art. 80,
comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del 2016, dovendosi
intendere tale qualsiasi condotta legata all’esercizio
dell’attività professionale, contraria a un obbligo
giuridico di carattere civile, penale ed amministrativo
(così Cons. Stato, III, 05.09.2017, n. 4192).
In particolare, emerge il valore della condanna alla stregua
di grave illecito professionale in senso stretto,
trattandosi di un reato ambientale che può astrattamente
mettere in dubbio la integrità od affidabilità
dell’operatore, ed inoltre la sua mancata dichiarazione
costituiva elemento suscettibile di influenzare
l’esclusione, la selezione, ovvero l’aggiudicazione,
connotandosi più propriamente in termini di scorrettezza
procedimentale.
Di qui la configurabilità dell’obbligo dichiarativo della
condanna ed il contenuto non veritiero della dichiarazione
resa dall’impresa ausiliaria di Ie.Re. s.r.l.
Sotto il profilo degli effetti, è diverso l’obbligo di
dichiarare sentenze penali di condanna rientranti tra quelle
previste dall’art. 80, comma 1, ovvero rilevanti ai sensi
del successivo comma 5, lett. c); nel primo caso
l’esclusione è atto vincolato in quanto discendente
direttamente dalla legge, mentre nell’ipotesi di cui
all’art. 80, comma 5, lett. c), la valutazione è rimessa
alla stazione appaltante (fermo restando che, nella
prospettiva della norma da ultimo indicata, l’operatore
economico non può valutare autonomamente la rilevanza dei
precedenti penali da comunicare alla stazione appaltante,
poiché questa deve essere libera di ponderare
discrezionalmente la sua idoneità come causa di esclusione).
Tale diversità di effetti (espulsivi in un caso, meramente
informativi, con finalità preistruttoria nell’altro)
giustifica anche, pur nella difficile ermeneusi del comma 10
dell’art. 80, perché solo nel primo caso l’ordinamento
attribuisca un’efficacia temporale alla sentenza definitiva
di condanna.
1.1. Non è invece persuasivo l’argomento defensionale della
società Ie. e dell’Amministrazione resistente che hanno
eccepito l’inammissibilità (per carenza di interesse) del
motivo in esame nella considerazione che, in ogni caso, ove
l’ausiliaria si trovasse in una delle cause di esclusione di
cui all’art. 80, la conseguenza sarebbe quella della
sostituzione della medesima, come inferibile dall’art. 89,
comma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, e non già
dell’esclusione dell’operatore aggiudicatario.
A prescindere se la riproposizione di tale assunto
richiedesse l’impugnazione incidentale, osserva la Sezione
come correttamente la sentenza di primo grado abbia
affermato che l’art. 89, comma 3, non trova applicazione in
caso di attestazione mendace sul possesso dei requisiti ex
art. 80 da parte dell’impresa ausiliaria, stante il rapporto
di specialità con il primo comma dello stesso art. 89, che
prevede espressamente l’esclusione del concorrente in caso
di dichiarazioni mendaci provenienti dall’impresa
ausiliaria.
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Costituisce un principio generale di buon
andamento dell’azione amministrativa quello secondo cui
nell’ambito dello stesso plesso, soprattutto quando esso non
si strutturi in una complessa ed articolata macchina
burocratica, non è possibile che accada che un ufficio in
cui esso si articola opponga al privato la mancata disamina
di una pratica per non essere stata quest’ultima presentata
all’ufficio competente.
Ciò può avvenire per respingere una domanda al momento della
sua presentazione, indirizzando il privato presso l’ufficio
competente, ma non quando la domanda è stata ricevuta.
Corrisponde infatti al su indicato principio di buon
andamento il dovere dell’amministrazione di smistare
l’istanza ricevuta all’ufficio competente, beninteso quando
questo non comporti dei costi per il pubblico erario (ad es.,
dei costi di spedizione; altrimenti a ciò, ove vi abbia
interesse, dovrà provvedere il privato, previamente avvisato
dall’ente), ovvero aggravi notevoli per l’ente.
---------------
Il presente contenzioso ha ad oggetto la dichiarazione di
irricevibilità della S.C.I.A. presentata dall’interessato
per alcuni lavori di manutenzione di un immobile sottoposto
a domanda di condono e respinta perché l’istanza non è stata
presentata “a mezzo SUAP”, nonché perché è necessario
acquisire la “comunicazione di silenzio-assenso secondo
il disposto dell’art. 39, c. 4, della L. 724/1994 da parte
dell’Ufficio comunale competente”.
Invero, quanto alla prima delle due ragioni giustificatrici
opposte, si evidenzia che costituisce un principio generale
di buon andamento dell’azione amministrativa quello secondo
cui nell’ambito dello stesso plesso, soprattutto quando esso
non si strutturi in una complessa ed articolata macchina
burocratica, non è possibile che accada che un ufficio in
cui esso si articola opponga al privato la mancata disamina
di una pratica per non essere stata quest’ultima presentata
all’ufficio competente.
Ciò può avvenire per respingere una domanda al momento della
sua presentazione, indirizzando il privato presso l’ufficio
competente, ma non quando la domanda è stata ricevuta.
Corrisponde infatti al su indicato principio di buon
andamento il dovere dell’amministrazione di smistare
l’istanza ricevuta all’ufficio competente, beninteso quando
questo non comporti dei costi per il pubblico erario (ad es.,
dei costi di spedizione; altrimenti a ciò, ove vi abbia
interesse, dovrà provvedere il privato, previamente avvisato
dall’ente), ovvero aggravi notevoli per l’ente.
Va poi considerata non pertinente la giurisprudenza invocata
dalla difesa dell’amministrazione resistente: essa infatti
attiene al diverso caso in cui si fosse opposta quale
motivazione del diniego/irricevibilità la mancata
presentazione per via telematica della S.C.I.A. e non si
attaglia al presente caso, in cui la motivazione del
provvedimento non fa leva su questa circostanza, ma sul
fatto che la S.C.I.A. “deve essere presentata a mezzo
SUAP” (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.11.2018 n. 1684 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel nostro ordinamento vige il principio generale
della onerosità del permesso di costruire, atteso che
l’attività edificatoria comporta di norma la corresponsione
di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, fatte salve
le fattispecie di esenzione previste dall’art. 17, comma 3,
del D.P.R. 380/2001. Le fattispecie di esenzione devono
essere interpretate come “eccezioni” ad una regola generale,
quindi oggetto di stretta interpretazione e non suscettibili
di estensione analogica.
In virtù del principio generale di onerosità del titolo
edilizio il contributo di costruzione è riferito di regola
all’attività costruttiva. Peraltro lo stesso è dovuto anche
in casi nei quali non vi sia l’esecuzione di opere.
Secondo autorevole giurisprudenza, infatti, il contributo di
costruzione “costituisce una prestazione di natura
tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di
ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del
territorio. Infatti il contributo relativo al costo di
costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione
edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di
opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa
connessi, situazione che si verifica per il mutamento di
destinazione o comunque per ogni variazione anche di
semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico”.
---------------
La società ricorrente insta per l’annullamento parziale del
provvedimento gravato, censurando l’an ed il
quantum del contributo di costruzione ivi richiesto,
nonché la previsione che subordina al suo versamento la
validità del titolo edilizio.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia
l’illegittimità della richiesta di pagamento del contributo
di costruzione, atteso che l’intervento comporta unicamente
un aumento di volumetria, senza variazioni di superficie e
di carico urbanistico e ritenendolo non qualificabile come
nuova costruzione.
La doglianza è priva di pregio.
Nel nostro ordinamento vige il principio generale della
onerosità del permesso di costruire, atteso che l’attività
edificatoria comporta di norma la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, fatte salve
le fattispecie di esenzione previste dall’art. 17, comma 3,
del D.P.R. 380/2001. Le fattispecie di esenzione devono
essere interpretate come “eccezioni” ad una regola
generale, quindi oggetto di stretta interpretazione e non
suscettibili di estensione analogica.
In virtù del principio generale di onerosità del titolo
edilizio il contributo di costruzione è riferito di regola
all’attività costruttiva. Peraltro lo stesso è dovuto anche
in casi nei quali non vi sia l’esecuzione di opere.
Secondo autorevole giurisprudenza, infatti, il contributo di
costruzione “costituisce una prestazione di natura
tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di
ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del
territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V 21.04.2006 n. 2258;
Cons. Stato Sez. V 06.05.1997 n. 462; Cons. Stato Sez. VI
18.01.2012 n. 177). Infatti il contributo relativo al costo
di costruzione è dovuto anche in presenza di una
trasformazione edilizia che, indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di
vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si
verifica per il mutamento di destinazione o comunque per
ogni variazione anche di semplice uso che comporti un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV
14/10/2011 n. 5539)” (C.d.S., Sez. IV, 20.12.2013, n.
6160).
L’intervento di cui è questione si è realizzato attraverso
l’esecuzione di opere, che hanno determinato un aumento
della volumetria dell’edificio particolarmente
significativa, in quanto superiore al 35% del volume
iniziale, oltre ad un’alterazione dell'originaria fisionomia
e consistenza fisica dell'immobile.
Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera e.6), del d.P.R.
380/2001 gli interventi che comportano la realizzazione di
un volume superiore al 20% del volume dell'edificio
principale costituiscono “nuova costruzione”.
Analogamente dispongono gli articoli 10 e 15 della legge
della Regione Liguria 06.06.2008, n. 16 (Disciplina
dell’attività edilizia).
L’innalzamento della copertura del capannone non solo ha
determinato un ampliamento di volume del capannone
assolutamente significativo in termini quantitativi, tanto
da non poter essere ricompreso negli interventi di
ristrutturazione bensì in quelli di “nuova costruzione”,
ma ulteriormente ha determinato un’indiscutibile vantaggio
economico per la società ricorrente, consentendo, come dalla
stessa riconosciuto, il ricovero di imbarcazioni di
dimensioni maggiori.
Detto intervento non è d’altro canto riconducibile alla
casistica, tassativa, di esonero contenuta nell’art. 39
della citata legge regionale.
Pertanto il contributo di costruzione risulta dovuto (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 19.11.2018 n. 891 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 42 del D.P.R. n.
380 del 2001, ai commi 2 e 5, disciplina le conseguenze del
mancato o ritardato versamento del costo di costruzione,
limitandosi a sancire in tali ipotesi unicamente l'aumento
della percentuale del contributo stesso e l’esecuzione
coattiva.
Non sono pertanto legittime l'imposizione di una condizione
di efficacia dell'emesso titolo abilitativo edilizio,
l’irrogazione di una sanzione o l’applicazione di una
modalità esecutiva diverse da quelle prefigurate
dall'ordinamento per colpire l'inadempimento o la mora nel
versamento del contributo di costruzione e per assicurarne
il recupero all'amministrazione.
---------------
Il terzo motivo censura l’illegittimità del
provvedimento gravato nella parte in cui subordina
l’efficacia del titolo edilizio alla presentazione della
documentazione attestante il pagamento del contributo di
costruzione.
La censura merita accoglimento.
L’articolo 42 del D.P.R. n. 380 del 2001, ai commi 2 e 5,
disciplina le conseguenze del mancato o ritardato versamento
del costo di costruzione, limitandosi a sancire in tali
ipotesi unicamente l'aumento della percentuale del
contributo stesso e l’esecuzione coattiva. Non sono pertanto
legittime l'imposizione di una condizione di efficacia
dell'emesso titolo abilitativo edilizio, l’irrogazione di
una sanzione o l’applicazione di una modalità esecutiva
diverse da quelle prefigurate dall'ordinamento per colpire
l'inadempimento o la mora nel versamento del contributo di
costruzione e per assicurarne il recupero
all'amministrazione (TAR Campania, Napoli Sez. VIII,
12.01.2012, n. 108).
Né in senso opposto assumono rilevanza le argomentazioni
addotte dal comune e relative al fatto che l’intervento è
già stato realizzato e che alla ricorrente è stata accordata
la possibilità di un versamento rateale dell’importo dovuto,
in quanto dette circostanze esulano dalla questione relativa
agli effetti sul titolo edilizio dell’inadempimento o della
mora nel pagamento del contributo.
Il ricorso deve pertanto essere accolto limitatamente alla
censura formulata con il terzo motivo, con conseguente
annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui
subordina la validità della presa d’atto della DIA alla
presentazione della documentazione attestante l’assolvimento
dell’obbligo di pagamento del contributo di costruzione (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 19.11.2018 n. 891 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limiti alla natura di collegio perfetto della Commissione di
concorso.
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Concorso – Commissione di concorso – Natura – Collegi
perfetti – Limiti.
Le commissioni esaminatrici di
pubblici concorsi sono colleghi perfetti allorché esplichino
attività valutative discrezionali, quali correzione delle
tracce, attribuzione dei punteggi, valutazioni delle prove
dei candidati; non sono, invece, collegi perfetti le
attività che, quantunque siano discrezionali, non sono atte
a ledere la sfera giuridica dei destinatari (nella specie la
neutralizzazione di un quesito della prova selettiva perché
ritenuto ambiguo (1).
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(1) Ha ricordato il Tar
che il giudice di appello (sez. III, 17.07.2018 n. 4331),
sia pur in materia di gare d’appalto, ma con principio
trasponibile nei pubblici concorsi, condividendo gli stessi
i medesimi principi di collegialità e trasparenza, ha
ribadito che “Occorre distinguere, nell’ambito
dell’operato della Commissione di gara, tra attività di
valutazione dell’offerta ed attività meramente preparatoria
e istruttoria. Mentre nel primo caso essa è chiamata a fare
scelte discrezionali, in ordine alle quali v’è l’esigenza
che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai
fini di una corretta formazione della volontà dell’organo
collegiale espressa da tutti i suoi componenti, così
necessariamente non avviene per le attività preparatorie,
istruttorie e vincolate, rispetto alle quali il principio di
collegialità può essere derogato, trattandosi di operazioni
prive di ogni connotato valutativo"
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 14.11.2018 n. 10964 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1.1. Così riassunto il materiale deduttivo, premette il
Collegio anzitutto una breve carrellata delle più
significative decisioni giurisprudenziali sulla composizione
delle commissioni giudicatrici di pubblici concorsi per poi
procedere funditus all’analisi dell’attività che in concreto
ha espletato la commissione de qua nella contestata riunione
del 04.08.2015.
La decisione che sarà assunta dalla Sezione sarà la
risultante aristotelica del sillogismo in cui la premessa
maggiore è data dalla tipologia di valutazioni operate nel
verbale del 04.08.2015 e la minore dall’orientamento
granitico assunto dalla giurisprudenza sul punto.
1. L’ORIENTAMENTO DELLA GIURISPRUDENZA SULLE COMMISSIONI DI
CONCORSO. QUANDO SONO COLLEGI PERFETTI.
2.1. Orbene, quanto alla prima questione, quella giuridica,
segnala il Collegio come la giurisprudenza in via
assolutamente pacifica abbia attinto il principio di
diritto, che si condivide, in ossequio al quale
le
commissioni giudicatrici di un pubblico concorso sono collegium perfectum e devono quindi operare nella totalità
dei propri componenti allorché compiano attività valutativa
discrezionale che può dispiegarsi nelle seguenti direzioni:
a) valutazione degli elaborati e o dei titoli presentati dai
candidati; b) valutazione delle tracce ovvero della bontà
dei quesiti sottoposti, specie laddove taluni di essi siano
stati oggetto di contestazioni; c) predisposizione dei
criteri e delle griglie di valutazione.
E’ stato al riguardo di recente precisato infatti, anche da
questo Tribunale che “In sede di operazioni concorsuali non
si richiede la presenza della Commissione giudicatrice al
suo completo in tutte le fasi del procedimento, dovendo la
regola del collegio perfetto, unitamente alla compresenza di
tutti i candidati nella misura indicata dalla normativa
evocata, trovare osservanza in tutti i momenti in cui
vengono adottate determinazioni rilevanti ai fini della
valutazione dei candidati (fissazione dei criteri di massima
di valutazione delle prove concorsuali; selezione degli
argomenti e redazione delle tracce delle prove scritte;
determinazione dei requisiti da sottoporre ai candidati
nelle prove orali; correzione degli elaborati e svolgimento
delle prove orali) ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia
espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso,
non imponendo le operazioni concorsuali di carattere
meramente istruttorio o preparatorio la presenza di tutti i
componenti del collegio” (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 11.10.2017 n. 10185).
Il Giudice d’appello è fermo nell’affermare che “In sede di
operazioni concorsuali non si richiede la presenza della
commissione giudicatrice al suo completo in tutte le fasi
del procedimento, la regola del collegio perfetto dovendo,
invero, trovare osservanza in tutti i momenti in cui vengono
adottate determinazioni rilevanti ai fini della valutazione
dei candidati (fissazione dei criteri di massima di
valutazione delle prove concorsuali; selezione degli
argomenti e redazione delle tracce delle prove scritte;
determinazione dei quesiti da sottoporre ai candidati nelle
prove orali; correzione degli elaborati e svolgimento delle
prove orali), ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia
espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso,
mentre le operazioni concorsuali di carattere meramente
istruttorio e preparatorio non impongono, invece, la
presenza di tutti i componenti del collegio” (Consiglio di
Stato, Sez. IV , 12.11.2015 n. 5137
2.2. Altra giurisprudenza ha più in generale puntualizzato
in linea con quanto si segnalava in apertura, che “In tema
di composizione della commissione valutatrice di un concorso
pubblico, il principio del collegio perfetto (e dunque della
necessaria presenza di tutti i membri) concerne solo
l'attività valutativa e deliberativa svolta dai componenti
con poteri decisionali” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
18.11.2014 n. 2915).
Analogamente, si è precisato che
“Nelle gare pubbliche la commissione giudicatrice di
procedure d'appalto pubblico, essendo collegio perfetto,
deve operare con il plenum dei suoi componenti, trova una
deroga nei casi in cui essa svolge un'attività meramente
preparatoria e istruttoria, dovendo invece essa
necessariamente operare come collegio perfetto quando è
chiamata a fare scelte discrezionali, in ordine alle quali
c'è l'esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro
contributo ai fini di una corretta formazione della volontà
dell'organo collegiale espressa da tutti i suoi componenti” (TAR Piemonte, Sez. I, 13.06.2013 n. 713).
Anche in sede consultiva il Consiglio ha enunciato la
medesima regola della natura perfetta del collegio allorché
la commissione svolga attività rilevanti, quali la selezione
delle tracce e la valutazione di candidati.
Si è invero al riguardo sancito che “In sede di operazioni
concorsuali non si richiede la presenza della commissione
giudicatrice al suo completo in tutte le fasi del
procedimento. La regola del collegio perfetto deve, invero,
trovare osservanza in tutti i momenti in cui vengono
adottate determinazioni rilevanti ai fini della valutazione
dei candidati (fissazione dei criteri di massima di
valutazione delle prove concorsuali; selezione degli
argomenti e redazione delle tracce delle prove scritte;
determinazione dei quesiti da sottoporre ai candidati nelle
prove orali; correzione degli elaborati e svolgimento delle
prove orali), ovvero in ogni altro caso in cui ciò sia
espressamente previsto dalla regolamentazione del concorso;
le operazioni concorsuali di carattere meramente istruttorio
e preparatorio non impongono, invece, la presenza di tutti i
componenti del collegio e possono avvenire sotto il
controllo ed alla presenza di solo alcuni di essi.”
(Consiglio di Stato, Sez. I, 11.07.2011 n. 1286).
Recentissimamente il Consiglio, sia pur in materia di gare
d’appalto, ma all’evidenza il principio è trasponibile nei
pubblici concorsi, condividendo gli stessi i medesimi
principi di collegialità e trasparenza, ha ribadito che
“Occorre distinguere, nell’ambito dell’operato della
Commissione di gara, tra attività di valutazione
dell’offerta ed attività meramente preparatoria e
istruttoria.
Mentre nel primo caso essa è chiamata a fare scelte
discrezionali, in ordine alle quali v’è l’esigenza che tutti
i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una
corretta formazione della volontà dell’organo collegiale
espressa da tutti i suoi componenti, così necessariamente
non avviene per le attività preparatorie, istruttorie e
vincolate, rispetto alle quali il principio di collegialità
può essere derogato, trattandosi di operazioni prive di ogni
connotato valutativo (cfr., tra le altre, Cons. Stato, IV,
n. 4196/2005)” (Consiglio di Stato, Sez. III, 17.07.2018
n. 4331). |
APPALTI:
Le valutazioni svolte dalle Commissioni di gara
relativamente agli aspetti tecnici delle offerte sono
espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal
giudice amministrativo “non mediante una
sostituzione dei giudizi, ma soltanto per difetto di
motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti
di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei
relativi esiti, non plausibilità dei criteri valutativi o
della loro applicazione”.
---------------
Con il primo motivo di appello, Eu.St. s.r.l. censura la
decisione di primo grado per aver accolto le censure
sollevate dalla controinteressata Im. s.r.l.
relativamente all’offerta di miglioria n. 1, per contrasto
con le previsioni di cui ai punti d.6 e d.2 del disciplinare
di gara.
Sotto il primo profilo era stata lamentata l’interferenza
dell’opera con un sedime di proprietà privata, sotto il
secondo la presunta genericità della stessa miglioria, non
potendosi “percepirne l’esatta ubicazione”.
Quanto sopra conseguirebbe all’erroneo presupposto che la
Commissione di gara “ha circoscritto il proprio compito ad
un apprezzamento qualitativo dell’offerta tecnica di Eu.St. s.r.l. dal solo punto di vista della idoneità e
convenienza delle soluzioni proposte, senza valutarne anche
la rispondenza ai parametri che il disciplinare aveva posto
a pena di esclusione”.
Per contro, rileva l’appellante, il complesso percorso
istruttorio alla base dei giudizi espressi dalla Commissione
di gara nelle tre sedute straordinarie smentirebbe tale
conclusione, comprovando piuttosto come la miglioria offerta
da Eu.St. sarebbe conforme alle prescrizioni del
disciplinare e realizzabile dal punto di vista sia tecnico
che giuridico.
Il motivo è fondato.
Va ribadito, al riguardo, che le valutazioni svolte dalle
Commissioni di gara relativamente agli aspetti tecnici delle
offerte sono espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile dal giudice amministrativo “non mediante una
sostituzione dei giudizi, ma soltanto per difetto di
motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti
di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei
relativi esiti, non plausibilità dei criteri valutativi o
della loro applicazione” (ex plurimis, Cons. Stato, V, 27.04.2015, n. 2098; III,
02.04.2015, n. 1741) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.11.2018 n. 6423 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Va confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale,
anche in mancanza dalla previa autorizzazione di varianti
(prevista dall’art. 95 cit.), deve comunque ritenersi insita
nella scelta del criterio selettivo dell’offerta
economicamente più vantaggiosa la possibilità, per i
partecipanti, di proporre quelle variazioni migliorative
rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze
tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali
delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non
ledere la par condicio tra i concorrenti.
Al riguardo, va detto che le soluzioni migliorative si
differenziano dalle varianti perché le prime possono
liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati
aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a
base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista
tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle
caratteristiche progettuali già stabilite
dall’amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in
modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva previsione
contenuta nel bando di gara e l’individuazione dei relativi
requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera
proposta dal concorrente costituisce un “aliud” rispetto a
quella prefigurata dalla pubblica amministrazione.
---------------
Con il terzo
motivo di appello, di carattere subordinato ai precedenti,
viene infine dedotta la nullità della clausola escludente di
cui al punto f) del disciplinare di gara per violazione del
principio di tassatività sancito dall’art. 83, comma 8, del
d.lgs. n. 50 del 2016, a mente del quale “I bandi e le
lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste
dal presente codice e da altre disposizioni di legge
vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Invero, rileva l’appellante, non esiste alcuna disposizione
di legge per cui la presentazione di migliorie progettuali –ancorché difformi ai requisiti minimi indicati dalla
stazione appaltante negli atti di gara– comporti la
necessaria esclusione dalla gara dell’impresa offerente.
Piuttosto, le offerte migliorative risultano ammesse in via
generale, prima dall’art. 76 del d.lgs. n. 163 del 2006 e,
quindi, dal vigente art. 95, comma 14, del richiamato d.lgs.
n. 50 del 2016 in tutte le gare aggiudicate col criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, previa
autorizzazione della stazione appaltante.
Il motivo risulta in linea di principio fondato, nei termini
che si precisano.
Va infatti confermato l’orientamento giurisprudenziale –dal
quale non vi è ragione di discostarsi– secondo il quale,
anche in mancanza dalla previa autorizzazione di varianti
(prevista dall’art. 95 cit.), deve comunque ritenersi insita
nella scelta del criterio selettivo dell’offerta
economicamente più vantaggiosa la possibilità, per i
partecipanti, di proporre quelle variazioni migliorative
rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze
tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali
delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non
ledere la par condicio tra i concorrenti (Cons. Stato, V, 27.03.2015, n. 1601).
Al riguardo, va detto (ex multis, Cons. Stato, V, 16.04.2014, n. 1923) che le soluzioni migliorative si
differenziano dalle varianti perché le prime possono
liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati
aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a
base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista
tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle
caratteristiche progettuali già stabilite
dall’amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in
modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva previsione
contenuta nel bando di gara e l’individuazione dei relativi
requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera
proposta dal concorrente costituisce un “aliud” rispetto a
quella prefigurata dalla pubblica amministrazione (in
termini, anche Cons. Stato, V, 17.01.2018, n. 270; V,
14.05.2018, n. 2853; VI, 19.06.2017, n. 2969).
Alla luce di quanto precede, sarebbe quindi illegittima
un’interpretazione della clausola di cui al capo 4, punto f),
del disciplinare di gara –secondo cui “il verificarsi di
una delle condizioni di cui alle precedenti lettere d)
oppure e), comporta la non ammissibilità dell’Offerta
Tecnica e l’esclusione del relativo offerente”– tale da
comportare l’automatica esclusione delle offerte che
presentino eventuali soluzioni migliorative rispetto alle
prescrizioni progettuali poste a base di gara.
Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va dunque
accolto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.11.2018 n. 6423 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le strade
vicinali, ancorché private, sono assimilate a quelle
comunali ai sensi dell’art. 2, comma 6, lett. d), del d.lgs. 30.04.1992,
n. 285 (Codice della strada), caratterizzandosi per la
presunzione (sia pure iuris tantum) di uso pubblico,
superabile solo con la prova contraria dell’inesistenza di
tale diritto di godimento da parte della collettività, prova che
non risulta dagli atti di causa.
Del resto, ai sensi
dell’art. 825 Cod. civ., “Sono parimenti soggetti al regime
del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo
Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad
altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per
l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli
precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico
interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni
medesimi”.
---------------
Neppure appare
decisiva l’ulteriore considerazione, riportata in sentenza,
secondo cui non esisterebbero “dubbi che su alcune strade di
avvicinamento ai depuratori (Calvisi ed Auduni) il Comune di
Gioia Sannitica non esercita un diritto di proprietà, ma
sarebbe solo titolare di servitù di passaggio; ma
l’esistenza di una servitù, a prescindere dalla facultas
specifica del titolare, presuppone necessariamente che il
proprietario del fondo servente non sia l’amministrazione
comunale, né risulta che esistano posizioni dominicali tali
da fa ricadere altrimenti le predette aree nella mano
pubblica”.
Invero, proprio la riconosciuta esistenza di una servitù di
uso pubblico su parte delle strade di avvicinamento ai
depuratori avrebbe dovuto piuttosto rafforzare la posizione
dell’aggiudicataria (come del resto riconosciuto dalla
Commissione di gara), in quanto le strade vicinali, ancorché
private, sono assimilate a quelle comunali ai sensi
dell’art. 2, comma 6, lett. d), del d.lgs. 30.04.1992,
n. 285 (Codice della strada), caratterizzandosi per la
presunzione (sia pure iuris tantum) di uso pubblico,
superabile solo con la prova contraria dell’inesistenza di
tale diritto di godimento da parte della collettività (ex multis, Cons. Stato, IV, 19.03.2015, n. 1515), prova che
non risulta dagli atti di causa.
Del resto, ai sensi
dell’art. 825 Cod. civ., “Sono parimenti soggetti al regime
del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo
Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad
altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per
l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli
precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico
interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni
medesimi” (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 14.11.2018 n. 6423 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Tutela dell’interesse dell’appaltatore ad ottenere la
revisione dei prezzi.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione prezzi
– Termine iniziale per il calcolo del compenso revisionale –
Decorrenza ex art. 33, comma 3, l. n. 41 del 1986 normativa
ratione temporis applicabile – Riferimento alla data
dell’aggiudicazione e non dell’offerta.
●
Giurisdizione -
Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione prezzi
– Prolungamento dei lavori oltre il termine contrattualmente
previsto – Richiesta risarcitoria - Giurisdizione del
giudice ordinario.
●
Se la revisione-prezzi tende a ristabilire il rapporto
sinallagmatico tra la prestazione dell’appaltatore e la
controprestazione dell’Amministrazione, adeguando il
corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, qualora
questi superino la soglia dell’alea contrattuale come
determinata dalla legge, essa può evidentemente operare
soltanto dopo che il rapporto contrattuale sia sorto, cioè
dopo l’aggiudicazione (1).
●
La
domanda di risarcimento dei danni subiti a causa del
prolungamento dei lavori oltre il termine contrattualmente
previsto appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario, dal momento che essa non ha ad oggetto l’an del
compenso revisionale, ma il risarcimento dei danni subiti
dall’appaltatore in conseguenza dell’inadempimento
(colpevole) dell’Amministrazione committente (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. VI, 24.06.1994, n. 1055; id., sez. VI,
14.10.1999, n. 559; id.,
sez. V, 01.10.2002, n. 5122.
Ha chiarito il Tar che la revisione-prezzi nei contratti di
appalto, disciplinata dall’art. 33, comma 3, l. n. 41 del
1986, decorre dalla data dell’aggiudicazione e non da quella
dell’offerta ed ha indicato e analizzato in senso critico i
risalenti pareri e sentenze del Consiglio e le circolari
ministeriali su cui si basa le diversa e non condivisa tesi
che assume come punto di riferimento per determinare
l’ammontare della revisione-prezzi la data dell’offerta.
(2) Il Tar richiama, a conferma del fatto che la questione esuli
dalla giurisdizione del giudice amministrativo, l’indirizzo
giurisprudenziale della Cassazione civile (n. 5951 del 2008;
n. 16152 del 2013; n. 24161 del 2014), secondo cui la
domanda di risarcimento è caratterizzata da un petitum
e da una causa petendi diversi da quelli oggetto
della domanda di pagamento del compenso revisionale e
postula l’allegazione e la prova della colpa
dell’Amministrazione, che invece non sono necessarie ai fini
della revisione, avente a oggetto il riconoscimento di un
importo decurtato della percentuale che la legge pone a
carico dell’appaltatore
(TAR
Molise,
sentenza 13.11.2018 n. 657 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
IV - Il ricorrente Consorzio sostiene che, ai sensi
dell’art. 33, comma 3, della legge n. 41/1986, il conteggio
per determinare il compenso revisionale va fatto prendendo
come punto di riferimento la data dell’offerta, non quella
dell’aggiudicazione, a differenza di quanto ritenuto dal
direttore dei lavori, considerato che tra la data
dell’offerta e quella dell’aggiudicazione è intercorso un
periodo di tempo superiore a sei mesi.
Tale prospettazione è inattendibile sul piano ermeneutico.
Le circostanze in fatto evidenziate dal ricorrente sono
irrilevanti, ove ci si attenga a quanto previsto dall’art.
33, comma 3, della legge n. 41/1986 -nel testo vigente fino
alla sua abrogazione operata dall’art. 3 del D.L.
11.07.1992, convertito nella legge 08.08.1992 n. 359- almeno
stando alla interpretazione che ne ha dato il Consiglio di
Stato, V Sezione, con la sentenza 01.10.2002 n. 5122.
Il suddetto art. 33, comma 3, così recita: “Per i lavori
di cui al precedente comma 2 aventi durata superiore
all’anno, la facoltà di procedere alla revisione prezzi è
ammessa a decorrere dal secondo anno successivo
all’aggiudicazione e con esclusione dei lavori già eseguiti
nel primo anno e dell’intera anticipazione ricevuta, quando
l’Amministrazione riconosca che l’importo complessivo della
prestazione è aumentato o diminuito in misura superiore al
10% per effetto di variazioni di prezzi correnti intervenute
successivamente alla aggiudicazione stessa. La variazione
dei prezzi da prendere a base per le suddette revisioni per
ogni semestre dell’anno sono quelle rilevate,
rispettivamente, con decorrenza primo gennaio e primo luglio
di ciascun anno”.
Sennonché, l’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato,
con la richiamata decisione, muove dal rilievo che la norma
faccia espressa menzione, per ben due volte,
dell’aggiudicazione quale evento dal cui verificarsi
decorrano i periodi di tempo rilevanti ai fini della
revisione prezzi; la prima volta, l’aggiudicazione è
indicata quale momento dal quale va computato il primo anno
di durata del rapporto contrattuale al fine di escluderlo
dalla revisione dei prezzi; la seconda volta,
l’aggiudicazione è indicata quale fatto che segna il termine
iniziale a cui riferirsi per l’individuazione delle
variazioni dei prezzi da prendere a base per la revisione.
In nessuna parte della norma è menzionato il momento
dell’offerta (ovvero il tempo o la fase procedimentale in
cui l’offerta assume evidenza) e, poiché nell’ambito delle
procedure pubbliche di scelta del contraente,
l’aggiudicazione e l’offerta sono atti tra loro diversi
-perché il primo presuppone necessariamente l’altro e
proviene dall’Amministrazione, mentre il secondo è proprio
del concorrente che non è ancora divenuto contraente- la
norma, nella lettura datane dal Consiglio di Stato, non può
essere interpretata, se non alla stregua del suo dato
testuale.
La circostanza che l’offerta sia ignorata dall’art. 33,
comma 3, della legge n. 41/1986 evidenzia l’inattendibilità
di ogni ipotesi interpretativa che assuma l’offerta (anziché
l’aggiudicazione) come termine di riferimento.
Ne consegue che, ai fini della revisione-prezzi, nessuna
rilevanza va riconosciuta al fatto -addotto dal ricorrente
Consorzio- che tra la data dell’offerta e quella
dell’aggiudicazione siano decorsi più di sei mesi, essendo
tale circostanza irrilevante nella considerazione della
richiamata giurisprudenza (cfr.: Cons. Stato V n. 5122/2002;
Tar Campania-Salerno II, 05.12.2013 n. 2402). Se la
revisione-prezzi tende a ristabilire il rapporto
sinallagmatico tra la prestazione dell’appaltatore e la
controprestazione dell’Amministrazione, adeguando il
corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, qualora
questi superino la soglia dell’alea contrattuale come
determinata dalla legge, essa può evidentemente operare
soltanto dopo che il rapporto contrattuale sia sorto, cioè
dopo l’aggiudicazione.
Deve concludersi, pertanto, che la revisione-prezzi nei
contratti di appalto, disciplinata dall’art. 33, comma 3,
della legge n. 41/1986, decorre dalla data
dell’aggiudicazione e non da quella dell’offerta (in senso
conforme, cfr.: Cons. Stato VI, 24.06.1994 n. 1055; idem VI
14.10.1999 n. 559; idem V, 01.10.2002 n. 5122).
Così stando le cose, correttamente l’Ente committente è
pervenuto alla determinazione negativa in ordine alla
richiesta di revisione-prezzi avanzata dal Co., basandosi
sulle concordanti conclusioni raggiunte dalla Commissione di
collaudo e dal direttore dei lavori, che hanno considerato
come “dies a quo” per il calcolo della
revisione-prezzi la data dell’aggiudicazione e non quella
dell’offerta, in conformità a quanto stabilito dal citato
art. 33, comma 3. Conseguentemente, poiché, sulla base dei
conteggi della direzione lavori, l’importo della revisione
prezzi è risultato inferiore all’alea contrattuale del 10%,
il compenso revisionale è stato ritenuto non dovuto. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO DEL SUOLO - Obbligo di assumere misure atte a
rimuovere l’inquinamento - Autore della contaminazione -
Artt. 242 e 244 d.lgs. n. 152/2006
L'obbligo di assumere misure atte a
rimuovere l'inquinamento fa carico, a sensi dell'art. 242
del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, al suo autore, non
configurandosi una responsabilità oggettiva in capo al
proprietario o al possessore del sito in ragione di tale
qualità (cfr.: Tar
Piemonte - Sez. I, 09.08.2017, n. 960; Cons. Stato, Sez. VI,
05.10.2016, n. 4099; idem, 05.10.2016, n. 4119).
Com’è noto, infatti. ai sensi degli artt.
242, comma 1, e 244, comma 2, del citato Testo unico
dell'ambiente, una volta riscontrato un fenomeno di
potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, bonifica e ripristino ambientale possono essere
imposti dalla pubblica Amministrazione ai soggetti
responsabili dell'inquinamento, cioè ai soggetti che abbiano
in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un
proprio comportamento commissivo od omissivo, legato
all'inquinamento da un preciso nesso di causalità.
...
INQUINAMENTO DEL SUOLO - Siti inquinati - Normativa speciale
- Presupposti per l’emanazione di ordinanze contingibili e
urgente - Applicabilità della normativa generale di cui
all’art. 50 d.lgs. n. 267/2000.
Pur a fronte di una normativa speciale
che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in
ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la
normativa generale, espressione di un potere residuale, in
materia di ordinanze contingibili e urgenti –quali previste
dall’art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000– quando se
ne configurino i relativi presupposti
(cfr.: Cons. Stato V, 16.02.2010 n. 868) (TAR
Molise,
sentenza 13.11.2018 n. 656 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento
fa carico al suo autore.
---------------
●
Ambiente – Danno ambientale – Obbligo di assumere misure
atte a rimuovere l’inquinamento – Diffida ai soggetti
responsabili dell’inquinamento – Legittimità.
●
Ambiente – Danno ambientale – Obbligo di assumere misure
atte a rimuovere l’inquinamento – Diffida ai soggetti
responsabili dell’inquinamento – Competenza – Normativa
speciale art. 244, d.lgs. n. 152 del 2006 – Normativa
generale art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000 - Potere
residuale – Presupposti - Applicabilità.
●
L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento
fa carico, a sensi dell'art. 242, d.lgs. 03.04.2006 n. 152,
al suo autore, non configurandosi una responsabilità
oggettiva in capo al proprietario o al possessore del sito
in ragione di tale qualità (1).
●
A fronte di una normativa speciale che si occupa,
di regola, dell’attività amministrativa in ordine ai siti
inquinati, si deve ritenere applicabile la normativa
generale, espressione di un potere residuale, in materia di
ordinanze contingibili e urgenti –quali previste dall’art.
50, comma 5, d.lgs. n. 267 del 2000– quando se ne
configurino i relativi presupposti (2).
---------------
1)
Tar Piemonte,sez. I, 09.08.2017, n. 960; Cons. St., sez. VI,
05.10.2016, n. 4099; id. 05.10.2016, n. 4119.
Il Tar ha chiarito che non si ravvisa, nella specie, alcuna
violazione dei principi giuridici in materia ambientale e il
fatto che non sia stato intimato ad ovviare all’inquinamento
anche il successivo proprietario del suolo non costituisce
un vizio di legittimità della diffida impugnata che
ragionatamente individua quale responsabile il Consorzio che
usava a suo tempo le cisterne, dalle quali proviene il
segnalato inquinamento del suolo.
Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, del Testo
unico dell'ambiente (d.lgs. 03.04.2006 n. 152), una volta
riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un
sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d'emergenza o definitiva, bonifica e ripristino
ambientale possono essere imposti dalla pubblica
Amministrazione ai soggetti responsabili dell'inquinamento,
cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo
od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità.
2) Cons. St., sez. V, 16.02.2010, n. 868.
Il Tar ha precisato che se è vero che la Provincia è
competente, ai sensi dell’art. 244 del Testo unico
dell'ambiente (d.lgs. 03.04.2006 n. 152), ad adottare la
diffida in argomento, è altresì vero che, nei casi di
urgenza, il Comune può intervenire con una propria ordinanza
contingibile, fermo restando che la Provincia possa e debba
adottare –se non l’ha già fatto- i provvedimenti di sua
competenza (TAR
Molise,
sentenza 13.11.2018 n. 656 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
III - Il ricorso è infondato.
È incontestato che non si sia rinvenuta, agli atti del
fascicolo, la cartolina postale comprovante l’avvenuto
perfezionamento della notifica, eseguita a mezzo plico
raccomandato con ricevuta di ritorno, nei confronti
dell’Amministrazione comunale intimata, che peraltro non si
è costituita in giudizio. La giurisprudenza sulla
producibilità in limine del detto documento è oscillante (cfr.:
Cons. Stato IV, n. 2420/2014; Cass. civile VI, 27.10.2017 n.
25552). Ciò nondimeno, a voler prescindere dal sollevato
profilo di inammissibilità, il ricorso deve essere respinto,
stante l’inattendibilità dei motivi.
IV – Dalla documentazione versata in atti risulta che, sin
dal 1976, è cessato l'uso dell'area in argomento quale
deposito di carburante e le cisterne interrate lì presenti
sono state quindi riempite con materiale inerte; nessun
particolare intervento di bonifica è stato eseguito fino al
2013, allorché il sito è passato in proprietà alla società
Ubi Leasing e condotto in leasing dalla ditta di Rosa
Michele.
L'obbligo di assumere misure atte a rimuovere l'inquinamento
fa carico, a sensi dell'art. 242 del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152,
al suo autore, non configurandosi una responsabilità
oggettiva in capo al proprietario o al possessore del sito
in ragione di tale qualità (cfr.: Tar Piemonte - Sez. I,
09.08.2017, n. 960; Cons. Stato, Sez. VI, 05.10.2016, n. 4099;
idem, 05.10.2016, n. 4119). Tutto lascia intendere e supporre
che l’inquinamento sia avvenuto all’epoca dell’utilizzo
delle cisterne quali depositi di carburanti, allorché
proprietario e utilizzatore del fondo era il ricorrente
Consorzio.
Com’è noto, ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma
2, del citato Testo unico dell'ambiente, una volta
riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un
sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d'emergenza o definitiva, bonifica e ripristino
ambientale possono essere imposti dalla pubblica
Amministrazione ai soggetti responsabili dell'inquinamento,
cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo
od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità. Il ricorrente Consorzio rientra tra i detti
soggetti poiché è noto e incontestato che esso abbia
utilizzato le cisterne per il deposito di nafta agricola
fino al 1976, senza aver verificato –alla cessazione
dell’uso– che le cisterne fossero ripulite ed
opportunamente bonificate.
V – Pertanto, le censure del ricorso devono essere
disattese.
VI - Se è vero che la Provincia è competente, ai sensi
dell’art. 244 del citato T.U. ambientale, ad adottare la
diffida in argomento, è altresì vero che, nei casi di
urgenza, il Comune può intervenire con una propria ordinanza
contingibile, sicché, pur a fronte di una normativa speciale
che si occupa, di regola, dell’attività amministrativa in
ordine ai siti inquinati, si deve ritenere applicabile la
normativa generale, espressione di un potere residuale, in
materia di ordinanze contingibili e urgenti –quali previste
dall’art. 50, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000– quando
se ne configurino i relativi presupposti (cfr.: Cons. Stato
V, 16.02.2010 n. 868).
Nel caso di specie, l’intervento del
Comune presenta in effetti il carattere dell’urgenza, fermo
restando che la Provincia possa e debba adottare –se non
l’ha già fatto- i provvedimenti di sua competenza.
VII – Stante la rilevata urgenza del caso, non si ritengono
necessari né la comunicazione di avvio del procedimento ex
art. 7 legge n. 241/1990, né l’indicazione dei termini di
conclusione del procedimento, ex art. 8 della stessa legge.
VIII – Inattendibile è, altresì, il motivo del difetto di
istruttoria e di motivazione della diffida: l’atto nasce da
un accertamento del NOE e della Polizia municipale datato
02.10.2013, dal quale è risultato che le cisterne interrate,
a suo tempo utilizzate dal Consorzio ricorrente, sono
inquinanti. Il fatto che non sia stato intimato ad ovviare
all’inquinamento anche il successivo proprietario del suolo,
cioè la società Ubi Leasing, non costituisce un vizio di
legittimità della diffida impugnata che ragionatamente
individua quale responsabile il Consorzio che usava a suo
tempo le cisterne, nonché l’attuale utilizzatore del fondo.
Nulla toglie che la Provincia di Campobasso, nell’ambito
delle sue competenze, possa ancora diffidare all’adempimento
il Consorzio ricorrente ed anche la società odierna
proprietaria del suolo.
IX – Non si ravvisa, nella specie, alcuna violazione dei
principi giuridici in materia ambientale poiché –come già
rilevato– il Consorzio risulta essere stato l’utilizzatore
delle cisterne interrate ad uso deposito nafta, dalle quali
proviene il segnalato inquinamento del suolo.
X – In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Sussistono giustificate ragioni per la compensazione delle
spese del giudizio tra le parti. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Indizione di un nuovo concorso in presenza di una
graduatoria ancora valida.
---------------
Concorso – Graduatoria – Graduatoria valida ed efficace –
Indizione nuovo concorso – Possibilità – Motivazione
specifica – Necessità.
La pubblica amministrazione, pur in
presenza di graduatorie valide ed efficaci, se vuole coprire
posti relativi a professionalità presenti nelle stesse non è
obbligata ad attuare lo scorrimento ma può indire un nuovo
concorso purché tale determinazione sia assistita da un
approfondito corredo motivazionale, in assenza del quale la
determinazione è illegittima (1).
---------------
(1)
Al livello della normativa di fonte primaria ha ricordato la
Sezione che l’art. 3, comma 87, l. 24.12.2007 n. 244 (legge
finanziaria 2008), che ha aggiunto il comma 5-ter all’art.
35, d.lgs. n. 165 del 2001, ha stabilito che le graduatorie
dei concorsi per il reclutamento del personale delle
pubbliche amministrazioni rimangono vigenti per un termine
di tre anni dalla data di pubblicazione.
L’ambito oggettivo di applicazione della disposizione citata
è particolarmente ampio, applicandosi indistintamente “a
tutte” le pubbliche amministrazioni.
Ha aggiunto il Tar –richiamando un proprio precedente in
termini (sez.
III-bis, 21.06.2016 n. 7254)- che la norma citata
deve evidentemente essere interpretata nel senso reso palese
dal suo tenore testuale nonché alla luce della ratio sottesa
che, nella fattispecie, è indubbiamente quella di favorire,
ove possibile, lo scorrimento delle graduatorie con il solo
limite, quanto agli idonei, del rispetto del criterio di
equivalenza delle professionalità necessarie per l’ente e
presenti nelle graduatorie ancora valide.
Da ciò consegue che l’amministrazione ai fini della
legittimità della scelta di indire nuovi concorsi pubblici è
tenuta a fornire un’adeguata motivazione sul punto, che deve
riguardare l’effettiva carenza in concreto di
professionalità equivalenti nell’ambito delle graduatorie
concorsuali ancora valide; ai fini dell’applicazione del
criterio dell’equivalenza non può fondatamente farsi ricorso
al criterio dell’identità perfetta e assoluta tra le due
professionalità in comparazione tra di loro, come opinato da
parte ricorrente.
Sul punto v. anche l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011,
che ha precisato che “sul piano dell’ordinamento
positivo, si è ormai realizzata la sostanziale inversione
del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la
decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed
efficace, quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta
ormai la regola generale, mentre l'indizione del nuovo
concorso costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e
approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio
impasto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di
interesse pubblico”.
Tale principio è oramai consolidato nella giurisprudenza per
la quale “nell'impiego pubblico, in presenza di
graduatorie concorsuali valide ed efficaci,
l'amministrazione, se stabilisce di provvedere alla
copertura dei posti vacanti, deve motivare la determinazione
riguardante le modalità di reclutamento del personale, anche
qualora scelga l'indizione di un nuovo concorso, in luogo
dello scorrimento delle graduatorie vigenti” (Cons.
St., sez. IV, 24.08.2017, n. 4056).
In sostanza, se è vero che l’Amministrazione non ha
l’obbligo di preferire lo scorrimento rispetto all’indizione
di un nuovo concorso, tale scelta deve essere adeguatamente
motivata, soprattutto quando, come nel caso in esame, il
d.m. n. 163 del 2018, avente ad oggetto l’assunzione di
ricercatori e tecnologi negli enti pubblici di ricerca e
posto alla base dei provvedimenti impugnati, ha
espressamente previsto la possibilità che le assunzioni in
questione “possono essere effettuate, oltre che con le
ordinarie procedure di selezione, utilizzando delle
graduatorie vigenti…”
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 12.11.2018 n. 10862 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. Ritiene la Sezione che il ricorso sia persuasivo e
meritevole di essere accolto.
Gli atti indittivi del gravato concorso appaiono infatti
confliggere con l’art. 1 comma 3, del DM Miur n. 105 del
26.02.2016 che stabilisce che la copertura dei finanziati
posti debba avvenire utilizzando le graduatorie vigenti
relative alle procedure attuate ai sensi del decreto
ministeriale 26.02.2016, n. 105 e con l’eccezionalità
dell’indizione di nuovo concorso richiedente specifica
motivazione.
Al livello della normativa di fonte primaria rammenta il
Collegio che l’art. 3, comma 87, della legge 24.12.2007 n.
244 (legge finanziaria 2008), che ha aggiunto il comma 5-ter
all’art. 35 del d.lgs. 165/2001, ha stabilito che le
graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale
delle pubbliche amministrazioni rimangono vigenti per un
termine di tre anni dalla data di pubblicazione.
L’ambito oggettivo di applicazione della disposizione citata
è particolarmente ampio, applicandosi indistintamente “a
tutte” le pubbliche amministrazioni.
2.1. La Sezione si è di recente pronunciata
sull’applicazione di tale disposizione con riguardo a caso
analogo a quello per cui si controverte, stabilendo che “La
norma citata deve evidentemente essere interpretata nel
senso reso palese dal suo tenore testuale nonché alla luce
della ratio sottesa che, nella fattispecie, è indubbiamente
quella di favorire, ove possibile, lo scorrimento delle
graduatorie con il solo limite, quanto agli idonei, del
rispetto del criterio di equivalenza delle professionalità
necessarie per l’ente e presenti nelle graduatorie ancora
valide.
Da ciò consegue che l’amministrazione ai fini della
legittimità della scelta di indire nuovi concorsi pubblici è
tenuta a fornire un’adeguata motivazione sul punto, che deve
riguardare l’effettiva carenza in concreto di
professionalità equivalenti nell’ambito delle graduatorie
concorsuali ancora valide; ai fini dell’applicazione del
criterio dell’equivalenza non può fondatamente farsi ricorso
al criterio dell’identità perfetta e assoluta tra le due
professionalità in comparazione tra di loro, come opinato da
parte ricorrente”. (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis,
21.06.2016 n. 7254).
Si è espresso nei medesimi sensi anche TAR Campania–Napoli,
Sez. IV, n. 366/2017.
2.2. Va ulteriormente denotato che il presupposto
fondamentale a cui è ancorata l’applicazione dell’istituto
dello scorrimento è costituito dalla presenza, nella stessa
amministrazione, di idonei collocati nelle proprie
graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007, relative a professionalità necessarie anche secondo un
criterio di equivalenza.
Sul punto deve ricordarsi che l’Adunanza Plenaria 14/2011 ha
precisato che “sul piano dell’ordinamento positivo, si è
ormai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra
l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di
scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace, quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta ormai la
regola generale, mentre l'indizione del nuovo concorso
costituisce l'eccezione e richiede un'apposita e
approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio
impasto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di
interesse pubblico”.
Tale principio è oramai consolidato nella giurisprudenza per
la quale “nell'impiego pubblico, in presenza di graduatorie
concorsuali valide ed efficaci, l'amministrazione, se
stabilisce di provvedere alla copertura dei posti vacanti,
deve motivare la determinazione riguardante le modalità di
reclutamento del personale, anche qualora scelga l'indizione
di un nuovo concorso, in luogo dello scorrimento delle
graduatorie vigenti” (Cons. St., sez. IV, 24.08.2017, n.
4056).
In sostanza, se è vero che l’Amministrazione non ha
l’obbligo di preferire lo scorrimento rispetto all’indizione
di un nuovo concorso, tale scelta deve essere adeguatamente
motivata, soprattutto quando, come nel caso in esame, il
d.m. 163/2018, avente ad oggetto l’assunzione di ricercatori
e tecnologi negli enti pubblici di ricerca e posto alla base
dei provvedimenti impugnati, ha espressamente previsto la
possibilità che le assunzioni in questione “possono essere
effettuate, oltre che con le ordinarie procedure di
selezione, utilizzando delle graduatorie vigenti …”.
2.2. Nel caso in esame traspare dagli atti di causa come la
scelta di procedere attraverso un nuovo concorso piuttosto
che attraverso l’utilizzo delle graduatorie esistenti non
risulti sorretta da alcun corredo motivazionale.
Al riguardo va pure precisato che non può ritenersi che le
motivazioni siano quelle offerte dall’Amministrazione nella
propria memoria prodotta in giudizio, posto che per pacifico
orientamento giurisprudenziale “la motivazione del
provvedimento amministrativo non può essere integrata nel
corso del giudizio con la specificazione di elementi di
fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire ogni
provvedimento amministrativo, individuando con ciò il
fondamento dell'illegittimità della motivazione postuma
nella tutela del buon andamento amministrativo e
nell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario” (Cons.
St., Sez. VI, 08.09.2017, n. 4253).
In definitiva, per le considerazioni finora svolte il
ricorso si prospetta fondato e deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione unica, illegittimi i pareri
espressi al di fuori della Conferenza di servizi.
Consiglio di Stato: il parere negativo
espresso al di fuori della Conferenza è illegittimo per
incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità
priva di potere in materia.
“La giurisprudenza, con riguardo alla previsione
dell’art. 12, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, ha
rilevato che la costruzione e l’esercizio degli impianti di
produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili sono
soggetti ad un’autorizzazione unica rilasciata dalla
Regione, che è tenuta a convocare la conferenza di servizi;
tutte le Amministrazioni interessate dal progetto, e dunque
con competenza propria in materia, sono tenute a partecipare
alla conferenza e ad esprimere in tale sede anche i pareri
di cui sono investiti per legge, secondo le dinamiche
collaborative proprie dello strumento di semplificazione
procedimentale previsto dalla legge. Il parere negativo
espresso al di fuori della conferenza è illegittimo per
incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità
priva di potere in materia (in termini C.G.A. Sicilia,
11.04.2008, n. 295; indirettamente anche Cons. Stato, IV,
13.10.2015, n. 4732).”
Lo ha ribadito la V Sez. del Consiglio di Stato nella
sentenza 12.11.2018 n. 6342.
“Se tale orientamento giurisprudenziale, il cui
fondamento di razionalità è ravvisabile nel fatto che
l’autorizzazione unica sia l’epilogo di un procedimento
unitario, vale per i soggetti che, in quanto portatori di
interessi canonizzati dalla norma, devono partecipare al
procedimento conferenziale, a maggiore ragione la soluzione
si impone per l’ARPA, organo tecnico-consultivo, seppure con
soggettività giuridica pubblica (art. 2, comma 1, della l.r.
Puglia 22.01.1999, n. 6), della Regione”, aggiunge la
nuova sentenza (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
Il motivo, nella sua triplice articolazione, è infondato.
2.1. - Quanto alla possibilità, da parte della Regione, di
acquisire il parere dell’ARPA nell’ambito del procedimento
conferenziale finalizzato al rilascio dell’autorizzazione
unica, occorre mettere in evidenza come la sentenza non
abbia negato tale prerogativa. Al contrario, all’esito di un
articolato percorso motivazionale, che ha preso le mosse
proprio dal dubbio in ordine alla legittimazione dell’ARPA a
partecipare alla conferenza di servizi decisoria, la
sentenza ha affermato «di non poter del tutto escludere
la possibilità per […] la Regione Puglia, di poter invitare
alla conferenza di servizi anche amministrazioni od organi
tecnici, quali l’A.r.p.a., non titolari di competenze
decisorie in materia di realizzazione di impianti di
produzione di energia da fonti rinnovabili, sussistendo sul
punto un ineludibile profilo di discrezionalità
amministrativa, seppure da esercitarsi nei limiti di
ragionevolezza e proporzionalità, al fine di non snaturare
lo strumento decisorio della conferenza di servizi di cui
all’art. 12, comma 4, d.lgs. n. 387/2003».
2.2. - Con riguardo, poi, all’ulteriore profilo del parere
espresso (in data 31.08.2011) al di fuori della conferenza
di servizi e successivamente alla chiusura della stessa
(20.12.2010), la sentenza di prime cure ha condivisibilmente
ritenuto che sia illegittimo, melius affetto da
incompetenza assoluta, anche perché «le integrazioni
richieste e fornite dalla ricorrente avrebbero dovuto semmai
essere anch’esse esaminate in sede di conferenza di servizi».
La giurisprudenza, proprio con riguardo alla previsione
dell’art. 12, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, ha
rilevato che la costruzione e l’esercizio degli impianti di
produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili sono
soggetti ad un’autorizzazione unica rilasciata dalla
Regione, che è tenuta a convocare la conferenza di servizi;
tutte le Amministrazioni interessate dal progetto, e dunque
con competenza propria in materia, sono tenute a partecipare
alla conferenza e ad esprimere in tale sede anche i pareri
di cui sono investiti per legge, secondo le dinamiche
collaborative proprie dello strumento di semplificazione
procedimentale previsto dalla legge. Il parere negativo
espresso al di fuori della conferenza è illegittimo per
incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità
priva di potere in materia (in termini C.G.A. Sicilia,
11.04.2008, n. 295; indirettamente anche Cons. Stato, IV,
13.10.2015, n. 4732).
Se tale orientamento giurisprudenziale, il cui fondamento di
razionalità è ravvisabile nel fatto che l’autorizzazione
unica sia l’epilogo di un procedimento unitario, vale per i
soggetti che, in quanto portatori di interessi canonizzati
dalla norma, devono partecipare al procedimento
conferenziale, a maggiore ragione la soluzione si impone per
l’ARPA, organo tecnico-consultivo, seppure con soggettività
giuridica pubblica (art. 2, comma 1, della l.r. Puglia
22.01.1999, n. 6), della Regione.
Del resto, tale sistema appare funzionale a che le
Amministrazioni convocate esprimano il proprio motivato
dissenso rispetto all’oggetto dell’iniziativa procedimentale
all’interno del procedimento, anche in considerazione della
possibilità di dover attivare il meccanismo rimediale
previsto per il superamento del dissenso qualificato (Cons.
Stato, V, 09.05.2018, n. 2790) (Consiglio di Stato,
V Sez.
sentenza 12.11.2018 n. 6342.
- link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Trasferimento di pubblico dipendente con figli minori fino a
tre anni di età.
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Pubblico impiego privatizzato - Trasferimento – Per figli
minori fino a tre anni di età – Art. 42-bis, d.lgs. n. 151
del 2001 – Deficienze di organico – Diniego – Motivazione
specifica – Necessità.
In materia di trasferimento del
dipendente di amministrazioni pubbliche, genitore con figli
minori fino a tre anni di età, previsto dall'art. 42-bis,
d.lgs. n. 151 del 2001 le esigenze organizzative legate alle
deficienze di organico non sono sufficienti ai fini del
diniego dell'istanza, ove non siano accompagnate da
un'adeguata motivazione che dia conto della peculiare
professionalità ovvero specializzazione delle prestazioni
resa del soggetto istante, tali da renderlo difficilmente
sostituibile (1).
---------------
(1)
Tar Catanzaro, sez. I, 01.08.2018, n. 1494.
Ad avviso del Tar le ordinarie esigenze di servizio non
possono costituire motivi ostativi al riconoscimento del
beneficio di cui all'art. 42-bis, d.lgs. n. 151 del 2001
atteso che tale disposizione normativa è stata introdotta
dal legislatore a tutela dei minori (Tar
Milano, sez. III, 21.09.2018, n. 2118).
L'amministrazione deve opporre una reale difficoltà
conseguente allo spostamento dell'istante e non segnalare
quei disagi o inconvenienti che –come nel caso della
motivazione del provvedimento impugnato- sono sempre
conseguenti al trasferimento di un dipendente da un reparto
che così aumenta di un'unità la scopertura dell'organico (Tar
Bologna, sez. I, 08.10.2018, n. 742).
La norma di cui all'art. 42-bis, comma 1, d.lgs. n. 151 del
2001, strumentale alla tutela di valori costituzionali di
ragno primario legati alla promozione della famiglia ed al
diritto-dovere di provvedere alla cura dei figli applicabile
anche al personale delle forze di polizia deve essere
interpretata nel senso di ritenere che i "casi o esigenze
eccezionali" legittimanti il diniego di trasferimento
non possano di norma identificarsi con le carenze di
organico dell'amministrazione cedente (Tar
Catanzaro, sez. I, 12.06.2018, n. 1178).
L’esercizio del limitato potere discrezionale che l’art.
42-bis cit. configura in capo all’amministrazione è
correlato ad un obbligo motivazionale particolarmente
stringente, in considerazione dell’esigenza di dare
protezione a valori di rilievo costituzionale (Cons.
St., sez. IV, n. 2426 del 2015) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
ordinanza 12.11.2018 n. 1048 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Procedura di valutazione ambientale strategica.
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Ambiente – Valutazione ambientale strategica – Procedura
– Individuazione.
La valutazione ambientale strategica
(Vas) ha la finalità di guidare l'amministrazione
nell'effettuazione delle scelte discrezionali da compiersi
nei procedimenti volti all'approvazione dei piani e dei
programmi, in modo da far sì che tali scelte siano sempre
orientate a garantire un elevato livello di protezione
dell'ambiente; per assicurare il raggiungimento di questo
scopo, si è previsto che la procedura della Vas sia
concomitante a quella che ha per oggetto l'approvazione dei
piani e dei programmi sì da favorire sin da subito
l'emersione e l'evidenziazione dell'interesse ambientale
(1).
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(1)
Cons. St., sez. IV, 26.02.2015, n. 975; id.,
sez. IV, 20.05.2014, n. 2569.
Ha chiarito il Tar che la disciplina della valutazione
ambientale strategica (Vas) integra attuazione della
Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull'ambiente.
L’art. 1 della normativa europea delinea gli obiettivi
perseguiti: garantire un elevato livello di protezione
dell'ambiente e di contribuire all'integrazione di
considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e
dell'adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo
sviluppo sostenibile, assicurando che venga effettuata la
valutazione ambientale di determinati piani e programmi che
possono avere effetti significativi sull'ambiente.
Per fare ciò, alcuni piani e programmi, i quali possono
avere un significativo impatto sull’ambiente e che sono
meglio individuati all’art. 3, sono assoggettati a una
valutazione ambientale, secondo il seguente iter.
Innanzitutto, deve essere redatto un rapporto ambientale in
cui siano individuati, descritti e valutati gli effetti
significativi che l'attuazione del piano o del programma
potrebbe avere sull'ambiente nonché le ragionevoli
alternative alla luce degli obiettivi e dell'ambito
territoriale del piano o del programma (art. 5).
La proposta di piano o di programma ed il rapporto
ambientale devono essere messi a disposizione delle autorità
preposte alla tutela dell’ambiente e del pubblico, i quali
devono disporre tempestivamente di un'effettiva opportunità
di esprimere in termini congrui il proprio parere sulla
proposta di piano o di programma e sul rapporto ambientale
che la accompagna, prima dell'adozione del piano o del
programma o dell'avvio della relativa procedura legislativa
(art. 6).
In fase di preparazione del piano o del programma e prima
della sua adozione o dell'avvio della relativa procedura
legislativa si prendono in considerazione il rapporto
ambientale e i pareri espressi dalle autorità preposte alla
tutela dell’ambiente e del pubblico.
La direttiva 2001/42/CE impone agli Stati membri di adottare
degli strumenti grazie ai quali, allorché si debba porre in
essere un piano o un progetto che possa avere significativi
impatti sull’ambiente, il soggetto procedente sia informato
della natura e del grado di tale impatto, al fine di
assumere una decisione consapevole anche sotto il profilo
ambientale.
La disciplina nazionale appare coerente con il quadro
delineato dalla normativa europea.
L’art. 5, comma 1, lett. a), d.lgs. 03.04.2006, n. 152,
contenente norme in materia di ambiente, definisce come
valutazione ambientale di piani e programmi (valutazione
ambientale strategica, Vas) come “il processo che
comprende (…) lo svolgimento di una verifica di
assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo
svolgimento di consultazioni, la valutazione del piano o del
programma, del rapporto e degli esiti delle consultazioni,
l'espressione di un parere motivato, l'informazione sulla
decisione ed il monitoraggio”.
Le modalità di svolgimento della Vas sono delineate nel
successivo art. 11, per cui la valutazione ambientale
strategica è avviata dall'autorità procedente
contestualmente al processo di formazione del piano o
programma e comprende lo svolgimento di una verifica di
assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo
svolgimento di consultazioni, la valutazione del rapporto
ambientale e gli esiti delle consultazioni, la decisione,
l'informazione sulla decisione, il monitoraggio.
L'autorità competente (cioè l’autorità preposta alla tutela
dell’ambiente individuata dalla legge), esprime, tenendo
conto della consultazione pubblica, dei pareri dei soggetti
competenti in materia ambientale, un proprio parere motivato
sulla proposta di piano e di programma e sul rapporto
ambientale nonché sull'adeguatezza del piano di monitoraggio
e con riferimento alla sussistenza delle risorse finanziarie
(artt. 11 e 15)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 09.11.2018 n. 1888 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12. – La doverosa premessa è che la presente decisione non
ha ad oggetto, né potrebbe averlo, la compatibilità
ambientale dell’intervento edilizio di cui si tratta. Tale
valutazione spetta all’amministrazione pubblica, mentre al
giudice amministrativo spetta il sindacato sulla legittimità
delle decisioni amministrative.
Non è ammissibile, pertanto, quella porzione dei motivi di
entrambi i ricorsi con cui si intende in sostanza ottenere
il riconoscimento, da parte di questo Tribunale, della
compatibilità ambientale del progetto edilizio.
13. – Ciò posto, la disciplina della valutazione ambientale
strategica integra attuazione della Direttiva 2001/42/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001,
concernente la valutazione degli effetti di determinati
piani e programmi sull'ambiente.
L’art. 1 della normativa europea delinea gli obiettivi
perseguiti: garantire un elevato livello di protezione
dell'ambiente e di contribuire all'integrazione di
considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e
dell'adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo
sviluppo sostenibile, assicurando che venga effettuata la
valutazione ambientale di determinati piani e programmi che
possono avere effetti significativi sull'ambiente.
Per fare ciò, alcuni piani e programmi, i quali possono
avere un significativo impatto sull’ambiente e che sono
meglio individuati all’art. 3, sono assoggettati a una
valutazione ambientale, secondo il seguente iter.
Innanzitutto, deve essere redatto un rapporto ambientale in
cui siano individuati, descritti e valutati gli effetti
significativi che l'attuazione del piano o del programma
potrebbe avere sull'ambiente nonché le ragionevoli
alternative alla luce degli obiettivi e dell'ambito
territoriale del piano o del programma (art. 5).
La proposta di piano o di programma ed il rapporto
ambientale devono essere messi a disposizione delle autorità
preposte alla tutela dell’ambiente e del pubblico, i quali
devono disporre tempestivamente di un'effettiva opportunità
di esprimere in termini congrui il proprio parere sulla
proposta di piano o di programma e sul rapporto ambientale
che la accompagna, prima dell'adozione del piano o del
programma o dell'avvio della relativa procedura legislativa
(art. 6).
In fase di preparazione del piano o del programma e prima
della sua adozione o dell'avvio della relativa procedura
legislativa si prendono in considerazione il rapporto
ambientale e i pareri espressi dalle autorità preposte alla
tutela dell’ambiente e del pubblico.
14. – In estrema sintesi, la direttiva 2001/42/CE impone
agli Stati membri di adottare degli strumenti grazie ai
quali, allorché si debba porre in essere un piano o un
progetto che possa avere significativi impatti
sull’ambiente, il soggetto procedente sia informato della
natura e del grado di tale impatto, al fine di assumere una
decisione consapevole anche sotto il profilo ambientale.
E in effetti, i considerando nn. 14, 15 e 17 bene esprimono
tale intendimento:
“(14) Una valutazione, ove prescritta dalla presente
direttiva, dovrebbe essere elaborata in modo da contenere
informazioni pertinenti come stabilito dalla presente
direttiva, identificare, descrivere e valutare i possibili
effetti ambientali significativi, tenendo conto degli
obiettivi e dell'ambito territoriale del piano o del
programma, nonché alternative ragionevoli (…).
(15) Allo scopo di contribuire ad una maggiore trasparenza
dell'iter decisionale nonché allo scopo di garantire la
completezza e l'affidabilità delle informazioni su cui
poggia la valutazione, occorre stabilire che le autorità
responsabili per l'ambiente ed il pubblico siano consultate
durante la valutazione dei piani e dei programmi e che
vengano fissate scadenze adeguate per consentire un lasso di
tempo sufficiente per le consultazioni, compresa la
formulazione di pareri.
(…)
(17) Il rapporto ambientale e i pareri espressi dalle
autorità interessate e dal pubblico (…) dovrebbero essere
presi in considerazione durante la preparazione del piano o
del programma e prima della sua adozione o prima di avviarne
l'iter legislativo”.
15. – La disciplina nazionale, in effetti, appare coerente
con il quadro delineato dalla normativa europea.
L’art. 5, comma 1, lett. a) d.lgs. 03.04.2006, n. 152,
contenente norme in materia di ambiente, definisce come
valutazione ambientale di piani e programmi (valutazione
ambientale strategica, VAS) come “il processo che comprende
(…) lo svolgimento di una verifica di assoggettabilità,
l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di
consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del
rapporto e degli esiti delle consultazioni, l'espressione di
un parere motivato, l'informazione sulla decisione ed il
monitoraggio”.
Le modalità di svolgimento della VAS sono delineate nel
successivo art. 11, per cui la valutazione ambientale
strategica è avviata dall'autorità procedente
contestualmente al processo di formazione del piano o
programma e comprende lo svolgimento di una verifica di
assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo
svolgimento di consultazioni, la valutazione del rapporto
ambientale e gli esiti delle consultazioni, la decisione,
l'informazione sulla decisione, il monitoraggio.
Per quel che rileva in questa sede, l'autorità competente
(cioè l’autorità preposta alla tutela dell’ambiente
individuata dalla legge), esprime, tenendo conto della
consultazione pubblica, dei pareri dei soggetti competenti
in materia ambientale, un proprio parere motivato sulla
proposta di piano e di programma e sul rapporto ambientale
nonché sull'adeguatezza del piano di monitoraggio e con
riferimento alla sussistenza delle risorse finanziarie (artt.
11 e 15).
Ai sensi dell’art. 16, il piano o programma ed il rapporto
ambientale, insieme con il parere motivato e la
documentazione acquisita nell'ambito della consultazione,
sono trasmessi all'organo competente all'adozione o
approvazione del piano o programma.
La decisione finale dell’autorità procedente è pubblicata,
ai sensi dell’art. 17, nei siti web delle autorità
interessate con indicazione del luogo in cui è possibile
prendere visione del piano o programma adottato e di tutta
la documentazione oggetto dell'istruttoria.
Sono inoltre rese pubbliche attraverso la pubblicazione sui
siti web della autorità interessate: a) il parere motivato
espresso dall'autorità competente; b) una dichiarazione di
sintesi in cui si illustra in che modo le considerazioni
ambientali sono state integrate nel piano o programma e come
si è tenuto conto del rapporto ambientale e degli esiti
delle consultazioni, nonché le ragioni per le quali è stato
scelto il piano o il programma adottato, alla luce delle
alternative possibili che erano state individuate; c) le
misure adottate in merito al monitoraggio.
16. – In estrema sintesi, l’autorità competente alla tutela
dell’ambiente, ha il compito di esprimere un parere
motivato, che è un atto endoprocedimentale (cfr. TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 09.05.2013, n. 1203) e che
l’amministrazione competente ha l’obbligo di tenere in
considerazione nella determinazione finale.
Con le parole della più autorevole giurisprudenza, la VAS ha
la finalità di guidare l'amministrazione nell'effettuazione
delle scelte discrezionali da compiersi nei procedimenti
volti, per l'appunto, all'approvazione dei piani e dei
programmi, in modo da far sì che tali scelte siano sempre
orientate a garantire un elevato livello di protezione
dell'ambiente. Per assicurare il raggiungimento di questo
scopo, si è previsto che la procedura della VAS sia
concomitante a quella che ha per oggetto l'approvazione dei
piani e dei programmi sì da favorire sin da subito
l'emersione e l'evidenziazione dell'interesse ambientale (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2015, n. 975; Cons. Stato,
Sez. IV, 20.05.2014, n. 2569). |
URBANISTICA:
Il diritto di proprietà è destinato
necessariamente a confrontarsi con quelle che sono le
dinamiche di sviluppo di un territorio e con le relative
normative in materia di pianificazione urbanistica.
A tal riguardo, il Consiglio di Stato ha rilevato: «… Il
Collegio osserva che il potere di pianificazione urbanistica
del territorio -la cui attribuzione e conformazione
normativa è costituzionalmente conferita alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art.
117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente
attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti
di pianificazione, al Comune- non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico-sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore
costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione
per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito
-al fine di individuare le materie rientranti nella potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine
“urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di
“governo del territorio”, certamente più aderente,
contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che
oggi devono ricomprendersi nel citato termine di
“urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative
controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n.
80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne
tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1),
non solo nell’“assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità
edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione
alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle
concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico-sociali della comunità radicata sul territorio,
sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro
storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de
futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per
autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità
medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi
e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini
al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di
ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato
alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione
di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi
dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost.
D’altra parte, a diversa conclusione non può giungersi
nemmeno sostenendo che, attraverso la considerazione di
esigenze diverse, l’amministrazione finirebbe per comprimere
il contenuto stesso del diritto di proprietà, e lo stesso
ius aedificandi allo stesso connesso.
Senza volere entrare in un dibattito ampio ed
ultratrentennale, che ha visto numerosi interventi della
Corte Costituzionale, occorre almeno ricordare come sia
stato affermato che nel nostro ordinamento non è
individuabile un solo astratto diritto di proprietà,
dipendendo il contenuto dello stesso dalla natura intrinseca
del bene.
La Corte Costituzionale ha, in particolare, affermato che
“senza dubbio la garanzia della proprietà privata è
condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41
al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità
sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti
sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con
maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt.
832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del
diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano,
rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti
“dall’ordinamento giuridico” e le regole particolari per
scopi di pubblico interesse ... Secondo i concetti, sempre
più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che
il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio
assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece
ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere
sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la
Costituzione lascia al legislatore di determinare”.
Allo steso tempo, anche laddove la Corte Costituzionale ha
affermato l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di
proprietà, essa ha precisato che “è indubbiamente esatto che
il sistema normativo attuato per disciplinare l’edificabilità
dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione
sul se, sul come e anche sul quando ... della
edificazione...”, di modo che se da ciò deriva che “il
diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e
alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a
costruire ... di esso sono stati tuttavia compressi e
limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto
può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti
dagli strumenti urbanistici”.
Ovviamente, il potere di pianificazione urbanistica, a
maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in
relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così
come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato
giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione -come
ribadito dalla costante giurisprudenza del giudice
amministrativo- dare conto, sia pure con motivazione di
carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo
strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi,
della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i
detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti.
…».
---------------
Sempre nell’ambito
del sesto motivo di doglianza la ricorrente, in
estrema sintesi censura, sotto altro profilo, il
procedimento di adozione della variante al PRG, affermando
che non sarebbe stato instaurato un contradditorio con la
società proprietaria del suolo de quo che prima
dell’adozione della variante possedeva una diversa e
maggiore capacità urbanistica.
Tuttavia, si ribadisce, a tal riguardo, che il procedimento
di adozione della variante al PRG del Comune di Terlizzi è
stato esperito nel pieno rispetto della legge ed ha
contemplato la normale pubblicazione degli atti, sottoposti,
nella tempistica prevista dalla legge, ad osservazioni
successivamente valutate dal Consiglio Comunale.
Inoltre, si precisa che il Comune di Terlizzi ha sempre
riscontrato le note inviate dalla odierna ricorrente.
Alle note del 2 e del 07.01.2014 a firma dell’avv. Ro. il
Comune di Terlizzi rispondeva con la nota prot. n. 1120 del
10.01.2014 a firma dell’arch. Gi., dirigente del Settore
Servizi Tecnici.
In tal modo il Comune di Terlizzi ha comunque fornito
tempestiva risposta alle richieste della società
interessata.
Successivamente la De Ch. aveva modo di partecipare al
procedimento amministrativo che ha portato alla adozione
della variante, presentando ai sensi dell’art. 16 LR n.
56/1980 proprie osservazioni in data 21.05.2014.
Inoltre, la circostanza che con riferimento alla pratica
edilizia n. 77/2013 del 19-20.12.2013 vi sia un atto
istruttorio finalizzato alla acquisizione di documentazione,
datato 16.01.2014, atto sottoscritto dal tecnico istruttore
e non dal dirigente dell’UTC, non impedisce che le clausole
di salvaguardia siano divenute efficaci a seguito della
emanazione della delibera consiliare n. 5/2014 di adozione
della variante al P.R.G. del Comune di Terlizzi.
Più in generale deve osservarsi che il diritto di proprietà
è destinato necessariamente a confrontarsi con quelle che
sono le dinamiche di sviluppo di un territorio e con le
relative normative in materia di pianificazione urbanistica.
A tal riguardo, Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2012, n. 2710 ha
rilevato: «… Il Collegio osserva che il potere di
pianificazione urbanistica del territorio -la cui
attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente
conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e
delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui
esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di
ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune-
non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle
zone del territorio comunale, ed in particolare alla
possibilità e limiti edificatori delle stesse.
Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere
rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica
che non è limitato solo alla disciplina coordinata della
edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia,
distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per
mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico-sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore
costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione
per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito
-al fine di individuare le materie rientranti nella potestà
legislativa concorrente Stato-Regioni- il termine
“urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di
“governo del territorio”, certamente più aderente,
contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che
oggi devono ricomprendersi nel citato termine di
“urbanistica”.
D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative
controversie), con l’art. 34, comma 2, d.lgs. 31.03.1998 n.
80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne
tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1),
non solo nell’“assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica”.
In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità
edificatorie dei suoli -non in astratto, bensì in relazione
alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle
concrete vocazioni dei luoghi-, sia di valori ambientali e
paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e
quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico-sociali della comunità radicata sul territorio,
sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende
imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro
storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de
futuro” sulla propria stessa essenza, svolta -per
autorappresentazione ed autodeterminazione- dalla comunità
medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi
e, prima ancora, attraverso la partecipazione dei cittadini
al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è
funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo
edilizio del territorio in considerazione delle diverse
tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e
artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla
realizzazione contemperata di una pluralità di interessi
pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori
costituzionalmente garantiti.
Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di
ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato
alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione
di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi
dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma
secondo, Cost.
D’altra parte, a diversa conclusione non può giungersi
nemmeno sostenendo che, attraverso la considerazione di
esigenze diverse, l’amministrazione finirebbe per comprimere
il contenuto stesso del diritto di proprietà, e lo stesso
ius aedificandi allo stesso connesso.
Senza volere entrare in un dibattito ampio ed
ultratrentennale, che ha visto numerosi interventi della
Corte Costituzionale, occorre almeno ricordare come sia
stato affermato che nel nostro ordinamento non è
individuabile un solo astratto diritto di proprietà,
dipendendo il contenuto dello stesso dalla natura intrinseca
del bene (sentenze nn. 55 e 56 del 1968).
La Corte Costituzionale ha, in particolare, affermato, con
sent. 09.05.1968 n. 55, che “senza dubbio la garanzia della
proprietà privata è condizionata, nel sistema della
Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a
fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione
sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed
utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di
quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile,
i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria
in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli
obblighi stabiliti “dall’ordinamento giuridico” e le regole
particolari per scopi di pubblico interesse ... Secondo i
concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale,
resta escluso che il diritto di proprietà possa venire
inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri,
dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di
essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la
Costituzione lascia al legislatore di determinare”.
Allo steso tempo, anche laddove la Corte Costituzionale ha
affermato l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di
proprietà (con la nota sentenza 30.01.1980 n. 5), essa ha
precisato che “è indubbiamente esatto che il sistema
normativo attuato per disciplinare l’edificabilità dei suoli
demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se,
sul come e anche sul quando ... della edificazione...”, di
modo che se da ciò deriva che “il diritto di edificare
continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni
che comprendono la legittimazione a costruire ... di esso
sono stati tuttavia compressi e limitati portata e
contenuto, nel senso che l’avente diritto può solo costruire
entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti
urbanistici”.
Ovviamente, il potere di pianificazione urbanistica, a
maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in
relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così
come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato
giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione -come
ribadito dalla costante giurisprudenza del giudice
amministrativo- dare conto, sia pure con motivazione di
carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo
strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi,
della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i
detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti.
…».
Nella vicenda de qua i provvedimenti del Comune di
Terlizzi riferiti alla variante, ma anche ai motivati pareri
della Commissione comunale e le relazioni dell’UTC allegate
ai provvedimenti amministrativi gravati, sono sorretti -come
in precedenza evidenziato- da un solido impianto
motivazionale, oltre che resi nel rispetto di tutte le
procedure previste dalla legge.
Alla luce delle considerazioni esposte, l’esercizio del
potere di pianificazione urbanistica, in concreto effettuato
dal Comune Terlizzi, è esente dai vizi di legittimità
dedotti con i motivi del ricorso introduttivo (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Non è sindacabile in sede giurisdizionale la
scelta pianificatoria del Comune, stante il carattere
ampiamente discrezionale della stessa.
L’ente locale ha, infatti, il dovere-potere di predisporre
tutti gli atti utili e necessari per la programmazione
urbanistica del proprio territorio, essendo questo potere
conferito dalla legge ai comuni.
In riferimento a tale questione il Consiglio di Stato ha
rilevato:
- per costante giurisprudenza la potestà pianificatoria -il cui
concreto esercizio è rimesso al comune, e che si esprime ed
attualizza attraverso l’adozione dello strumento generale di
governo del territorio, ovvero attraverso le varianti
“generali” a quest’ultimo- è assistita da latissima
discrezionalità;
-
invero,
“costituisce ambito di ampia discrezionalità il
disegno urbanistico espresso da uno strumento di
pianificazione generale, o da una sua variante, che
rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti
all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti
anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili
opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali
scelte non sono condizionate dalla pregressa indicazione,
nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso
edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle
impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua
variante, con il solo limite dell’esigenza di una specifica
motivazione a sostegno della nuova destinazione quando
quelle indicazioni avevano assunto una prima
concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo
(piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano
attuativo) approvato o convenzionato, secondo giurisprudenza
univoca, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver
ingenerato un’aspettativa qualificata alla conservazione
della precedente destinazione; al contrario la pregressa
destinazione di piano, in se e per se, non comporta alcun
obbligo motivazionale specifico, dovendosi rinvenire il
fondamento della nuova proprio nel disegno generale
delineato dal nuovo strumento generale o dalla variante di
quello precedente”.
---------------
4.2.3. - Anche i motivi sub 4) e 5) devono essere respinti.
Con il motivo sub 4) la società ricorrente afferma
che i provvedimenti gravati sono illegittimi in
considerazione del fatto che il Comune di Terlizzi nel
lontano 1996 aveva rilasciato il permesso di costruire n.
8/96 per la realizzazione in località Borgo Sovereto di 9
villette. Da tale considerazione discenderebbe -secondo la
prospettazione di parte ricorrente- la contraddittorietà
degli atti gravati.
A tal riguardo, rileva questo Collegio che il permesso di
costruire (concessione edilizia) n. 8 è stato rilasciato nel
1996 evidentemente sotto la vigenza di uno strumento
urbanistico differente rispetto a quello approvato
successivamente nel settembre 2000 dalla Giunta regionale
della Puglia.
Pertanto, la lamentata contraddittorietà tra atti
amministrativi non sussiste.
Con il medesimo motivo di gravame la ditta istante critica
nel merito la scelta operata dal Comune di Terlizzi e
suggerisce l’adozione di altro procedimento (i.e. variante
normativa) per tutelare il Borgo di Sovereto.
Con il quinto motivo la società De Ch. afferma che
gli atti gravati sarebbero affetti da violazione e falsa
applicazione della legge urbanistica nazionale e regionale,
nonché del DM n. 1444/1968.
La società, in definitiva, con il IV e V motivo di gravame
contesta il fatto che il Comune di Terlizzi abbia proceduto
all’adozione della variante al P.R.G. in relazione alle
particelle per cui è causa, con riferimento alla
zonizzazione che diviene integralmente A1, sulla scorta
della circostanza che la Regione Puglia, in sede di
approvazione del PRG nell’agosto del 2000, avesse proceduto
ad assegnare a Borgo Sovereto le differenti zonizzazioni, B2
e A1.
A tal riguardo, va evidenziato che non è sindacabile in sede
giurisdizionale la scelta pianificatoria del Comune, stante
il carattere ampiamente discrezionale della stessa.
L’ente locale ha, infatti, il dovere-potere di predisporre
tutti gli atti utili e necessari per la programmazione
urbanistica del proprio territorio, essendo questo potere
conferito dalla legge ai comuni.
In riferimento a tale questione Cons. Stato, Sez. IV,
28.06.2018, n. 3986 ha rilevato: «… a) per costante
giurisprudenza la potestà pianificatoria -il cui concreto
esercizio è rimesso al comune, e che si esprime ed
attualizza attraverso l’adozione dello strumento generale di
governo del territorio, ovvero attraverso le varianti
“generali” a quest’ultimo- è assistita da latissima
discrezionalità (ex aliis di recente Consiglio di Stato,
sez. IV, 26/10/2017, n. 4941 “costituisce ambito di ampia
discrezionalità il disegno urbanistico espresso da uno
strumento di pianificazione generale, o da una sua variante,
che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti
all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti
anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili
opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico; tali
scelte non sono condizionate dalla pregressa indicazione,
nel precedente piano regolatore, di destinazioni d’uso
edificatorie diverse e più favorevoli rispetto a quelle
impresse con il nuovo strumento urbanistico o una sua
variante, con il solo limite dell’esigenza di una specifica
motivazione a sostegno della nuova destinazione quando
quelle indicazioni avevano assunto una prima
concretizzazione in uno strumento urbanistico esecutivo
(piano di lottizzazione, piano particolareggiato, piano
attuativo) approvato o convenzionato, secondo giurisprudenza
univoca, o quantomeno adottato, e tale quindi da aver
ingenerato un’aspettativa qualificata alla conservazione
della precedente destinazione; al contrario la pregressa
destinazione di piano, in se e per se, non comporta alcun
obbligo motivazionale specifico, dovendosi rinvenire il
fondamento della nuova proprio nel disegno generale
delineato dal nuovo strumento generale o dalla variante di
quello precedente.”);… ».
Il potere esercitato nel caso di specie dal Comune di
Terlizzi nell’adozione della contestata variante al P.R.G.
si conforma perfettamente alle considerazioni sopra espresse
dal Consiglio di Stato in riferimento alle prerogative
concesse dalla legge al Comune, in materia di pianificazione
urbanistica.
Nella vicenda per cui è causa vi è piena rispondenza tra la
nuova destinazione assegnata al Borgo Sovereto e
l’ispirazione di fondo della variante allo strumento
urbanistico, rappresentata dal contenimento dell’espansione
edilizia estensiva in favore della conservazione dei valori
ed assetti naturali, peraltro contemperata dal
riconoscimento in capo alla odierna ricorrente dei propri
diritti edificatori con il P.d.C. n. 58/2013 rilasciato dal
Comune di Terlizzi.
Conseguentemente, detti motivi di ricorso devono essere
respinti (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nell’approvazione di una variante al p.r.g., la
mancata acquisizione del parere contabile sugli atti
programmatori ai sensi dell’art. 49 d.lgs. n. 267/2000 non
rende illegittima la delibera poiché si tratta di una
prescrizione che rileva sul solo piano interno, con la
conseguenza che la sua omissione non incide sulla validità
della deliberazione stessa, rappresentando al più una mera
irregolarità.
---------------
4.2. - Con riferimento al ricorso introduttivo si rileva
quanto segue.
4.2.1. - Con il primo motivo di gravame la società
ricorrente lamenta l’omessa apposizione, con riferimento ai
provvedimenti impugnati, del visto di regolarità contabile
ex art. 49, comma 1, dlgs n. 267/2000 poiché -a suo dire-
gli atti censurati comporterebbero riflessi diretti o
indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul
patrimonio dell’Ente.
A tal riguardo, si sottolinea che in tale procedimento il
parere di regolarità contabile, anche nella sua nuova
formulazione, non era necessario, non sussistendo spese
dirette ed indirette immediatamente individuabili con
l’approvazione dei provvedimenti impugnati.
In questa fase, infatti, di adozione della variante al P.R.G.,
il Comune di Terlizzi non dovrà sopportare nessun costo o
spesa.
Si specifica, altresì, che trattasi di atto di adozione
della variante al PRG che dovrà essere approvata in via
definitiva dalla Regione Puglia.
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa ha sancito il
carattere di mera irregolarità della suddetta omissione (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.2012, n. 351: “Nell’approvazione
di una variante al p.r.g., la mancata acquisizione del
parere contabile sugli atti programmatori ai sensi dell’art.
49 d.lgs. n. 267/2000 non rende illegittima la delibera
poiché si tratta di una prescrizione che rileva sul solo
piano interno, con la conseguenza che la sua omissione non
incide sulla validità della deliberazione stessa,
rappresentando al più una mera irregolarità”; cfr.
altresì Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2018, n. 1838).
Ne consegue la reiezione del primo motivo (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.11.2018 n. 1466 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Motivazione del rigetto delle osservazioni presentate dal
proprietario di un’area incisa da variante urbanistica.
---------------
Urbanistica – Piano regolatore – Variante – Osservazione
dei privati – Motivazione specifica – Quando occorre.
Non sussiste un onere di dettagliata
motivazione del rigetto delle osservazioni presentate dal
proprietario di un’area incisa da variante urbanistica in
assenza di situazioni (fonte di aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni) eccezionalmente impongono alla
Amministrazione procedente una più incisiva e singolare
motivazione degli strumenti urbanistici generali (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione –richiamando la giurisprudenza del
Consiglio di Stato (sez.
IV, 09.12.2010, n. 8682)- che nel caso di specie
non ricorrono le condizioni che impongono una specifica
motivazione, quali:
1) il superamento degli standards minimi di cui al d.m.
02.04.1968, n. 1444 con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree;
2) la lesione dell’affidamento qualificato del privato,
derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari
delle aree, aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto
su una domanda di concessione;
3) la modificazione in zona agricola della destinazione di
un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
Nella fattispecie in esame l’Amministrazione locale
resistente, nel disattendere le osservazioni del
proprietario dell’area, ha comunque diffusamente indicato le
ragioni in forza delle quali ha ritenuto che un’area “circostante”
il Borgo di Sovereto (id est, quella di proprietà
della stessa società interessata) dovesse essere parimenti
assoggettata alla zonizzazione di tipo A (analogamente alla
originaria scelta pianificatoria relativa all’area del Borgo
antico), con una scelta che non è certamente sindacabile in
sede giurisdizionale, in quanto non inficiata da vizi
macroscopici ed anzi pienamente in linea con il disposto
dell’art. 2, lett. a), d.m. n. 1444 del 1968 che chiaramente
mira a tutelare il “carattere storico, artistico o di
particolare pregio ambientale” di agglomerati urbani
attraverso la formazione di “Zone territoriali omogenee”
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.11.2018 n. 1466 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
4.4.3. - Da ultimo, la ricorrente, dopo aver ribadito che il
Comune avrebbe illegittimamente esteso la zona A in area che
difetterebbe dei caratteri che consentirebbero detta
inclusione, si sofferma su asseriti “vizi sostanziali”
del provvedimento oggetto di impugnativa, sostanzialmente
affermando che l’attività del Comune sia esorbitante dai
suoi poteri e risponda a pretese esigenze diverse e
svincolate dalla tutela del territorio.
Detta impostazione non può essere condivisa.
Preliminarmente, rileva questo Collegio che l’agere
del Comune risulta essere pienamente rispondente alla
previsione di cui all’art. 2, lett. A), del D.M. n.
1444/1968 rubricato “Zone territoriali omogenee”
(disposizione correttamente richiamata dalla P.A. nel corpo
delle delibere impugnate): “Sono considerate zone
territoriali omogenee, ai sensi e per gli effetti dell’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765: A) le parti del
territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono
carattere storico, artistico o di particolare pregio
ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree
circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per
tali caratteristiche, degli agglomerati stessi; …”.
Pertanto, non può essere posto in discussione il potere
pianificatorio del Comune, per sua natura ampiamente
discrezionale, di rendere zona “A” un’area (quale quella di
proprietà della ricorrente) “circostante” rispetto
all’agglomerato urbano di Sovereto che indubbiamente riveste
carattere storico e artistico proprio, tanto da essere esso
stesso ab origine classificato quale zona A.
L’obiettivo perseguito dal Comune è, quindi, assolutamente
rispondente alle esigenze del territorio ed è pienamente
conforme agli scopi per cui detto potere pianificatorio del
territorio è attribuito all’Amministrazione locale.
Ed infatti, diversamente da quanto sostenuto da parte
ricorrente, quello che emerge dagli atti comunali è proprio
la “necessità che la struttura architettonica che lo
[riferita al Borgo di Sovereto] caratterizza rimanga
inalterata da manufatti estranei rispetto alle
caratteristiche peculiari” e ciò attraverso lo strumento
di regolamentazione urbanistica che la legge demanda alla
competenza comunale e la cui concreta applicazione è nel
caso di specie pienamente legittima.
A tal riguardo, Cons. Stato, Sez. V, 24.04.2013, n. 2265 ha
evidenziato: «… alla luce del tenore del
dato positivo e della ratio che lo informa, che il piano
regolatore generale possa recare previsioni vincolistiche
incidenti su singoli edifici, configurati in sé quali
“zone”, quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il
profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma
dell’immobile ex se considerato ma al soddisfacimento di
esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante
che il singolo immobile assume nel contesto dell’assetto
territoriale. In tale caso, infatti, non si realizza alcuna
duplicazione rispetto alla sfera di azione della
legislazione statale di settore in quanto il pregio del
bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare
l’adozione di un provvedimento impositivo di vincolo
culturale o paesaggistico in base alla considerazione
atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato
come elemento di particolare valore urbanistico e può
quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta
pianificatoria. E tanto in coerenza con una nozione ampia
della materia urbanistica, che valorizza la funzione di
governo del territorio attraverso la disciplina, nella loro
globalità, di tutti i possibili insediamenti e delle altre
utilizzazioni del territorio.».
L’area per cui è causa rientra pienamente, per le sue
caratteristiche intrinseche ed estrinseche, nella tipologia
di “particolare valore” che consente l’applicazione
in sede pianificatoria di una particolare zonizzazione ex
art. 2, lett. A), del DM n. 1444/1968, così come imposto dal
Comune di Terlizzi con i provvedimenti impugnati.
Va, altresì, rimarcato che, a prescindere dall’apposizione
del vincolo da parte della Soprintendenza, lo strumento di
regolamentazione urbanistica può agevolmente e
legittimamente rispondere a dette esigenze di tutela che,
come visto, sono ben motivate e articolate nel caso di
specie.
E’, infatti, sufficiente richiamare la relazione allegata
alla delibera n. 32/2016, che ha descritto puntualmente
l’area interessata dall’azione di salvaguardia per
comprendere il pregio della stessa.
Sotto altro profilo, la ricorrente sostiene che la
classificazione di zona A delle “aree circostanti” il
Borgo sarebbe consentita solo per esigenze di tutela del
bene principale, difettando delle medesime caratteristiche
di pregio, da tanto discendendo l’illegittimità degli atti
impugnati.
Tuttavia, come evidenziato in precedenza, il D.M. n.
1444/1986 all’art. 2, lett. a), prevede proprio che siano
classificabili come zona A “le parti del territorio
interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere
storico, artistico o di particolare pregio ambientale o da
porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono
considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche,
degli agglomerati stessi”.
La ricorrente, in definitiva, contesta l’esercizio di un
potere pianificatorio tipicamente discrezionale del Comune.
Sul punto non è dirimente il richiamo alla circolare n. 3210
del 1967, operato da parte ricorrente nella memoria
depositata in data 27.04.2018, in quanto, come emerge in
modo evidente dalla lettura della stessa, il Ministero si
limitava con detta circolare a fornire alcuni tra i
possibili criteri di orientamento per la definizione di
agglomerato di carattere storico, artistico e di particolare
pregio ambientale, senza che ciò costituisca un elenco
tassativo o vincolante e senza, dunque, per questo escludere
la possibilità di ulteriori e puntuali osservazioni
effettuate dai competenti organi comunali.
In sostanza, la De Ch. mira censurare scelte puramente
discrezionali dell’Amministrazione motivate in modo corretto
dopo l’adozione dell’ordinanza cautelare n. 100/2016, scelte
che hanno spinto la P.A. a confermare e ad insistere nel
tutelare l’area per cui è causa, il cui valore storico,
paesaggistico ed ambientale è stato riconosciuto anche dai
tecnici che da ultimo hanno contribuito a formare la
decisione.
Dunque, la censura della ricorrente circa la carenza di una
motivazione idonea a supportare la scelta amministrativa
finale di cui alla delibera n. 32/2016 non è meritevole di
positivo apprezzamento, posto che il Comune di Terlizzi ha
ben articolato ed espresso -supportandole con adeguata
documentazione tecnica- le motivazioni che spingono alla
conferma della tutela impressa con lo strumento urbanistico
adottato in linea con la previsione dell’art. 2, lett. a),
DM n. 1444/1968.
L’Amministrazione,
infatti, è titolare
-come detto- di una discrezionalità molto
ampia, poiché, come riconosciuto dalla giurisprudenza
amministrativa, “le scelte in sede di approvazione di uno
strumento urbanistico generale (e tale è certamente il PUG)
sono contrassegnate da un’amplissima valutazione
discrezionale sì da renderle nel merito insindacabili, ma
unicamente attaccabili per errori di fatto, abnormità ed
irrazionalità”
(cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 26.07.2016, n.
3337).
Pertanto, non vi è alcun difetto di motivazione nella
delibera n. 32/2016: la motivazione è stata espressa ed
articolata ed è stata per di più supportata da apposita
documentazione tecnica.
Infine, deve ribadirsi che la circostanza per cui la pratica
edilizia sia stata già positivamente istruita nulla toglie
al potere discrezionale -per di più adeguatamente motivato-
sulle scelte urbanistiche dell’Amministrazione.
Ed è proprio la regolamentazione ed il piano delle scelte
che ricadono sul territorio a legittimare una richiesta
edilizia, e non il contrario: a ben vedere
la posizione della ricorrente non è meritevole di tutela, in
quanto non è configurabile in capo al privato un affidamento
qualificato ed, inoltre, lo stesso è “titolare
di un’aspettativa generica ad una reformatio in melius o
alla conservazione dell’originario regime urbanistico,
analoga a quella di ogni altro proprietario che aspiri ad un
uso proficuo dell’immobile
(Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, n. 6703; idem,
08.10.2007, n. 5210; TAR Toscana, Sez. III, 03.05.2013, n.
713), che non può vincolare i successivi
strumenti di pianificazione urbanistica, nemmeno sotto il
profilo di uno specifico onere di motivazione”
(TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 05.05.2014, n. 710; cfr. da
ultimo TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 01.02.2016, n. 176).
Da ultimo, si sottolinea che comunque le
scelte pianificatorie urbanistiche
(in ogni caso nella fattispecie in esame fornite di idoneo
supporto motivazionale riportato al precedente punto 4.4.2)
per definizione non richiedono una dettagliata
motivazione (cfr.
art. 3, comma 2, legge n. 214/1990) in
quanto racchiuse in atti a “contenuto generale”.
In tal senso Cons. Stato, Sez. IV, 26.10.2012, n. 5492,
con specifico riferimento all’onere di motivazione
rispetto alle osservazioni formulate dai proprietari
interessati in sede di formazione di strumenti urbanistici,
ha rilevato: «… le osservazioni
formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero
apporto collaborativo alla formazione degli strumenti
urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con
la conseguenza che il loro rigetto non richiede una
dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state
esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione del piano regolatore o della sua variante
(cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV,
15.09.2010 n. 6911), e che il merito della
scelta relativa alla localizzazione di un’opera pubblica è
sottratto al sindacato del giudice amministrativo, salvo
profili di illogicità, travisamento e contraddittorietà
(cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 03.08.2010
n. 6155), con la conseguenza che la P.A.
non è tenuta a fornire al riguardo le specifiche ragioni
della scelta di un luogo piuttosto che di un altro,
rimanendo inibita al sindacato giurisdizionale sull’eccesso
di potere ogni possibilità di sovrapporre una nuova
graduazione di interessi in conflitto alla valutazione che
di essi sia stata già compiuta dall’organo competente, in
quanto profilo attinente alla discrezionalità tecnica e,
quindi, al merito dell’azione amministrativa, salvo che la
scelta risulti manifestamente illogica o abnorme e tale
vizio sia rilevabile prima facie
(cfr. ibidem). …».
Pertanto, si può affermare che nel caso di specie, pur non
essendovi -alla stregua del disposto dell’art. 3, comma 2,
legge n. 241/1990 e della citata giurisprudenza
amministrativa che questo Collegio ritiene di condividere-
un onere di dettagliata motivazione del rigetto delle
osservazioni presentate dalla De Ch., l’Amministrazione
locale, nel disattendere dette osservazioni, ha comunque
diffusamente indicato nella censurata delibera consiliare n.
32/2016 (cfr. punto 4.4.2) le ragioni in forza delle quali
ha ritenuto che un’area “circostante” il Borgo di
Sovereto (i.e. quella di proprietà della stessa società
interessata) dovesse essere parimenti assoggettata alla
zonizzazione di tipo A (analogamente alla originaria scelta
pianificatoria relativa all’area del Borgo antico), con una
scelta che non è certamente sindacabile in sede
giurisdizionale, in quanto non inficiata da vizi
macroscopici ed anzi pienamente in linea con il disposto
dell’art. 2, lett. A), D.M. n. 1444/1968 che chiaramente
mira a tutelare il “carattere storico, artistico o di
particolare pregio ambientale” di agglomerati urbani
attraverso la formazione di “Zone territoriali omogenee”.
Ed anche alla stregua dell’orientamento espresso da Cons.
Stato, Sez. I, 28.11.2016, n. 2425 (“Benché
in materia di pianificazione urbanistica generale
l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità e l’onere di
motivazione possa essere assolto in termini complessivi,
salvo che non venga in rilievo una legittima aspettativa del
privato, le scelte compiute non si sottraggono al sindacato
della giustizia amministrativa che, sia pure di tipo
estrinseco, può cogliere nelle lacune o irragionevolezze del
procedimento, in errori o travisamenti di fatto, nel
contrasto con le scelte di pianificazione antecedenti,
nell’illogicità della motivazione, i segni di un cattivo uso
del potere; in particolare, non bisogna confondere una
motivazione di carattere generale con una motivazione
generica, priva dei requisiti di cui all’art. 3 della legge
n. 241 del 1990 e ciò tanto più quando la prescrizione
urbanistica pone un vincolo di carattere espropriativo, che
richiede una motivazione più specifica in sede di
reiterazione”)
e da Cons. Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3986 (decisione
richiamata al punto 4.2.3 della motivazione sempre in tema
di onere di specifica motivazione in presenza di “aspettativa
qualificata”), va evidenziato che nella vicenda de
qua -proprio in virtù delle considerazioni espresse in
precedenza al punto 4.2.4.- non poteva ritenersi formato
alcun legittimo affidamento in capo alla ricorrente
discendente dalle pratiche edilizie e dai titoli abilitativi
in precedenza formatisi, poiché -come visto- il procedimento
amministrativo edilizio perseguito dalla De Ch. è stato
essenzialmente volto ad ovviare a quanto sancito in materia
di misure di salvaguardia.
Né nel caso di specie ricorre alcuna delle
situazioni (fonte
di aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui
posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni),
che -secondo la giurisprudenza del Consiglio di
Stato (cfr. ex
multis Cons. Stato, Sez. IV, 09.12.2010, n. 8682)-
eccezionalmente impongono alla Amministrazione
procedente nell’adozione di atti di pianificazione una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali:
1) superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968,
con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
2) lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di
concessione;
3) modificazione in zona agricola della destinazione di un’area
limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
4.4.4. - Ne discende che anche il secondo ricorso per motivi
aggiunti va disatteso. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul diritto alla restituzione del contributo di
costruzione, ai sensi dell’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a
decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto
valere.
Ne consegue che il diritto di credito del titolare di
una concessione edilizia non utilizzata, di ottenere la
restituzione di quanto corrisposto per oneri di
urbanizzazione, decorre non già dalla data del rilascio
dell’atto di assenso edificatorio, bensì dalla data in cui
il titolare comunica all’amministrazione la propria
intenzione di rinunciare al titolo abilitativo, o dalla data
di adozione da parte dell’amministrazione medesima del
provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di
costruire per scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero
per l’entrata in vigore delle previsioni urbanistiche
contrastanti come avvenuto nel caso di specie.
---------------
Non può invece accogliersi la domanda relativa alla
rivalutazione monetaria di detta somma, trattandosi di
debito di valuta e non di valore.
---------------
6. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
7. Come riconosciuto dall’amministrazione intimata nel
parere del responsabile del procedimento emesso in data
02.08.2006, la concessione di parte ricorrente n. 338 del 25.02.1999, con scadenza tre anni dall’inizio degli
stessi, era stata sospesa dal Comune “per fatti non
dipendenti dalla volontà del concessionario e, pertanto,
tuttora valida”.
8. A seguito di variante n. 43 con scadenza al 15.07.2009, la
concessione è stata nuovamente sospesa per effetto del
sequestro penale disposto in data 18.01.2006, protrattosi
fino al 28.02.2012.
9. Nelle more del sequestro, l’area di cui alla concessione
in argomento è stata classificata dal P.R.G. parte
strutturale adottato con delibera di C.C. n. 5/2011, come
zona “E Agricola”, impedendosi così la realizzazione di
qualsiasi opera.
10. È dunque da tale ultimo evento che comincia a decorrere
il contestato termine prescrizionale, atteso che ai sensi
dell’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a
decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto
valere.
11. Ne consegue che il diritto di credito del titolare di
una concessione edilizia non utilizzata, di ottenere la
restituzione di quanto corrisposto per oneri di
urbanizzazione, decorre non già dalla data del rilascio
dell’atto di assenso edificatorio, bensì dalla data in cui
il titolare comunica all’amministrazione la propria
intenzione di rinunciare al titolo abilitativo, o dalla data
di adozione da parte dell’amministrazione medesima del
provvedimento che dichiara la decadenza del permesso di
costruire per scadenza dei termini iniziali o finali, ovvero
per l’entrata in vigore delle previsioni urbanistiche
contrastanti come avvenuto nel caso di specie (TAR
Lombardia–Milano, sez. II, 24.03.2010, n. 728).
12. Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento
della domanda di annullamento del diniego impugnato e della
connessa domanda di accertamento del diritto del ricorrente
a vedersi riconosciuto il rimborso della quota residua di €
12.352,15 del contributo di costruzione relativo alla
concessione edilizia n. 338/1991, oltre interessi di legge.
13. Non può invece accogliersi la domanda relativa alla
rivalutazione monetaria di detta somma, trattandosi di
debito di valuta e non di valore (TAR Umbria,
sentenza 08.11.2018 n. 582 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Incompatibilità dei componenti la Commissione di gara per
percezione di un pericolo di imparzialità.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Commissione di gara
– Composizione – Impugnazione – Solo all’esito della gara.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di
gara – Componenti – Profili di incompatibilità – Percezione
di un pericolo di imparzialità – Sufficienza.
●
L’interesse all’impugnazione degli atti di gara per vizi
attinenti alla composizione della Commissione non può che
radicarsi ad esito della gara; mentre per lo stesso motivo,
non potendo la parte conoscere l’esito della procedura, non
può di contro neppure formarsi acquiescenza a riguardo (1).
●
La disciplina dell’incompatibilità dei componenti
la Commissione di gara è, nel nuovo Codice dei contratti
pubblici, arricchita di quei profili (già presenti,
nell’ordinamento, con riguardo alla magistratura) tendenti
alla salvaguardia dell’immagine di imparzialità ed ad
evitare che possa determinarsi un’oggettiva ‘confusione’ tra
valutatore e concorrente, di per sé idonea ad appannare
l’immagine di imparzialità e di buona amministrazione (2).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza plenaria n. 8 del
2018 ha affermato che “nello schema originario del codice
dei contratti pubblici, sottoposto al parere del Consiglio
di Stato, si prevedeva un’estensione del detto rito, ma
limitata unicamente alla composizione della commissione”,
poi, tuttavia, “il testo definitivo ha espunto tale
indicazione, recependo i suggerimenti dell’organo
consultivo, incentrate sul vincolo imposto dalla legge di
delega, che non contemplava tali ipotesi”.
La Sezione ha ancora chiarito che i commissari di gara non
ricoprono la veste di controinteressati ai quali il ricorso
va notificato. I commissari, infatti, non hanno un interesse
differenziato e qualificato uguale e contrario a quello del
ricorrente.
(2) Ha affermato la Sezione, con riferimento al caso sottoposto al
suo esame, che l’esperienza professionale rispetto alla
quale si radicherebbe l’incompatibilità di un componente la
Commissione non è diretta, ma riguarda il figlio che,
sebbene distaccato presso l’impresa concorrente, era in
realtà dipendente di una società di lavoro interinale che è
estranea alla gara con incarico cessato prima della gara
stessa.
Con riferimento a tale posizione, ritiene la Sezione che la
natura c.d. ‘triangolare’ del rapporto di lavoro, che
coinvolge il somministratore, l'utilizzatore e il
lavoratore, e si caratterizza per la scissione tra la
titolarità del rapporto di lavoro (che fa capo all’agenzia
somministratrice) e l’effettiva utilizzazione del lavoratore
che compete all’utilizzatore, tuttavia non sottrae il
dipendente dal diretto controllo dell’utilizzatore medesimo
ed in ogni caso, non è idonea ad eliminare quella ‘confusione’
di ruoli di cui si è detto.
Con riferimento alla posizione di altro componente la
Commissione, risulta che lo stesso avesse svolto attività
lavorativa personalmente presso lo stesso concorrente, sia
pur quattordici anni addietro.
Ciò non di meno, da un lato, tale lasso temporale non
costituiva motivo di esonero dalla dichiarazione da parte
del commissario del predetto rapporto, mentre la compresenza
nella medesima Commissione di due commissari legati (seppure
in passato o indirettamente per tramite del figlio) alle
imprese concorrenti rafforza la percezione di compromissione
dell’imparzialità che, invece la disciplina vuole garantire
al massimo livello, al fine di scongiurare il ripersi nelle
gare pubbliche di fenomeni distorsivi della par condicio e
di una ‘sana’ concorrenza tra gli operatori
economici.
Ed ancora, va rilevato che il fatto che il rilievo di
eventuali legami sia rimesso alla autodichiarazione dei
commissari medesimi, non rende il motivo di incompatibilità
meno stringente o vincolante per l’Amministrazione, cui
comunque è rimesso il controllo.
La Sezione si è quindi richiamata ad un proprio precedente
(sentenza n. 4830 del 2018), secondo cui: “ogni qualvolta
emergano elementi che siano idonei, anche soltanto sotto il
profilo potenziale, a compromettere tale delicato e cruciale
ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni affidato
alle commissioni di gara, la semplice sostituzione di un
componente rispetto al quale sia imputabile la causa di
illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile, né
consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la
commissione abbia già operato; il rischio che il ruolo e
l’attività di uno dei commissari, dichiarato incompatibile,
possano avere inciso nei confronti anche degli altri
commissari durante le operazioni di gara, influenzandoli
verso un determinato esito valutativo, impedisce la sua
semplice sostituzione ed implica la decadenza e la
necessaria sostituzione di tutti gli altri commissari; la
sostituzione totale di tutti i commissari (in luogo del solo
commissario designato in modo illegittimo) garantisce
maggiormente il rispetto del principio di trasparenza nello
svolgimento delle attività di gara; non è possibile
estendere gli effetti dell’invalidità derivante dalla nomina
di una commissione illegittima (…) anche a tutti gli altri
atti anteriori, disponendo la caducazione radicale
dell’intera gara, atteso che la stessa pronuncia
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 07.05.2013, n.
13, ha stabilito inequivocabilmente e perentoriamente che
“secondo i principi generali, la caducazione della nomina,
ove si accerti, come nella specie, essere stata effettuata
in violazione delle regole (…) comporterà in modo caducante
il travolgimento per illegittimità derivata di tutti gli
atti successivi della procedura di gara fino all’affidamento
del servizio ed impone quindi la rinnovazione dell’intero
procedimento”; vengono travolti per illegittimità derivata
tutti gli atti successivi della procedura di gara fino
all’affidamento del servizio, ma non certo gli atti
anteriori, anche in ossequio al principio generale per il
quale l’invalidità ha effetti nei confronti degli atti a
valle, non certo degli atti a monte”.
La Sezione ha quindi concluso nel senso che, nella specie,
la concomitante presenza in commissione di ben due
commissari che hanno avuto rapporti –direttamente o
indirettamente– con uno dei concorrenti appare integrare
l’ipotesi di conflitto di interessi di cui all’art. 42 del
Codice dei contratti, che, per come è formulata la norma,
include anche la percezione di un pericolo di imparzialità
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.11.2018 n. 6299 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la giurisprudenza prevalente, la mancata
comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se
l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto la norma
sancita dall’art. 10-bis, va interpretata alla luce del
successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990.
Da ciò deriva non solo che l’interessato non può limitarsi a
denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso
di rigetto, ed è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o
valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale,
avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento
finale, ma anche a dimostrare che nella fase procedimentale
partecipata anteriore all’adozione del provvedimento
impugnato non vi è stata alcuna discussione in merito al
contenuto dell’atto, il quale è stato adottato senza
contraddittorio e costituisce quindi una sorpresa
procedimentale.
---------------
1. Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto
dall’esame degli atti risulta che si sono svolti diversi
incontri tra le parti in merito al problema della
conformazione dell’attività edilizia ai titoli abilitativi,
sicché deve ritenersi che l’apporto collaborativo del
privato sia stato ampiamente fornito e di conseguenza non
fosse più necessario aprire una ulteriore fase partecipativa
formale già svoltasi mediante il coinvolgimento diretto
nella fase di attuazione dell’attività di vigilanza
edilizia.
Infatti, secondo la giurisprudenza prevalente, la mancata
comunicazione del preavviso di rigetto non comporta ex se
l’illegittimità del provvedimento finale, in quanto la norma
sancita dall’art. 10-bis cit., va interpretata alla luce del
successivo art. 21-octies, co. 2, l. n. 241 del 1990.
Da ciò deriva non solo che l’interessato non può limitarsi a
denunciare in ricorso l’omessa comunicazione del preavviso
di rigetto, ed è tenuto ad allegare gli elementi, fattuali o
valutativi, che, se introdotti nella fase procedimentale,
avrebbero potuto influire sul contenuto del provvedimento
finale, ma anche a dimostrare che nella fase procedimentale
partecipata anteriore all’adozione del provvedimento
impugnato non vi è stata alcuna discussione in merito al
contenuto dell’atto, il quale è stato adottato senza
contraddittorio e costituisce quindi una sorpresa
procedimentale.
Il motivo va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.11.2018 n. 2522 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’indisponibilità del cantiere per 164 giorni in
ragione dei contrasti insorti con la ditta incaricata dei
lavori costituisce circostanza oggettivamente ascrivibile ai
“fatti sopravvenuti, estranei alla volontà
del titolare del permesso” che giustificano la richiesta
di proroga dei termini del permesso di costruire.
---------------
La realizzazione di abusi edilizi non può incidere
sulla validità ed efficacia del titolo e, di conseguenza,
non può essere causa di impedimento al rilascio del
provvedimento di proroga dei termini, con conseguente
decadenza del titolo.
Nella stessa ottica la giurisprudenza ha chiarito che i
procedimenti di verifica della legittimità del titolo
edilizio rilasciato, da un lato, e di accertamento degli
abusi edilizi senza titolo, dall’altro lato, hanno natura ed
effetti diversi, il primo riconducibile all’attività di
amministrativa attiva soggetta ai principi dell’autotutela;
il secondo riconducibile all’attività sanzionatoria.
Né d’altro canto si verificano vuoti di tutela in quanto i
provvedimenti di sospensione e di demolizione impediscono
che le opere abusive siano portate ad ulteriore esecuzione o
che ne siano realizzate ulteriori.
---------------
B) Quanto ai dinieghi di proroga del termine dei titoli
edilizi.
II) Illegittimità per violazione di legge: violazione dell’art. 15,
comma secondo, del d.p.r. 06.06.2001, n. 380; illegittimità
per eccesso di potere sotto il profilo della manifesta
ingiustizia, del difetto di istruttoria, del difetto di
motivazione e della manifesta irragionevolezza.
Secondo la ricorrente l’Amministrazione comunale oblitera in
toto le ragioni poste a fondamento della richiesta di
proroga –l’indisponibilità del cantiere per 164 giorni– ed
oppone (erroneamente, come si vedrà) la mancanza di un “piano
d’azione” volto a superare le (pretese) difformità
edilizie riscontrate.
III) Illegittimità per eccesso di potere sotto il profilo del
difetto di istruttoria, del difetto di motivazione e
dell’errore di fatto.
Il provvedimento che nega la proroga, motivato con
riferimento al fatto che il Comune è impossibilitato a
valutare la congruità del periodo di proroga richiesto
mancando ancora ad oggi l’individuazione specifica dei
lavori da eseguire per ottenere la “conformizzazione”
e dei relativi tempi di esecuzione sarebbe erroneo in punto
di fatto poiché in data 06.12.2017 con note prot.
337/2017/MW/cm e prot. 338/2017/MW/cm le Cooperative “Le
Co. di Mo.” e “Il Fo.” producevano una
dettagliatissima proposta di piano di lavori, in espresso
riscontro della nota in data 08.11.2017 con la quale l’Ing.
Bi. richiedeva lumi in ordine agli interventi da realizzarsi
per ripristinare la conformità.
...
2. I motivi secondo e terzo, relativi alla
proroga dei lavori sono fondati.
Ai sensi dell’art. 15, 2° comma, d.P.R. 380/2001 “La
proroga può essere accordata, con provvedimento motivato,
per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare
del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera
da realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando
si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia
previsto in più esercizi finanziari.”.
Nel caso di specie, l’indisponibilità del cantiere per 164
giorni in ragione dei contrasti insorti con la ditta
incaricata dei lavori costituisce circostanza oggettivamente
ascrivibile ai “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà
del titolare del permesso” che giustificano la richiesta
di proroga.
A ciò si aggiunge che il rapporto esistente tra il titolo
edilizio rilasciato ed eventuali abusi edilizi realizzati
durante i lavori si svolge in termini di totale autonomia.
Infatti il permesso a costruire decade per l’inosservanza
dei termini fissati per l’inizio e l’ultimazione dei lavori,
eventualmente prorogati, o per l’entrata in vigore di nuove
previsioni urbanistiche con le quali il provvedimento sia in
contrasto, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati
e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data
di inizio.
Invece nel caso di abusi edilizi l’art. 27, c. 3, del DPR
380/2001 prevede la sospensione dei lavori alla quale segue il
provvedimento di demolizione, per il caso in cui le opere
abusive non siano state nel frattempo demolite, salva la
possibilità di accertamento di conformità.
La realizzazione di abusi edilizi non può quindi incidere
sulla validità ed efficacia del titolo e, di conseguenza,
non può essere causa di impedimento al rilascio del
provvedimento di proroga dei termini, con conseguente
decadenza del titolo.
Nella stessa ottica la giurisprudenza ha chiarito che i
procedimenti di verifica della legittimità del titolo
edilizio rilasciato, da un lato, e di accertamento degli
abusi edilizi senza titolo, dall’altro lato, hanno natura ed
effetti diversi, il primo riconducibile all’attività di
amministrativa attiva soggetta ai principi dell’autotutela;
il secondo riconducibile all’attività sanzionatoria
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 17/10/2017
n. 8).
Né d’altro canto si verificano vuoti di tutela in quanto i
provvedimenti di sospensione e di demolizione impediscono
che le opere abusive siano portate ad ulteriore esecuzione o
che ne siano realizzate ulteriori.
Il secondo ed il terzo motivo di ricorso vanno quindi in
questi termini accolti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.11.2018 n. 2522 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ampliamento all’esterno della sagoma
dell’edificio esistente è riconducibile fra le nuove
costruzioni, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.1), DPR
380/2001 (che fa salvi soltanto gli interventi pertinenziali,
di cui alla lettera e.6).
Inoltre, il concetto di “ampliamento” dev’essere riferito a
una specifica opera preesistente rispetto alla quale la
nuova opera mantiene uno stretto collegamento, modificandola
in senso spaziale. L’ampliamento di un manufatto comporta il
mantenimento degli elementi fondamentali del fabbricato
anteriore: ma i volumi e i ripostigli in questione non
soddisfano questo, fondamentale, requisito).
Sulla definizione dell’ampliamento si è espressa in senso
analogo anche la Suprema Corte, che ha ripetutamente
affermato come l'ampliamento di un fabbricato preesistente
non possa essere considerato pertinenza, “diventando parte
dell'edificio di cui completa, una volta realizzato, la
struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato in
quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo”.
---------------
15.1. Il motivo è infondato.
Il diniego impugnato concerne un’istanza di permesso di
costruire in sanatoria, che, ai sensi dell’art. 36, co. 1, d.P.R. n. 380/2001, esige la conformità dell’intervento alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente, sia al tempo
della realizzazione dell’intervento che a quello di
presentazione della domanda.
Nel caso di specie, tale conformità non sussiste, avuto
riguardo alle norme dello strumento urbanistico comunale
richiamate nella motivazione del provvedimento impugnato.
Per esse, nell’area di ubicazione dell’intervento in esame
non sono ammessi nuovi manufatti e ampliamenti di edifici
esistenti in misura eccedente una determinata cubatura
(100mc).
Ebbene, dalla documentazione anche fotografica depositata in
atti da entrambe le parti emerge chiaramente come, il
manufatto oggetto della denegata istanza di permesso in
sanatoria sia sussumibile fra le nuove costruzioni, come
definite nell’art. 3, comma 1, lett. e.1), del d.P.R. n.
380/2001.
Né si può ritenere che il manufatto in questione possa
affrancarsi dalla surriferita definizione in quanto attratto
nell’orbita degli ampliamenti, ammessi entro una certa
cubatura dalle stesse N.T.A. del P.G.T. del Comune di
Gironico.
Intanto, l’ampliamento all’esterno della sagoma
dell’edificio esistente è anch’esso riconducibile fra le
nuove costruzioni, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.1)
citato (che fa salvi soltanto gli interventi pertinenziali,
di cui alla lettera e.6).
Inoltre, il manufatto per cui è causa non presenta con
l’edificio principale alcuna continuità fisica idonea, come
tale, a rivelarne il necessario, diretto collegamento (cfr.
Cons. Stato, VI, 11/06/2018, n. 3531; id., 09/03/2018, n.
1518, per cui: “… il manufatto in questione non è nemmeno
configurabile quale ampliamento, posto che il concetto di
“ampliamento” dev’essere riferito a una specifica opera
preesistente rispetto alla quale la nuova opera mantiene uno
stretto collegamento, modificandola in senso spaziale: il
che, nel caso in esame, non è avvenuto. L’ampliamento di un
manufatto comporta il mantenimento degli elementi
fondamentali del fabbricato anteriore: ma i volumi e i
ripostigli in questione non soddisfano questo, fondamentale,
requisito”).
Sulla definizione dell’ampliamento si è espressa in senso
analogo anche la Suprema Corte, che ha ripetutamente
affermato come l'ampliamento di un fabbricato preesistente
non possa essere considerato pertinenza, “diventando
parte dell'edificio di cui completa, una volta realizzato,
la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato
in quanto privo di autonomia rispetto all'edificio medesimo
(Sez. 3, n. 20349 del 16/03/2010, Catania, Rv. 247108; Sez.
3, n. 28504 del 29/05/2007, Rossi, Rv. 237138; Sez. 3, n.
33657 del 12/07/2006, Rossi, Rv. 235382 ed altre prec. conf.)”
(così, da ultimo, Cass. pen. Sez. III, Sent., 29.01.2018, n.
4139) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.11.2018 n. 2488 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Affinché un’opera possa rientrare nel regime
delle pertinenze in senso edilizio e/o urbanistico, essa
deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da
comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato
dei luoghi.
Per giurisprudenza consolidata, la qualifica di pertinenza
urbanistico-edilizia è applicabile soltanto a opere di
modestissima entità e accessorie rispetto a un'opera
principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il
contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche
a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzano per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non sono
coessenziali alla stessa, sì da risultarne possibile una
diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza è costante nel considerare che, a
differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini
urbanistico-edilizi un manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato a una esigenza
oggettiva dell'edificio principale ed è inserito
funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito di un
autonomo valore di mercato e non incidente sul "carico
urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
---------------
Per completezza, è utile notare come l’intervento in esame
non potrebbe neppure sussumersi fra gli interventi
pertinenziali diversi da quelli assoggettabili (ex art. 3,
co. 1 citato, lett. e.6), al regime delle nuove costruzioni,
in quanto, affinché un’opera possa rientrare nel regime
delle pertinenze in senso edilizio e/o urbanistico, essa
deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da
comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato
dei luoghi.
Per giurisprudenza consolidata (cfr., ex multis,
Cons. St., Sez. VI, 09/03/2018, n. 1518; id., Sez. VI,
02.02.2017, n. 694; id., Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; id.,
Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952; id., Sez. V, n. 817 del 2013;
id., Sez. IV, n. 615 del 2012), la qualifica di pertinenza
urbanistico-edilizia è applicabile soltanto a opere di
modestissima entità e accessorie rispetto a un'opera
principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il
contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche
a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzano per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non sono
coessenziali alla stessa, sì da risultarne possibile una
diversa e autonoma utilizzazione economica.
La giurisprudenza è costante nel considerare che, a
differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini
urbanistico-edilizi un manufatto può essere considerato una
pertinenza quando è non solo preordinato a una esigenza
oggettiva dell'edificio principale ed è inserito
funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito di un
autonomo valore di mercato e non incidente sul "carico
urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo
volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Ebbene, tornando alla fattispecie in esame, qui, anche alla
luce della documentazione in atti, il carattere
pertinenziale del manufatto oggetto dell’impugnato diniego è
da escludersi. Si tratta, a ben vedere, di manufatto che,
anche per consistenza e tipologia, risulta nel suo complesso
agevolmente utilizzabile in via autonoma e separata rispetto
all’edificio residenziale, destinato a soddisfare esigenze
durevoli nel tempo e implicante, in definitiva, un
incremento del carico urbanistico (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 05.11.2018 n. 2488 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Prove preselettive nei pubblici concorsi.
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Concorso – Prove preselettive - Princìpi di imparzialità
dell’azione amministrativa e anonimato dei concorrenti –
Applicabilità.
La circostanza che la preselezione
non rientri tra le prove concorsuali stricto sensu intese -i
cui esiti sono funzionali alla formazione della graduatoria
definitiva- non implica quale diretta conseguenza la non
estensibilità alla stessa dei princìpi di imparzialità
dell’azione amministrativa e anonimato dei concorrenti (1).
-----------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la somministrazione di quiz a
risposta multipla è un tratto procedimentale della
complessiva selezione pubblica, preordinata, in un’ottica di
efficacia e celerità dell’agere amministrativo, alla
riduzione del numero di concorrenti che dovranno cimentarsi
nella successiva redazione degli elaborati.
La preselezione pertanto, al pari delle prove concorsuali
intese in un’accezione stretta, costituisce diretta
attuazione e puntuale espressione del canone di imparzialità
di cui all’art. 97, comma 2, del principio di accesso al
pubblico impiego mediante selezione pubblica, previsto dal
comma 4 dell’art. 97 Cost., ed è altresì espressione
dell’art. 51, comma 1, Cost. a mente del quale “tutti i
cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli
uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”,
nonché del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3
della Carta Fondamentale.
In coerenza con quanto appena evidenziato, lo stesso
regolamento sui pubblici concorsi, approvato con d.P.R. n.
487 del 1994 -che al comma 2-bis dell’art. 7 regolamenta in
modo puntuale la prova in questione- prevede all’art. 1,
comma 2, che “il concorso pubblico deve svolgersi con
modalità che ne garantiscano la imparzialità, l'economicità
e la celerità di espletamento, ricorrendo, ove necessario,
all'ausilio di sistemi automatizzati diretti anche a
realizzare forme di preselezione ed a selezioni decentrate
per circoscrizioni territoriali”, qualificando pertanto
la preselezione con fase procedimentale, seppur eventuale,
di una selezione pubblica.
Tanto chiarito, giova a tal punto rammentare che, secondo un
fondamentale assunto ermeneutico espresso dal Consiglio di
Stato, “l’imparzialità amministrativa è bensì vulnerata
dalla potenzialità astratta della lesione della parità di
trattamento e, quindi, dal solo sospetto di una disparità.
Non è dunque necessario allegare e comprovare che il rischio
di parzialità si sia effettivamente concretato in un
risultato illegittimo, bastando invece che il prodursi del
vulnus del bene giuridico tutelato e, con esso, la correlata
diminuzione del prestigio della amministrazione, si
prospetti quale mera eventualità. Ed invero, concorrono a
moltiplicare e a enfatizzare gli effetti patologici del
vizio i connessi principi di pubblicità e di trasparenza,
convergendo il loro sinergico operare nell'immagine di
un'amministrazione che, oltre ad essere realmente
imparziale, appaia anche tale. L'imparzialità è difatti un
primario valore giuridico, posto a presidio della stessa
credibilità degli uffici pubblici, posto che in assenza
della fiducia dei cittadini, gli apparati burocratici non
sarebbero in grado di conseguire in maniera adeguata, come
loro dovere, gli obiettivi prefissati dal Legislatore...
Riguardo la rilevanza "esterna" del principio in disamina è
a dirsi che il vizio di parzialità può riconnettersi a
situazioni estranee all'atto in sé considerato e piuttosto
riferibili al contesto organizzativo in cui ne è maturata
l'adozione” (Cons.
St., sez. V, 01.04.2009, n. 2070)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.11.2018 n. 1872 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Rileva il Collegio che, diversamente da quanto sostenuto nelle
deduzioni ricorsuali, la circostanza che la preselezione non
rientri tra le prove concorsuali stricto sensu intese
-i cui esiti sono funzionali alla formazione della
graduatoria definitiva- non implica quale diretta
conseguenza la non estensibilità alla stessa dei princìpi di
imparzialità dell’azione amministrativa e anonimato dei
concorrenti.
La somministrazione di quiz a risposta multipla, infatti, è
ad ogni evidenza un tratto procedimentale della complessiva
selezione pubblica, preordinata, in un’ottica di efficacia e
celerità dell’agere amministrativo, alla riduzione
del numero di concorrenti che dovranno cimentarsi nella
successiva redazione degli elaborati.
La preselezione pertanto, al pari delle prove concorsuali
intese in un’accezione stretta, costituisce diretta
attuazione e puntuale espressione del canone di imparzialità
di cui all’art. 97, comma 2, del principio di accesso al
pubblico impiego mediante selezione pubblica, previsto dal
comma 4 dell’art. 97 Cost., ed è altresì espressione
dell’art. 51, comma 1, Cost. a mente del quale “tutti i
cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli
uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”,
nonché del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3
della Carta Fondamentale.
In coerenza con quanto appena evidenziato, lo stesso D.P.R.
487/1994 -che al comma 2-bis dell’art. 7 regolamenta in modo
puntuale la prova in questione- prevede all’art. 1, comma 2,
che “il concorso pubblico deve svolgersi con modalità che
ne garantiscano la imparzialità, l'economicità e la celerità
di espletamento, ricorrendo, ove necessario, all'ausilio di
sistemi automatizzati diretti anche a realizzare forme di
preselezione ed a selezioni decentrate per circoscrizioni
territoriali”, qualificando pertanto la preselezione con
fase procedimentale, seppur eventuale, di una selezione
pubblica.
Tanto chiarito, giova a tal punto rammentare che, secondo un
fondamentale assunto ermeneutico espresso dal Consiglio di
Stato, “l’imparzialità amministrativa è bensì vulnerata
dalla potenzialità astratta della lesione della parità di
trattamento e, quindi, dal solo sospetto di una disparità.
Non è dunque necessario allegare e comprovare che il rischio
di parzialità si sia effettivamente concretato in un
risultato illegittimo, bastando invece che il prodursi del
vulnus del bene giuridico tutelato e, con esso, la correlata
diminuzione del prestigio della amministrazione, si
prospetti quale mera eventualità. Ed invero, concorrono a
moltiplicare e a enfatizzare gli effetti patologici del
vizio i connessi principi di pubblicità e di trasparenza,
convergendo il loro sinergico operare nell'immagine di
un'amministrazione che, oltre ad essere realmente
imparziale, appaia anche tale. L'imparzialità è difatti un
primario valore giuridico, posto a presidio della stessa
credibilità degli uffici pubblici, posto che in assenza
della fiducia dei cittadini, gli apparati burocratici non
sarebbero in grado di conseguire in maniera adeguata, come
loro dovere, gli obiettivi prefissati dal Legislatore...
Riguardo la rilevanza "esterna" del principio in disamina è
a dirsi che il vizio di parzialità può riconnettersi a
situazioni estranee all'atto in sé considerato e piuttosto
riferibili al contesto organizzativo in cui ne è maturata
l'adozione” (Consiglio di Stato, Sez. V, 01.04.2009, n.
2070).
Sulla scorta di quanto evidenziato, quindi, l’avversato
provvedimento, espressione di ampia discrezionalità da parte
delle resistente amministrazione, attua una ragionevole
ponderazione dei contrapposti interessi, resistendo pertanto
alle doglianze di controparte.
Esso, infatti, trae origine dall’acquisizione ad opera della
resistente Azienda Ospedaliera di notizie circa la presenza
di diffuse irregolarità durante lo svolgimento delle prove
preselettive, che consentono di qualificare come legittimo
il provvedimento impugnato. Le notizie pervenute, infatti,
hanno imposto all'Azienda di determinarsi con un supplemento
di cautela rispetto alle condizioni normali, verificando se
l'andamento della selezione, anche al di là delle regole
formali che la disciplinano, si sia svolto salvaguardando i
predetti canoni di trasparenza, imparzialità e anonimato.
Nella delineata prospettiva, assume rilievo la
documentazione versata in atti dagli interventori ad
opponendum, riguardante entrambe le preselezioni, la quale
costituisce un sufficiente riscontro circa la correttezza
della scelta estrema operata dalla resistente p.a., proprio
al precipuo scopo di presidiare i canoni informatori di
livello costituzionale delle selezioni pubbliche, la cui
centralità ordinamentale consente un’anticipazione della
soglia di tutela anche al mero sospetto della lesione, per
come osservato dal Consiglio di Stato.
Se per un verso, tuttavia, l’esercizio del potere di
autotutela risulta legittimo e giustificato, le medesime
ragioni poste alla sua base impongono, sotto altro profilo,
che l’Azienda Ospedaliera garantisca con rigore e
concretezza l’attuazione degli enunciati princìpi
amministrativi, avuto riguardo in particolare
all’adeguatezza sia dei locali in cui si svolgono le
procedure concorsuali sia dei controlli. Ciò, al fine di
evitare, come accaduto nella fattispecie, che
dell’applicazione dei citati canoni costituzionali non se ne
ravvisi neanche una lontana parvenza.
8. Il ricorso pertanto è infondato. |
APPALTI:
Avvalimento, omissioni dichiarative e documentali
dell’ausiliaria e soccorso istruttorio.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio – Avvalimento, omissioni dichiarative e
documentali dell’ausiliaria - Possibilità.
In materia di avvalimento, è
suscettibile di soccorso istruttorio l’incompletezza
dell’elenco dei pregressi lavori e servizi nel triennio
anteriore a bando, fornito dall’ausiliaria che prestava al
concorrente il relativo requisito di capacità
tecnico-professionale (nella specie l’elenco risultava
manchevole sotto l’aspetto dell’omessa indicazione
–prescritta- de “gli importi ed il periodo delle attività
svolte di consulenza nel settore delle tecnologie
informatiche”), e tanto sia con riguardo alle lacune
testuali della dichiarazione dell’ausiliaria che avuto
riguardo alle omissioni documentali (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Cga che da un lato, l’art. 83 del Codice dei
contratti è “di latitudine tale da far rientrare
nell’ambito operativo del relativo istituto, ben al di là
delle mere operazioni di formale completamento o chiarimento
cui aveva riguardo l’art. 46, d.lgs. n. 163 del 2006, le
carenze di “qualsiasi elemento formale della domanda”, ossia
la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità,
quand’anche di tipo “essenziale”, purché non involgente
l'offerta economica o tecnica in sé considerata”;
dall’altro lato, avuto riguardo al caso specifico, il bando
era stato pubblicato nel mese di agosto, gravando i
concorrenti di corposi oneri documentali, creando un
vantaggio competitivo per l’unico altro concorrente in gara,
poi risultato aggiudicatario, che già aveva in corso una
analoga commessa per la medesima stazione appaltante.
Dunque l’applicazione del soccorso istruttorio in una simile
evenienza “lungi dal poter risultare lesiva della par
condicio tra i due concorrenti indicati, vale semmai proprio
a consentire il sostanziale rispetto di tale valore,
rimediando alla distorsione fondatamente denunciata”
(CGARS,
sentenza 05.11.2018 n. 701 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Rapporti di “disaccordo” fra Pubbliche amministrazioni.
---------------
●
Giurisdizione – Usi civici – Forma, struttura e presupposti
dell’ordinanza contingibile ed urgente – Controversia –
Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
●
Ordinanza contingibile ed urgente – Oggetto -
Disapplicazione effetti di atti della Regione lesivi delle
competenze comunali – Esclusione.
●
Allorquando il Comune reclami l’attinenza del provvedimento
impugnato ad una materia sottratta alla giurisdizione
amministrativa (nel caso esaminato, i diritti di uso
civico), la riconduzione del potere esercitato alla forma,
alla struttura e ai presupposti dell’ordinanza sindacale,
contingibile ed urgente, regolata dall’art. 50, comma 5,
d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), così da prefigurare
l’esercizio dello specifico potere extra ordinem, istituito
da tale disposizione, colloca il contenzioso, anche a
prescindere dalla consistenza della posizione giuridica
allegata dalla parte ricorrente, nell’alveo della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma
dell’art. 133, comma 1, lett. q), c.p.a. (1).
●
La regolazione del conflitto insorto tra i
livelli di governo, in ambito regionale, allorquando siano
stati esauriti i procedimenti volti a coordinare l’attività
e i concorrenti apporti degli enti coinvolti, richiede la
formale impugnazione, sempreché ne sussistano la
legittimazione e l’interesse, degli atti e dei
comportamenti, specificamente individuati, che avrebbero
dato luogo ad altrettanto specifiche compromissioni degli
spazi di autonomia che si assumono violati (reciprocamente
assicurati sul piano costituzionale, a partire dagli artt.
5, 114, comma 2, e 118 Cost.); pertanto, deve ritenersi in
particolare preclusa l’adozione, nella forma dell’ordinanza
contingibile ed urgente, a norma dell’art. 50, comma 5,
d.lgs. n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), di provvedimenti
sindacali aventi ad oggetto, anche mediato, la
disapplicazione ovvero la mera delimitazione degli effetti
di atti della Regione considerati lesivi delle competenze
comunali (2).
---------------
V. anche
Tar Friuli Venezia Giulia 05.11.2018, n. 340.
(1) Ha chiarito i Tar che esclusa la giurisdizione del Commissario
per la liquidazione degli Usi Civici considerato che la
controversia non potrebbe nemmeno essere ricondotta
all'accertamento e alla liquidazione “generale degli usi
civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento”
(a norma degli artt. 1 e 29, comma 2 della L. n. 1766 del
1927), in quanto il suo oggetto essenzialmente “concerne
un rapporto pubblicistico tra le parti che ha ad oggetto
l'esercizio del potere amministrativo”, al quale
naturalmente “consegue l'attribuzione della giurisdizione
al g.a.” (Tar Sardegna, sez. I, n. 78 del 2016).
In questa prospettiva, si deve inoltre constatare che il
potere, esercitato con l’ordinanza e materializzatosi nel
divieto, direttamente rivolto alla ditta esecutrice, di
operare secondo il progetto affidatole dalla Regione, non
muta la propria natura in ragione dell’affermata esigenza di
garantire l’uso civico insistente sull’area; l’ordinanza in
questione non può infatti essere convertita, sulla sola base
dei postulati motivazionali allegati dal Comune, in una
sorta di atipico atto di autotutela possessoria, strumentale
all’auspicata garanzia di un diritto di godimento
collettivo, né essa, in virtù di tale insussistente rapporto
di strumentalità, potrebbe essere attratta nell’alveo della
giurisdizione speciale del Commissario per la liquidazione
degli Usi Civici.
Il potere di emissione dell’ordinanza contingibile ed
urgente, da parte del Sindaco, resta infatti saldamente
ancorato al proprio naturale presupposto normativo, da
individuarsi, come sarà precisato tra breve, nelle sole
fattispecie contemplate nell’art. 50, comma 5 TUEL,
indipendentemente dalle ragioni, esposte nell’impianto
motivazionale, che abbiano contribuito a darvi luogo o che
ne abbiano costituito l’occasione o, in ultima analisi, il
fine.
(2) Ha chiarito il Tar che l’esercizio del potere di reazione
avverso gli atti e i comportamenti della Regione, laddove
ritenuti invasivi degli spazi riservati agli Enti locali
ovvero confliggenti con le posizioni soggettive ad essi
intestate in ragione della loro natura di enti esponenziali,
non può dare luogo all’esercizio di forme atipiche di
autotutela, nemmeno se ricondotte all’emissione di ordinanze
contingibili ed urgenti, di cui all’art. 50, comma 5, d.lgs.
n. 267 del 2000 (T.U.E.L.), le quali, in virtù del loro
carattere strettamente residuale, non potrebbero né
surrogare lo svolgimento dell’azione giurisdizionale né
sopperire, surrettiziamente, alle decadenze o alle
preclusioni eventualmente verificatesi in tale sede
(TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 05.11.2018 n. 339 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
3. Le eccezioni preliminari, prospettate dal Comune, sono
infondate e, come tali, devono essere rigettate.
3.1.1 In ordine alla giurisdizione, va osservato che, in
relazione alle controversie aventi ad oggetto il bacino
della laguna di Marano e Grado, così come determinato a
norma dell’art. 30 della L. n. 366 del 1963 (“la laguna di Marano-Grado è costituita dal bacino demaniale marittimo
d'acqua salsa che si estende dalla foce del Tagliamento alla
foce del canale Primero ed è compresa fra il mare e la
terraferma” – comma 2), essa non può risultare ascritta al
Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche (T.R.A.P.) (a1);
tale bacino infatti, posto in diretta comunicazione con il
mare, appartiene, secondo la testuale specificazione
normativa, al demanio marittimo e non già al demanio idrico
delle acque pubbliche, con piena sottoposizione al regime di
cui all’art. 822 cod. civ. e all’art. 28 cod. nav. (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, n. 1076 del 2014, che, dichiarata
l’appartenenza della laguna veneta al demanio marittimo, ha
disatteso l’analoga eccezione di difetto di giurisdizione).
3.1.2 Deve essere parimenti esclusa la giurisdizione del
Commissario per la liquidazione degli Usi Civici (a2),
considerato che la controversia non potrebbe nemmeno essere
ricondotta, come suggerisce il Comune, all'accertamento e
alla liquidazione “generale degli usi civici e di qualsiasi
altro diritto di promiscuo godimento” (a norma degli artt. 1
e 29, comma 2 della L. n. 1766 del 1927), in quanto il suo
oggetto essenzialmente “concerne un rapporto pubblicistico
tra le parti che ha ad oggetto l'esercizio del potere
amministrativo”, al quale naturalmente “consegue
l'attribuzione della giurisdizione al g.a.” (cfr. TAR
Sardegna, Sez. I, n. 78 del 2016).
In questa prospettiva, si deve inoltre constatare che il
potere, esercitato con l’ordinanza e materializzatosi nel
divieto, direttamente rivolto alla ditta esecutrice, di
operare secondo il progetto affidatole dalla Regione, non
muta la propria natura in ragione dell’affermata esigenza di
garantire l’uso civico insistente sull’area (cui allude la
motivazione, che richiama, programmaticamente, l’urgenza di
“mantenere il diritto reale di uso civico dei Cittadini di
Marano Lagunare di poter esercitare la pesca nell’area
oggetto dell’occupazione senza la prescritta autorizzazione
comunale, quale Ente esponenziale”); l’ordinanza in
questione non può infatti essere convertita, sulla sola base
dei postulati motivazionali allegati dal Comune, in una
sorta di atipico atto di autotutela possessoria, strumentale
all’auspicata garanzia di un diritto di godimento
collettivo, né essa, in virtù di tale insussistente rapporto
di strumentalità, potrebbe essere attratta nell’alveo della
giurisdizione speciale del Commissario per la liquidazione
degli Usi Civici.
Il potere di emissione dell’ordinanza contingibile ed
urgente, da parte del Sindaco, resta infatti saldamente
ancorato al proprio naturale presupposto normativo, da
individuarsi, come sarà precisato tra breve, nelle sole
fattispecie contemplate nell’art. 50, comma 5 TUEL,
indipendentemente dalle ragioni, esposte nell’impianto
motivazionale, che abbiano contribuito a darvi luogo o che,
come avvenuto nel caso di specie, ne abbiano costituito
l’occasione o, in ultima analisi, il fine.
3.1.3 Di conseguenza, ancorché l’Amministrazione comunale
reclami l’attinenza del provvedimento impugnato alla materia
degli usi civici (attinenza che andrebbe desunta proprio
dallo scopo da essa perseguito), la riconduzione del potere
esercitato alla forma, alla struttura e ai presupposti
dell’ordinanza contingibile ed urgente, regolata dall’art.
50, comma 5 TUEL, colloca il presente contenzioso, anche a
prescindere dalla consistenza della posizione giuridica
allegata dalla Regione, nell’ambito della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo (cfr. Cass. S.U., n.
14371 del 2012), a norma dell’art. 133, comma 1, lett. q)
c.p.a., che vi include testualmente “le controversie aventi
ad oggetto i provvedimenti anche contingibili ed urgenti,
emanati dal Sindaco in materia di ordine e sicurezza
pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di
edilità e di polizia locale, d’igiene pubblica e
dell’abitato” (per la recente affermazione della
giurisdizione esclusiva: TAR Sicilia, Catania, Sez. IV,
n. 1861 del 2018).
L’eccezione deve essere quindi respinta. |
EDILIZIA PRIVATA:
Allorquando l'Amministrazione ometta di
adottare le doverose misure ripristinatorie dello stato dei
luoghi e di difesa del pubblico interesse in relazione ad
opere abusive ovvero le ritardi senza giustificazione, il
terzo interessato -e, in particolare, il proprietario
limitrofo, in quanto tale, sempre titolare di un interesse
qualificato al mantenimento delle caratteristiche
urbanistiche della zona- è legittimato ad agire contro la
mancata assunzione di determinazioni repressive e, quindi,
contro l'inerzia degli organi comunali; in sostanza, l'ampia
sfera dei poteri di controllo attribuiti in materia
urbanistico-edilizia all'Amministrazione Comunale non
esclude che, rispetto ai singoli provvedimenti, gli
interessati siano portatori di un interesse legittimo e che,
pertanto, l'inerzia sulla relativa istanza integri gli
estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede
giurisdizionale.
La giurisprudenza ha altresì avuto più volte modo di
evidenziare come il proprietario di un’area o di un
fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il
mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi
relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, sia
titolare di un interesse legittimo all’esercizio dei detti
poteri e possa pretendere, se non vengono adottate le misure
richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le
ragioni, con il risultato che il silenzio serbato
sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso.
---------------
4 - Nel merito, la domanda si palesa meritevole di
accoglimento.
5 - Con atto di diffida del 06/08/2015, il ricorrente ha infatti
compulsato il Comune di Perdifumo all’esercizio del potere
di controllo e verifica sugli abusi realizzati dagli odierni
controinteressati, in considerazione di quanto accertato
nella sentenza del Tribunale di Napoli (abusivo incremento
volumetrico sui due livelli e creazione di una ulteriore
terrazza a livello).
5.1 - Nella specie, risultano certi la legittimazione e
l’interesse dell’odierna parte ricorrente ad agire in questa
sede, alla luce del pregiudizio dalla stessa lamentato
all’immobile di sua proprietà sito al piano terra
dell’edificio i cui piani primo e secondo sono stati
interessati dai lavori abusivi realizzati dai coniugi
Ca.–Am..
5.2 - Orbene, il Collegio condivide la giurisprudenza
secondo la quale “allorquando l'Amministrazione ometta di
adottare le doverose misure ripristinatorie dello stato dei
luoghi e di difesa del pubblico interesse in relazione ad
opere abusive ovvero le ritardi senza giustificazione, il
terzo interessato -e, in particolare, il proprietario
limitrofo, in quanto tale, sempre titolare di un interesse
qualificato al mantenimento delle caratteristiche
urbanistiche della zona- è legittimato ad agire contro la
mancata assunzione di determinazioni repressive e, quindi,
contro l'inerzia degli organi comunali; in sostanza, l'ampia
sfera dei poteri di controllo attribuiti in materia
urbanistico-edilizia all'Amministrazione Comunale non
esclude che, rispetto ai singoli provvedimenti, gli
interessati siano portatori di un interesse legittimo e che,
pertanto, l'inerzia sulla relativa istanza integri gli
estremi del silenzio rifiuto sindacabile in sede
giurisdizionale (cfr. TAR Lazio, II-quater, 06.06.2016 n.
6502, TAR Napoli, sez. VI, 03.08.2015, n. 4191).
[…omissis…] La giurisprudenza ha altresì avuto più volte
modo di evidenziare come il proprietario di un’area o di un
fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il
mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi
relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, sia
titolare di un interesse legittimo all’esercizio dei detti
poteri e possa pretendere, se non vengono adottate le misure
richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le
ragioni, con il risultato che il silenzio serbato
sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto,
sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato
adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso (v.,
tra le altre, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 14.09.2015 n. 2019)” – TAR Napoli, sez. VI, sent.
05/01/2017, n. 115.
6 - In ragione dell’accoglimento del ricorso, va ordinato al
Comune di Perdifumo di provvedere espressamente sull’istanza
presentata dal ricorrente, nel termine di trenta giorni
dalla comunicazione o, se precedente, dalla notificazione
della presente decisione; con l'avvertenza che, decorso tale
termine, nei successivi trenta giorni, provvederà in via
sostitutiva, su richiesta dell’interessato e previo
accertamento della perdurante inadempienza
dell'amministrazione comunale, il Dirigente dell’Ufficio
Pianificazione Territoriale–Urbanistica-Antiabusivismo
(Direzione Generale per il Governo del Territorio, i lavori
pubblici e la protezione civile) della Provincia di Salerno,
che all’uopo si nomina fin da ora Commissario ad acta, con
facoltà di delega ad un funzionario dello stesso Ufficio,
che potrà avvalersi, se ritenuto necessario, anche degli
uffici e dei funzionari della prefata amministrazione.
L'onere del compenso al Commissario ad acta viene posto a
carico dell'amministrazione comunale intimata e sin d’ora è
liquidato in complessivi euro 1.000,00, oltre accessori di
legge.
7 – Le spese si liquidano in dispositivo a carico del solo
Comune soccombente, che alle stesse ha dato causa in via
esclusiva, rimanendo denegato il loro rimborso nei confronti
delle parti non costituite.
8 - Ai sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del
1990, sostituito dall’articolo 1, comma 1, del decreto legge
n. 5 del 2012, convertito nella legge n. 35 del 2012,
va
disposta la comunicazione della presente decisione alla
competente Procura Regionale della Corte dei Conti, dopo il
suo passaggio in giudicato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 31.10.2018 n. 6404 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il proprietario di un’area o di
un fabbricato nella cui sfera giuridica incide dannosamente
il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi
relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo pubblico
preposto è titolare di un interesse legittimo all’esercizio
di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le
misure richieste, un provvedimento che ne spieghi
esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il
silenzio serbato sull’istanza e sulla successiva diffida
integra gli estremi del silenzio–rifiuto, sindacabile in
sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento
dell’obbligo di provvedere espressamente.
In altre parole,
l’atto di impulso fa nascere in capo all’Amministrazione
l’obbligo o all’esercizio dei poteri repressivi o, comunque,
a provvedere sull’istanza, anche esplicitando –e motivando– l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte
del denunziante.
---------------
Il ricorso è fondato: “Il proprietario di un’area o di
un fabbricato nella cui sfera giuridica incide dannosamente
il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi
relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo pubblico
preposto è titolare di un interesse legittimo all’esercizio
di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le
misure richieste, un provvedimento che ne spieghi
esplicitamente le ragioni, con la conseguenza che il
silenzio serbato sull’istanza e sulla successiva diffida
integra gli estremi del silenzio–rifiuto, sindacabile in
sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento
dell’obbligo di provvedere espressamente. In altre parole,
l’atto di impulso fa nascere in capo all’Amministrazione
l’obbligo o all’esercizio dei poteri repressivi o, comunque,
a provvedere sull’istanza, anche esplicitando –e motivando– l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte
del denunziante” (TAR Lazio–Roma, Sez. II,
26/06/2009, n. 6260; conforme: TAR Campania–Napoli, Sez. II,
01/12/2006, n. 10329).
Nella specie, il Comune di Angri non ha riscontrato la
diffida dei ricorrenti, volta all’attivazione dei suoi
poteri di vigilanza in campo edilizio–urbanistico, in
relazione all’abuso, dagli stessi denunziato come commesso
dalla società controinteressata, nell’area di sua proprietà,
limitrofa agli immobili di loro pertinenza: tale la
conclusione, ricavabile dall’esame e del ricorso e dei
documenti allo stesso allegati, tra cui una relazione
tecnica di parte, cui nulla hanno opposto, in contrario,
l’Amministrazione Comunale e la società controinteressata,
non costituiti in giudizio.
Il Collegio, in accoglimento del ricorso, ordina pertanto al
Comune di Angri di riscontrare l’epigrafata diffida dei
ricorrenti, con atto espresso e motivato, nel termine
perentorio di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione
in via amministrativa, ovvero –se anteriore– dalla
notificazione, a cura di parte, della presente sentenza,
dando atto degli accertamenti compiuti circa l’abuso in
questione e, ove gli stessi siano stati verificati come
sussistenti, dell’adozione dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, previsti dalla legge.
Il Tribunale si riserva, a fronte dell’eventuale inerzia del
Comune, oltre tale termine perentorio, di nominare, su
istanza di parte debitamente notificata, un commissario ad acta, che a tanto provveda in sua vece, con aggravio di
spese (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 31.10.2018 n. 1535 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di
una istanza presentata al Comune nella quale il privato
solleciti la repressione di abusi edilizi in relazione a
costruzioni realizzate sul terreno confinante e
successivamente agisca dinanzi al Tar per l’annullamento del
silenzio rifiuto della p.a., il ricorso è fondato nella
parte in cui tali costruzioni non sono autorizzate da idoneo
titolo edilizio.
Infatti, il ricorrente non agisce al fine di tutelare un
interesse generale di rispetto o ripristino della legalità,
ma agisce per la tutela del proprio specifico interesse di
proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati
perpetrati gli abusi, anche con riferimento all’asserita
violazione delle norme sulle distanze dal terreno e dagli
edifici di proprietà del ricorrente.
In tale situazione particolare l’istanza del
proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati
commessi gli abusi edilizi obbliga l’Amministrazione
all’esercizio dei poteri repressivi; l’Amministrazione è
obbligata a provvedere sull’istanza, anche esplicitando
l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte del
ricorrente.
---------------
Secondo la giurisprudenza “La funzione dell’azione avverso
il silenzio è quella di ottenere l’accertamento dell’obbligo
della P.A. di provvedere sull’istanza del privato, adottando
una decisione espressa sulla pretesa con la stessa avanzata,
con la conseguenza che la determinazione che vale a
interrompere l’inerzia è solo quella idonea a concludere il
procedimento e non anche l’adozione di un atto meramente
soprassessorio, interlocutorio o endoprocedimentale”.
---------------
Il ricorso è fondato.
Sussiste, nella specie, il presupposto dell’inerzia della P.A. nel riscontrare l’istanza–diffida della società
ricorrente, volta all’esercizio del poteri
dell’Amministrazione Comunale, d’accertamento e di
repressione degli abusi in materia edilizio–urbanistica,
in ragione della carenza di idoneo titolo abilitativo
dell’immobile confinante e della denunziata violazione delle
distanze legali, che sarebbe stata posta in essere dal
controinteressato, rispetto al limitrofo opificio di sua
proprietà.
In giurisprudenza, cfr. la massima seguente: “In presenza di
una istanza presentata al Comune nella quale il privato
solleciti la repressione di abusi edilizi in relazione a
costruzioni realizzate sul terreno confinante e
successivamente agisca dinanzi al Tar per l’annullamento del
silenzio rifiuto della p.a., il ricorso è fondato nella
parte in cui tali costruzioni non sono autorizzate da idoneo
titolo edilizio: infatti il ricorrente non agisce al fine di
tutelare un interesse generale di rispetto o ripristino
della legalità, ma agisce per la tutela del proprio
specifico interesse di proprietario limitrofo al luogo in
cui sarebbero stati perpetrati gli abusi, anche con
riferimento all’asserita violazione delle norme sulle
distanze dal terreno e dagli edifici di proprietà del
ricorrente; in tale situazione particolare l’istanza del
proprietario limitrofo al luogo in cui sarebbero stati
commessi gli abusi edilizi obbliga l’Amministrazione
all’esercizio dei poteri repressivi; l’Amministrazione è
obbligata a provvedere sull’istanza, anche esplicitando
l’eventuale erronea valutazione dei presupposti da parte del
ricorrente” (TAR Veneto, Sez. II, 23/01/2009, n. 143).
Nella specie, poi, non può ritenersi che tale inerzia sia
cessata, perché il Comune avrebbe ordinato un sopralluogo
tecnico alla Polizia Municipale, atteso che, secondo la
giurisprudenza: “La funzione dell’azione avverso il silenzio
è quella di ottenere l’accertamento dell’obbligo della P.A.
di provvedere sull’istanza del privato, adottando una
decisione espressa sulla pretesa con la stessa avanzata, con
la conseguenza che la determinazione che vale a interrompere
l’inerzia è solo quella idonea a concludere il procedimento
e non anche l’adozione di un atto meramente soprassessorio,
interlocutorio o endoprocedimentale” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 30/05/2017, n. 6402).
Sta di fatto, per di più, che, nel caso in esame, il
sopralluogo in questione non è stato neppure eseguito, a
cagione della riscontrata assenza dei proprietari/controinteressati
(cfr. il relativo verbale, in atti); ma l’Amministrazione
Comunale, nell’esercizio dei propri poteri –doveri di
vigilanza in materia urbanistico–edilizia, non può
evidentemente arrestare la propria azione, a fronte di tale
momentanea e superabile difficoltà, dovendo piuttosto
esperire, all’uopo, ogni accertamento, idoneo alla verifica
della denunziati abusi e dell’asserita violazione in tema di
distanze legali, ed emanare, all’esito, un provvedimento
espresso e motivato, circa la diffida di cui sopra, in cui
fornisca, all’istante, ragione circa l’effettiva –o meno–
presenza di abusi, nonché circa l’effettivo –o meno–
superamento del limite in questione, derivante dal P.R.G.,
da parte del controinteressato, nonché adottando, in caso
positivo, i provvedimenti repressivi, prescritti dalla
normativa vigente in materia.
In considerazione di quanto sopra argomentato, il Tribunale
ordina, pertanto, al Comune di Scafati d’adottare un
provvedimento espresso e motivato, circa la diffida in
epigrafe, nei sensi sopra precisati, nel termine perentorio
di giorni trenta, decorrente dalla comunicazione in via
amministrativa, ovvero –se anteriore– dalla notificazione,
a cura di parte, della presente sentenza.
Il Tribunale si riserva, a fronte dell’eventuale ulteriore
inerzia, da parte dell’Amministrazione, una volta decorso il
predetto termine, di nominare, su domanda di parte
debitamente notificata, un commissario ad acta, che a tanto
provveda in sua vece (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 31.10.2018 n. 1534 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ai fini della configurabilità di una
lottizzazione abusiva non è sufficiente accertare la
realizzazione di manufatti assumendo rilievo dirimente la
finalità dell’intervento posto in essere che deve porsi in
contrasto con le vigenti previsioni urbanistiche.
Sul punto la giurisprudenza, muovendo dalla formulazione
dell’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 laddove prevede che "si
ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio” perviene alla conclusione che “può
integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo
di opera in concreto idonea a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente ed a realizzare un nuovo
insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un
concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del
territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto),
sia un nuovo e non previsto carico urbanistico”.
Detto principio trova puntuale specificazione nella
giurisprudenza di secondo grado che, in tema di
individuazione degli elementi sintomatici rivelatori di
detta intenzione, precisa che “l'intento lottizzatorio -inteso come volontà di realizzare un non consentito
frazionamento dei suoli, o comunque di alterarne
surrettiziamente la destinazione urbanistica in contrasto
con gli strumenti vigenti- può essere legittimamente
desunto da una pluralità di elementi indiziari, anche di per
sé non univocamente significativi, ma che nel loro complesso
evidenzino in modo ragionevolmente inequivoco la
strumentalità degli abusi al perseguimento delle suindicate
finalità”.
---------------
Nessun rilievo
riveste la
circostanza che la lottizzazione fosse intervenuta in epoca
precedente all’acquisto del fondo da parte del ricorrente e
che l’Amministrazione ne fosse a conoscenza da tempo.
La giurisprudenza è, infatti, granitica nel ritenere che il
decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non limiti in
alcun modo i poteri repressivi dell’Amministrazione (Cons.
St. Ad. Plen. 17.10.2017 n. 9).
La giurisprudenza afferma, altresì, con identica fermezza
che l’accertata lottizzazione abusiva costituisce un
illecito permanente con la conseguenza che deve ritenersi
legittimato l’intervento repressivo anche nei confronti dei
successivi proprietari del fondo a nulla rilevando la loro
eventuale estraneità al fatto originario poiché,
come recentemente ribadito ulteriormente, “la lottizzazione
abusiva opera in modo oggettivo ed indipendentemente dal
subentro dei successivi proprietari interessati, i quali
potranno far valere la propria (eventuale) buona fede nei
confronti dei propri danti causa”.
---------------
Riconosce il Collegio che ai fini della configurabilità di una
lottizzazione abusiva non è sufficiente accertare la
realizzazione di manufatti assumendo rilievo dirimente la
finalità dell’intervento posto in essere che deve porsi in
contrasto con le vigenti previsioni urbanistiche (ex multis,
Cons. St., Sez. VI, 23.07.2018, n. 4486).
Sul punto la giurisprudenza, muovendo dalla formulazione
dell’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 laddove prevede che "si
ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o
adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio” perviene alla conclusione che “può
integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo
di opera in concreto idonea a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente ed a realizzare un nuovo
insediamento abitativo e, pertanto, a determinare sia un
concreto ostacolo alla futura attività di programmazione del
territorio (che viene posta di fronte al fatto compiuto),
sia un nuovo e non previsto carico urbanistico” (TAR
Campania, Napoli, Sez. II, 14.06.2018, n. 3972).
Detto principio trova puntuale specificazione nella
giurisprudenza di secondo grado che, in tema di
individuazione degli elementi sintomatici rivelatori di
detta intenzione, precisa che “l'intento lottizzatorio -inteso come volontà di realizzare un non consentito
frazionamento dei suoli, o comunque di alterarne
surrettiziamente la destinazione urbanistica in contrasto
con gli strumenti vigenti- può essere legittimamente
desunto da una pluralità di elementi indiziari, anche di per
sé non univocamente significativi, ma che nel loro complesso
evidenzino in modo ragionevolmente inequivoco la
strumentalità degli abusi al perseguimento delle suindicate
finalità (Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3911, e 14.01.2015, n. 4749; Sez. IV, 22.08.2013, n. 4254; Sez. V, 27.03.2013, n. 1809)” (Cons. St., Sez. VI,
06.06.2018, n. 3416).
...
Nessun rilievo
nei sensi invocati dal ricorrente riveste, infine, la
circostanza che la lottizzazione fosse intervenuta in epoca
precedente all’acquisto del fondo da parte del ricorrente e
che l’Amministrazione ne fosse a conoscenza da tempo.
La giurisprudenza è, infatti, granitica nel ritenere che il
decorso del tempo dalla commissione dell’abuso non limiti in
alcun modo i poteri repressivi dell’Amministrazione (Cons.
St. Ad. Plen. 17.10.2017 n. 9).
La giurisprudenza afferma, altresì, con identica fermezza
che l’accertata lottizzazione abusiva costituisce un
illecito permanente con la conseguenza che deve ritenersi
legittimato l’intervento repressivo anche nei confronti dei
successivi proprietari del fondo a nulla rilevando la loro
eventuale estraneità al fatto originario (TAR Emilia
Romagna, Bologna, Sez. I, 12.12.2016, n. 10) poiché,
come recentemente ribadito ulteriormente, “la lottizzazione
abusiva opera in modo oggettivo ed indipendentemente dal
subentro dei successivi proprietari interessati, i quali
potranno far valere la propria (eventuale) buona fede nei
confronti dei propri danti causa (C.d.S. sez. IV n. 3115/2014
e n. 1589/2014)” (TAR Puglia, Lecce, Sez. III,
04.05.2018, n. 756)
(TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 31.10.2018 n. 280 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Illegittima autorizzazione
a lottizzare - Configurabilità del reato di lottizzazione
abusiva - Contrasto tra attività cognitiva del giudice
penale e principio di tassatività della norma penale -
Articolo 650 codice penale - Inosservanza dei provvedimenti
dell'autorità - Giurisprudenza - Artt. 12, 13, 29, 30, 44,
d.P.R. n. 380/2001.
In tema di lottizzazione, il reato si
configura, per espressa previsione legislativa, anche in
presenza di una autorizzazione a lottizzare illegittima, che
sia stata cioè rilasciata in violazione delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite da leggi statali o regionali, cosicché al giudice
ordinario, a prescindere dall'atto autorizzatorio
amministrativo e senza lo svolgimento di alcun controllo su
tale atto, viene demandata la verifica diretta della
trasformazione territoriale realizzata alla stregua delle
prescrizioni di legge e di qualsiasi strumento urbanistico
di carattere generale, anche soltanto adottato, ed una
verifica siffatta, lungi dall'interferire in qualsiasi modo
sull'attività della pubblica amministrazione, costituisce
riscontro di elementi che concorrono a determinare la
condotta criminosa.
Si ha, infatti, lottizzazione abusiva di terreni a scopo
edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in
violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali
o regionali o senza la prescritta autorizzazione (articolo
30 d.P.R. n. 380 del 2001).
Sicché, riguardo la fattispecie di cui all'articolo 650 del
codice penale, per la configurabilità della contravvenzione
è necessaria la presenza di un provvedimento legalmente
dato, per di più per il reato di lottizzazione abusiva, che
è fattispecie a consumazione alternativa, potendo
realizzarsi sia quando manchi un provvedimento di
autorizzazione, sia quando quest'ultimo sussista ma
contrasti con le prescrizioni degli strumenti urbanistici
(Sez. U., n. 5115 del 28/11/2001, dep. 2002, Salvini).
...
DIRITTO
URBANISTICO - EDILIZIA - Urbanistica e titolo abilitativo -
Verifica del giudice penale della legalità nell'attività
amministrativa (articolo 97 cost.).
In materia urbanistica, quando le norme
penali richiamano il permesso di costruire presuppongono
che, per escludere la configurazione del reato, il titolare
del permesso sia in possesso di un titolo abilitativo
legittimo, altrimenti non avrebbe senso imputargli,
unitamente ad altri soggetti, una responsabilità per mancata
conformità dell'intervento (autorizzato in base ad un titolo
rilasciato dalla competente autorità comunale) alla
normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché a
quella del permesso di costruire e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo, permesso che si presuppone appunto
rilasciato.
In conclusione, il giudice penale deve controllare, al fine
di ritenere sussistente o insussistente il reato, tutto ciò
che il legislatore, nel solco tracciato dal principio
costituzionale di legalità nell'attività amministrativa
(articolo 97 cost.), abbia indicato, esplicitamente o
implicitamente, nella descrizione delle varie fattispecie
penali come rilevante ai fini della tipizzazione del fatto
punibile.
...
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato urbanistico
suscettibile di estinzione ex articolo 45, c. 3, d.P.R.
380/2001 - Effetti giuridici - Repertorio giurisprudenziale.
In materia urbanistica, quantunque il
reato sia suscettibile di estinzione (articolo 45, comma 3,
d.P.R. 380 del 2001), chi esegua lavori senza richiedere il
permesso di costruire ma in conformità agli strumenti
urbanistici, se l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda di accertamento di conformità
oppure mentre sarebbe punibile tout court, senza neppure la
possibilità di ricorrere alla sanatoria, chi abbia eseguito,
senza il permesso di costruire, lavori in contrasto con gli
strumenti urbanistici ma li abbia successivamente eliminati,
rendendo il fatto ex post inoffensivo per aver riportato il
manufatto in una situazione di conformità alla disciplina
urbanistica (Sez.
3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù; Sez. 3, n. 7405 del
15/01/2015, Bonarota), sarebbe invece
esonerato da qualsiasi responsabilità penale colui il quale,
munito invece di un permesso di costruire illegittimo, abbia
eseguito lavori nonostante l'intervento risulti in contrasto
con la disciplina urbanistica, determinando un perdurante
aggravio del carico urbanistico e comunque una permanente
offesa al bene giuridico tutelato.
...
DIRITTO
URBANISTICO - EDILIZIA - Contenuti degli strumenti
urbanistici o dei regolamenti di igiene - Norme di edilizia
e di tutela ambientale - RESPONSABILITÀ PER DANNI -
Discipline sulle distanze - Funzione integrativa -
Responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati
confinanti - Art. 872 codice civile - Tutela ripristinatoria.
Le norme di edilizia e di tutela
ambientale contenute negli strumenti urbanistici o nei
regolamenti di igiene contengono discipline sulle distanze e
svolgono una funzione integrativa dell'articolo 872 del
codice civile, con la conseguenza che la loro violazione è
fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei
privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti
un danno oggettivo o "in re ipsa" e chiarendo che tale danno
non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o
nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che
sarebbero superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche
nella indebita limitazione del pieno godimento del fondo in
termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità,
trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente
suscettibili di valutazione patrimoniale e che la
realizzazione di un edificio di altezza e volumetria
superiori a quelle consentite, in violazione di norme in
tema di urbanistica, può comportare per il vicino una
diminuzione di luce ed aria (ed una connessa diminuzione del
valore del proprio edificio) superiori a quelle altrimenti
legittime; dando così luogo alla configurabilità di una
responsabilità per danni, la cui liquidazione è stata
demandata alla competente sede civile atteso che la parte
civile non aveva offerto alcuna specifica prova dell'entità
di esso.
...
DIRITTO
URBANISTICO - EDILIZIA - Finalità della disciplina
urbanistica - Attività pubblica di governo degli usi e delle
trasformazioni del territorio - Elementi di natura
extrapenale - Trasformazione del territorio urbanistico ed
edilizio - Violazione del parametro di legalità.
L'urbanistica disciplina l'attività
pubblica di governo degli usi e delle trasformazioni del
territorio, sicché, lo stesso "territorio" costituisce il
bene oggetto della relativa tutela, bene esposto a
pregiudizio da ogni condotta che produca alterazioni in
danno del benessere complessivo della collettività e delle
sue attività, ed il cui parametro di legalità è dato dalla
disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa
vigente.
Pertanto, al giudice penale non è affidato, in definitiva,
alcun c.d. sindacato sull'atto amministrativo (concessione
edilizia/permesso di costruire), ma -nell'esercizio della
potestà penale- egli è tenuto ad accertare la conformità tra
ipotesi di fatto (opera eseguenda o eseguita) e fattispecie
legale, in vista dell'interesse sostanziale che tale
fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di
natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un
significato descrittivo.
Per cui, anche, il reato di cui all'articolo 44, comma 1,
lettere a), b) e e), d.P.R. n. 380 del 2001) è configurabile
in caso di realizzazione di opere di trasformazione del
territorio in violazione del parametro di legalità di
urbanistica ed edilizia, costituito dalle prescrizioni del
permesso di costruire, richiamato dalla norma penale ad
integrazione descrittiva della fattispecie penale, nonché
delle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei
regolamenti ed -in quanto applicabili- da quelle della
stessa legge (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.10.2018 n. 49697 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Mancanza o l'illegittimità di un
atto amministrativo - Potere di accertamento giurisdizionale
- Elementi di natura extrapenale - Principio di legalità.
Quando la mancanza o l'illegittimità di
un atto amministrativo (perché non rilasciato o perché,
quantunque emesso, sia difforme dal tipo legale e, quindi,
illegittimo) costituisce un elemento normativo della
fattispecie incriminatrice -non viene in rilievo il potere
dell'autorità giudiziaria di disapplicare un atto
amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento
giurisdizionale, inteso quale diretta espressione del
principio di legalità come declinato dall'articolo 101,
comma 2, Cost., potere che compete pieno iure al giudice
penale - il quale "risolve ogni questione da cui dipende la
decisione, salvo che sia diversamente stabilito" (articolo
2, comma 1, del codice di procedura penale)- e dunque detto
potere deve essere esercitato anche in ordine ad un
provvedimento (amministrativo) quando l'atto costituisce
presupposto o elemento costitutivo di un reato o, comunque,
incide su di esso
(Sez. 3, n. 38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider);
cosicché l'esame del giudice penale non tende alla
disapplicazione o meno dell'atto e non riguarda l'esistenza
"ontologica" del provvedimento amministrativo, ma
l'integrazione o meno della fattispecie penale in vista
dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a
tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale (nel
caso di specie articoli 12, 13 e 29 d.P.R. n. 380 del 2001)
convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva
(Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.10.2018 n. 49697 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Profili di illegittimità
sostanziale del titolo abilitativo - Identificazione in
concreto della fattispecie - Controllo della legittimità di
un atto amministrativo - Disapplicazione dell'atto
amministrativo illegittimo.
In materia edilizia, allorché il giudice
accerta l'esistenza di profili di illegittimità sostanziale
del titolo abilitativo non pone in essere la procedura di
disapplicazione riconducibile all'articolo 5 della legge
20.03.1865 n. 2248, allegato E), atteso che viene operata
una identificazione in concreto della fattispecie con
riferimento all'oggetto della tutela da identificarsi nella
salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio
regolati dagli strumenti urbanistici, cosicché non si pone
un problema di disapplicazione dell'atto amministrativo
illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un
atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo
o un presupposto del reato, precisando che, in materia di
violazione dell'articolo 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, la
non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che
ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative
statali e regionali in materia urbanistico-edilizia e alle
previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata
non soltanto se l'atto sia illecito, e cioè frutto di
attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui
l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in
mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di
mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del
potere (Sez. 3, n.
12389 del 21/02/2017, Minosi; Sez. 3, n. 37847 del
14/05/2013, Sorini; Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga;
Sez. 3, n. 33051 del 10/05/2017, Puglisi; Sez. 3, n. 36366
del 16/06/2015, Faiola G.; Sez. 3, n. 41620 del 02/10/2007,
Emelino) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.10.2018 n. 49697 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: BENI
CULTURALI ED AMBIENTALI - Difetto del permesso di costruire
ed in zona a vincolo paesaggistico ed ambientale - Ordine di
demolizione e rimessione in pristino - DIRITTO URBANISTICO -
EDILIZIA - Sequestro preventivo - Continuazione, esecuzione
e completamento delle opere - Violazione dei sigilli -
Fattispecie - Art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 -
Art. 349, c. 1 e 2, cod. pen.- art. 44, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380/2001.
In tema di tutela paesaggistica, si
integrano i reati di cui agli articoli 181, comma 1-bis,
d.lgs. n. 42/2004, 349, c. 1 e 2, cod. pen. e 44, comma 1,
lett. e), d.P.R. n. 380/2001, nei casi in cui venga disposto
il sequestro delle opere realizzate in prosecuzione di opere
abusive già in sequestro.
Nella specie, i nuovi lavori erano stati posti in essere in
assenza di concessione edilizia in zona ricadente nella
perimetrazione definitiva del Parco nazionale del Vesuvio e
sottoposta a vincolo paesaggistico.
Tra l'altro la ricorrente era stata nominata custode, per
cui non vi è neppure questione circa il fatto che il
soggetto fosse edotto del vincolo posto sul bene
(Cass. Sez. 3, n. 37570 del 25/09/2002, Di Monte) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.10.2018 n. 49694 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza,
tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso
di costruire, è necessario che esso sia preordinato a
un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale,
sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume
non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di
guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue
caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa.
---------------
2.1. La censura in ordine alla prospettata natura
pertinenziale dell'opera, che escluderebbe la necessità del
permesso di costruire, oltre che formulata in modo generico
e assertivo, consistendo nella mera affermazione della
destinazione di tale opera a servizio esclusivo di un non
meglio precisato fabbricato principale, disgiunta da
qualsiasi analisi delle caratteristiche di tali fabbricati e
dei loro rapporti, è manifestamente infondata, avendo la
Corte territoriale escluso tale natura evidenziando come
l'intervento edilizio realizzato dall'imputato abbia
modificato il volume, la sagoma, i prospetti e le superfici
di quello preesistente.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza,
tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso
di costruire, è necessario che esso sia preordinato a
un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale,
sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume
non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di
guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue
caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (così,
da ultimo, Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni, Rv.
268552; conf. Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv.
253064; Sez. 3, n. 6593 del 24/11/2011, Chiri, Rv. 252442;
Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti, Rv. 244903; Sez. 3,
n. 37257 del 11/06/2008, Alexander, Rv. 241278) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
30.10.2018 n. 49691). |
EDILIZIA PRIVATA:
Disciplina antisismica e illiceità della condotta -
Controllo preventivo della pubblica amministrazione -
Effetti della verifica postuma dell'assenza del pericolo ed
il rilascio del provvedimento abilitativo - Artt. 93, 94, 95
d.P.R. n. 380/2001.
In materia di normativa antisismica, le
contravvenzioni previste dalla disciplina in materia
puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il
controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione
realizzata senza l'autorizzazione del genio civile e senza
le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini
della sussistenza del reato e la verifica postuma
dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento
abilitativo non incidono sulla illiceità della condotta,
poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di
inizio dell'attività.
...
Reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche -
Ufficio del Genio Civile - Rilascio postumo del parere
favorevole - Effetti antigiuridicità penale della condotta -
Pericolosità o meno della costruzioni - Irrilevanza -
Giurisprudenza.
In tema di reati concernenti l'attività
edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo
del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile
competente, che attesta la rispondenza alla normativa
antisismica delle opere realizzate, non elide
l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver
iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione
scritta dal competente ufficio tecnico regionale.
Nello stesso senso, Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Iovine,
secondo cui ai fini della configurabilità
delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica
(art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le
costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in
quanto la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio
del controllo preventivo della P.A. sulle attività
edificatorie in dette zone.
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di esclusione della
punibilità - Particolare tenuità del fatto di cui all'art.
131-bis cod. pen. - Nozione di abitualità nel reato.
Ai fini della configurabilità della
causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità
del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non osta la
presenza di più reati legati dal vincolo della
continuazione, qualora questi riguardano azioni commesse
nelle medesime circostanze di tempo, di luogo e nei
confronti della medesima persona, elementi da cui emerge una
unitaria e circoscritta deliberazione criminosa,
incompatibile con l'abitualità presa in considerazione in
negativo dall'art. 131-bis cod. pen.
(Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini; Sez. 5, n. 35590
del 31/05/2017, Battizzocco; Sez. 2, n. 19932 del
29/03/2017, Di Bello) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.10.2018 n. 49679 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI:
In materia di appalti pubblici, ai sensi dell'art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, non è
applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità
solidale prevista dall'art.
29, comma 2, del richiamato decreto, dovendosi
ritenere che l'art. 9 del dl n. 76 del 2013, conv. con
modif. nella l. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede
la inapplicabilità del suddetto articolo 29 ai contratti di
appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui
all'art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, non abbia carattere
di norma d'interpretazione autentica, dotata di efficacia
retroattiva, avendo solo esplicitato, senza innovare il
quadro normativo previgente, un precetto già desumibile dal
testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive
integrazioni.
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RILEVATO CHE:
- la Corte d'Appello di Milano, a conferma della sentenza del
Tribunale di Varese, ha condannato a titolo di
responsabilità solidale il Comune di Varese a corrispondere
a Da.Go., dipendente della Società Br. s.r.l., quale operaio
di IV livello, addetto ad opere edili oggetto dell'appalto
per la realizzazione di un parcheggio commissionato in
occasione dei mondiali di ciclismo su strada, le differenze
retributive e il TFR per aver svolto le superiori mansioni
di direttore del cantiere, nonché le retribuzioni e il TFR
per i mesi da gennaio ad aprile 2008, non pagati
dall'appaltatrice all'atto del recesso;
- interpretando l'art. 1, co. 2, del d.lgs. n. 276 del 2003 alla
luce dell'art. 6 della legge delega n. 30 del 2003, la Corte
territoriale è giunta a preferire, tra le varie
interpretazioni asseritamente ritenute possibili, quella
basata sul riconoscimento della responsabilità solidale tra
i soggetti del contratto di appalto, nei confronti dei
lavoratori utilizzati nell'esecuzione dello stesso, senza
ritenere che a ciò fosse da ostacolo la natura pubblica del
committente;
- la Corte territoriale ha ritenuto che, sebbene l'art. 1, co. 2,
del d.lgs. n. 276 del 2003 appaia voler escludere
l'applicazione dell'intero decreto legislativo alle
pubbliche amministrazioni, l'interpretazione della norma
citata, alla luce della legge delega, impone di considerare
come una endiadi la formulazione "il decreto non trova
applicazione per le pubbliche amministrazioni e... per il
loro personale" in esso contenuta, la quale starebbe in
luogo dell'espressione "per il personale delle pubbliche
amministrazioni", così che la p.a. deve essere
considerata esclusa dall'applicazione del d.lgs. n. 276 del
2003 soltanto quando opera nella veste di datore di lavoro
pubblico, e non anche in quella di committente di un
appalto;
- la cassazione di tale sentenza è domandata dal Comune di Varese
con due motivi, illustrati da memoria;
- il Go. è rimasto intimato.
CONSIDERATO CHE:
- col primo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, co. 1,
n. 3 cod. proc. civ., il ricorrente deduce "Violazione e
falsa applicazione degli artt. 1 e 29 del d.lgs. n. 276/2003".
Contesta la ricostruzione offerta dal Giudice dell'Appello
e, nella memoria illustrativa rileva che in epoca successiva
alla proposizione del ricorso la giurisprudenza di
legittimità, alla quale si richiama, si è andata
consolidando nel senso dell'inapplicabilità dell'art. 29 del
d.lgs. n. 276 del 2003 alla pubblica amministrazione;
- col secondo motivo, formulato ai sensi dell'art. 360, co.
1, n. 4 cod. proc. civ., lamenta "Nullità della sentenza
per omessa pronuncia su una parte della domanda";
- la sentenza gravata non avrebbe chiarito l'origine del credito,
enunciandone apoditticamente l'esistenza sulla base di meri
conteggi, né avrebbe valutato l'insussistenza delle
condizioni di ammissibilità di un ricorso al procedimento
monitorio di cui all'art. 633 cod. proc. civ., atteso che il
Go. non vantava alcun credito diretto nei confronti del
Comune di Varese;
- le censure, che vanno esaminate congiuntamente per connessione,
meritano accoglimento;
- questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi più volte, in merito
alla questione proposta dal ricorso in esame, affermando il
seguente principio di diritto: "In
materia di appalti pubblici, ai sensi dell'art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, non è
applicabile alle pubbliche amministrazioni la responsabilità
solidale prevista dall'art.
29, comma 2, del richiamato decreto, dovendosi
ritenere che l'art. 9 del dl n. 76 del 2013, conv. con
modif. nella l. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede
la inapplicabilità del suddetto articolo 29 ai contratti di
appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui
all'art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, non abbia carattere
di norma d'interpretazione autentica, dotata di efficacia
retroattiva, avendo solo esplicitato, senza innovare il
quadro normativo previgente, un precetto già desumibile dal
testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive
integrazioni"
(così Cass. n. 20327 del 2016; cfr. anche Cass. n. 10844 del
2018; Cass. n. 10644 del 2016; Cass. n. 10731 del 2016;
Cass. n. 15432 del 2014);
- al predetto orientamento va data, in questa sede, continuità,
atteso che le ragioni indicate a fondamento dei principi
affermati, da intendersi qui integralmente richiamate ex
art. 118 disp. att. cod. proc. civ., sono del tutto
condivise dal Collegio;
- in definitiva, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va
cassata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 30.10.2018 n. 27677). |
PATRIMONIO:
E’ del giudice ordinario la giurisdizione sulla decadenza
dall'assegnazione di alloggio edilizia residenziale pubblica.
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Giurisdizione - Alloggio edilizia residenziale pubblica –
Decadenza – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la
decadenza dall'assegnazione di alloggio di edilizia
residenziale pubblica e il contestuale ordine di rilascio
(1).
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(1)
Il Tar ha dato atto di un contrario orientamento (Cons. St.,
sez. V, 21.08.2014, n. 4270) il quale riconduce la materia
dell’edilizia residenziale pubblica alla concessione di bene
pubblico, con conseguente giurisdizione del giudice
amministrativo in caso di impugnazione della decadenza dalla
relativa assegnazione. Tale conclusione si fonda sulla
circostanza che gli alloggi di edilizia residenziale
pubblica hanno natura di beni indisponibili e, pertanto, il
relativo provvedimento di assegnazione ha natura concessoria.
Il Tar non condivide però tale conclusione.
Ha chiarito che la concessione del bene pubblico è uno degli
strumenti attraverso i quali l’Amministrazione provvede alla
gestione dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo
pubblicistico, al fine del loro migliore utilizzo. Questa è
la causa della concessione del bene pubblico. Nel caso
dell’edilizia residenziale pubblica non viene però in
rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni
(edifici e.r.p.) dell’Amministrazione poiché in tale ambito,
il fine ultimo della sua azione è quello di assicurare
l’accesso all’abitazione ai ceti meno abbienti.
L’assegnazione dell’alloggio non è quindi mero strumento di
gestione di quest’ultimo (bene pubblico) ma tende a
soddisfare un generale bisogno della collettività, e ne è
prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi
popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale
viene attivata per far fronte, e nella misura di cui è
necessaria a far fronte, alle esigenze abitative della
collettività.
La materia non si esaurisce quindi nell’attribuzione
dell’alloggio (bene pubblico) al privato ma comporta una
complessa attività che inizia con l’individuazione dei lotti
di terreno da assegnare a edilizia residenziale pubblica;
prosegue con l’edificazione degli alloggi e la loro
assegnazione agli aventi titolo in base alle graduatorie
formate dall’Amministrazione medesima, e prosegue poi con il
controllo da parte di quest’ultima sul corretto utilizzo
degli alloggi assegnati.
È un’attività in cui l’utilizzo del bene pubblico è
strumentale alla soddisfazione di un bisogno generale della
collettività e, pertanto, essa appare al Collegio pienamente
inquadrabile nella nozione di pubblico servizio. Tale è
infatti quella attività che il soggetto pubblico, attraverso
l’uso dei poteri di cui dispone, assume tra le proprie
finalità istituzionali al fine di migliorare il benessere
della comunità di riferimento.
In tale ambito rientra indubitabilmente l’edificazione,
l’assegnazione e la gestione di alloggi per far fronte alle
esigenze abitative della popolazione più debole socialmente
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 30.10.2018 n. 1399 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
La concessione del bene pubblico è uno degli strumenti
attraverso i quali l’Amministrazione provvede alla gestione
dei beni di sua proprietà, che possiede a titolo
pubblicistico, al fine del loro migliore utilizzo. Questa è
la causa della concessione del bene pubblico.
Nel caso
dell’edilizia residenziale pubblica non viene però in
rilievo solo la necessità di utilizzare al meglio i beni
(edifici e.r.p.) dell’Amministrazione poiché in tale ambito,
il fine ultimo della sua azione è quello di assicurare
l’accesso all’abitazione ai ceti meno abbienti.
L’assegnazione dell’alloggio non è quindi mero strumento di
gestione di quest’ultimo (bene pubblico) ma tende a
soddisfare un generale bisogno della collettività, e ne è
prova il fatto che la stessa edificazione degli alloggi
popolari è oggetto di un’attività programmatoria la quale
viene attivata per far fronte, e nella misura di cui è
necessaria a far fronte, alle esigenze abitative della
collettività.
La materia non si esaurisce quindi
nell’attribuzione dell’alloggio (bene pubblico) al privato
ma comporta una complessa attività che inizia con
l’individuazione dei lotti di terreno da assegnare a
edilizia residenziale pubblica; prosegue con l’edificazione
degli alloggi e la loro assegnazione agli aventi titolo in
base alle graduatorie formate dall’Amministrazione medesima,
e prosegue poi con il controllo da parte di quest’ultima sul
corretto utilizzo degli alloggi assegnati. È un’attività in
cui l’utilizzo del bene pubblico è strumentale alla
soddisfazione di un bisogno generale della collettività e,
pertanto, essa appare al Collegio pienamente inquadrabile
nella nozione di pubblico servizio.
Tale è infatti quella
attività che il soggetto pubblico, attraverso l’uso dei
poteri di cui dispone, assume tra le proprie finalità
istituzionali al fine di migliorare il benessere della
comunità di riferimento. In tale ambito rientra
indubitabilmente l’edificazione, l’assegnazione e la
gestione di alloggi per far fronte alle esigenze abitative
della popolazione più debole socialmente.
La fattispecie in esame, a parere del Collegio, deve dunque
essere inquadrata nella categoria del pubblico servizio
poiché non si esaurisce nella concessione del bene pubblico
(l’alloggio di edilizia popolare); tale provvedimento
rappresenta invece solo uno dei passaggi per il
soddisfacimento di un bisogno generale della collettività.
Ne segue che in tema di riparto giurisdizione deve essere
applicata la norma di cui all’articolo 133, comma 1), lett.
c) c.p.a. a norma del quale la giurisdizione esclusiva
amministrativa è limitata alle situazioni in cui viene in
rilievo l’uso del potere pubblico da parte
dell’Amministrazione, corrispondentemente a quanto statuito
dalla corte Costituzionale con sentenza n. 204/2004.
In tema
di riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti
gli alloggi di edilizia economica e popolare sussiste quindi
la giurisdizione amministrativa quando si controverta
attorno a vizi incidenti sulla fase del procedimento
amministrativo, fase che è strumentale all'assegnazione
dell’alloggio ed è caratterizzata dall'assenza di diritti
soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre
sussiste la giurisdizione ordinaria per tutte le
controversie attinenti alla fase successiva al provvedimento
di assegnazione nella quale l’Amministrazione non esercita
alcun potere autoritativo ma agisce quale parte di un
rapporto privatistico di locazione (Cass. SS.UU. n.
22957/2013; n. 15977/2011).
L’assegnazione dell’alloggio di
edilizia economica popolare determina infatti la nascita,
tra Amministrazione ed assegnatario, di un rapporto
paritetico nel quale diritti ed obblighi tra le parti sono
interamente determinati dal contratto di locazione
conseguente all’assegnazione medesima (art. 16 Legge della
Regione Toscana 20.12.1996, n. 96). La giurisdizione
amministrativa, in tale fase, può essere predicata solo con
riguardo a questioni inerenti l’esercizio del potere di autotutela sul provvedimento di assegnazione che conduca
alla sua revoca o al suo annullamento, ovvero con riguardo a
controversie nelle quali si discute della perdita dei
requisiti da parte dell’assegnatario. In tali circostanze
rivive infatti il potere pubblicistico volto a modificare
autoritativamente il rapporto di assegnazione per ragioni di
pubblico interesse.
Laddove invece si contesti l’inadempimento dell’assegnatario
a specifici obblighi inerenti lo sviluppo del rapporto di
assegnazione, deve essere affermata la giurisdizione
ordinaria con conseguente (non annullamento della, ma)
decadenza dall’assegnazione per non avere egli rispettato
specifiche obbligazioni poste a suo carico. La stessa
sentenza del Consiglio di Stato 17.05.2018, n. 2954,
citata in udienza dal procuratore dei ricorrenti a supporto
della tesi favorevole alla giurisdizione amministrativa
sulla presente controversia, sembra invece confermare la
tesi opposta, avendo affermato la giurisdizione
amministrativa in una fattispecie nella quale si discuteva
circa la permanenza o meno delle condizioni che
legittimavano l’assegnazione di un alloggio di edilizia
residenziale popolare.
Nel caso di specie invece
l’Amministrazione contesta l’abbandono dell’alloggio da
parte degli assegnatari e la sua cessione a soggetti terzi.
Essa non è intervenuta, con utilizzo di poteri
pubblicistici, sul provvedimento di assegnazione ma ha
invece inteso incidere sul rapporto sorto da quest’ultimo, a
causa di asseriti inadempimenti degli assegnatari. Viene
quindi dedotta dal Comune la violazione di obbligazioni a
carattere civilistico a carico di questi ultimi che sono
esattamente determinate tra le parti e a fronte del
provvedimento decadenziale emanato, quindi, non possono che
sussistere diritti soggettivi la cui violazione deve essere
conosciuta dal Giudice Ordinario.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile per
difetto di giurisdizione, con remissione delle parti al
Giudice Ordinario e salvezza degli effetti processuali e
sostanziali della domanda, ai sensi e per gli effetti di cui
all’articolo 11 c.p.a.. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Taglio d'erba nel privato dopo verifica.
Prima di arrivare all'ordine categorico di sfalcio di un'area privata il
comune deve interloquire con il cittadino. Non può limitarsi a sanzionarlo e
poi notificargli un'ordinanza di ripristino da parte del sindaco.
Lo ha
evidenziato il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
30.10.2018 n. 1018.
Gli organi di vigilanza del comune di Bassano sul Grappa hanno
verificato una eccessiva vegetazione in prossimità di una strada e per
questo hanno sanzionato il proprietario del fondo intimandogli anche lo
sfalcio della vegetazione. Contro questa specifica disposizione adottata
senza il preventivo avvio del procedimento l'interessato ha proposto con
successo ricorso al collegio.
A parere del Tar nel caso sottoposto all'esame dei giudici le generiche
motivazioni di urgenza adottate dal comune non giustificano l'omesso avviso
di avvio del procedimento. Tanto più che il comune poteva facilmente
adottare accorgimenti come apporre cartelli e segnalazioni, nelle more di un
rapido espletamento del contraddittorio
(articolo ItaliaOggi del 10.11.2018).
---------------
MASSIMA
Ritenuta, nel merito, la sussistenza degli estremi per pronunciare
sentenza cd. semplificata ex art. 74 c.p.a., attesa la fondatezza del
ricorso per le ragioni di seguito riportate;
Considerato, infatti, che:
- è anzitutto infondato e da respingere il primo motivo di
ricorso, poiché il provvedimento impugnato non ha natura di ordinanza
contingibile e urgente, non richiamando esso nelle proprie premesse né
l’art. 50, né l’art. 54 del T.U.E.L., ma il regolamento di Polizia Urbana
del Comune: si tratta, perciò, di un atto gestionale, che rientra nelle
competenze dirigenziali ai sensi dell’art. 107 T.U.E.L. (cfr., ex multis,
C.d.S., Sez. V, 26.09.2013, n. 4778);
- risulta, invece, fondato e da accogliere il secondo motivo
di ricorso, a mezzo del quale il sig. Sp. lamenta che non gli è stato
comunicato l’avvio del procedimento, così impedendogli di presentare il
proprio apporto partecipativo;
- nel caso di specie è pacifico e incontestato tra le parti che il
provvedimento impugnato non è stato preceduto dall’avviso ex art. 7 della l.
n. 241/1990;
- al riguardo la difesa comunale obietta che, com’è ben noto, ai
sensi dell’art. 7, comma 1, della l. n. 241/1990, la comunicazione di avvio
del procedimento può essere omessa qualora vi siano particolari esigenze di
celerità procedimentale. Tuttavia, in contraddizione con tale argomento,
afferma, poi, che l’interessato avrebbe comunque la possibilità di
presentare memorie e documenti nel procedimento attivato con l’ordinanza
impugnata: ciò sul presupposto –di cui si è poc’anzi dimostrata l’erroneità–
che questa costituisca un mero atto endoprocedimentale;
- inoltre, la P.A., nell’ipotesi in cui si
determini nel senso del mancato ricorso alle prescritte garanzie
partecipative, ha l’onere di specificare le “ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento” che
giustificano l’omissione di dette garanzie, ex art. 7, comma 1, cit.
(v. TAR Liguria, Sez. II, 17.05.2010, n. 2677). È, invece,
illegittima l’omissione dell’avviso di avvio del procedimento motivata da
esigenze di celerità del procedimento indicate genericamente
(v. TAR Valle d’Aosta, 16.01.2002, n. 5);
- nel caso di specie non solo il provvedimento
impugnato reca un riferimento alla “urgente necessità di eliminare i
pericoli in atto segnalati” che è generico e, pertanto, insufficiente ai
fini dell’omissione della comunicazione ex art. 7 cit., ma tale motivazione
appare, altresì, pretestuosa. Il Comune, infatti, nelle more del rapido
espletamento del contraddittorio procedimentale, potrebbe adottare opportuni
accorgimenti (ad es. recintare l’area interessata, apporre cartelli e
segnalazioni di pericolo, ecc.), così da scongiurare rischi per persone e
cose;
- donde, in definitiva, la fondatezza della suesposta censura;
- alla stregua di quanto ora illustrato, risulta fondato e da
accogliere, altresì, il terzo motivo di ricorso, nella parte in cui reca la
censura di difetto di motivazione, per avere l’ordinanza impugnata addotto
una motivazione carente in ordine all’urgenza della sua adozione;
Ritenuto, pertanto, per tutto ciò che si è detto, che il ricorso sia fondato
e da accogliere, in virtù della fondatezza del secondo e del terzo motivo (quest’ultimo,
nei termini ora esposti);
Ritenuto, per conseguenza, di dover annullare l’ordinanza impugnata; |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni in confine con piazze e vie pubbliche -
Protezione di interessi pubblici - Uso concreto del bene da
parte della collettività - Disciplina delle norme relative
alle distanze - Insussistenza di un diritto soggettivo
suscettibile di dar luogo a tutela ripristinatoria - Artt.
872, 873 e 879, c. 2 c.c. - Giurisprudenza.
Le disposizioni di legge e regolamentari
tra le quali, fra l'altro, il codice della strada ed il
relativo regolamento di esecuzione, cui rinvia l'art. 879,
comma secondo, cod. civ. per il caso delle costruzioni "in
confine con le piazze e le vie pubbliche", non sono dirette
alla regolamentazione dei rapporti di vicinato ed alla
tutela della proprietà, ma alla protezione di interessi
pubblici, con particolare riferimento alla sicurezza della
circolazione stradale; [per cui] è da ritenersi
insussistente un diritto soggettivo suscettibile di dar
luogo a tutela ripristinatoria
(Cass. n. 5204 del 2008).
Per l'accoglimento della domanda di
riduzione in pristino proposta dal proprietario danneggiato
dalla violazione delle norme sulle distanze fra costruzioni
contenute in leggi speciali e regolamenti edilizi locali è
necessario che le norme violate abbiano carattere
integrativo delle disposizioni del codice civile sui
rapporti di vicinato, siccome disciplinanti la stessa
materia e da esse (artt. 872 e 873 cod. civ.) richiamate, e
che si tratti di costruzioni soggette all'obbligo delle
distanze e quindi non confinanti con vie o piazze pubbliche
(art. 879, secondo comma, cod. civ.); resta pertanto esclusa
la riduzione in pristino se tra i fabbricati siano
interposte strade pubbliche, ancorché la norma edilizia
locale applicabile (integrativa di quelle del codice civile)
prescriva che la distanza minima prevista debba essere
osservata anche nel caso che tra i fabbricati siano
interposte aree pubbliche
(Cass. n. 3567/1988; conf. Cass. n. 2436/1988; Cass. n.
5378/1996).
...
Costruzioni in confine con piazze e vie pubbliche - Esonero
dal rispetto delle distanze legali previsto dall'art. 879
c.c., comma 2 - Interesse pubblico all'assetto viario ed
alla circolazione urbana - Norme relative alle distanze.
L'esonero dal rispetto delle distanze
legali previsto dall'art. 879 c.c., comma 2, per le
costruzioni a confine con le piazze e vie pubbliche (che va
riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di
proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio,
come nella specie, giacché il carattere pubblico della
strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma
citata) attiene più che alla proprietà del bene, all'uso
concreto di esso da parte della collettività
(Cass. n. 6006/2008; cfr. anche Cass. n. 5172/1997; Cass. n.
2463/1990; Cass. n. 307/1982).
Sicché -tale essendo la medesima esigenza
di provvedere all'interesse pubblico all'assetto viario ed
alla circolazione urbana che se ne serve- non può essere
ravvisata la ratio sottesa alla diversa disciplina nella
stessa materia concernente le distanze, nell'un caso
derogandone la imposizione, nel secondo caso estendendone
l'imposizione.
Il quale effetto si verifica altresì in quanto la esclusione
della viabilità a fondo cieco, presente nell'art. 9 D.M.
1444/1968, viene confinata alle sole maggiorazioni delle
distanze tra fabbricati che sono poste nello stesso
articolo, giacché tale interpretazione riduttiva (al di là
della sua collocazione contestuale riferita alle
"maggiorazioni") finisce per determinare, nuovamente, causa
di frizione logica, nel predicare allo stesso tempo un
esonero ed una applicazione di una regola di distanza, che
possono elidersi reciprocamente (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 29.10.2018 n. 27364 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Impresa capogruppo sottoposta a concordato preventivo con
continuità aziendale: sollevata questione di
costituzionalità.
Il Tar per il Lazio solleva questione di legittimità
costituzionale delle norme che, nel sistema del vecchio
codice dei contratti [d.lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma
1, lett. a)], per un verso, consentono all’impresa mandante
di un raggruppamento temporaneo (od all’impresa singola
offerente), anche se sottoposta alla procedura di concordato
con continuità aziendale (di cui all’art. 186-bis della
Legge fallimentare), di poter partecipare alle gare per
l’affidamento di appalti pubblici ma che, tuttavia, per
altro verso, vietano la partecipazione qualora ad essere
sottoposta a detta procedura concordataria sia l’impresa
mandataria di un raggruppamento temporaneo.
---------------
Contratti della p.a. – Gara pubblica – Requisiti di
partecipazione di ordine generale – Raggruppamento
temporaneo di imprese – Impresa mandataria sottoposta a
concordato con continuità aziendale – Divieto di
partecipazione – Questione rilevante e non manifestamente
infondata di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale del
combinato disposto fra l’art. 38, comma 1, lett. a), del
d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 186-bis, commi 5 e 6, del
r.d. n. 267 del 1942 (introdotto dall’art. 33, comma 1,
lett. h), del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in
legge n. 134 del 2013), per contrasto con gli artt. 3, comma
1, 41 e 117, comma 2, lett. a), Cost., laddove consente la
partecipazione alle gare pubbliche alle imprese singole, se
sottoposte a concordato con continuità aziendale, ed ai
raggruppamenti temporanei di imprese, ove vi sia sottoposta
una mandante, ma la vieta ai raggruppamenti temporanei di
imprese nel caso in cui sia la mandataria assoggettata a
tale procedura. (1)
---------------
(1) I. – Con due ordinanze gemelle (oltre a quella indicata in
epigrafe vi è, infatti, anche la coeva ordinanza n. 10397)
il Tar per il Lazio si rivolge alla Corte costituzionale
denunciando una possibile irragionevolezza nella disciplina
delle cause di esclusione dalle gare ad evidenza pubblica,
secondo la normativa del vecchio codice (d.lgs. n. 163 del
2006).
I fatti di causa (identici per entrambe le controversie)
possono essere brevemente riassunti nei termini seguenti.
Nelle more di una procedura di affidamento di un appalto di
servizi, bandito dalla CONSIP s.p.a. e regolato dalle norme
del vecchio codice dei contratti, l’impresa mandataria di un
raggruppamento temporaneo che aveva presentato offerta si è
trovata coinvolta in una vicenda di crisi aziendale ed è
stata, quindi, sottoposta alla procedura di “concordato
con continuità aziendale” (si tratta del nuovo istituto
coniato dall’art. 186-bis della Legge fallimentare, come
introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in
legge n. 134 del 2012).
In applicazione del combinato disposto tra l’art. 38, comma
1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006 (che prevede una
causa di esclusione dalla gara per quelle imprese “che si
trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di
concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo
186-bis del regio decreto 16.03.1942, n. 267”) e l’art.
186-bis, comma 6, della Legge fallimentare (secondo cui, per
quanto qui interessa, “l'impresa in concordato può
concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di
imprese, purché non rivesta la qualità di mandataria”),
la stazione appaltante ha allora deciso di escludere tutto
il raggruppamento dalla gara.
Il provvedimento di esclusione, insieme alla conseguente
escussione della garanzia provvisoria, sono stati impugnati
dalle imprese facenti parte del raggruppamento (ed, in
specie, dall’impresa mandataria sottoposta a concordato con
continuità) dinnanzi al Tar per il Lazio il quale, all’esito
della pubblica discussione sul merito delle due cause, ha
ritenuto di sollevare questione di legittimità
costituzionale. Questi, in sintesi, i passaggi della
motivazione delle due (identiche) ordinanze di rimessione:
a) anzitutto, in punto di rilevanza, il Tar evidenzia
l’applicabilità, al caso di specie, del vecchio codice dei
contratti (di cui al d.lgs. n. 163 del 2006), trattandosi di
gara bandita nel marzo del 2014 (anche se poi abnormemente
protrattasi fino al 2018). Sotto diverso profilo, viene poi
richiamato l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa secondo cui “il possesso dei requisiti di
ammissione si impone a partire dall’atto di presentazione
della domanda di partecipazione e per tutta la durata della
procedura di evidenza pubblica, in quanto, per esigenze di
trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col
principio del favor partecipationis, la verifica del
possesso, da parte del soggetto concorrente, dei requisiti
di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente
all’intero procedimento di evidenza pubblica”: ne
consegue la sicura applicabilità, al caso di specie, della
causa di esclusione di cui alla lettera a) dell’art. 38 del
d.lgs. n. 163 del 2006, anche se si tratta del venir meno,
in corso di gara, di un requisito (quello di essere
un’impresa in bonis) che era originariamente
posseduto (per l’enunciazione del menzionato orientamento
giurisprudenziale, l’ordinanza di rimessione cita i
precedenti dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato di
cui alle seguenti pronunce: 20.07.2015, n. 8, in Urb. app.,
2016, 88, con nota di A. GIACALONE, Fase di esecuzione e
onere di continuità del possesso dei requisiti; 25.02.2014,
n. 10, in Giur. it., 2014, 1179, con nota di M. GNES, La
perentorietà del termine per la presentazione della
documentazione da parte dell’aggiudicatario, in Urb. app.,
2014, 830, con nota di S. FOÀ, Termine perentorio di
comprova dei requisiti anche per i concorrenti non
sorteggiati, ed in Dir. e pratica amm., 2014, 65, con nota
di D'INCECCO BAYARD DE VOLO; 05.06.2013, n. 15, in Foro it.,
2014, III, 8, con nota di A. TRAVI, in Corr. merito, 2013,
921, con nota di M.L. MADDALENA, Rateizzazione del credito
tributario e partecipazione alle gare pubbliche, in Guida al
dir., 2013, 27, 84, con nota di A. MASARACCHIA, ed in Foro
amm.-Cons. Stato, 2013, 2313, con nota di E. ZAMPETTI,
Appalti pubblici, regolarità tributaria e rateizzazione del
debito; 20.08.2013, n. 20, in Urb. app., 2013, 1052, con
nota di F. MANGANARO; 04.05.2012, n. 8, in Guida al dir.,
2012, 23, 82, con nota di D. PONTE, in Corr. merito, 2012,
745, con nota di I. RAIOLA, Non spetta alla stazione
appaltante valutare la gravità della irregolarità
contributiva, in Urb. app., 2012, 905, con nota di H. D'HERIN,
La Plenaria fa luce sull’efficacia del DURC ai fini
dell’esclusione dalle gare di appalto, in Dir. e pratica
amm., 2012, 72, con nota di S. TOSCHEI, in Riv. neldiritto,
2012, 1601, con nota di BERTOLINI, ed in Foro amm.-Cons.
Stato, 2012, 2234, con nota di P. GOTTI, Vincolatività o
meno delle risultanze in materia di regolarità contributiva
nelle procedure di affidamento degli appalti pubblici, al
vaglio dell'Adunanza plenaria; 18.07.2012, n. 27, in Guida
al dir., 2012, 32, 96, con nota di A. MASARACCHIA, ed in Urb.
app., 2012, 1295, con nota di G. BALOCCO, Il punto
dell’Adunanza Plenaria sulla verifica triennale del
certificato di attestazione SOA; 15.04.2010, n. 2155, poi
rinumerata ufficialmente in n. 1 del 15.04.2010, in Foro it.,
2010, III, 374, con nota di A. TRAVI, in Corr. merito, 2010,
688, con nota di I. RAIOLA, Esclusa la dimidiazione dei
termini per la proposizione dei motivi aggiunti, in Dir.
proc. amm., 2010, 617, con nota di A. SQUAZZONI, L'Adunanza
plenaria si pronuncia sul termine per notificare i motivi
aggiunti nel rito ex art. 23-bis l. TAR (aggiungendo
l'ennesima considerazione sull'ordine di esame delle censure
escludenti incrociate), in Urb. app., 2010, 964, con nota di
S. FOÀ, Rito abbreviato e mancato dimezzamento dei termini
per i motivi aggiunti. Una tesi per il passato, in Guida al
dir., 2010, 19, 84, con nota di A. CORRADO, in Dir. e
pratica amm., 2010, 6, 72, con nota di BRAIDO, ed in Corti
irpinia, 2010, 277, con nota di BARRA);
b) la Sezione rimettente, quindi, esclude che la letterale
previsione dell’art. 186-bis, comma 6, della Legge
fallimentare –secondo cui la regola generale del divieto di
partecipazione alle gare pubbliche per le imprese che si
trovino sottoposte a procedure concorsuali (di cui all’art.
38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006) viene
derogata, nell’ipotesi del concordato preventivo di
continuità, solo qualora si tratti di impresa singola oppure
di impresa mandante di un raggruppamento temporaneo, e non
anche qualora l’impresa sottoposta a detta procedura
concorsuale sia quella capogruppo (la mandataria)– sia
suscettibile di una diversa interpretazione: a conforto si
citano alcuni precedenti della Sezione V del Consiglio di
Stato (sentenza 11.07.2017, n. 3405; sentenza 25.06.2018, n.
3924, entrambe inedite);
c) tale previsione –che, di per sé, non appare dettata dal quadro
normativo eurounitario dove l’art. 45, paragrafo 2, della
Direttiva 31.03.2004, n. 2004/18/CE, ha lasciato liberi gli
Stati membri di precisare “le condizioni di applicazione”
delle cause di esclusione dipendenti dalla pendenza di una
procedura concorsuale– fa sorgere, però, dubbi di
ragionevolezza, alla luce della complessiva ratio della
novella normativa che, nel 2012 (con la significativa
intitolazione “Misure urgenti per la crescita del Paese”),
ha introdotto l’istituto del concordato preventivo in
continuità, ratio che, secondo la Sezione rimettente,
“è stata quella di incentivare l’impresa a denunciare per
tempo la propria situazione di crisi, piuttosto che quella
di assoggettarla a misure di controllo esterno che la
rilevino”, nella prospettiva di favorire “la
continuazione dei contratti in corso”, conciliando così
“le esigenze di salvaguardia delle imprese in crisi, nel
quadro del sostegno e dell’impulso al sistema produttivo del
Paese, tesi a fronteggiare la situazione generale di
congiuntura economico-finanziaria e sociale, con le esigenze
di pari spessore del conseguimento effettivo degli obiettivi
di stabilità e di crescita”;
d) in tale quadro, “la volontà di aiutare l’impresa a superare
la crisi auspicatamente temporanea, garantendo nelle more la
continuità dell’attività” non può non assistere anche la
situazione dell’impresa mandataria di un raggruppamento
temporaneo che sia sottoposta a concordato con continuità
aziendale, non rinvenendosi ragioni, pure in questo caso,
per non consentirne la partecipazione alle gare pubbliche:
non si apprezzano, infatti, tratti distintivi rispetto alla
situazione in cui sia coinvolta un’impresa mandante oppure
un’impresa singola offerente (a parte le differenti modalità
di partecipazione in gara), né potrebbe configurarsi alcun
pregiudizio per la stazione appaltante la quale, anzi, ha
tutto l’interesse che la capogruppo venga salvata da una
procedura fallimentare; del resto, il rimedio previsto
dall’art. 37, comma 18, del d.lgs. n. 163 del 2006 (quello,
cioè, di consentire la sostituzione della mandataria fallita
con altro operatore economico) ben potrebbe essere
utilizzato pure nell’ipotesi in cui la mandataria sia
fallita dopo essere stata sottoposta alla procedura di
concordato con continuità aziendale.
La ritenuta irragionevolezza determina anche –aggiunge il
Tar per il Lazio– la possibile violazione dell’art. 41 Cost.,
nel senso di ingiustificata limitazione della libertà di
iniziativa economica, nonché del principio euro-unitario di
concorrenza;
e) i dubbi di ragionevolezza sono corroborati dalla scelta poi
operata dal legislatore del nuovo codice il quale, all’art.
80, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, ha
stabilito che “Le stazioni appaltanti escludono dalla
partecipazione alla procedura d’appalto un operatore
economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a
un suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105,
comma 6, qualora:… b) l’operatore economico si trovi in
stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato
preventivo, salvo il caso di concordato con continuità
aziendale”, con una disciplina, quindi, che si pone
quale normativa speciale (e per ciò solo prevalente)
rispetto a quella dell’art. 186-bis della Legge fallimentare
(disposizione che, infatti, non è più richiamata), con ciò
quindi confermandosi che, nell’attuale sistema delle gare
pubbliche, la deroga al divieto di partecipazione vale
indipendentemente da quale sia la posizione rivestita,
all’interno del raggruppamento temporaneo, dall’Impresa che
è assoggettata a concordato con continuità aziendale.
II. – Per completezza, si segnala quanto segue:
f) con
ordinanza 02.02.2018, n. 686 (in Foro it., 2018,
III, 121, con nota di A. TRAVI, nonché oggetto della
News US in data 7 febbraio 2018, alla quale si
rinvia per gli opportuni approfondimenti), il Consiglio di
Stato, sezione V, ha rimesso alla Corte di giustizia UE la
questione se sia compatibile con l'art. 45, comma 2, lett.
a) e b), della direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004
considerare come “procedimento in corso” (per un
concordato preventivo), ai fini dell'esclusione da procedure
di aggiudicazione di appalti pubblici, la mera presentazione
di istanza di concordato all'organo giudiziario competente;
g) su una fattispecie analoga a quest’ultima, cfr., contra,
Tar per la Lombardia–Brescia, sez. II, sentenza 20.01.2016,
n. 92, secondo cui va invece escluso ogni dubbio di
compatibilità della normativa italiana con l’art. 45 della
direttiva del 2004.
Secondo il Tar, in particolare, la deroga al divieto di
partecipazione di cui all’art. 186-bis del r.d. n. 267 del
1942 introduce “una fattispecie particolare in cui
l'ordinamento, anziché smembrare l'impresa fallita e
toglierla dal mercato, tenta di ristrutturarla e di
mantenerla come realtà attiva, allo scopo di salvaguardare
in primo luogo l'occupazione, e di riflesso anche
l'integrità del tessuto economico di un territorio”: in
tale quadro la richiamata disposizione comunitaria “consente,
ma non impone sempre e comunque, agli Stati membri di
escludere dalle pubbliche gare le imprese soggette a
procedure concorsuali, e prescrive agli Stati stessi di
precisare le ‘condizioni di applicazione’ della norma. È
evidente che consentire la partecipazione, con la finalità
sociale in senso ampio di cui s'è detto, alle imprese
soggette a concordato con continuità rappresenta una
ragionevole applicazione di tale precetto”;
h) nell’ipotesi in cui, all’interno del raggruppamento temporaneo
che si sia aggiudicato un appalto, fallisca una delle due
imprese che lo compongono, con conseguente scioglimento del
raggruppamento, la
Corte di giustizia UE, con sentenza 24.05.2016, C- 96/14, MT
Hojgaard A/S (in Foro amm., 2016, 1136, solo
massima, nonché oggetto della
News US in data 31.05.2016, cui si rinvia per
ulteriori indicazioni), ha affermato la possibilità che
l’altra impresa rimasta possa essere autorizzata dalla
stazione appaltante a subentrare, in proprio,
nell’aggiudicazione; ciò, purché ricorrano due condizioni:
da un lato, occorre che l’impresa rimanente sia in
possesso –da sola– dei requisiti necessari per l’ammissione
alla procedura di gara in questione; dall’altro lato,
occorre che la continuazione della sua partecipazione a tale
procedura non comporti un deterioramento della situazione
degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza;
i) in dottrina, sul concordato con continuità aziendale
quale causa di esclusione dalle procedure di gara e sulle
vicende patologiche afferenti alle imprese mandanti e
mandatarie delle associazioni temporanee, si veda R. DE
NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 749 ss. e
848 ss.; in particolare, sui rapporti fra concordato
preventivo in continuità e partecipazione a gare d'appalto,
cfr. R. CIPPITANI, Concordato con continuità aziendale e
partecipazione agli appalti pubblici - Il commento, in Urb.
app., 2014, 417, nonché il volume Procedure concorsuali e
diritto pubblico, a cura di L. D'ORAZIO e L. MONTEFERRANTE,
Assago, 2017, 273 ss., ed ivi, in specie, i contributi di L.
D'ORAZIO, Il concordato preventivo con continuità aziendale
e le gare pubbliche, 273 ss., e di R. GIANI, La
partecipazione alle gare per l'affidamento dei contratti
pubblici, 453 ss.
In generale, cfr. M. PALLADINO, I contratti pubblici nel
concordato con continuità aziendale, in Giur. it., 2014, 12
ss.; L. D'ORAZIO, Continuità aziendale e gare per
l'affidamento dei contratti pubblici, in Fallimento, 2017,
749 ss. (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
ordinanza 29.10.2018 n. 10398 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accertamento
dell’illegittimità dell’atto ai fini
risarcitori.
Il giudice
amministrativo non può valutare l’eventuale
illegittimità dell’atto a fini risarcitori,
ex art. 34 c.p.a., in assenza di domanda di
risarcimento dei danni ritualmente proposta
in giudizio, non essendo sufficiente la mera
dichiarazione resa durante la trattazione
della causa, che manifesta soltanto un
interesse generico e non sufficientemente
attendibile
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.10.2018 n. 2423 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Né si ritiene possa trovare applicazione
l’art. 34, comma 3, del codice del processo
amministrativo, atteso che il ricorrente si
limita a pagina 8 del ricorso ad evidenziare
che “è fatta salva ed impregiudicata
l’azione ex art. 7, comma 3, della legge n.
1034/1971 per il risarcimento del danni nei
confronti dell’Amministrazione Comunale
nonché –ex art. 28 Cost.– direttamente del
funzionario responsabile del procedimento
Arch. Sg.Gi.”, senza però, nel prosieguo
del giudizio, proporre tale azione.
Secondo la giurisprudenza il giudice
amministrativo non può valutare l’eventuale
illegittimità dell’atto a fini risarcitori,
ex art. 34 del codice del processo
amministrativo in assenza di domanda di
risarcimento dei danni ritualmente proposta
in giudizio, non essendo sufficiente la mera
dichiarazione resa durante la trattazione
della causa, che manifesta soltanto un
interesse generico e non sufficientemente
attendibile (sul punto Cons. Stato, sez. V,
15.03.2016, n. 1023; Cons. Stato, sez. IV,
28.03.2017, n. 1398; TAR Puglia, Bari, sez.
II, 07.04.2017, n. 376; TAR Bari, sez. II,
20.09.2017, n. 970; TAR Palermo, sez. II,
23.09.2015, n. 2314).
Più di recente, il TAR Parma ha affermato di
aderire all’orientamento che vede nella già
intervenuta proposizione della domanda
risarcitoria nello stesso giudizio, o in
altro separato, un elemento necessario ai
fini dell'operatività del precetto di cui
all'art. 34, comma 3, del codice del
processo amministrativo, poiché ritenuto
essere maggiormente aderente al principio
della domanda (art. 34, comma 1) e
rispettoso delle esigenze economia
processuale (ex multis, TAR
Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014, n.
1283).
Il Tribunale ha precisato che “L'adesione
alla illustrata tesi meno restrittiva (che
non si condivide), infatti, si pone in
evidente conflitto con il principio di
economia dei mezzi processuali poiché
determina la scissione di un giudizio
tendenzialmente unitario in due segmenti
processuali aventi ad oggetto, il primo, un
accertamento dell'illegittimità dell'atto
non più utile al ricorrente sotto il profilo
della definizione dell'assetto di interessi
a suo tempo cristallizzato
dall'Amministrazione, e il secondo (cui il
primo è strumentale), incentrato sulle sole
questioni risarcitorie: giudizio quest'ultimo
che, peraltro, si presenta come futuro ed
eventuale atteso che la sua proposizione
permane nella piena disponibilità della
parte (in alcun modo impegnata dalla
presupposta domanda) e risente in tutta
evidenza degli esiti del primo” e che
pertanto “…non sia sufficiente la mera
riserva di proporre l'azione risarcitoria
poiché ciò, come correttamente osservato
dalla più recente giurisprudenza di primo
grado, integrerebbe una mera manifestazione
di "un interesse generico e non
sufficientemente attendibile" (TAR
Sicilia, Palermo, sez. II, 23.09.2015, n.
2314) destinata a tradursi in una iniziativa
che, una volta venuto meno l'interesse
all'annullamento dell'atto impugnato,
tradisce intenti meramente esplorativi in
vista di future (e si ribadisce eventuali)
iniziative” (TAR Parma, sez. I, 27.06.2016,
n. 199). |
URBANISTICA:
Secondo consolidata giurisprudenza, le
scelte urbanistiche compiute
dall’amministrazione nell’esercizio del
potere di pianificazione sono connotate da
un elevato grado di discrezionalità e
pertanto sono sindacabili dal giudice
amministrativo solo ove caratterizzate da
irragionevolezza, irrazionalità, illogicità
e incongruità in relazione alle esigenze che
si intendono soddisfare concretamente,
ovvero di palese travisamento dei fatti.
Inoltre, trattandosi di atto generale,
l’Amministrazione non ha l’obbligo di
motivare in modo specifico le scelte
adottate in ordine alla destinazione delle
singole aree con la conseguenza che tali
scelte possono essere censurate soltanto in
presenza di vizi logico-giuridici nel quadro
delle linee portanti della pianificazione.
Altresì, si evidenzia che, sulla motivazione
delle scelte pianificatorie, il Consiglio di
Stato ha precisato quanto segue: “…il
privato che si ritenga leso da una scelta di
piano non favorevole ai suoi interessi in
ordine alla destinazione data ad una certa
area di sua proprietà, non può chiedere
ragione della scelta amministrativa…La
regola dell'inesistenza di un obbligo
specifico di motivazione delle scelte di
piano vale anche per le osservazioni
presentate al p.r.g.; secondo l'orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato le
osservazioni proposte dai cittadini nei
confronti degli atti di pianificazione
urbanistica non costituiscono veri e propri
rimedi giuridici, ma semplici apporti
collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o
il loro accoglimento non richiede una
motivazione analitica, essendo sufficiente
che esse siano state esaminate e confrontate
con gli interessi generali dello strumento
pianificatorio”.
---------------
Preliminarmente
il Collegio evidenzia che, secondo
consolidata giurisprudenza, le scelte
urbanistiche compiute dall’amministrazione
nell’esercizio del potere di pianificazione
sono connotate da un elevato grado di
discrezionalità e pertanto sono sindacabili
dal giudice amministrativo solo ove
caratterizzate da irragionevolezza,
irrazionalità, illogicità e incongruità in
relazione alle esigenze che si intendono
soddisfare concretamente, ovvero di palese
travisamento dei fatti (ex multis
Cons. Stato, sez. IV, 24.03.2009, n. 1769;
Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2004, n. 4466).
Inoltre, trattandosi di atto generale,
l’Amministrazione non ha l’obbligo di
motivare in modo specifico le scelte
adottate in ordine alla destinazione delle
singole aree con la conseguenza che tali
scelte possono essere censurate soltanto in
presenza di vizi logico-giuridici nel quadro
delle linee portanti della pianificazione.
Inoltre si evidenzia che, sulla motivazione
delle scelte pianificatorie, il Consiglio di
Stato ha precisato quanto segue: “…il
privato che si ritenga leso da una scelta di
piano non favorevole ai suoi interessi in
ordine alla destinazione data ad una certa
area di sua proprietà, non può chiedere
ragione della scelta amministrativa…La
regola dell'inesistenza di un obbligo
specifico di motivazione delle scelte di
piano vale anche per le osservazioni
presentate al p.r.g.; secondo l'orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato le
osservazioni proposte dai cittadini nei
confronti degli atti di pianificazione
urbanistica non costituiscono veri e propri
rimedi giuridici, ma semplici apporti
collaborativi e, pertanto, il loro rigetto o
il loro accoglimento non richiede una
motivazione analitica, essendo sufficiente
che esse siano state esaminate e confrontate
con gli interessi generali dello strumento
pianificatorio” (Cons. Stato, sez. IV,
18.06.2009, n. 4024; Cons. Stato, sez. IV,
12.01.2011, n. 133)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.10.2018 n. 2423 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla plenaria la questione della necessaria esclusione del
concorrente che non abbia indicato separatamente gli oneri
di sicurezza aziendale.
La V Sez. del Consiglio di Stato rimette
all’Adunanza plenaria la questione della necessaria
esclusione del concorrente, nel vigore del d.lgs. n. 50 del
2016, che non abbia specificato, in sede di offerta, la
quota del prezzo corrispondente agli oneri di sicurezza
aziendale ovvero se possa operare il soccorso istruttorio e
se, a tale ultimo fine, assuma rilevanza la circostanza che
la lex specialis richiami espressamente l’obbligo
dichiarativo di legge
(commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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6. La Sezione preliminarmente rileva l’esistenza di un
contrasto nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
in relazione alla valenza immediatamente escludente (a
prescindere dal soccorso istruttorio) dell’inosservanza
dell’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza e costi
della manodopera di cui all’ articolo 95, comma 10, del
d.lgs. 50 del 2016, specie nel caso di silenzio sul punto
della lex specialis.
7. L’art. 95, comma 10, del d.lgs. 50 del 18.04.2016,
come modificato dal d.lgs. 19.04.2017, n. 56,
testualmente dispone: “Nell’offerta economica l’operatore
deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri
aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in
materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad
esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi
di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi
dell’articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni
appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima
dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di
quanto previsto all’articolo 97, comma 5, lettera d)”.
8. L’interpretazione delle prescrizioni di legge di cui alla
norma da ultimo citata ha dato luogo a due orientamenti
all’interno di questo Consiglio di Stato (e analogo
contrasto si rinviene, come si dirà, anche nell’ambito della
giurisprudenza dei Tribunali amministrativi regionali).
9. In sintesi, il contrasto riguarda la perdurante vigenza,
dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
pubblici (D.Lgs. 18.04.2016, n. 50) del principio di
diritto enunciato dall’Adunanza plenaria con la sentenza n.
19 del 2016, in base al quale “nelle ipotesi in cui
l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza
aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e
non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale
l’offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale,
l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non
dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare
l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio
dei poteri di soccorso istruttorio”.
9.1. Dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti
pubblici, una parte della giurisprudenza, anche prendendo
spunto dal fatto che la sentenza n. 19 del 2016 ha
circoscritto espressamente la portata del principio
enunciato alle gare bandite nel vigore del D.Lgs. n. 163 del
2006, ha ritenuto che la mancata indicazione separata dei
costi per la sicurezza aziendale non possa essere più sanata
attraverso il previo soccorso istruttorio, ma determini, al
contrario, un automatismo espulsivo incondizionato,
destinato ad operare anche nel caso in cui il relativo
obbligo dichiarativo non sia richiamato dalla lex specialis.
Si valorizza, in tale direzione, la circostanza che nel
nuovo Codice dei contratti pubblici esiste una previsione
puntale (l’art. 95, comma 10), la quale ha chiarito
l’obbligo per i concorrenti di indicare nell’offerta
economica i c.d. costi di sicurezza aziendali, così
superando le incertezze interpretative in ordine
all’esistenza e all’ampiezza dell’obbligo dichiarativo, che,
nel vigore del d.lgs. n. 163/2006, avevano originato i
contrasti interpretativi poi risolti dall’Adunanza plenaria
con le sentenze nn. 3 e 9 del 2015.
9.2. In senso contrario, tuttavia, un’altra parte della
giurisprudenza ha ritenuto che anche dopo l’entrata in
vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, nonostante
l’espressa previsione di un puntuale obbligo dichiarativo ex
art. 95, comma 10, la mancata indicazione separata degli
oneri di sicurezza aziendale non determini di per sé
l’automatismo espulsivo (almeno nei casi in cui tale obbligo
dichiarativo non sia richiamato nella lex specialis), a meno
che si contesti al ricorrente di aver presentato un’offerta
economica indeterminata o incongrua, perché formulata senza
considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento degli
oneri di sicurezza.
10. Il primo indirizzo interpretativo fa capo alla citata
sentenza del Consiglio di Stato, V, 07.02.2017, n. 815.
10.1. Nello specifico caso oggetto di tale pronunzia,
attinente ad una gara informale ai sensi dell’articolo 162
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, indetta dal
Ministero della difesa per l’affidamento della fornitura di
servizi di connettività satellitare, la lettera di invito
disciplinava le modalità di formulazione dell’offerta
richiedendo espressamente ai partecipanti di precisare i
costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni
in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e di
attenersi al modello per la presentazione dell’offerta
allegato.
10.2. L’appellante aveva impugnato in primo grado gli atti
di gara sostenendo che la Commissione avrebbe dovuto
escludere dalla procedura l’offerta dell’appellata, anziché
concedere il soccorso istruttorio ai sensi dell’art. 83,
comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, stante l’incompletezza
della dichiarazione relativa ai costi di sicurezza.
10.3. In tale occasione la V Sezione di questo Consiglio ha
ritenuto che, per ciò che attiene l’obbligo di indicare
puntualmente l’ammontare degli oneri per la sicurezza c.d.
interni o aziendali, trova applicazione l’articolo 95, comma
10, del d.lgs. n. 50 del 2016 che, superando
legislativamente le precedenti incertezze, ha statuito la
necessità dell’indicazione di tale oneri per le gare indette
nella vigenza del nuovo Codice dei contratti pubblici, per
le quali non troverebbero dunque applicazione i principi di
diritto formulati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, in tema di ammissibilità del soccorso
istruttorio per il caso di mancata separata indicazione.
10.4. Secondo quanto affermato nella detta decisione non
sarebbe infatti possibile utilizzare l’istituto del soccorso
istruttorio nel caso di incompletezze e irregolarità
relative all’offerta economica anche al fine di “evitare che
il rimedio… che corrisponde al rilievo non determinante di
violazioni meramente formali possa contrastare il generale
principio della par condicio concorrenziale, consentendo in
pratica ad un concorrente (cui è riferita l’omissione) di
modificare ex post il contenuto della propria offerta
economica”.
10.5. Dalla su indicata sentenza sono poi ricavabili le
ulteriori seguenti statuizioni:
a) anche a ritenere, come
fatto dal primo giudice, che la lettera di invito non fosse
sul punto del tutto chiara, era tuttavia indubitabile che
l’obbligo emergesse con adeguata chiarezza dalla litera
legis e che la società appellata lo avesse disatteso;
b)
l’appellata, prevedendo che l’ammontare di detti oneri era
pari “all’un per cento del margine dell’offerta” aveva, poi,
ancorato la determinazione del quantum di tali oneri ad un
parametro incerto e fluttuante, rendendone così incerta la
quantificazione; e anche a voler ammettere una siffatta
relazione si dovrebbe allora concludere “che l’impresa possa
ridurre il livello delle spese destinate alla tutela della
salute e della sicurezza sul lavoro laddove le ricadute
economiche della commessa presentino un andamento negativo”;
c) che non poteva affatto condividersi la tesi
dell’appellata secondo cui “la mancata indicazione dei detti
oneri non porterebbe senz’altro alla esclusione” in quanto,
una volta accertato che tale obbligo di indicazione è
chiaramente sancito dalla legge, la sua violazione determina
conseguenze escludenti a prescindere dal dato che
l’esclusione non sia stata testualmente enunciata dagli
articoli 83 e 95 del Codice: ciò in quanto un’inadeguata
indicazione non lede solo interessi di ordine dichiarativo o
documentale, ma si pone ex se in contrasto con i doveri di
salvaguardia dei diritti dei lavoratori cui presiedono le
previsioni di legge, che impongono di approntare misure e
risorse congrue per preservare la loro sicurezza e la loro
salute.
11. A questo indirizzo interpretativo paiono aver aderito le
sentenze della V Sezione del Consiglio di Stato 28.02.2018 n. 1228, 12.03.2018, n. 1228, 25.09.2018, n.
653.
12. Va precisato che in tutte le fattispecie esaminate dalle
richiamate sentenze, l’obbligo di separata indicazione degli
oneri per la sicurezza aziendale era stato imposto, a pena
di esclusione, ai partecipanti alla procedura di gara dalla
lex specialis della procedura, mediante un’espressa
previsione contenuta nel disciplinare o nella lettera di
invito, a differenza della fattispecie che ha dato luogo
alla presente ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria,
ove il bando nulla disponeva sul punto.
13. Il secondo indirizzo interpretativo è stato, invece,
espresso da Cons. Stato, III, 27.04.2018, n. 2554.
13.1. Tale sentenza riguardava la domanda di annullamento
del provvedimento di esclusione dalla gara per la mancata
specifica quantificazione degli oneri della sicurezza
interna da parte dell’appellante nella propria offerta
economica e dell’aggiudicazione definitiva adottati
nell’ambito di una procedura negoziata avente ad oggetto la
prestazione di forniture indetta dall’Azienda Sanitaria
Locale Roma 6.
13.2. In detta fattispecie secondo il giudice di prime cure
“il nuovo codice dei contratti pubblici ha innovato il
diritto vigente e ha previsto espressamente, nell’art. 95,
comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, l’obbligo di indicare
gli oneri per la sicurezza interna nell’offerta tecnica, al
contempo precludendo, nell’art. 83, comma 9, del medesimo
d.lgs. n. 50 del 2016, il soccorso istruttorio con riguardo
alle mancanze dell’offerta economica e tecnica”.
13.3. Partendo da tali premesse, il giudice di primo grado
aveva dunque concluso che, pur nell’assenza di una chiara ed
inequivoca previsione, nella lex specialis di gara, di un
obbligo avente ad oggetto l’espressa specifica indicazione
degli oneri dell’offerta economica, si debba pervenire
all’esclusione della concorrente, a fronte di un quadro
normativo ormai chiaro rispetto alle disposizione del
precedente Codice degli appalti, ed in virtù del meccanismo
dell’eterointegrazione, per effetto del quale la previsione
imperativa di legge è venuta a completare il quadro dei
requisiti richiesti dalla legge di gara per la validità
dell’offerta.
13.4. Tale tesi non è stata condivisa dalla III Sezione di
questo Consiglio la quale, nel riformare la sentenza in
accoglimento dell’appello proposto, ha evidenziato, pur
nella consapevolezza dell’esistenza di orientamenti non
univoci, che l’obbligo codificato nell’art. 95, comma 10,
del d.lgs. n. 50 del 2016 non comporta l’automatica
esclusione dell’impresa concorrente che, pur senza
evidenziare separatamente nell’offerta gli oneri per la
sicurezza aziendali, li abbia comunque considerati nel
prezzo complessivo dell’offerta.
13.5. Secondo tale indirizzo, dunque, l’isolato esame
dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 non
sarebbe in sé decisivo, nemmeno sulla base dei principi
contenuti nella sentenza n. 9 del 25.02.2014
dell’Adunanza Plenaria, per affermare il suo carattere
imperativo, a pena di esclusione, e l’effetto ipso iure
espulsivo della mancata formale evidenziazione di tali costi
nel contesto dell’offerta economica: ciò in quanto tale
norma deve essere letta insieme con l’art. 97, comma 5,
lett. c), dello stesso Codice, il quale prevede al contrario
–e in coerenza con l’art. 69, par. 2, lett. d), della
Direttiva 2014/24/UE e con tutto l’impianto della nuova
normazione europea– che la stazione appaltante escluda il
concorrente solo laddove, in sede di chiarimenti richiesti,
detti oneri risultino incongrui.
Tale soluzione, secondo l’orientamento in parola, non
comporterebbe poi alcuna violazione del disposto dell’art.
83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, in quanto il
consentire all’impresa di specificare la consistenza degli
oneri per la sicurezza già inclusi (ma non distinti) nel
prezzo complessivo dell’offerta non si tradurrebbe in alcuna
manipolazione o alterazione in corso di gara dell’offerta
stessa contrastante con le regole di trasparenza e parità di
trattamento tra le concorrenti.
13.6. Tale orientamento, a differenza del precedente, fonda
dunque l’esegesi operata sul canone interpretativo espresso
nel brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, in base
al quale ogni opzione ermeneutica che si risolvesse
nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento
rispetto a quelli tipizzati deve essere rifiutata in quanto
finirebbe per far dire alla legge una cosa che legge non
dice e che, si presume, non voleva dire.
13.7. Peraltro, mentre il primo indirizzo privilegia il
principio di par condicio competitorum, il secondo
orientamento sembrerebbe inteso a salvaguardare i diversi
principi di massima partecipazione alle gare e di
tassatività e tipicità delle cause di esclusione (prima
previsto dall’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, ed
attualmente disciplinato dall’art. 83, comma 8, del nuovo
Codice dei contratti pubblici): in base al principio da
ultimo citato le cause di esclusione dalla gara, in quanto
limitative della libertà di concorrenza, devono essere
ritenute di stretta interpretazione, senza possibilità di
estensione analogica (cfr. Cons. Stato, V, sentenza n. 2064
del 2013), con la conseguenza che, in caso di equivocità
delle disposizioni che regolano lo svolgimento della gara,
deve essere preferita quell’interpretazione che, in aderenza
ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti
eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla
partecipazione.
Ebbene, nell’ipotesi in parola, in base al secondo indirizzo
giurisprudenziale, l’esclusione non potrebbe farsi derivare
automaticamente dall’applicazione della legge, non
prevedendo l’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016
alcuna sanzione espulsiva né richiedendo tale disposizione
alcuna “specifica” indicazione degli oneri per la sicurezza
interna. Secondo tale orientamento, infatti, ciò non sarebbe
casuale in quanto il legislatore nazionale, nell’attuare la
Direttiva 2014/247UE non si è realmente discostato
dall’orientamento sostanzialistico del diritto eurounitario,
che (da ultimo ed espressamente nell’art. 57 di tale
Direttiva) non ha mai inteso comprendere l’inadempimento di
questo mero obbligo formale –la mancata indicazione degli
oneri per la sicurezza interna separatamente dalle altre
voci dell’offerta– tra le cause di esclusione.
13.8. Si perviene così ad affermare che tale formalistica
ipotesi escludente contrasterebbe sia con la lettera
dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, non
comminante espressamente l’effetto espulsivo, sia con la
ratio della norma, la cui finalità è quella di consentire la
verifica della congruità dell’offerta economica anche sotto
il profilo degli oneri aziendali “concernenti l’adempimento
delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro”, ritenuto dal codice di particolare
importanza per la salute dei lavoratori, in sede verifica
dell’anomalia, in coerenza con le previsioni del legislatore
europeo nell’art. 18, par. 2, e nell’art. 69, par. 2, lett.
d), della Direttiva 2014/24/UE e nel Considerando n. 37
della stessa Direttiva, il quale rimette agli Stati membri
l’adozione di misure non predeterminate al fine di garantire
il rispetto degli obblighi in materia di lavori.
13.9. In base a tale seconda esegesi, la direttiva
2014/24/UE di cui le norme del nuovo Codice costituirebbero
attuazione avrebbe “replicato” senza sostanziali modifiche
il previgente quadro della normativa eurounitaria (di cui
alla direttiva 2004/18/CE), in virtù del quale la mancanza
di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto di
tali obblighi non determinerebbe automaticamente
l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione: la soluzione
automaticamente escludente si porrebbe, quindi, in contrasto
con i principi euro-unitari (si veda per tutte Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, sez. VI, 10.11.2016,
in C/162/16), ove l’impresa dimostri, almeno in sede di
giustificazioni, che sostanzialmente la sua offerta
comprenda gli oneri per la sicurezza e che tali oneri siano
congrui.
14. Analogo contrasto interpretativo si rinviene, come si è
già accennato, nella giurisprudenza dei Tribunali
amministrativi regionali.
14.1. La tesi c.d. formalistica (favorevole all’automatismo
espulsivo senza possibilità di soccorso istruttorio) è stata
accolta, ad esempio, da Tar Umbria Perugia, I, n. 56 del 22.01.2018, Tar per la Calabria, I,
06.02.2018, n.
332 e 07.02.2018, n. 337; Tar Sicilia Catania, III,
31.07.2017, n. 1981; Tar Campania, Salerno, Sez. I, 05.01.2017, n. 34.
14.2. La contraria tesi c.d. sostanzialistica, che ammette
il soccorso istruttorio (almeno quando risulti che l’importo
degli oneri di sicurezza è stato considerato nella
formulazione dell’offerta economica e salva la verifica di
congruità dell’offerta), risulta accolta da Tar
Campania-Napoli, sentenze n. 521 del 06.08.2018, n. 3149
dell’11.05.2018 e n. 4611 del 03.10.2017; Tar
Lazio-Roma, n. 8119 del 20.07.2017; Tar
Lombardia-Brescia, n. 912 del 14.07.2017; Tar
Sicilia-Palermo, n. 1318 del 15.05.2017.
15. La questione è stata anche oggetto di rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte del Tribunale
amministrativo regionale per la Basilicata (ord. 25.07.2017, n. 525), che ha, in particolare, indirizzato alla
Corte il seguente quesito interpretativo: “se i principi
comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza
del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione
delle merci, di libertà di stabilimento e di libera
prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento
dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne
derivano, come la parità di trattamento, la non
discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità
e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE,
ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale
quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt.
95, comma 10, e 83, comma 9, del D. Lg.vo n. 50/2016,
secondo la quale l’omessa separata indicazione dei costi di
sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una
procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in
ogni caso, l’esclusione della ditta offerente senza
possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in
cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato
specificato nell’allegato modello di compilazione per la
presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla
circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta
rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza
aziendale”.
Il Giudice europeo ha dichiarato irricevibile la questione
sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la
Basilicata per l’assenza di interessi transfrontalieri
rilevanti in quel giudizio (Corte di Giustizia UE, sez. VI,
23.11.2017, in C-486/17). Di recente, tuttavia,
analoga questione pregiudiziale è stata nuovamente
sottoposta all’attenzione della Corte di giustizia dal Tar per il Lazio (ordinanza 24.04.2018, n. 4562).
16. In questo quadro giurisprudenziale, caratterizzato anche
dalla pendenza dinnanzi alla Corte di giustizia di una
questione analoga a quella oggetto del presente giudizio, il
Collegio si trova di fronte, sotto il profilo del metodo, a
tre diverse soluzioni, tutte astrattamente percorribili:
a)
disporre la sospensione c.d. impropria del giudizio, in
attesa che si pronunci il giudice europeo (in tal senso, si
è orientato, ad esempio, Cons. Stato, V, 28.09.2018,
n. 5589);
b) sollevare, analogamente a quanto hanno fatto
alcuni tribunali amministrativi regionali, una questione
pregiudiziale di corretta interpretazione del diritto
dell’Unione Europea, per verificare se ed in che misura esso
osti all’applicazione del c.d. automatismo espulsivo;
c)
affrontare la questione nel merito e, preso atto del
contrasto interpretativo interno, rimetterne la risoluzione
all’Adunanza plenaria.
16.1. Il Collegio (alla luce anche delle indicazioni “di
metodo” già esplicitate, proprio su analoga vicenda, dalla
sentenza n. 19 del 2016 dell’Adunanza plenaria) ritiene di
optare per l’ultima delle soluzioni indicate. Il tempestivo
intervento dell’Adunanza plenaria potrebbe sortire il
duplice positivo effetto, da un lato, di risolvere in via
preventiva i dubbi di compatibilità comunitaria sottesi alla
questione pregiudiziale di cui si è dato atto, e,
dall’altro, di superare la “causa ostativa” che ha già
determinato (e potrebbe ancora determinare) la sospensione
ex art. 79, comma 1, c.p.a. di diversi giudizi
amministrativi pendenti anche in grado di appello. La scelta
di rimettere la questione all’Adunanza plenaria soddisfa,
inoltre, un’esigenza di economia processuale, se si tiene
conto della concreta possibilità di una pronuncia in tempi
più brevi rispetto a quelli occorrenti per la definizione
della questione pregiudiziale innanzi alla Corte di
giustizia.
17. Tornando al merito della questione oggetto di contrasto,
il Collegio sottopone all’Adunanza plenaria le ulteriori
seguenti considerazioni.
18. Nel vigore del precedente Codice dei contratti pubblici,
la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 19 del 2016 aveva
chiarito che gli oneri di sicurezza rappresentano un
elemento essenziale dell’offerta (la cui mancanza è in grado
di ingenerare una situazione di insanabile incertezza
assoluta sul suo contenuto) solo nel caso in cui si contesta
al concorrente di avere formulato un’offerta economica senza
considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento degli
obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa
ipotesi, secondo l’Adunanza plenaria vi è incertezza
assoluta sul contenuto dell’offerta e la sua successiva
sanatoria richiederebbe una modifica sostanziale del
“prezzo” (perché andrebbe aggiunto l’importo corrispondente
agli oneri di sicurezza inizialmente non computati).
Laddove, invece, non è in discussione l’adempimento da parte
del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo
dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, ma si
contesta soltanto che questa non specifica la quota di
prezzo corrispondente ai predetti oneri, la carenza, allora,
non è sostanziale, ma solo formale.
In questo caso, ha precisato la citata sentenza n. 19 del
2016, il soccorso istruttorio è doveroso, perché esso non si
traduce in una modifica sostanziale del contenuto
dell’offerta, ma solo nella specificazione formale di una
voce che, pur considerata nel prezzo finale, non è stata
indicata dettagliatamente.
19. Sebbene l’Adunanza plenaria n. 19 del 2016 abbia
circoscritto la portata del principio enunciato alle gare
bandite nel vigore del D.Lgs. n. 163 del 2006, dichiarando
espressamente di prescindere –perché il tema non era
oggetto del contendere e la relativa norma non era
applicabile ratione temporis– dagli effetti derivanti dal
nuovo Codice, non può, tuttavia, non evidenziarsi che
l’ampia formulazione dell’art. 80, comma 9, del D.Lgs. n.
50/2016 (che ammette il soccorso istruttorio con riferimento
a “qualsiasi elemento formale della domanda”) sembra
consentire, anche nella vigenza del nuovo Codice, di sanare
l’offerta che sia viziata solo per la mancata formale
indicazione separata degli oneri di sicurezza.
20. Sotto tale profilo, invero, la circostanza che, oggi,
l’art. 95, comma 10, D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, abbia
esplicitato che sussiste per l’operatore economico l’obbligo
di indicare in sede di offerta i propri costi per la
manodopera e gli oneri di sicurezza aziendali non sembra
rappresentare elemento di novità di per sé sufficiente a
determinare il superamento del principio di diritto
enunciato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 19 del
2016. Non va, infatti, dimenticato che anche nel vigore del previgente Codice, l’Adunanza plenaria aveva già desunto (v.
in particolare sentenza n. 3 del 2015) l’esistenza di un
obbligo normativo operante in tutte le gare d’appalto (ivi
comprese quelle di lavori) di indicare, a pena di
esclusione, gli oneri di sicurezza, precisando, altresì, che
pur nel silenzio della lex specialis, tale obbligo
dichiarativo eterointegrava il bando di gara.
Sotto tale profilo, l’art. 95, comma 10, D.Lgs. n. 50 del
2016 si è limitato a rende esplicito un obbligo dichiarativo
che nel precedente sistema si ricavava, comunque,
implicitamente dal tessuto normativo. Non pare, tuttavia,
che tale espressa previsione normativa concernente l’obbligo
di indicare i costi di sicurezza aziendale sia un elemento
di novità di per sé in grado di escludere l’operatività del
soccorso istruttorio, il quale, peraltro, nel passaggio dal
vecchio al nuovo codice (specie con le ulteriori modifiche
apportate in sede di correttivo: d.lgs. n. 56 del 2017) è
stato persino potenziato (attraverso la generalizzazione del
principio di gratuità e l’eliminazione dell’ambigua
categoria delle c.d. irregolarità non essenziali).
21. Non sembra neanche che possa essere messo in discussione
che l’indicazione degli oneri di sicurezza sia un obbligo
previsto dalla legge a pena di esclusione e che, alla luce
del chiaro tenore testuale della previsione ora contenuta
nell’art. 95, comma 10, cit., il relativo obbligo
dichiarativo sia capace di eterointegrare il bando pur nel
silenzio della lex specialis. L’ammissibilità di un fenomeno
di eterointegrazione del bando, specie da parte di norme
legislative di contenuto univoco, è stato già chiaramente
riconosciuto in più occasioni dalla stessa Adunanza plenaria
(cfr. sentenza n. 9 del 2014, richiamata e condivisa dalle
sentenze nn. 3 e 9 del 2015 e n. 19 del 2016) e, anche
rispetto a tale profilo, non sembra che il nuovo Codice
contenga elementi di novità capaci di sovvertire tale
conclusione.
L’eterointegrazione (e prima ancora la portata
potenzialmente escludente dell’obbligo dichiarativo di cui
si discute) non appare, tuttavia, argomento sufficiente ad
escludere l’operatività del soccorso istruttorio, ma, anzi,
ne costituisce il presupposto applicativo. Il soccorso
istruttorio, invero, opera proprio (od ormai solo) per le
c.d. irregolarità essenziali: cioè le inosservanze
dichiarative e documentali richieste a pena di esclusione.
22. L’esclusione del soccorso istruttorio per la mancata
indicazione degli oneri di sicurezza potrebbe semmai essere
argomentata diversamente, ovvero ritenendo che gli oneri di
sicurezza rappresentino (sempre e comunque) non un elemento
formale dell’offerta, ma un elemento sostanziale della
stessa, con la conseguenza che l’indicazione postuma
attraverso il soccorso istruttorio consentirebbe al
concorrente di determinare una (senz’altro inammissibile)
modifica ex post dell’offerta.
Sotto tale profilo, tuttavia, l’incondizionata
qualificazione degli oneri di sicurezza in termini di
elemento sostanziale dell’offerta si porrebbe in contrasto
con quanto precisato dall’Adunanza plenaria nella sentenza
n. 19 del 2016, la quale, come si è già ricordato, aveva
espressamente specificato (cfr. par. 35 della motivazione)
che: “gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento
essenziale dell’offerta (la cui mancanza è in grado di
ingenerare una situazione di insanabile incertezza assoluta
sul suo contenuto) solo nel caso in cui si contesta al
concorrente di avere formulato un’offerta economica senza
considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei
obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa
ipotesi, vi è certamente incertezza assoluta sul contenuto
dell’offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una
modifica sostanziale del “prezzo” (perché andrebbe aggiunto
l’importo corrispondente agli oneri di sicurezza
inizialmente non computati). Laddove, invece, (come avviene
nel caso oggetto del presente giudizio), non è in
discussione l’adempimento da parte del concorrente degli
obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri
nella formulazione dell’offerta, ma si contesta soltanto che
l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai
predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma
solo formale”.
23. Applicando il principio di diritto appena richiamato, la
qualificazione dell’omessa indicazione degli oneri di
sicurezza in termini di elemento formale dell’offerta (nel
caso in cui essi siano stati considerati ai fini del prezzo
ed inglobati in esso) imporrebbe, quindi, di consentire il
soccorso istruttorio a prescindere dalla circostanza, che di
per sé non appare dirimente alla luce dell’esistenza di un
pacifico principio di eterointegrazione, che la lex
specialis abbia richiamato o meno il relativo obbligo
dichiarativo.
Proprio tale rilievo apre ad una opzione
esegetica che in parte differisce anche da quella accolta
dalla III Sezione di questo Consiglio di Stato nella già
citata sentenza n. 2554 del 2018, o da quella sottesa alla
questione pregiudiziale attualmente al vaglio della Corte di
giustizia, nelle quali, invece, sembra attribuirsi rilievo
dirimente, ai fini di ammettere o negare il soccorso
istruttorio, proprio a questo dato formale (ovvero il
richiamo o meno nella lex specialis del relativo obbligo
dichiarativo).
Conclusione che sembra, tuttavia,
contraddire, o, comunque, attenuare, la portata del
principio di etero-integrazione, che la stessa
giurisprudenza dell’Adunanza plenaria ha in più occasioni
ritenuto operante, specie se l’obbligo legislativo risulta
puntuale e univoco (come, puntuale e univoco appare essere,
appunto, quello previsto dall’art. 95, comma 10, D.Lgs. n.
50 del 2016).
24. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
Collegio ritiene, pertanto, di sottoporre, ai sensi
dell’art. 99, comma 1 Cod. proc. amm., all’Adunanza plenaria
le seguenti questioni di diritto, oggetto di contrasti
giurisprudenziali: “1) Se, per le gare bandite nella vigenza
del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, la mancata indicazione
separata degli oneri di sicurezza aziendale determini
immediatamente e incondizionatamente l’esclusione del
concorrente, senza possibilità di soccorso istruttorio,
anche quando non è in discussione l’adempimento da parte del
concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei
relativi oneri nella formulazione dell’offerta, né vengono
in rilievo profili di anomalia dell’offerta, ma si contesta
soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo
corrispondente ai predetti oneri.
2) Se, ai fini della
eventuale operatività del soccorso istruttorio, assuma
rilevanza la circostanza che la lex specialis richiami
espressamente l’obbligo di dichiarare gli oneri di
sicurezza”.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione
Quinta, non definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, ne dispone il deferimento all'Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 26.10.2018 n. 6122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare, accesso difensivo
solo se è indispensabile. Tutela di segreti industriai da provare.
In
una gara d'appalto chi, per la tutela di segreti tecnici o commerciali,
esercita il cosiddetto «accesso difensivo» sugli atti di gara, deve
dimostrare la diretta strumentalità del diniego di divulgazione.
Lo ha
affermato il Consiglio di stato, sezione terza, con la
sentenza 26.10.2018 n. 6083 che tratta la tematica dell'accesso difensivo (divieto
di divulgare atti di gara che potrebbero essere oggetto di riservatezza).
I
giudici hanno ricordato che, in particolare, in tema di diritto all'accesso
alle offerte le norme del codice, nell'individuare un punto di equilibrio
tra esigenze di riservatezza e trasparenza, fanno prevalere le ovvie
esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo
un vero e proprio divieto di divulgazione.
Tale divieto viene poi superato
ripristinando la fisiologica dinamica dell'accesso a procedura conclusa, con
espressa eccezione per «le informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a
giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e
comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali».
Il punto è quindi come contemperare la contrapposizione degli interessi,
tema per il quale i giudici hanno precisato che occorre fare riferimento al
parametro della «stretta indispensabilità» (previsto all'art. 24, comma 7,
secondo periodo, della legge 241/1990) contemplato come idoneo a giustificare
la prevalenza dell'interesse di una parte, mossa dall'esigenza di «curare o
difendere propri interessi giuridici» rispetto all'interesse di un'altra
parte, altrettanto mossa dall'esigenza di curare o difendere interessi
giuridici legati ai dati sensibili che la riguardano e che possono essere
contenuti nella documentazione chiesta in sede di accesso.
Pertanto, nel quadro del bilanciamento tra il diritto alla tutela dei
segreti industriali ed il diritto all'esercizio del cosiddetto «accesso
difensivo» ai documenti della gara cui l'impresa richiedente l'accesso ha
partecipato, per i giudici risulta necessario l'accertamento dell'eventuale
nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell'istanza
di accesso e le censure formulate.
In tali casi, infine, l'onere della prova
del nesso di strumentalità incombe, secondo i principi generali del
processo, su chi agisce
(articolo ItaliaOggi del 09.11.2018).
---------------
MASSIMA
2.1. Il ragionamento fatto dal giudice di primo grado non appare
condivisibile.
Quanto alla portata della nuova disciplina ex D.LGS. n. 50/2016 in tema di
diritto all’accesso alle offerte nell’ambito delle procedure ad evidenza
pubblica, la recente giurisprudenza ha avuto modo di osservare (vedi CdS,
sez. III, n. 1213/2017, citata dalla stessa appellata) che, in via di
principio, “Un punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza e
trasparenza nell'ambito delle procedure di evidenza pubblica finalizzata
alla stipula di contratti di appalto si rinviene nella disciplina di settore
dettata dal dlgs 50/2016, la quale fa prevalere le ovvie esigenze di
riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo un vero e
proprio divieto di divulgazione, salvo ripristinare la fisiologica dinamica
dell'accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per "le
informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della
medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione
dell'offerente, segreti tecnici o commerciali".
Inoltre questo giudice di appello ha precisato che (vedi CdS. Sez. V. 1692/2017)
“Lo strumento attraverso il quale contemperare in concreto la
contrapposizione di interessi innanzi detta è costituito -ad avviso del
Collegio- dal parametro della "stretta indispensabilità" di cui all'art.
24, co. 7, secondo periodo, della l. n. 241/1990 giacché esso è quello che,
proprio a livello legislativo, viene contemplato come idoneo a giustificare
la prevalenza dell'interesse di una parte -mossa dall'esigenza di "curare o
difendere propri interessi giuridici"- rispetto all'interesse di un'altra
parte, altrettanto mossa dall'esigenza di "curare o difendere propri
interessi giuridici" legati ai dati sensibili che la riguardano e che
possono essere contenuti nella documentazione chiesta in sede di accesso”.
2.2. Pertanto, alla luce dei riportati principi generali, in primo luogo
(come già rappresentato da questa Sezione nell’ordinanza cautelare n. 3686/2017),
nel caso di specie, nel quadro del bilanciamento tra il diritto alla tutela
dei segreti industriali ed il diritto all’esercizio del c.d. “accesso
difensivo” (ai documenti della gara cui l’impresa richiedente l’accesso ha
partecipato), risulta necessario l’accertamento dell’eventuale nesso di strumentalità esistente tra la documentazione oggetto dell’istanza di
accesso e le censure formulate.
Sotto diverso, ma speculare aspetto, inoltre, l’onere della prova del
suddetto nesso di strumentalità incombe, secondo i principi generali del
processo, su chi agisce.
2.2.1. In particolare il Collegio, pur volendo tener conto del fatto che
l’art. 53 del D.LGS. n. 50/2016 (nelle procedure ad evidenza pubblica)
consente l’accesso al concorrente che lo chieda per la difesa in giudizio
dei propri interessi, tuttavia non ritiene condivisibile l’iter
argomentativo del giudice di primo grado con specifico riferimento sia alla
mancata verifica della sussistenza in capo alla istante ricorrente
dell’interesse a ricorrere (almeno mediante l’esito positivo della cd “prova
di resistenza”) sia alla circostanza che, di fatto, l’onere della prova
risulta posto a carico dell’aggiudicataria, avendo la sentenza impugnata
evidenziato come “l’invocato segreto commerciale non risulti provato”.
2.3. Infatti (ad avviso del Collegio) il rispetto della disciplina di cui al
citato art. 53 del D.LGS. n. 50/2016 in relazione all’interesse a ricorrere
(di cui all’art. 35 cpa ed all’art. 100 cpc) avrebbe comportato un accurato
controllo in ordine alla effettiva utilità della documentazione richiesta
ed, in conseguenza, il necessario preliminare espletamento della cd prova di
resistenza nei confronti dell’offerta della ricorrente, allo specifico fine
di verificare la sussistenza del concreto nesso di strumentalità tra la
documentazione oggetto dell’istanza di accesso e la tutela difesa in
giudizio degli interessi della stessa impresa ricorrente, quale partecipante
alla procedura di gara pubblica il cui esito è controverso. |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce ius receptum il principio secondo cui
la cessione di cubatura o asservimento è un istituto
utilizzabile in sede di rilascio di permesso di costruire,
in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può
avvenire solo tra fondi contigui, necessariamente compresi
nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa
destinazione urbanistica.
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo
condivisibilmente chiarito che i fondi oggetto di computo “…
devono essere contigui, nel senso che, anche qualora non si
riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle
catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur
sempre, comunque, una effettiva e significativa vicinanza
tra i fondi asserviti”.
In termini analoghi, si è chiarito che: “Il presupposto
logico dell'asservimento dev'essere rinvenuto nella
indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità
edilizia (per come configurato negli atti pianificatori),
della materiale collocazione dei fabbricati, atteso infatti
che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità
fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il
rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile
nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal
piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli
edifici all'interno del comparto. Ne deriva che è certamente
consentito computare la superficie di un lotto vicino, ai
fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura
assentibile in quello asservito, sul rilievo della
indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione
degli edifici, posto che l'interesse dell'amministrazione si
appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra
superficie edificabile e volumi realizzabili nell'area di
riferimento e, cioè, dell'indice di fabbricabilità
fondiaria”.
Dunque, ai fini dell’asservimento, non è richiesta la
materiale adiacenza dei fondi in esame, essendo invece
condizione necessaria e sufficiente la loro contiguità
(ossia vicinanza), nonché la loro insistenza nella medesima
zona urbanistica, con relativa, identica destinazione
urbanistica.
---------------
2. Con un unico, articolato motivo di gravame, deduce la
ricorrente l’illegittimità dell’atto impugnato, in quanto
adottato sul falso presupposto della non computabilità –al
fine del raggiungimento del lotto minimo pari a 5.000 mq–
della volumetria dei suoli di sua proprietà, trattandosi di
suoli non adiacenti, ma separati da una via.
Le censure sono fondate.
2.2. Costituisce ius receptum il principio secondo
cui la cessione di cubatura o asservimento è un istituto
utilizzabile in sede di rilascio di permesso di costruire,
in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può
avvenire solo tra fondi contigui, necessariamente compresi
nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa
destinazione urbanistica (cfr. TAR Sicilia, III, 01.06.2018,
n. 1254).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo
condivisibilmente chiarito che i fondi oggetto di computo
“… devono essere contigui, nel senso che, anche qualora non
si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle
catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur
sempre, comunque, una effettiva e significativa vicinanza
tra i fondi asserviti” (TAR Salerno, II, 19.07.2016, n.
1675).
In termini analoghi, si è chiarito che: “Il presupposto
logico dell'asservimento dev'essere rinvenuto nella
indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità
edilizia (per come configurato negli atti pianificatori),
della materiale collocazione dei fabbricati, atteso infatti
che, per il rispetto dell'indice di fabbricabilità
fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il
rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile
nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal
piano, risultando del tutto neutra l'ubicazione degli
edifici all'interno del comparto. Ne deriva che è certamente
consentito computare la superficie di un lotto vicino, ai
fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura
assentibile in quello asservito, sul rilievo della
indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione
degli edifici, posto che l'interesse dell'amministrazione si
appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra
superficie edificabile e volumi realizzabili nell'area di
riferimento e, cioè, dell'indice di fabbricabilità fondiaria”
(TAR Catania, I, 01.02.2016, n. 328).
2.3. Dunque, ai fini dell’asservimento, non è richiesta la
materiale adiacenza dei fondi in esame, essendo invece
condizione necessaria e sufficiente la loro contiguità
(ossia vicinanza), nonché la loro insistenza nella medesima
zona urbanistica, con relativa, identica destinazione
urbanistica (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 26.10.2018 n. 1594 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gara di appalto - Requisiti soggettivi - Dichiarazione
richiesta ai partecipanti - Falsa attestazione - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Falsità ideologica in atto pubblico -
Elementi del dolo generico - Volontarietà e consapevolezza -
Fraudolenza del silenzio serbato - Fattispecie: condanna ai
sensi dell'art. 444 cod. pen. e recante il beneficio della
non menzione sul certificato del casellario giudiziale.
In tema di falsità ideologica in atto
pubblico, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo
è sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la
consapevolezza della falsa attestazione.
Nella specie, il contenuto della dichiarazione richiesta ai
partecipanti alla gara di appalto era analiticamente
scandito, quanto alla descrizione dei reati per i quali
l'interessato non doveva essere stato condannato, neppure
con sentenza pronunciata si sensi dell'art. 444 cod. pen. e
recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il
ricorrente a dichiarare il vero: ciò a maggior ragione
perché questi era dotato di sufficienti strumenti culturali
per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima di rendere
l'attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto
verificare se le condanne riportate -delle quali egli era
del tutto consapevole avendo presentato istanza di
riabilitazione- fossero o meno tra quelle elencate nella
clausola del bando.
Approfittando della circostanza che le risultanze del
certificato del casellario giudiziale tacessero delle
condanne subite per i delitti di bancarotta fraudolenta
continuata e per il delitto di corruzione in concorso per
atto contrario ai doveri dell'ufficio -confidando nel fatto
che, a causa di ciò, gli eventuali controlli attivati dalla
stazione appaltante a seguito della dichiarazioni resa non
avrebbero sortito alcun effetto-, un'implicita esclusione
della particolare tenuità del fatto in ragione delle
peculiari modalità della condotta, caratterizzata dalla
fraudolenza del silenzio serbato (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 25.10.2018 n. 48898 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva - Area destinata a campeggio - Stabile
collocazione di più manufatti di pernottamento astrattamente
mobili - Artt. 3, 30, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza
- Differenza mero abuso edilizio e lottizzazione abusiva -
Illegittima trasformazione urbanistica o edilizia del
territorio - Rilevante impatto negativo sull'assetto
territoriale - Fattispecie: piazzole sormontate da tende.
Anche a seguito della legge 28.12.2015,
n. 221, la stabile collocazione, in un'area destinata a
campeggio, di più manufatti di pernottamento, astrattamente
mobili, può risolversi nella realizzazione, ad opera del
gestore dell'area, di uno stabile insediamento abitativo,
che comporta il sostanziale stravolgimento dell'originario
assetto definito mediante pianificazione, e, dunque, una
forma di lottizzazione abusiva
(Sez. 4, n. 13496 del 15/02/2017, Chiesa),
ma soltanto se la struttura ricettiva presenti le
caratteristiche di uno stabile insediamento residenziale
(Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, che ha ritenuto
penalmente rilevante la realizzazione di 270 piazzole
delimitate da recinzioni, pavimentazioni ed altre opere
permanenti in grado di formare con le roulottes singole
unità abitative).
Il reato di lottizzazione abusiva può cioè
essere integrato anche dalla realizzazione di un campeggio,
pur se autorizzato, qualora l'area destinata ad esso venga
radicalmente mutata per la presenza di opere stabili,
strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le
caratteristiche originarie
(Sez. 3, n. 29731 del 04/06/2013, Soldera e a.)
con rilevante impatto negativo sull'assetto
territoriale (Sez.
F, n. 31921 del 24/07/2012, Spaccialbelli, relativa a
fattispecie concernente la realizzazione di novanta piazzole
di sosta e quarantatre strutture abitative in ferro e
plastica ancorate stabilmente al terreno e servite da rete
idrica).
Nella specie, il ricorrente non allega come
le dieci piazzole sormontate da tende oggetto di
contestazione -che il provvedimento impugnato riferisce
essere state prese a noleggio e, al momento del sopralluogo
dei Carabinieri, essere state trovate chiuse, inutilizzate e
con forniture elettriche e idriche disattivate, sì da
escludere uno stabile insediamento- possano integrare gli
estremi dell'elemento costitutivo del reato di lottizzazione
abusiva, per la cui sussistenza, diversamente dal mero abuso
edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione
urbanistica o edilizia del territorio, di consistenza tale
da incidere in modo rilevante sull'assetto urbanistico della
zona (Sez.
3, n. 44946 del 25/01/2017, Giacobone) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2018 n. 48845 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione - Mancanza della prescritta
autorizzazione, iscrizione o comunicazione - Configurabilità
del reato - Caratterizzata da assoluta occasionalità -
Possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività
commerciale in forma ambulante - Deroga Artt. 208, 209, 211,
212, 214, 215, 216, 256 e 266, d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il reato di cui
all'art. 256, comma primo, del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, che
sanziona le attività di gestione compiute in mancanza della
prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui
agli artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo
D.Lgs. è configurabile nei confronti di chiunque svolga tali
attività anche di fatto o in modo secondario o
consequenziale all'esercizio di una attività primaria
diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli
abilitativi indicati e non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità, salva l'applicabilità della deroga di cui al
comma quinto dell'art. 266 del D.Lgs. 152 del 2006, per la
cui operatività occorre che il soggetto sia in possesso del
titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale
in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114
e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo
commercio (Cass.
Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep. 08/01/2015, P.M. in
proc. Seferovic) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 25.10.2018 n. 48719
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
AGRICOLTURA - RIFIUTI - Scarti vegetali utilizzati in
agricoltura - Processi e metodi costituenti le normali
pratiche agronomiche - Eliminazione mediante incenerimento -
Gestione dei rifiuti - Esclusione - Incenerimento di residui
vegetali e applicabilità della disciplina sui rifiuti -
Eccezione - Artt. 182, 185, 256 e 256-bis d.lgs. n.
152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, gli
scarti vegetali non sono classificabili come rifiuti, se
utilizzati in agricoltura mediante processi e metodi
costituenti le normali pratiche agronomiche disciplinate
dagli artt. 182, comma 6-bis, e 185, comma primo, lett. f),
del citato d.lgs. n. 152 del 2006, sicché la loro
eliminazione mediante incenerimento, in piccoli cumuli ed in
quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per
ettaro, non integra il reato di smaltimento non autorizzato
di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256,
comma primo, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, né quello di
combustione illecita di rifiuti di cui all'art. 256-bis del
medesimo decreto legislativo
(Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese).
Vero è, peraltro, che l'incenerimento di
residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di
fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis,
primo e secondo periodo, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, integra
il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali
non pericolosi di cui all'art. 256, comma primo, lett. a),
d.lgs. 03.04.2006 n. 152
(Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini).
Fattispecie: rigetto della richiesta
richiesta di sequestro preventivo di cumuli di fogliame.
...
RIFIUTI - AGRICOLTURA - Combustione di residui vegetali
agricoli e forestali - Attività di raggruppamento e
abbruciamento in piccoli cumuli - Non integrano alcun
illecito e non costituiscono smaltimento di rifiuti in senso
tecnico-legislativo - INCENDI BOSCHIVI - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Combustioni e facoltà di sospendere,
differire o vietare - Periodi di massimo rischio per gli
incendi boschivi o in presenza di condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli.
Le attività di raggruppamento e
abbruciamento in piccoli cumuli dei materiali vegetali
agricoli e forestali di cui all’art. 185, comma 1, lettera
f), effettuate con le modalità ed alle condizioni indicate
dall'art. 182, comma 6-bis non rientrano tra le attività di
gestione dei rifiuti, non costituendo smaltimento, e non
integrano alcun illecito.
La norma pone una serie di condizioni che riguardano,
nell'ordine:
1) la tipologia dell'attività (raggruppamento e abbruciamento);
2) la quantità di materiale (piccoli cumuli e in quantità
giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro);
3) la tipologia dei materiali (materiali vegetali di cui
all'articolo 185, comma 1, lettera f);
4) il luogo in cui l'attività descritta deve svolgersi (luogo di
produzione).
Concorrendo tutte queste condizioni, le attività descritte
non rientrano nell'ampia nozione di gestione e si ritiene
costituiscano "normali pratiche agricole", consentite, però,
"per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti", ponendosi, così, un'ulteriore condizione per
l'operatività della deroga. Tuttavia, nei periodi di massimo
rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni,
la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata.
I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia
ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o
vietare la combustione del materiale di cui al presente
comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono
condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali
sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività
possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità
e per la salute umana, con particolare riferimento al
rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".
...
RIFIUTI - Combustione di materiali vegetali - Norme aventi
natura eccezionale e derogatoria - Onere della prova circa
la sussistenza delle condizioni di legge - Assolto da chi ne
richiede l'applicazione - Giurisprudenza.
L'eventuale applicazione di norme aventi
natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina
ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova
circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere
assolto da colui che ne richiede l'applicazione
(Cass. Sez. 3, n. 5504 cit.; Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014,
Minghini; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè; Sez. 3, n.
16727 del 13/04/2011, Spinello; amplius, su tutti i profili
richiamati, Sez. 3, n. 38658 del 15/06/2017, Pizzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.10.2018 n. 48397 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Lavori di qualsiasi genere su
beni paesaggistici - Ignoranza del vincolo paesaggistico -
Elemento psicologico del reato paesaggistico - Art. 181, c.
1°, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di violazioni delle disposizioni
inerenti i beni culturali e ambientali, l'elemento
psicologico del reato previsto dall'art. 181, comma primo,
d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (che punisce chiunque, senza la
prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue
lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici) non è
escluso dall'ignoranza del vincolo paesaggistico,
trattandosi di reato contravvenzionale punibile anche a
titolo di colpa, ravvisabile nel non aver ottemperato al
dovere di informarsi presso la P.A. prima di intraprendere
un'attività rigorosamente disciplinata dalla legge
(Sez. 3, n. 14033 del 10/03/2011, Antelmi) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.10.2018 n. 48391 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Esercizio di
una attività o di un mestiere rumoroso - Varie fattispecie
di violazioni - Mancato rispetto dei limiti di emissione del
rumore - Disturbo al riposo e alle occupazioni di una
pluralità indeterminata di persone - RISARCIMENTO DEL DANNO
- Risarcimento del danno in favore della costituita parte
civile - Art. 659, cod. pen. - L. n. 447/1995 - D.P.C.M.
01/03/1991 - Legge n. 689/1981 - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento acustico,
l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso può
integrare:
a) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo,
della legge 26.10.1995, n. 447, qualora si verifichi
esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione
del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia;
b) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., qualora
il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle
normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una
condotta idonea a turbare la pubblica quiete;
c) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen.,
qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o
prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del
mestiere o della attività, diverse da quelle relative ai
valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione
dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995
(Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè).
Inoltre, il mancato rispetto dei limiti di
emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 01.03.1991 può
integrare la fattispecie di reato prevista dall'art. 659,
comma secondo, cod. pen., allorquando l'inquinamento
acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo
e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di
persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di
specialità di cui all'art. 9 della legge n. 689 del 1981 in
relazione all'illecito amministrativo previsto dall'art. 10,
comma secondo, della legge n. 447 del 1995
(Sez. 3, n. 15919 del 08/04/2015, dep. 2016, Varagnolo).
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumore - Esercizio di professione o
mestiere rumoroso - Legge quadro sull'inquinamento acustico
e reato di cui all'art. 659, c. 2, cod. pen. - Differenze e
configurabilità delle violazioni.
Con riferimento ai rapporti
intercorrenti tra l'ipotesi contravvenzionale delineata al
comma 2 dell'art. 659 cod. pen. e l'ipotesi di cui alla
legge n. 447 del 1995, art. 10, comma 2, (legge quadro
sull'inquinamento acustico), è stato affermato con plurime
pronunce che nel caso di esercizio di professione o mestiere
rumoroso in spregio alle disposizioni della legge ovvero
alle prescrizioni dell'Autorità, la lesione del bene
giuridico protetto (quiete e tranquillità pubblica) comune
all'art. 659, comma 2, cod. pen. ed all'art. 10 della legge
447/1995, è presunta ope legis ed "è racchiusa, per intero,
nel precetto della disposizione codicistica, che tuttavia
cede, di fronte alla configurazione dello speciale illecito
amministrativo previsto dall'art. 10 suddetto, qualora
l'inquinamento acustico si concretizzi nel mero superamento
dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle
leggi e dai decreti presidenziali in materia"
(così Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino) (Corte
di Cassazione, Sez. III penae,
sentenza 24.10.2018 n. 48370 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: La
convocazione del consiglio comunale va fatta alla casella Pec assegnata.
Il Consiglio d Stato, Sez. V,
sentenza 24.10.2018 n. 6042, ha stabilito che una
volta assegnata ai Consiglieri una specifica Pec essa rimane valida, per le
finalità di convocazione del Consiglio comunale anche per le successive consiliature, non essendovi disposizioni che stabiliscono una decadenza di
validità dell’assegnazione di Pec o della casella stessa, ovvero un obbligo
di riassegnazione ad ogni successiva consiliatura, il che confliggerebbe,
peraltro, con il principio di economicità e di efficienza che deve
presiedere l’azione amministrativa.
Il fatto
I Consiglieri di minoranza di una Comune del sud Sardegna impugnarono
dinanzi al locale Tribunale amministrativo la delibera di approvazione del
rendiconto della gestione per l’anno 2016, affermando di non aver avuto
tempestiva comunicazione del deposito - presso l’ufficio di Segreteria -
degli atti e dei documenti previsti per legge a corredo del consuntivo
ovvero di non aver ricevuto l’avviso di convocazione della seduta consiliare
e, comunque, di non aver avuto a disposizione il tempo minimo previsto da
legge e regolamento per l’esame degli atti.
Il Giudice del Capoluogo sardo, adito in primo grado, ha rigettato il
ricorso sostenendo corretto il deposito e l’invio della convocazione
dell’assise comunale effettuata con posta elettronica certifica presso le
caselle Pec assegnate ai Consiglieri.
Il Consiglio di Stato con la decisione in rassegna conferma quanto deciso
dal Tar.
La decisione
Il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto giuridico della presenza di
una norma regolamentare vigente all’interno dell’Amministrazione comunale,
che stabilisce che la notifica ai Consiglieri dell’avviso di convocazione,
in assenza di specifiche richieste, avviene a mezzo Pec, ha espresso un
sostanziale principio di diritto, secondo cui la casella Pec una volta
assegnata vale anche per le consiliature successive, tenuto conto che ben 4
appellanti erano Consiglieri confermati all’esito dell’ultima tornata
elettorale.
Inoltre, il Giudice di appello affermando la validità della casella Pec ha,
di conseguenza, ritenuto che i ricorrenti erano a conoscenza sia
dell’avvenuto deposito degli atti e sia della relativa convocazione della
seduta consiliare per l’approvazione del rendiconto. Per quanto riguarda la
conoscibilità degli atti comunicati via Pec, il Collegio ha ricordato che
l’articolo 48 del Codice dell'amministrazione digitale equipara la
trasmissione del documento informatico per via telematica alla notificazione
per mezzo della posta.
L’inoltro ad una Pec assicura l'assoluta affidabilità, in ordine
all'indirizzo del mittente, a quello del destinatario, al contenuto della
comunicazione e all'avvenuto recapito del messaggio.
Conclusioni
La sentenza è di pregio giuridico perché conferma l’assoluta equivalenza tra
notificazione cartacea e comunicazione via Pec (digitale)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018).
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MASSIMA
4. Il punto di fondo è costituito dalla vigente delibera
14.09.2012 n. 44, peraltro adottata dal precedente Consiglio
con la partecipazione di 4 degli attuali appellanti, che ha
integrato il “Regolamento del Consiglio Comunale”,
modificando in particolare l’art. 22, riguardante la
“notifica ai Consiglieri” che espressamente stabilisce che,
in assenza di specifiche richieste, l’avviso di convocazione
avviene a mezzo PEC.
Pertanto, viene disposto che “l’Ente fornisce ciascun
consigliere, se sprovvisto, di una casella di posta
elettronica certificata. (...) Il corretto invio della
convocazione risulta dal messaggio della ricevuta di
accettazione”.
Nel caso di specie è stato documentalmente provato, ed è nei
fatti incontestato, che sia l’avviso di deposito degli atti,
sia la convocazione per la seduta del Consiglio, sono stati
comunicati ai ricorrenti via PEC in data 10.07.2017: gli
attuali appellanti avevano le caselle PEC, proprio quelle
loro assegnate dal Comune, che conservava i relativi
indirizzi sin dalla precedente consiliatura.
La contestazione secondo cui le caselle di PEC sarebbero
stati assegnati solo per quella legislatura, e quindi non
valgano per la successiva, anche se i destinatari vengano
rieletti, pur trattandosi di un motivo non proposto, è
comunque infondata.
Infatti, una volta assegnata ai consiglieri una specifica
PEC essa rimane valida, per l finalità di cui al regolamento
citato anche per le successive consiliature, non essendovi
(né essendo state indicate) disposizioni che stabiliscono
una decadenza di validità dell’assegnazione di PEC o della
casella stessa, ovvero un obbligo di riassegnazione ad ogni
successiva consiliatura, il che confliggerebbe, peraltro,
con il principio di economicità e di efficienza che deve
presiedere l’azione amministrativa.
5. Per quanto riguarda la conoscibilità degli atti
comunicati via PEC, deve ricordarsi che l’art. 48 d.lgs.
07.03.2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale)
equipara la trasmissione del documento informatico per via
telematica alla notificazione per mezzo della posta.
Come ha affermato, per quanto riguarda il versante
processuale, ma con considerazioni estensibili per ogni
comunicazione via PEC, Cons. Stato, Ad. plen., 10.12.2014,
n. 33, l’inoltro ad una PEC assicura “l'assoluta
affidabilità, in ordine all'indirizzo del mittente, a quello
del destinatario, al contenuto della comunicazione e
all'avvenuto recapito del messaggio”.
Pertanto, è confermata l’assoluta equivalenza tra
notificazione cartacea e comunicazione via PEC (digitale).
6. Gli appellanti affermano che le PEC assegnate dal Comune
equivarrebbero al domicilio speciale disciplinato dall’art.
47 Cod. civ.; pertanto l’Amministrazione avrebbe potuto
comunicare gli avvisi ai consiglieri soltanto se ci fosse
stata una espressa indicazione in tal senso per iscritto da
parte degli stessi.
L’assunto non è fondato: la citata norma regolamentare
concede esclusivamente all’interessato di scegliere uno
specifico domicilio per “determinati atti o affari”;
opzione di cui gli appellanti non si sono avvalsi.
In assenza di scelta, sopravviene la regola, applicata nel
caso di specie, della notifica presso la PEC assegnata
dall’Amministrazione, come è avvenuta nel caso concreto.
7. Gli appellanti hanno inoltre sostenuto che le caselle a
cui sono state inviate le notifiche per cui è causa
risultano appartenere ad un dominio (“comune.carloforte.ca.it”),
il cui amministratore è il sindaco.
Le medesime caselle, appartenendo a quel dominio, sono nella
titolarità dell’ente e non sono, quindi, nella disponibilità
di soggetti diversi, come gli odierni appellanti.
Fermo restando che tale motivo non risulta dedotto in primo
grado e, dunque dovrebbe ritenersi inammissibile, nel merito
è anche infondato poiché il Sindaco non ha certo la
possibilità di controllare le PEC istituzionali dei
consiglieri, e non conosce le password che questi scelgono,
mentre l’appartenenza del dominio non incide
sull’assegnazione e sulla disponibilità della casella di
posta elettronica, come è noto, in base ai principi generali
di funzionamento tecnologico delle mail elettroniche.
Quanto alle considerazioni svolte sulla dottoressa Ci., per
la quale si sostiene che la stessa è provvista di una
casella PEC risultante dai pubblici registri, si deve
ritenere che tale censura, ancorché inammissibile per
difetto di formulazione in primo grado, è altresì infondata,
poiché la circostanza dedotta può incidere per quanto
riguarda l’ordinamento processuale, ma non incide ai fini
delle comunicazioni previste dalla delibera regolamentare
già citata per quanto riguarda le comunicazioni relative
all’attività del Consiglio comunale.
8. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello deve essere respinto, in quanto infondato (Consiglio
d Stato, Sez. V,
sentenza 24.10.2018 n. 6042 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Rapporti
tra atti di pianificazione del territorio e
principio del maggior dettaglio.
Il modello delineato
dalla legislazione regionale prevede che i
piani collocati al livello superiore non
siano gerarchicamente sovraordinati agli
altri, ma dettino una disciplina di
orientamento, indirizzo e coordinamento, che
non può essere stravolta ma, in particolari
casi, derogata dalla disciplina puntuale
dettata dallo strumento di pianificazione
contenente disposizioni di maggior
dettaglio.
Pertanto, nel perseguimento degli obiettivi
di tutela stabiliti dal PTR e dunque dal
Piano paesaggistico regionale, ben può il
PTCP introdurre ulteriori disposizioni
destinate a prevalere anche per aree che non
siano state direttamente e specificamente
individuate dal P.T.R..
Sussiste quindi, in relazione agli atti di
pianificazione del territorio della Regione
Lombardia, una disciplina positiva del c.d.
principio di maggior dettaglio o di maggior
definizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 23.10.2018 n. 2377 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
La L.r. 11.03.2005, n. 12, recante “Legge
per il governo del territorio”,
stabilisce all’art. 19, comma 1 – rubricato
“Oggetto e contenuti del piano
territoriale regionale”: “Il piano
territoriale regionale, di seguito
denominato PTR, costituisce atto
fondamentale di indirizzo, agli effetti
territoriali, della programmazione di
settore della Regione, nonché di
orientamento della programmazione e
pianificazione territoriale dei comuni e
delle province. La Regione con il PTR, sulla
base dei contenuti del programma regionale
di sviluppo e della propria programmazione
generale e di settore, indica gli elementi
essenziali del proprio assetto territoriale
e definisce altresì, in coerenza con quest’ultimo,
i criteri e gli indirizzi per la redazione
degli atti di programmazione territoriale di
province e comuni. Il PTR ha natura ed
effetti di piano territoriale paesaggistico
ai sensi della vigente legislazione e a tal
fine ha i contenuti e l’efficacia di cui
agli articoli 76 e 77”.
Il successivo art. 20 della medesima legge
regionale, rubricato “Effetti del piano
territoriale regionale. Piano territoriale
regionale d’area”, stabilisce che “Il
PTR costituisce quadro di riferimento per la
valutazione di compatibilità degli atti di
governo del territorio di comuni, province,
comunità montane, enti gestori di parchi
regionali, nonché di ogni altro ente dotato
di competenze in materia. Contiene
prescrizioni di carattere orientativo per la
programmazione regionale di settore e ne
definisce gli indirizzi tenendo conto dei
limiti derivanti dagli atti di
programmazione dell’ordinamento statale e di
quello comunitario”.
La L.r. 30.11.1983, n. 86 recante “Piano
regionale delle aree regionali protette.
Norme per l'istituzione e la gestione delle
riserve, dei parchi e dei monumenti naturali
nonché delle aree di particolare rilevanza
naturale e ambientale”, all’art. 3-ter,
rubricato “Rete ecologica regionale”,
stabilisce che: “1. La Rete ecologica
regionale (RER) è costituita dalle aree di
cui all'articolo 2 e dalle aree, con valenza
ecologica, di collegamento tra le medesime
che, sebbene esterne alle aree protette
regionali e ai siti della Rete Natura 2000,
per la loro struttura lineare e continua o
il loro ruolo di collegamento ecologico,
sono funzionali alla distribuzione
geografica, allo scambio genetico di specie
vegetali e animali e alla conservazione di
popolazioni vitali ed è individuata nel
piano territoriale regionale (PTR).
2. La Giunta regionale formula criteri per
la gestione e la manutenzione della RER, in
modo da garantire il mantenimento della
biodiversità, anche prevedendo idonee forme
di compensazione.
3. Le province controllano, in sede di
verifica di compatibilità dei piani di
governo del territorio (PGT) e delle loro
varianti, l'applicazione dei criteri di cui
al comma 2 e, tenendo conto della
strategicità degli elementi della RER nello
specifico contesto in esame, possono
introdurre prescrizioni vincolanti.
4. La RER è definita nei piani territoriali
regionali d'area, nei piani territoriali di
coordinamento provinciali, nei piani di
governo del territorio comunali e nei piani
territoriali dei parchi.”
Il modello delineato dalla legislazione
regionale prevede che i piani collocati al
livello superiore non siano gerarchicamente
sovraordinati agli altri, ma dettino una
disciplina di orientamento, indirizzo e
coordinamento, che non può essere stravolta
ma, in particolari casi, derogata dalla
disciplina puntuale dettata dallo strumento
di pianificazione contenente disposizioni di
maggior dettaglio (cfr. Tar Lombardia –
Milano sez. II 15.12.2017, n. 2393).
Pertanto nel perseguimento degli obiettivi
di tutela stabiliti dal PTR e dunque dal
Piano paesaggistico regionale, ben può il
PTCP introdurre ulteriori disposizioni
destinate a prevalere anche per aree che non
siano state direttamente e specificamente
individuate dal P.T.R. (TAR Lombardia,
Milano, II, 30.06.2017, n. 1474).
Sussiste, in relazione agli atti di
pianificazione del territorio della Regione
Lombardia, una disciplina positiva del c.d.
principio di maggior dettaglio o di maggior
definizione cui fa riferimento la
giurisprudenza richiamata.
La normativa allegata al Piano Paesaggistico
regionale, approvato nel 2010, in
applicazione dell'art. 19 della l.r. 12 del
2005, consultabile sul sito internet della
Regione Lombardia, prevede all’art. 4
(rubricato “Rapporti tra gli atti
costituenti il Piano del Paesaggio”)
quanto segue: “1. I rapporti tra gli atti
costituenti il Piano del Paesaggio si basano
su due principi: gerarchico e di maggiore
definizione.
2. In base al principio gerarchico, l’atto
sottordinato non può sovvertire gli
indirizzi e le strategie di quelli
sovraordinati.
3. In base al principio di maggior
definizione, le previsioni dell’atto più
definito, approvato nel rispetto del
principio gerarchico, sostituiscono a tutti
gli effetti quelle degli atti sovraordinati”.
Prevede inoltre il comma 2 dell’art. 6 che “In
presenza di strumenti a specifica valenza
paesaggistica di maggiore definizione, di
cui all'articolo 3, tali strumenti dal
momento della loro entrata in vigore
definiscono la disciplina paesaggistica del
territorio ivi considerato”.
Peraltro l’affermazione contenuta nella
relazione del Commissario della Regione
prodotta a seguito dell’ordinanza
presidenziale n. 562/2018 è coerente con i
principi sopra evidenziati e chiara nella
sua portata, che non potrà che vincolare la
Regione stessa. Ha dichiarato infatti il
Commissario che “dal momento che la
modifica che sta per essere apportata al
PTCP della Provincia di Monza – Brianza
[ormai già approvata] assume carattere
prevalente rispetto a quanto individuato
nella cartografia regionale della RER, la
Regione non ritiene di dover intervenire
sulla cartografia di competenza.
Si sottolinea inoltre che sull’area di
interesse, a seguito della modifica operata
dalla Provincia, non potranno gravare
vincoli od oneri riconducibili alla attuale
cartografia regionale per la parte di
interesse”.
Alla luce di quanto precede non sussistono i
presupposti per l’accoglimento del reclamo. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 338 del r.d. n. 1265/1934 fa divieto di
costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio
di duecento metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale,
salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge, ivi
comprese:
- le ipotesi –disciplinate dallo stesso art. 338 cit.– della
costruzione di nuovi cimiteri o ampliamento di quelli già
esistenti a una distanza inferiore a duecento metri, purché
non oltre il limite di cinquanta metri e sussistendone le
condizioni previste dalla norma; ovvero
- della riduzione dell’area di rispetto per dare esecuzione a
un’opera pubblica o a un intervento urbanistico, in tutti i
casi previo parere favorevole dell’autorità sanitaria
(ampliamento di edifici esistenti, costruzione di nuovi
edifici, realizzazione di parchi, giardini e annessi,
parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali
tecnici e serre); o, ancora,
- degli interventi di recupero di edifici esistenti, ovvero degli
interventi funzionali all'utilizzo degli edifici stessi, tra
cui l'ampliamento nella percentuale massima del dieci per
cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a quelli
previsti dalle lettere a), b), c) e d) dell’art. 31, co. 1,
della legge n. 457/1978.
---------------
Secondo il consolidato orientamento della Sezione, il
vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 è vincolo
assoluto di inedificabilità ex lege, e come tale prevale su
eventuali disposizioni urbanistiche contrarie, con
conseguente insanabilità delle opere realizzate all'interno
della fascia di rispetto cimiteriale a prescindere da
qualsiasi valutazione in concreto della compatibilità del
manufatto rispetto al vincolo medesimo.
Questo, dal canto suo, risponde a una pluralità di funzioni,
quali assicurare condizioni di igiene e salubrità, garantire
tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura, consentire
futuri ampliamenti dell'impianto funerario, e opera
indipendentemente dal tipo di fabbricato, riguardando anche
gli edifici sparsi.
---------------
L’estensione della fascia di rispetto conseguente al
progettato ampliamento del cimitero non può considerarsi
ostativa al rilascio del condono, atteso che l’art. 33 della
legge n. 47/1985 sancisce l’insanabilità delle sole opere
che siano in contrasto con vincoli di inedificabilità
imposti prima della loro esecuzione.
Si aggiunga che l’abitazione dei ricorrenti fronteggia la
nuova area destinata a parcheggio, della quale non può
comunque tenersi conto ai fini della misura della fascia di
rispetto, che si calcola dal perimetro dell’impianto
cimiteriale.
Ai fini dell’assentibilità del condono rileva semmai la
situazione antecedente al progetto di ampliamento del
cimitero, raffigurata nella planimetria dello “stato di
diritto” della variante del 1999.
---------------
1. I ricorrenti sono comproprietari nel Comune di Firenze,
alla via ... 221, di un’abitazione costituita da porzione
terra-tetto di un più ampio edificio, con annesso giardino
tergale.
Essi impugnano il provvedimento del 10.11.2004, in epigrafe,
mediante il quale è stata respinta l’istanza di condono
edilizio, presentata dal precedente proprietario
dell’immobile ai sensi della legge n. 47/1985, con
riferimento a una stanza attrezzi realizzata senza titolo
all’interno del giardino di pertinenza.
La motivazione del diniego attiene all’insanabilità
dell’opera in questione perché ricadente nella fascia di
rispetto del vicino Cimitero degli Allori.
...
2.1. Il ricorso è fondato.
2.1.1. Com’è noto, l’art. 338 del r.d. n. 1265/1934 fa
divieto di costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro
il raggio di duecento metri dal perimetro dell'impianto
cimiteriale, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla
legge, ivi comprese le ipotesi –disciplinate dallo stesso
art. 338 cit.– della costruzione di nuovi cimiteri o
ampliamento di quelli già esistenti a una distanza inferiore
a duecento metri, purché non oltre il limite di cinquanta
metri e sussistendone le condizioni previste dalla norma;
ovvero della riduzione dell’area di rispetto per dare
esecuzione a un’opera pubblica o a un intervento
urbanistico, in tutti i casi previo parere favorevole
dell’autorità sanitaria (ampliamento di edifici esistenti,
costruzione di nuovi edifici, realizzazione di parchi,
giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre); o, ancora,
degli interventi di recupero di edifici esistenti, ovvero
degli interventi funzionali all'utilizzo degli edifici
stessi, tra cui l'ampliamento nella percentuale massima del
dieci per cento e i cambi di destinazione d'uso, oltre a
quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) dell’art. 31,
co. 1, della legge n. 457/1978.
Secondo il consolidato orientamento della Sezione, il
vincolo imposto dall'art. 338 R.D. n. 1265/1934 è vincolo
assoluto di inedificabilità ex lege, e come tale
prevale su eventuali disposizioni urbanistiche contrarie,
con conseguente insanabilità delle opere realizzate
all'interno della fascia di rispetto cimiteriale a
prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della
compatibilità del manufatto rispetto al vincolo medesimo.
Questo, dal canto suo, risponde a una pluralità di funzioni,
quali assicurare condizioni di igiene e salubrità, garantire
tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura, consentire
futuri ampliamenti dell'impianto funerario, e opera
indipendentemente dal tipo di fabbricato, riguardando anche
gli edifici sparsi (per tutte, cfr. TAR Toscana, sez. III,
02.02.2015, n. 181).
Tanto premesso, la planimetria dello “stato di variante”
(doc. n. 4 del Comune di Firenze) allegata alla variante di
adeguamento del P.R.G. fiorentino al piano di settore
cimiteriale, approvata dal Comune nel 1999, mostra
l’abitazione di proprietà dei ricorrenti all’interno della
fascia di rispetto del Cimitero agli Allori.
È peraltro pacifico che la fascia è stata così rappresentata
–nella misura legale di duecento metri– in funzione
dell’ampliamento previsto per il cimitero, e dunque a
partire dal margine esterno delle nuove aree destinate in
parte a parcheggio, in parte alle inumazioni: si veda al
riguardo il rapporto della Direzione Urbanistica del Comune,
in atti, dal quale trae conferma dell’assunto dei
ricorrenti, secondo cui la fascia di rispetto cimiteriale è
stata ampliata in occasione della variante al P.R.G. e,
perciò, in epoca successiva alla realizzazione dell’abuso,
risalente al 1973 (come dichiarato nell’istanza di condono e
mai contestato dall’amministrazione resistente).
L’estensione della fascia di rispetto conseguente al
progettato ampliamento del cimitero non può dunque
considerarsi ostativa al rilascio del condono, atteso che
l’art. 33 della legge n. 47/1985 sancisce l’insanabilità
delle sole opere che siano in contrasto con vincoli di
inedificabilità imposti prima della loro esecuzione. Si
aggiunga che l’abitazione dei ricorrenti fronteggia la nuova
area destinata a parcheggio, della quale non può comunque
tenersi conto ai fini della misura della fascia di rispetto,
che si calcola dal perimetro dell’impianto cimiteriale.
2.1.2. Ai fini dell’assentibilità del condono rileva semmai
la situazione antecedente al progetto di ampliamento del
cimitero, raffigurata nella planimetria dello “stato di
diritto” della variante del 1999 (doc. n. 3 del Comune.
Si veda anche la cartografia estratta dal R.U., prodotta dal
Comune sub n. 9).
Qui l’abitazione dei ricorrenti viene a trovarsi all’incirca
in corrispondenza dell’intersezione tra la fascia di
rispetto del Cimitero agli Allori e quella di altro
monumento, Il Portico, che la difesa comunale qualifica
parimenti “cimitero”, mentre i ricorrenti parlano di
“convento”.
Le linee che identificano le due fasce si interrompono nei
punti di intersezione, tuttavia, prolungando idealmente la
linea che identifica la fascia di rispetto del Il Portico,
l’abitazione dei ricorrenti sembrerebbe ricadervi: la
potenziale interferenza delle opere abusive con tale
monumento è, però, del tutto estranea alla motivazione
dell’atto impugnato, come pure al già menzionato rapporto
illustrativo della Direzione Urbanistica, venendo invocata
nella sole difese in giudizio del Comune; né ricorrono le
condizioni per affermare che essa vincoli l’operato
dell’amministrazione al punto di rendere ineluttabile il
diniego di condono, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2,
della legge n. 241/1990, di modo che potrà al più farsene
oggetto di valutazione in sede di riesercizio del potere
(senza dimenticare che, stando alla planimetria dello “stato
di diritto” della variante, la fascia di rispetto de Il
Portico risulta ridimensionata e l’abitazione dei ricorrenti
ne è al di fuori).
Se, invece, si prolunga idealmente la linea che rappresenta
la fascia di rispetto del Cimitero agli Allori, l’abitazione
dei ricorrenti ne appare lambita, rimanendone pur sempre
all’esterno. Del resto, a fronte delle possibili incertezze
derivanti dalla rappresentazione grafica, il Comune non
dimostra che l’abitazione dei ricorrenti si trovi
effettivamente a distanza inferiore ai duecento metri dal
perimetro (attuale, e non di progetto) dell’impianto
cimiteriale.
Ne discende, anche per questo decisivo aspetto,
l’illegittimità del diniego.
3. In forza delle considerazioni che precedono, il
provvedimento impugnato deve essere annullato, con
assorbimento delle rimanenti doglianze, aventi natura
subordinata (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 23.10.2018 n. 1361 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Accorpamento locale accessorio all'abitazione,
TAR Lazio-Roma: costituisce un mutamento di destinazione
d'uso assoggettabile al rilascio del permesso di costruire.
Con
sentenza 22.10.2018 n. 10234,
il TAR Lazio-Roma ha confermato il pacifico orientamento
giurisprudenziale vigente in materia di edilizia, secondo
cui il mutamento di destinazione d'uso con opere (quale, per
esempio, l'accorpamento del vano accessorio al resto
dell'abitazione) va inquadrato nell'ambito della
ristrutturazione edilizia cd. "pesante" o "maggiore",
alla quale fa riferimento l'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001
[...] (cfr. TAR Lazio, sez. II–quater, 26.07.2018, n. 8452).
Con l'ovvia conseguenza che detto intervento rimane
assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire
con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la
diversa destinazione. Ma vediamo nel dettaglio la questione
sottoposta all'attenzione dei Giudici amministrativi.
La ricorrente ha impugnato l'ordinanza dirigenziale del
Comune, con la quale è stata disposta la demolizione di
opere edili abusive effettuate all'interno di un monolocale
di sua proprietà. L'ordine di demolizione in oggetto
riguarda, in buona sostanza, "l'accorpamento del locale
accessorio al resto dell'abitazione mediante l'abbattimento
del muro divisorio con conseguente cambio di destinazione
d'uso dello stesso dal momento che risulta adibito a
soggiorno". A dire della ricorrente, tale provvedimento
amministrativo è illegittimo per i seguenti motivi:
• l'appartamento in questione è composto da soggiorno con angolo
cottura, vano accessorio, bagno e balcone;
• dalla piantina catastale si rileva l'inesistenza di pareti
divisorie tra gli ambienti dell'immobile;
• nessuna opera è stata effettuata sull'immobile, che è adibito
all'uso originario e non è abitato dalla ricorrente né
locato a terzi;
• l'attuale situazione corrisponde a quella originaria;
• il premesso di costruire è stato rilasciato per la realizzazione
di due vani.
Di diverso avviso è il TAR.
I Giudici amministrativi, nel caso di specie, innanzitutto,
rilevano che la documentazione catastale non ha valore
probatorio dirimente, in quanto in tema di abusivismo
edilizio occorre aver esclusivo riguardo alla difformità dal
titolo abilitativo. In secondo luogo, essi fanno rilevare
che correttamente l'amministrazione comunale ha riscontrato
un mutamento di destinazione d'uso con opere dal momento
che, con l'abbattimento delle pareti, il vano accessorio ha
perso la sua caratteristica, appunto, accessoria, per
acquisire la piena destinazione residenziale.
E ciò in considerazione del fatto che, "nell'ambito di
una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi
"accessori" o adibiti a servizi che, secondo lo strumento
urbanistico vigente, non hanno valore di superficie
edificabile e non sono presi in considerazione come
superficie residenziale all'atto del rilascio del permesso
di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria".
Questo sta a significare che la loro trasformazione diventa
urbanisticamente rilevante, configurando "un ampliamento
della superficie residenziale e della relativa volumetria
autorizzate con l'originario permesso di costruire" (cfr.
Sez. TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr.
altresì sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225; sez. II-bis,
30.01.2017, n. 1439; nonché Cass. pen., sez. fer.,
05.10.2015, n. 39907).
Ne consegue che, in ipotesi di questo genere, i lavori di
trasformazione di tali parti sono configurabili nell'ambito
della ristrutturazione edilizia cd. "pesante" o "maggiore",
alla quale fa riferimento l'art. 33 del D.P.R. n. 380/2001
(Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità), secondo cui "gli
interventi e le opere di ristrutturazione edilizia [...],
eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità da
esso, sono rimossi ovvero demoliti [..]" (cfr. TAR
Lazio, sez. II–quater, 26.07.2018, n. 8452).
Il riferimento a tale disposizione non viene meno neanche
ricorrendo al criterio della prevalenza in termini di
superficie della destinazione d'uso del fabbricato, secondo
quanto previsto dall'art. 23-ter, comma 2, del predetto
D.P.R. n. 380/2001 ("La destinazione d'uso di un
fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in
termini di superficie utile"). E ciò in virtù del fatto
che detto criterio trova applicazione nel caso in cui
l'immobile sia caratterizzato da una destinazione mista. In
tali ipotesi, il ricorso al criterio in questione è
finalizzato a stabilire la destinazione d'uso da considerare
prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento
rispetto ad essa (Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016,
n. 5050).
Nella fattispecie di cui stiamo discorrendo, invece, non è
in dubbio la destinazione residenziale complessiva
dell'opera, che è unitaria, ma si discute sulla ripartizione
dei volumi principali e accessori: ripartizione, questa, per
la quale, come detto, sarebbe stato necessario un permesso
di costruire ad hoc.
Inoltre, pur a voler ammettere che la situazione di fatto in
oggetto ha carattere originario, la ricorrente avrebbe
dovuto, comunque, munirsi di un titolo abilitativo per
l'accorpamento del vano accessorio al resto
dell'abilitazione e ciò perché, nel caso di specie,
i) l'abbattimento delle pareti divisorie si configura come una
variazione al progetto approvato inizialmente, relativo alla
realizzazione dei due vani,
ii) l'immobile in questione si trova in zona paesisticamente
vincolata, con l'ovvia conseguenza che la variazione su
richiamata al progetto già approvato costituisce se non una
totale difformità, quantomeno una variazione essenziale del
predetto progetto; variazione, questa, per la quale sarebbe
stato necessario attenersi alle prescrizioni dettate dalla
legge regionale vigente in materia.
Alla luce di tali argomentazioni, pertanto, il TAR Lazio,
avendo riscontrato il mancato rispetto di tali prescrizioni,
ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato (commento
tratto da www.avvocatirandogurrieri.it).
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MASSIMA
6. Con il primo motivo si lamenta l’omissione della
comunicazione di avvio del procedimento e della conseguente
istruttoria in contraddittorio con l’interessato.
6.1 Il motivo è infondato, avuto riguardo al dominante
orientamento giurisprudenziale secondo il quale
la
demolizione di un’opera abusiva costituisce un atto a
contenuto vincolato, per cui non è necessaria il preventivo
adempimento garantistico: “l'ordine di demolizione
conseguente all'accertamento della natura abusiva delle
opere edilizie, come tutti i provvedimenti sanzionatori
edilizi, è un atto dovuto e, in quanto tale, non deve essere
preceduto dall'avviso ex art. 7 della L. 07.08.1990, n.
241, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche secondo un procedimento di natura vincolata
precisamente tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato dalla legge; pertanto, trattandosi di un atto
volto a reprimere un abuso edilizio, esso sorge in virtù di
un presupposto di fatto, ossia l'abuso, di cui il ricorrente
deve essere ragionevolmente a conoscenza, rientrando nella
propria sfera di controllo” (Consiglio di Stato, Sez. VI,
05.06.2017, n. 2681; V, 28.04.2014, n. 2194).
7. Le due rimanenti censure vanno considerate
congiuntamente.
La ricorrente richiama anzitutto la descrizione
dell’immobile contenuta nel rogito di acquisto del
24.09.2007: “appartamento monolocale al piano terra della
scala A, distinto con il numero interno 1 (uno), composto di
soggiorno con angolo cottura, vano accessorio, bagno e
balcone”.
Essa afferma:
a) che dalla piantina catastale allegata si rileva l’inesistenza di
pareti divisorie tra gli ambienti dell’immobile;
b) che nessuna opera è stata effettuata sull’immobile, che è
adibito all’uso originario e non è abitato dalla ricorrente
né locato a terzi;
c) che l’attuale situazione corrisponde presumibilmente a quella
originaria, altrimenti l’immobile non sarebbe accessibile e
al vano accessorio dovrebbe accedersi dalla facciata
condominaiale;
d)
che il premesso di costruire n. 36/2006 è stato rilasciato
per la realizzazione di due vani per complessivi mq. 44.
7.1 Le censure sono infondate.
Va anzitutto rilevato che l’immobile è stato acquistato come
monolocale munito di un vano avente carattere accessorio.
Dalla documentazione acquisita in sede istruttoria risulta
confermato -come già rilevato in sede cautelare- che il
locale accessorio, alla stregua dei progetti allegati alla
DIA in variante al PdC 36/06 - 26/07, non era comunicante
con l’appartamento e allo stesso doveva accedersi unicamente
dal terrazzo pertinenziale.
E’ appena il caso di rilevare che la documentazione
catastale allegata da entrambe le parti non riveste nella
specie un valore probatorio dirimente, in quanto in tema di
abusivismo edilizio occorre aver esclusivo riguardo alla
difformità dal titolo abilitativo.
Correttamente quindi è stato riscontrato un mutamento di
destinazione d’uso con opere, rilevante ai sensi dell’art.
16 della L.R. n. 15/2008.
Infatti senza la parte di separazione il vano accessorio
perde questa caratteristica per acquisire piena destinazione
residenziale.
Al riguardo va precisato che secondo la giurisprudenza di
questo Tribunale, il mutamento di destinazione d’uso con
opere va inquadrato nell’ambito della ristrutturazione
edilizia cd. “pesante” o “maggiore”, alla quale fanno
riferimento l’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16
della L.R. n. 15/2008 (cfr. TAR Lazio, sez. II–quater, 26.07.2018, n. 8452).
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza
della Corte di Cassazione in numerose sentenze.
Già con la sentenza della III sezione penale, 20.01.2009, n. 9894 la Suprema Corte ha avuto modo di precisare,
per quanto qui interessa, quanto segue:
- “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione
dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale”;
- “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre
alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa
destinazione”;
- “un delicato problema di coordinamento interpretativo si correla
alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma
1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a permesso di
costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che
..., limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso".
Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori delle zone
omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché non
comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume,
della sagoma, dei prospetti o delle superfici) sarebbe
sottratta al regime del permesso di costruire e realizzabile
mediante denuncia di inizio dell'attività anche se si
accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con
l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei
centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e
di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore
portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora
comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […],
conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga
che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni
d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art.
3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del
restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza,
alla stessa stregua degli interventi di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
- necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico;
- fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di
attività qualora comportino il mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
- nei centri storici non possono essere realizzati mediante
denunzia di attività neppure qualora comportino il mero
mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla
successiva giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. pen, sez.
III, 28.01.2015, n. 3953). In particolare, Cass. pen,
sez. III, 14.02.2017, n. 6873, ha precisato che la
“imprescindibile necessità di mantenere l'originaria
destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi
di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il
fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal
D.L. 12.09.2014, n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di
detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento
delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se
comportanti la variazione delle superfici delle singole
unità immobiliari nonché del carico urbanistico”.
Dalla ricostruzione della disciplina normativa successiva
alle riforme del 2014-2017 potrebbe trarsi, secondo una
diversa ipotesi, anche l'interpretazione per cui il
mutamento di destinazione d’uso potrebbe essere ricompreso -almeno in alcuni casi- nella definizione di restauro e
risanamento conservativo (secondo la linea interpretativa
adottata da TAR Toscana, sez. III, 28.07.2017, n. 1009).
Ad avviso del Collegio, tuttavia, questa classificazione (la
quale comporterebbe un diverso regime sanzionatorio
edilizio) non può essere recepita.
In realtà la sentenza della Cassazione da ultimo menzionata,
richiamando la giurisprudenza anteriore, ha anche precisato
sul punto che nella categoria del restauro e risanamento
conservativo “possono essere annoverate soltanto le opere di
recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti
strutture, alle quali apportano un consolidamento, un
rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a
condizione che siano complessivamente rispettate tipologia,
forma e struttura dell'edificio”.
La diversa opinione fa leva, oggi, sulla nuova definizione
di restauro e risanamento conservativo introdotta nell’art.
3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ad opera
dell’art. 65-bis della L. n. 96/2017: “gli interventi
edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali
elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste
dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il
ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo
edilizio”.
Pur tuttavia, anche questa versione della norma prevede
sempre il requisito della compatibilità con gli elementi
tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio
(su cui cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2013,
n. 4851).
Ora, nel caso di trasformazione di vani accessori in vani
abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in
generale- che non vi sia il rispetto degli elementi
formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi formali"
attengono alla disposizione dei volumi, elementi
architettonici che distinguono in modo peculiare il
manufatto, configurando la sua immagine caratteristica;
mentre gli "elementi strutturali" sono quelli che
materialmente compongono la struttura dell'organismo
edilizio (Cass. pen., sez. III, 26.11.2014, n. 49221).
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno
giustapposti, bensì considerati sinteticamente come
espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è
connotato non solo tipologicamente, ma anche come
individualità che include una determinata proporzione di
elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito
della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la
qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e
risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo
dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15
(applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale
accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del D.P.R. n.
380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria
generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o
di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art.
22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza
limitarne la portata applicativa alle Zone A.
In piena
continuità con questa impostazione si colloca, da ultimo, la
recente L.R. 18.07.2017, n. 7 (“Disposizioni per la
rigenerazione urbana e il recupero edilizio”), la quale così
dispone all’art. 4, comma 1: “I comuni, con apposita
deliberazione di consiglio comunale da approvare mediante le
procedure di cui all'articolo 1, comma 3, della L.R. n.
36/1987, possono prevedere nei propri strumenti urbanistici
generali, previa acquisizione di idoneo titolo abilitativo
di cui al D.P.R. n. 380/2001, l'ammissibilità di interventi
di ristrutturazione edilizia, compresa la demolizione e
ricostruzione, di singoli edifici aventi una superficie
lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000 mq, con
mutamento della destinazione d'uso tra le categorie
funzionali individuate all'articolo 23-ter del D.P.R.
380/2001 con esclusione di quella rurale”.
La questione è connessa a quella del carattere
urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da
locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile
a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente
rilevanza urbanistica ai sensi del punto 38 della Tabella A
- Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito
di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi
“accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento
urbanistico vigente, non hanno valore di superficie
edificabile e non sono presi in considerazione come
superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso
di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò
non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire” (cfr. sez. TAR Lazio,
sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr. altresì sez. II-bis,
04.04.2017, n. 4225; sez. II-bis, 30.01.2017,
n. 1439; nonché Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n.
39907).
Per mera completezza va anche osservato che nessun rilievo
riveste, nella specie, il profilo di cui all’art. 23-ter,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (“La destinazione d'uso di
un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente
in termini di superficie utile”): secondo la Cassazione
penale, sez. III, 29.11.2016, n. 50503, l’accertamento sulla
prevalenza della destinazione d'uso del fondo riguarda
solamente il caso di una destinazione mista, allo scopo di
stabilire quale sia la destinazione d'uso da considerare
prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento
rispetto ad essa; mentre nel caso dei locali accessori non
si discute della destinazione residenziale complessiva
dell’opera, che è certa ed è unitaria, ma della diversa
questione della ripartizione dei volumi principali e
accessori, secondo le considerazioni poc’anzi esposte.
Va infine precisato che anche a voler ipotizzare la
preesistenza dell’odierna situazione di fatto rispetto alla
data del rogito, o addirittura il carattere originario della
stessa, le conclusioni non muterebbero, in quanto -trovandosi l’immobile in zona paesisticamente vincolata-
ogni variazione al progetto approvato costituisce, se non
totale difformità, quantomeno variazione essenziale ai sensi
dell’art. 17, comma 4, della L.R. n. 15/2008, parimenti
rilevante ai sensi dell’art. 16 della medesima legge.
8. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 22.10.2018 n. 10234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva - Confisca urbanistica di terreni -
Irrevocabilità della sentenza - Richiesta di revoca della
confisca - Successione ereditaria - Non rileva la buona fede
dell'erede - Inesistenza di una situazione soggettiva attiva
- Acquisizione di diritto del terreno al patrimonio comunale
- Art. 29, 30 e 44 d.P.R. n. 380/2001.
La confisca di cui all'art. 44, comma 2,
d.P.R. n. 380 del 2001, comporta l'acquisizione di diritto
del terreno al patrimonio comunale con effetto dalla data di
irrevocabilità della sentenza. Ciò comporta che da tale data
il condannato non può più disporre del bene confiscato in
quanto irrevocabilmente uscito dal suo patrimonio.
Ne consegue che tale bene non può nemmeno essere trasmesso
agli eredi né può costituire oggetto di atti dispositivi a
titolo oneroso. In caso di successione ereditaria, dunque,
non rileva la buona fede dell'erede, bensì l'oggettiva
inesistenza di una situazione soggettiva attiva in capo a
quest'ultimo mai trasmessa dal "de cuius".
...
Reato di lottizzazione abusiva - Acquisto di un terreno per
realizzarvi un'opera che contrasta con la destinazione di
piano - Ignoranza incolpevole - Esclusione.
In tema di lottizzazione abusiva, colui
il quale acquisti un terreno per realizzarvi un'opera che
contrasta con la destinazione di piano non può invocare
l'ignoranza incolpevole del reato di lottizzazione abusiva
se con la propria condotta ha contributo alla consumazione
del reato senza il quale non avrebbe mai potuto utilizzare i
terreni a scopo edificatorio.
Nella fattispecie, si evidenziava che la mancata
utilizzazione dei terreni a scopo agricolo costituiva il
presupposto fattuale dal quale non è manifestamente illogico
trarre il convincimento dell'iniziale intenzione di
sfruttare i terreni a scopi edificatori in contrasto con la
loro vocazione agricola.
...
Lottizzazione abusiva disposta al di fuori dei casi di
condanna - Opposizione del terzo rimasto estraneo al
procedimento - Verifiche del giudice dell'esecuzione -
Condotta del terzo acquirente dell'immobile - Insussistenza
della buona fede - Giurisprudenza.
In tema di confisca conseguente a
lottizzazione abusiva disposta al di fuori dei casi di
condanna, il giudice dell'esecuzione, investito della
opposizione del terzo rimasto estraneo al procedimento, è
tenuto ad accertare, dal punto di vista oggettivo,
l'effettiva esistenza della lottizzazione e, dal punto di
vista soggettivo, l'insussistenza della buona fede nella
condotta del terzo acquirente dell'immobile, sulla base di
quanto provato dalla pubblica accusa
(Sez. 3, n. 32363 del 24/05/2017, Mantione; nello stesso
senso, Sez. 3, n. 51429 del 15/09/2016, Brandi, secondo cui
la confisca di un immobile abusivamente lottizzato può
essere disposta anche nei confronti dei terzi acquirenti,
qualora nei confronti degli stessi siano riscontrabili
quantomeno profili di colpa nell'attività precontrattuale e
contrattuale svolta, per non aver assunto le necessarie
informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e
sulla compatibilità dell'intervento con gli strumenti
urbanistici; Sez. 3, n. 45833 del 18/10/2012) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2018 n. 47729 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Appaltatore - Richiesta del pagamento del proprio compenso -
Misurazione della quantità di lavori già eseguiti - Entità e
consistenza delle opere realizzate - Onere di fornire la
prova della congruità di tale somma - Ammontare del credito
e fatture emesse dall'appaltatore - Certificato sullo stato
di avanzamento.
L'appaltatore che chieda il pagamento
del proprio compenso ha l'onere di fornire la prova della
congruità di tale somma, alla stregua della natura,
dell'entità e della consistenza delle opere, non costituendo
idonee prove dell'ammontare del credito le fatture emesse
dall'appaltatore, trattandosi di documenti di natura fiscale
provenienti dalla stessa parte, né le risultanze della
misurazione della quantità di lavori già eseguiti, quali
emergono dal certificato sullo stato di avanzamento degli
stessi (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 19.10.2018 n. 26517 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia - Il Consiglio di Stato
chiarisce quando va richiesto il permesso di costruire, la
SCIA oppure la super DIA.
Quali interventi di ristrutturazione edilizia richiedono il
permesso di costruire e per quali opere basta la SCIA
(segnalazione certificata di inizio attività)?
A chiarito ancora una volta è la Sezione VI del Consiglio di
Stato, che, nella
sentenza 19.10.2018 n. 5984,
spiega quali titoli abilitativi sono necessari nel caso di
una ‘ristrutturazione edilizia’.
In termini generali costituiscono “interventi di
ristrutturazione edilizia” quegli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possano portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In tale prospettiva, la ristrutturazione -nelle forme
dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒
si pone in continuità con tutti gli altri interventi edilizi
cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che
hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio
esistente.
Il Consiglio di Stato richiama quanto disposto dagli
articoli 10, comma 1, lettera c), e 22, comma 1, lettera c),
del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia - TUE).
1) L’art. 10, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 380/2001 (Testo
Unico Edilizia - TUE), individua, in modo tassativo, quali
sono gli interventi per i quali è necessario il permesso di
costruire e tra essi indica soltanto "gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino modifiche della volumetria complessiva degli
edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli
immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi
che comportino modificazioni della sagoma di immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni".
Ai sensi di tale norma, le opere di ristrutturazione
edilizia necessitano, dunque, di permesso di costruire se
consistenti in interventi che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino mutamenti della destinazione d’uso
(ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti
interventi di ristrutturazione c.d. «leggera»
(compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che
non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).
In relazione, invece, agli immobili sottoposti a vincolo ai
sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 sono soggetti a SCIA solo
gli interventi che non alterano la sagoma dell’edificio.
2) L’art. 22, comma 1, lettera c), del TUE dispone che sono
assoggettati a segnalazione certificata di inizio attività
(SCIA), tra l’altro, "c) gli interventi di
ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1,
lettera d), diversi da quelli indicati nell'articolo 10,
comma 1, lettera c.".
Dunque, l’intervento di ristrutturazione edilizia mediante
demolizione e ricostruzione, senza modifica di sagoma,
superficie, volume e destinazione d’uso, non richiede
necessariamente il permesso di costruire, ma può essere
realizzato mediante la presentazione della DIA o super DIA
(che con le novità introdotte dal D.Lgs. n. 222/2016 è
diventata, a decorrere da giugno 2017, SCIA, alternativa al
permesso di costruire) per ragioni di carattere
acceleratorio (commento tratto da www.tuttocamere.it).
---------------
SENTENZA
2.1.‒ In termini generali costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia quegli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possano portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. In tale
prospettiva, la ristrutturazione ‒nelle forme
dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒
si pone in continuità con tutti gli altri interventi edilizi
cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che
hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio
esistente.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE, le
opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso
di costruire se consistenti in interventi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino, modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti
interventi di ristrutturazione c.d. «leggera»
(compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che
non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente). In
relazione, invece, agli immobili sottoposti a vincolo ai
sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 sono soggetti a SCIA solo
gli interventi che non alterano la sagoma dell’edificio.
L’art. 22, comma 3, del TUE prevede tre diverse tipologie di
interventi edificatori ‒di cui la prima è costituita proprio
da quelli di ristrutturazione, come individuati dal
precedente art. 10, comma 1, lettera c)‒ sottoposti al
regime del permesso di costruire, per i quali, per ragioni
di carattere acceleratorio, si consente all’interessato di
optare per la presentazione della DIA (c.d. “super DIA”).
Tale facoltà di opzione esaurisce i propri effetti sul piano
prettamente procedimentale, atteso che su quello sostanziale
(dei presupposti), penale e contributivo resta ferma
l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di
costruire (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2018 n. 5984 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Accesso ai documenti relativi allo scioglimento del
Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa.
---------------
●
Processo amministrativo – Competenza – Accesso ai documenti
- Documenti relativi allo scioglimento del Consiglio
comunale per infiltrazione mafiosa – Competenza Tar
periferico.
●
Accesso ai documenti - Documenti classificati “riservati” –
Motivazione sulla riservatezza – Necessità.
●
Rientra nella competenza del Tar periferico e non in quella
del Tar Lazio, sede di Roma, ex art. 135, comma 1, lett. q),
c.p.a., la controversia avente ad oggetto il diniego di
accesso agli atti relativi allo scioglimento di un Consiglio
comunale per infiltrazione mafiosa, e ciò in quanto la norma
del Codice del processo amministrativo che individua le
competenze inderogabili del Tar Lazio sono eccezionali e
derogatorie dei principi generali in materia di competenza
dettate dagli artt. 13 e ss. c.p.a. e quindi non estensibili
in via analogica (1).
●
E’ illegittimo il diniego di accesso ai documenti
relativi allo scioglimento di un Consiglio comunale per
infiltrazione mafioso opposto per il carattere della
riservatezza degli stessi, senza che sia motivato, in modo
rigoroso, l’esistenza di eventuali e concrete ragioni di
eccezionale prevalenza dell’esigenza di riservatezza su
quella della tutela in giudizio dei diritti e degli
interessi dell’istante (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il collegamento fra la fattispecie
dedotta in giudizio e quella oggetto di (previsione
normativa di) competenza territoriale derogata è labile
concernendo il gravame la materia dell’accesso agli atti,
solo incidentalmente connessa con quella contemplata dalla
lett. q) del comma 1 dell'art. 135 c.p.a., e comunque del
tutto estranea alle esigenze e ragioni correlate alla
territorialità della fattispecie che giustificano
l’attrazione della competenza presso il Tar centrale, con
sacrificio della prossimità della giustizia.
(2) Ha chiarito la giurisprudenza (Tar
Catania n. 2418 del 2013) che "l'art. 3, comma
1, d.m. dell'Interno 10.05.1994, n. 415 (recante il
regolamento per la disciplina delle categorie di documenti
sottratti all'accesso ai documenti amministrativi, in
attuazione dell'art. 24, comma 4, ora comma 6, l.
07.08.1990, n. 241), deve essere interpretato in senso non
strettamente letterale, giacché altrimenti sorgerebbero
dubbi sulla sua legittimità, in quanto si determinerebbe una
sottrazione sostanzialmente generalizzata alle richieste
ostensive di quasi tutti i documenti formati
dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione
delle finalità perseguite dalla l. 07.08.1990, n. 241" (Tar
Latina n. 263 del 2012 e
Tar Milano n. 873 del 2013).
Coerentemente, è stato dato rilievo preminente al diritto di
accesso, osservando che "(...) il comma 7 dello stesso
art. 24 -sulla scorta dell'insegnamento di Cons. St., A.P.,
07.02.1997, n. 5, recepito nella norma con le novelle
operate dall'art. 22, l. 13.02.2001, n. 45; dal comma 1
dell'art. 176, d.lgs. 30.06.2003, n. 196; nonché dall'art.
16, l. 11.02.2005, n. 15- non potrebbe essere più chiaro
nello specificare che, in ogni caso (ossia anche nei casi in
cui si tratti di atti sottraibili all'accesso mediante i
regolamenti attuativi dei commi precedenti), "Deve comunque
essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici" (Cga
n. 722 del 2012)”.
Dal che discende, vertendosi in materia di giurisdizione sul
diritto soggettivo d’accesso, la necessità di disapplicare
il citato regolamento in ipotesi –che qui la Prefettura ha
praticato- di interpretazione letterale dello stesso (Tar
Friuli Venezia Giulia n. 158 del 2014)
(TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 19.10.2018 n. 2122 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Il ricorso è fondato.
4.1. Osserva il Collegio che il provvedimento impugnato, pur
limitando significative prerogative del ricorrente, è del
tutto privo di motivazione quanto alla eventuale
classificazione come “riservati” degli atti 2, 4 e 5
dell’elenco sopra riportato.
Per questa parte il provvedimento –e salvo quanto si dirà infra, per l’ipotesi in cui la motivazione del provvedimento
abbia inteso includere anche tali atti nel profilo
impeditivo esplicitato con riferimento solo a quelli di cui
ai nn. 1 e 3- è affetto dal dedotto vizio di difetto di
motivazione.
4.2. Quanto ai documenti di cui ai n.. 1 e 3 dell’elenco, e
comunque a tutti i documenti oggetto della richiesta nella
misura in cui essi debbano intendersi accomunati –con
tecnica motivatoria non particolarmente perspicua–
dall’allegata motivazione del diniego, il Collegio osserva
che la disposizione invocata dall’amministrazione [art. 3,
comma 1, lett. m), D.M. 10/05/1994, n. 415] stabilisce che
“Ai sensi dell'art. 8, comma 5, lettera c), del decreto del
Presidente della Repubblica 27.06.1992, n. 352 , ed in
relazione all'esigenza di salvaguardare l'ordine pubblico e
la prevenzione e repressione della criminalità, sono
sottratte all'accesso le seguenti categorie di documenti:
(…..) m) atti, documenti e note informative utilizzate per
l'istruttoria finalizzata all'adozione dei provvedimenti di
rimozione degli amministratori degli enti locali ai sensi
dell'art. 40 della legge 08.06.1990, n. 142 , e dei
provvedimenti di scioglimento degli organi ai sensi
dell'art. 39, comma 1, lettera a), della legge 08.06.1990, n. 142 , e dell'art. 1 del decreto-legge 31.05.1991, n. 164, convertito, con modificazioni, nella legge 22.07.1991, n. 221”.
E’ affermazione comune in giurisprudenza (ex multis TAR
Sicilia, Catania, sentenza 2418/2013), quella per cui "La
norma di cui all'art. 3 comma 1, D.M. dell'Interno 10.05.1994, n. 415 (recante il regolamento per la disciplina delle
categorie di documenti sottratti all' accesso ai documenti
amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma 4, ora comma
6, L. 07.08.1990, n. 241), deve essere interpretata in
senso non strettamente letterale, giacché altrimenti
sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, in quanto si
determinerebbe una sottrazione sostanzialmente generalizzata
alle richieste ostensive di quasi tutti i documenti formati
dall'Amministrazione dell'Interno, con palese frustrazione
delle finalità perseguite dalla L. 07.08.1990, n. 241" (Tar
Lazio Latina, 263/2012 e Tar Lombardia Milano 873/2013).
Coerentemente, è stato dato rilievo preminente al diritto di
accesso, osservando che "(...) il comma 7 dello stesso art.
24 -sulla scorta dell'insegnamento di C.d.S., A.P., 07.02.1997, n. 5, recepito nella norma con le novelle
operate dall'art. 22 della L. 13.02.2001, n. 45; dal
comma 1 dell'art. 176 del D.Lgs. 30.06.2003, n. 196;
nonché dall'art. 16 della L. 11.02.2005, n. 15- non
potrebbe essere più chiaro nello specificare che, in ogni
caso (ossia anche nei casi in cui si tratti di atti sottraibili all'accesso mediante i regolamenti attuativi dei
commi precedenti), "Deve comunque essere garantito ai
richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici" (C.G.A. 722/2012)”.
Dal che discende, vertendosi in materia di giurisdizione sul
diritto soggettivo d’accesso, la necessità di disapplicare
il citato regolamento in ipotesi –che qui la Prefettura ha
praticato- di interpretazione letterale dello stesso
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 158/2014).
A tali, condivisibili argomentazioni va solo aggiunto che la
disposizione primaria su cui si fonda l’esercizio della
potestà regolamentare invocata dall’amministrazione è –ora- l’art. 24, comma 6, lett. a) della legge n. 241/1990 (in
precedenza, come si legge nell’epigrafe del regolamento
stesso, l’art. 24, comma 4), che richiede che se con
regolamento il Governo può prevedere casi di sottrazione
all'accesso di documenti amministrativi, quando dalla loro
divulgazione possa derivare una lesione alla sicurezza e
alla difesa nazionale, ciò può produrre un sacrificio del
diritto d’accesso quando tale lesione sia “specifica e
individuata”.
La motivazione del provvedimento impugnato, come riportato,
dà conto di un iter logico esattamente opposto
all’interpretazione adeguatrice indicata dalla
giurisprudenza come presupposto esegetico per salvare la
legittimità del citato art. 3, comma 1, del D.M. 10/05/1994,
n. 415: affermando che vanno comunque sacrificate
pregiudizialmente –ratione materiae- le esigenze difensive
correlate al diritto di accesso quando interesse antagonista
sia quello alla riservatezza degli atti prodromici allo
scioglimento del Consiglio comunale.
Sono proprio i valori, di rango costituzionale, portati dal
vigente (all’atto dell’emanazione del provvedimento
impugnato) articolo 24, comma 6, della legge n. 241/1990 ad
imporre all’amministrazione, in attuazione della norma
regolamentare invocata, un bilanciamento esattamente opposto
a quello esternato nel provvedimento impugnato: e a
motivare, in modo rigoroso, l’esistenza di eventuali e
concrete ragioni di eccezionale prevalenza dell’esigenza di
riservatezza su quella della tutela in giudizio dei diritti
e degli interessi del ricorrente.
4.3. In memoria la difesa dell’Amministrazione aggiunge un
argomento estraneo alla motivazione del provvedimento
impugnato: appellandosi al regime della riservatezza ex art.
42, legge 03.08.2007, n. 124.
Neppure tale argomento –postumo– appare condivisibile: come
chiarito in giurisprudenza (TAR Piemonte, Sez. I,
20.06.2018, n. 753), le classifiche di segretezza impongono
una serie di prescrizioni di protezione in ordine alla
conservazione, alla riproduzione ed alla circolazione degli
atti ma non sono, tuttavia, idonee a vanificare l'esercizio
costituzionalmente tutelato del diritto di difesa per cui
non precludono la conoscenza della notizia, a meno che il
documento "classificato" non sia coperto anche dal più
pregante vincolo di segretezza derivante dall'apposizione
del segreto di Stato.
4.4. Prosegue la memoria dell’Avvocatura dello Stato, dopo
il richiamo all’art. 42 l. 124/2007, osservando che “Alla
luce del descritto quadro normativo, risulta evidente che la
relazione del Prefetto, le conclusioni della Commissione di
indagine e tutti gli altri atti classificati RISERVATO
utilizzati nell’istruttoria dei provvedimenti dissolutori
degli enti locali per infiltrazioni della criminalità
organizzata sono atti di vietata divulgazione ex art. 262
del codice penale ed in quanto tali devono ritenersi non
ostensibili”.
Neppure questa affermazione –che probabilmente si intendeva
ancorare all’art. 329 cod. proc. pen., e non all’art. 262
stesso codice, che ha un diverso oggetto– può essere
condivisa dal Collegio.
Per consolidata giurisprudenza (da ultimo, TAR Umbria,
sentenza n. 471/2018) in merito all'accesso a documenti
detenuti dalle amministrazioni che siano in qualche modo
collegati con un procedimento penale, non sussiste una
preclusione automatica e assoluta alla loro conoscibilità,
dato che l'esistenza di un'indagine penale non è di per sé
causa ostativa all'accesso a documenti che siano confluiti
nel fascicolo del procedimento penale o che in qualsiasi
modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di
indagine.
Nel caso di specie, non risulta in alcun modo, dal
provvedimento o dalle difese in giudizio, che i contenuti
degli atti di cui si chiede l’ostensione siano parzialmente
o totalmente coincidenti con quelli di atti di un (eventuale
ed ipotetico) procedimento penale; né risulta parimenti
l’esistenza di un sequestro dell’A.G. penale che abbia
carattere impeditivo rispetto all’ostensione, sicché anche
tale ragione asseritamente ostativa non può trovare
accoglimento.
4.5. Infine, l’Avvocatura dello Stato allega un argomento
fattuale; quello per cui nei giudizi impugnatori aventi ad
oggetto i provvedimenti di scioglimento dei consigli
comunali, il ricorso verrebbe solitamente redatto
dall’interessato senza la conoscenza degli atti del
procedimento (classificati come “riservati”), che
verrebbero poi acquisiti al fascicolo processuale a seguito
di ordinanza istruttoria del Collegio.
Tale affermazione si presta ad una serie di agevoli
obiezioni:
- la necessità della conoscenza del contenuto dei documenti per
tutelare i propri diritti ed interessi è –in questo caso–
preprocessuale e ben può essere metaprocessuale:
l’ordinamento distingue nettamente la legittimazione
all’accesso ex art. 24, comma 7, l. 241/1990, dalla distinta
(funzionalmente e strutturalmente) ipotesi di cui all’art.
116, comma 2, cod. proc. amm, che invece la difesa
dell’amministrazione qui accomuna;
- nella fattispecie di “conoscenza necessaria per curare o per
difendere i propri interessi giuridici” rientra,
evidentemente, anche la libera determinazione del soggetto
in merito all’an della instaurazione di un
contenzioso giurisdizionale amministrativo, o di altre forme
di tutela previste dall’ordinamento;
- l’esercizio del potere istruttorio del collegio giudicante è
circostanza meramente ipotetica ed eventuale, sia nell’an
che nel quid;
- l’intero ragionamento è, come detto, meramente fattuale: il
richiamo a prassi giudiziarie non può valere a limitare
l’esercizio di diritti stabiliti da norme primarie in
presenza delle condizioni legittimanti.
5. Risulta pertanto pienamente riscontrato il vizio
denunciato nel ricorso in esame: senza che le difese
dell’amministrazione consentano di superare le censure
proposte.
L’amministrazione non ha effettuato in concreto il giudizio
di bilanciamento fra interessi antagonisti, alla luce della
normativa primaria; né ha allegato l’esistenza reale di
vincoli impeditivi in assoluto (atti coperti da segreto di
Stato o oggetto di sequestro da parte dell’A.G. penale), ma
si è limitata ad affermare pregiudizialmente che la mera
qualifica di “riservato” implica la sottrazione all’accesso,
in danno dell’interesse alla difesa dei propri diritti da
parte dell’odierno ricorrente.
Il ricorso va quindi accolto, con conseguente annullamento
del provvedimento impugnato.
Non avendo l’Amministrazione allegato –né nella motivazione
del provvedimento impugnato, né nella successiva difesa in
giudizio- concrete ragioni di riservatezza (afferenti le
ipotesi categoriali sopra richiamate, ovvero atipiche), e
trattandosi di giurisdizione su diritti (senza pertanto che
sia necessaria una riedizione del potere), va altresì
riconosciuto il diritto dell’odierno ricorrente alla
integrale ostensione dei provvedimenti oggetto dell’istanza,
con condanna dell’amministrazione alla esibizione degli
stessi, ai sensi dell’art. 116, comma 4, cod. proc. amm.. |
URBANISTICA: Perdita
economica non giustificata dalla convenzione
urbanistica e azione di arricchimento senza
causa.
Quando i
lottizzanti ritengano di aver subito una
perdita economica non giustificata dalla
convenzione urbanistica, e di avere in
questo modo arricchito l’amministrazione
oltre i limiti previsti originariamente,
appare corretta la proposizione di un
ricorso qualificato come azione di
arricchimento ex art. 2041 c.c., in quanto
la finalità perseguita dalla parte
ricorrente è precisamente quella di
cancellare gli squilibri economici
verificatisi nel corso del rapporto, previo
accertamento della reale volontà dei
contraenti.
Tuttavia,
non costituisce arricchimento indebito
qualsiasi scostamento rispetto alle
previsioni economiche contenute nella
convenzione urbanistica; vi sono due
parametri da utilizzare in questo tipo di
valutazioni: da un lato, occorre esaminare
la volontà dei contraenti, per stabilire se
la quantificazione dei costi costituisca un
elemento essenziale ai fini del consenso,
dall’altro, si deve esaminare la natura dei
costi aggiuntivi, per stabilire il grado di
connessione degli stessi con l’oggetto della
convenzione urbanistica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.10.2018 n. 999 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della
decisione si possono svolgere le seguenti
considerazioni.
Sulla giurisdizione
10. Si ritiene che la controversia,
sostanzialmente focalizzata sul contenuto
delle convenzioni urbanistiche sopra
descritte, rientri nella fattispecie di
giurisdizione amministrativa esclusiva ex
art. 133, comma 1-a.2 cpa (formazione,
conclusione ed esecuzione degli accordi
integrativi o sostitutivi di provvedimento).
11. La convenzione urbanistica sostituisce
l’attività provvedimentale
dell’amministrazione, e ne indirizza gli
svolgimenti successivi. Il quadro dei
rapporti tra l’amministrazione e i
lottizzanti codificato nella convenzione
urbanistica conserva rilievo pubblicistico
anche nella fase esecutiva, in quanto il
raggiungimento degli obiettivi di interesse
pubblico deve procedere parallelamente alla
consumazione dei diritti edificatori
privati.
12. In effetti, i rapporti tra le parti
nella fase esecutiva, anche quando
riguardino la regolazione di pendenze
economiche, devono essere osservati in
relazione all’obiettivo della completa
realizzazione delle opere di interesse
pubblico.
Di conseguenza, ogni controversia
che abbia come oggetto la misura delle
reciproche obbligazioni in vista o in
conseguenza della realizzazione di tali
opere impone un accertamento sul contenuto
complessivo della convenzione urbanistica.
Per questa via, il giudice naturale non può
che essere quello amministrativo.
Sull’azione di arricchimento
13. Quando i lottizzanti ritengano di aver
subito una perdita economica non
giustificata dalla convenzione urbanistica,
e di avere in questo modo arricchito
l’amministrazione oltre i limiti previsti
originariamente, appare corretta la
proposizione di un ricorso qualificato come
azione di arricchimento ex art. 2041 c.c.,
in quanto la finalità perseguita dalla parte
ricorrente è precisamente quella di
cancellare gli squilibri economici
verificatisi nel corso del rapporto, previo
accertamento della reale volontà dei
contraenti.
14. Non appare condivisibile l’eccezione
fondata sull’art. 2042 c.c., che stabilisce
il requisito della sussidiarietà
dell’azione. Non vi è infatti alcun obbligo
per i lottizzanti di impugnare
immediatamente i singoli provvedimenti con
cui l’amministrazione fissa le
caratteristiche delle opere pubbliche
oggetto di accordo, facendone lievitare i
costi. Un ricorso proposto per il timore
dello sforamento dei preventivi non sarebbe
ammissibile, in quanto non sorretto da un
interesse attuale, e d’altra parte, una
volta realizzati i lavori e verificate le
maggiori spese, sono verosimilmente decorsi
i termini di impugnazione.
In mancanza di
una clausola di revisione dei prezzi,
l’unica opzione praticabile rimane dunque
l’azione di arricchimento. A maggior
ragione, questa è l’unica possibilità di
ristoro per il caso in cui non vi siano
provvedimenti da impugnare, quando l’aumento
dei costi si sia verificato ugualmente a
causa di ritardi imputabili
all’amministrazione.
Sulle maggiori spese
15. Nel merito, si ritiene che non
costituisca arricchimento indebito qualsiasi
scostamento rispetto alle previsioni
economiche contenute nella convenzione
urbanistica. Vi sono due parametri da
utilizzare in questo tipo di valutazioni. Da
un lato, occorre esaminare la volontà dei
contraenti, per stabilire se la
quantificazione dei costi costituisca un
elemento essenziale ai fini del consenso.
Dall’altro, si deve esaminare la natura dei
costi aggiuntivi, per stabilire il grado di
connessione degli stessi con l’oggetto della
convenzione urbanistica.
16. Per quanto riguarda le indicazioni
contenute nelle convenzioni urbanistiche
sopra richiamate, appare evidente che
l’intenzione dei contraenti non era di
fissare un livello di spesa invalicabile, ma
solo di stabilirne l’ordine di grandezza. Il
meccanismo di quantificazione scelto per le
opere esterne al comparto (rotatoria e
collegamento stradale) è analogo a quello
delle opere di urbanizzazione primaria, che
rimangono a carico dei lottizzanti anche se
di importo superiore alle tabelle dei
relativi oneri.
Per le opere esterne, che
sono nella sostanza opere di urbanizzazione
primaria, la quantificazione dei costi era
collegata alle garanzie chieste dal Comune,
e aveva il valore di una stima di massima.
Era quindi chiaro fin dall’inizio che i
lottizzanti erano vincolati all’obiettivo di
interesse pubblico anche se le spese fossero
state superiori alla quantificazione
riportata nelle convenzioni urbanistiche.
17. Non essendovi un limite di spesa rigido,
l’amministrazione era legittimata a dare
indicazioni comportanti opere diverse e
aggiuntive rispetto a quelle descritte nel
computo metrico. Si tratta peraltro di una
facoltà che doveva essere esercitata nei
limiti della buona fede contrattuale, e
quindi entro un ragionevole margine di
oscillazione rispetto alle spese
preventivate.
Nello specifico, la perizia
della ricorrente individua il costo delle
nuove opere, stimato alla data della prima
convenzione urbanistica, in € 72.929,98
(+14,12%). Si tratta di un incremento che
non stravolge l’ordine di grandezza
dell’impegno finanziario, e non è tale da
rendere antieconomica la lottizzazione. La
rivalutazione (€ 278.323,92) non può essere
presa in considerazione, perché è assorbita
dal normale rischio di impresa connesso ai
tempi lunghi di esecuzione delle convenzioni
urbanistiche.
È evidente che, se realizzate
a distanza di tempo, le opere di interesse
pubblico possono comportare spese maggiori,
ma questo non consente di ottenere dei
rimborsi, quando non vi sia un meccanismo di
adeguamento dei costi disciplinato nella
stessa convenzione urbanistica.
18. Non vi è la prova che il ritardo nella
realizzazione sia da imputare agli uffici
comunali. Non può essere considerata causa
di ritardo indennizzabile la prescrizione da
parte del Comune di opere integrative, o di
caratteristiche diverse per le opere già
previste, trattandosi di una facoltà
legittima che può essere esercitata
dall’amministrazione in qualsiasi momento,
nel rispetto, come si è visto sopra, di un
margine ragionevole di incremento delle
spese.
19. Per quanto riguarda la natura dei costi
aggiuntivi, tutte le nuove opere, o le nuove
caratteristiche, hanno stretta attinenza con
l’oggetto delle convenzioni urbanistiche.
Inoltre, si tratta di innovazioni
finalizzate a rendere le opere pubbliche
fruibili in condizioni di piena efficienza e
sicurezza.
Come evidenziato dalla difesa del
Comune, con riguardo alle opere fognarie era
doveroso adeguarsi alle prescrizioni del
gestore del servizio idrico, mentre con
riguardo alla pista ciclabile e all’impianto
di irrigazione della rotatoria era opportuno
che vi fosse uniformità con le altre opere
dello stesso tipo presenti sul territorio
comunale. La sistemazione del terreno ai
lati della strada e l’aggiornamento degli
elaborati grafici sono mere prestazioni
accessorie. Nel complesso, quanto chiesto
dal Comune appare giustificato, e nei limiti
della ragionevolezza. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Alla
Corte Ue la questione pregiudiziale sul divieto di incarichi di studio ai
pensionati.
Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale se il
principio di non discriminazione di cui agli articoli 1 e 2 della Direttiva
del Consiglio dell’Unione Europea 78/2000, osta alla disposizione di cui
all’articolo 5, comma 9, del Dl n. 95/2012, che prevede il divieto per le
pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza
a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”.
È
quanto afferma il TAR Sardegna, Sez. I, con l'ordinanza
19.10.2018 n. 881.
L’approfondimento
Nell’ambito di un giudizio avverso un bando di gara applicativo della
disciplina nazionale, il Tar Cagliari ha rimesso alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea la questione pregiudiziale sulla compatibilità con il
diritto dell’Unione Europea della norma che prevede il divieto per le
Amministrazioni pubbliche di attribuire incarichi di studio e di consulenza
a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza
La decisione
Nel rimettere la questione pregiudiziale, il Collegio ha avuto modo di
rilevare la rilevanza della questione pregiudiziale perché l’eventuale
accoglimento dell’impugnativa avverso la contestata clausola immediatamente
escludente del bando, che impedisce la partecipazione alla selezione,
costituisce diretta applicazione della normativa nazionale, consentirebbe di
definire la controversia e il conseguente annullamento della clausola
stessa.
Nello specifico, il dubbio ermeneutico che giustificherebbe la rimessione
alla Corte di Giustizia si fonda sul riscontrato contrasto della richiamata
normativa nazionale con gli articoli 1 e 2, Direttiva del Consiglio
dell’Unione Europea 78/2000, che invece persegue l’obiettivo di combattere
ogni forma di discriminazione sia diretta che indiretta (tra cui quella
basata sull’età.
A giudizio del Collegio, inoltre, l’esclusione di una categoria di persone
dalla possibilità di assumere incarichi nell’amministrazione per ragioni
essenzialmente correlate all’età non troverebbe adeguata giustificazione
causale negli obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di
formazione professionale, né tantomeno per assicurare il fisiologico
ricambio di personale.
Infatti, apparirebbe alquanto improbabile che un incarico, specialmente se
delicato e complesso che possa essere ben espletato da chi ha per lungo
tempo operato nello stesso settore, possa essere conferito ad un soggetto
esterno privo della necessaria esperienza e, pertanto, la misura appare in
prima lettura inappropriata rispetto alla scopo e inidonea a giustificare
l’evidente discriminazione.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva la rimessione alla Corte di
Giustizia con la formulazione del seguente quesito: “Se il principio di non
discriminazione di cui agli artt. 1 e 2 della direttiva del Consiglio
dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, osta alla disposizione di cui
all’articolo 5, comma 9, Dl 95/2012, che prevede il divieto per le pubbliche
amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti
già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018). |
APPALTI: Natura
perentoria del termine per l’espletamento
del soccorso istruttorio.
Il termine fissato per
l’espletamento del soccorso istruttorio è
perentorio, e ciò non tanto perché così
(nella fattispecie) lo aveva autoqualificato
la stazione appaltante nella missiva di
richiesta dei documenti, quanto piuttosto
perché solo ritenendolo perentorio si attua
un ragionevole bilanciamento fra l’interesse
a evitare esclusioni dovute a mere carenze
documentali e dunque a garantire la massima
partecipazione al confronto concorrenziale e
l’interesse a una celere conclusione della
procedura di gara.
Ne consegue che il mancato rispetto di un
termine perentorio non può avere altra
conseguenza che l’esclusione dalla gara,
senza che assuma rilevanza né il possesso
dei requisiti di cui si era chiesta la
dimostrazione in sede di soccorso
istruttorio, né che i documenti formati a
tale fine siano stati formati in data
antecedente alla scadenza del suddetto
termine
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 17.10.2018 n. 2323 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
La società Mi.Te. S.a.s. agisce
ex articolo 120, comma 2-bis, Cod. proc.
amm., contro la propria esclusione dalla
gara bandita dall’Azienda Lombarda Edilizia
Residenziale di Milano – ALER per
l’affidamento del servizio di pulizia e
affini in stabili di sua proprietà ovvero da
esso gestiti o ancora di proprietà di Comuni
terzi.
L’esclusione è stata disposta per non avere
la ricorrente tempestivamente inviato alla
stazione appaltante la documentazione
richiesta in sede di soccorso istruttorio.
Risulta, invero, per tabulas, che in data
13.07.2018 ALER ha chiesto a Mi.Te. S.a.s. la trasmissione entro il
termine perentorio del 23.07.2018, tramite
posta elettronica certificata all’indirizzo
appalti@pec.aler.mi.it, di documentazione
ivi specificatamente individuata relativa
alla terna di subappaltatori necessari
indicati in sede di offerta dalla
concorrente.
Risulta, altresì, che la ricorrente in data
20.07.2018 ha inviato detta documentazione
agli indirizzi posta-certificata@pec.aruba.it
e mi...@gmail.com; e che
solamente in data 31.07.2018 la ha inviata,
tra gli altri, all’indirizzo appalti@pec.aler.mi.it.
Come già osservato dalla Sezione in sede
cautelare, sia pure in quel caso all’esito
di una delibazione necessariamente sommaria,
l’esclusione si rivela legittima e il
ricorso infondato.
Non è, invero, in contestazione che il
termine fissato per l’espletamento del
soccorso istruttorio non sia stato
rispettato. Il punto è che quel termine è
perentorio, e ciò non tanto perché così lo
ha autoqualificato la stazione appaltante
nella missiva di richiesta dei documenti de quibus, quanto piuttosto perché, solo
ritenendolo perentorio, si attua un
ragionevole bilanciamento fra l’interesse a
evitare esclusioni dovute a mere carenze
documentali e dunque a garantire la massima
partecipazione al confronto concorrenziale,
e l’interesse a una celere conclusione della
procedura di gara (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez.
I-ter, sentenza n. 3572/2018).
Ne consegue che il mancato rispetto di un
termine perentorio non può avere altra
conseguenza che l’esclusione dalla gara,
senza che assuma rilevanza né il possesso
dei requisiti di cui si era chiesta la
dimostrazione in sede di soccorso
istruttorio, né che i documenti formati a
tale fine siano stati formati in data
antecedente alla scadenza del suddetto
termine.
Il possesso dei requisiti di partecipazione,
adeguatamente documentato, deve, infatti,
essere tempestivamente portato a conoscenza
della stazione appaltante, altrimenti non
consente la partecipazione alla gara, non
diversamente da quanto accade in caso di non
possesso dei requisiti medesimi.
Né può invocarsi, al fine di scongiurare la
sanzione espulsiva, il principio del
raggiungimento dello scopo, in quanto,
comunque, nessuno degli indirizzi cui erano
stati inizialmente (e tempestivamente)
inviati i documenti è riconducibile ad ALER.
Sicché non può nemmeno sostenersi che la
stazione appaltante li abbia in qualche modo
conosciuti.
Tanto meno può invocarsi l’errore scusabile,
in quanto l’adempimento richiesto (i.e.
l’invio di documentazione a un indirizzo
pec) non appare adempimento particolarmente
complicato, come dimostra la trasmissione
tardiva della documentazione, una volta che
la concorrente si è avveduta dell’errore.
D’altro canto, rientra nell’ordinaria
diligenza che può essere pretesa, il
controllare che l’indirizzo di posta
elettronica cui si è inoltrata la pec sia
quello corretto.
Infine, contrariamente a quanto sostenuto da
ultimo dalla ricorrente, non è vero che la
documentazione richiesta non fosse
necessaria, trattandosi di documentazione
concernente il subappalto necessario in
quanto qualificatorio, e che quindi rileva
ai fini dell’ammissione alla gara della
stessa concorrente che se ne avvale.
Per queste ragioni il ricorso è infondato e
viene rigettato. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
DANNO AMBIENTALE - Associazioni ambientaliste - Costituzione
parte civile iure proprio nel processo per reati ambientali
- LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Enti esponenziali del diritto
alla tutela ambientale.
In ordine alla legittimazione della
costituita parte civile, le associazioni ambientaliste sono
legittimate a costituirsi parti civili iure proprio nel
processo per reati ambientali, sia come titolari di un
diritto della personalità connesso al perseguimento delle
finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto
alla tutela ambientale, anche per i reati commessi in
occasione o con la finalità di violare normative dirette
alla tutela dell'ambiente e del territorio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.10.2018 n. 46699 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di deposito controllato o temporaneo -
Natura eccezionale e derogatoria - Mancanza dei requisiti -
Deposito preliminare - Messa in riserva - Deposito
incontrollato o abbandono - Discarica abusiva - Disciplina
applicabile - Onere della prova - Art. 183 e 256 d.lgs. n.
152/2006.
Per deposito controllato o temporaneo,
si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima
della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, quando
siano presenti precise condizioni relative alla quantità e
qualità dei rifiuti, al tempo di giacenza,
all'organizzazione tipologica del materiale e al rispetto
delle norme tecniche elencate nel d.lgs. n. 152/2006.
Tale deposito è libero, non disciplinato dalla normativa sui
rifiuti (ad eccezione degli adempimenti in tema di registri
di carico e scarico e del divieto di miscelazione), anche se
soggetto ai principi di precauzione e di azione preventiva
che, in base alle direttive comunitarie, devono presiedere
alla gestione dei rifiuti, per cui, in difetto di anche uno
solo di tali requisiti, il deposito non può ritenersi
temporaneo, ma va considerato:
- deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti è prodromico
a un'operazione di smaltimento che, in assenza di
autorizzazione o comunicazione, è sanzionata penalmente
dall'art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006;
- messa in riserva, se il materiale è in attesa di una operazione
di recupero che, essendo una forma di gestione, richiede il
titolo autorizzativo, la cui carenza integra gli estremi del
reato previsto dall'art. 256, comma 1, del d.lgs. 152/2006;
- deposito incontrollato o abbandono, quando i rifiuti non sono
destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Tale
condotta è sanzionata come illecito amministrativo, se posta
in essere da un privato e come reato contravvenzionale, se
tenuta da un responsabile di enti o titolare di impresa;
- discarica abusiva, quando invece l'abbandono dei rifiuti è
reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e
quantitativi.
È stato poi precisato
(Sez. 3, n. 23497 del 17/04/2014) che
l'onere della prova in ordine alla sussistenza delle
condizioni fissate dall'art. 183 del d.lgs. n. 152/2006 per
la liceità del cd. deposito controllato o temporaneo, grava
sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura
eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto
alla disciplina ordinaria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.10.2018 n. 46699 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Luoghi
di culto e assenza di zonizzazione.
Il fatto che un comune
non si sia ancora dotato del piano per le
attrezzature religiose, o non abbia preso in
considerazione le richieste formulate dagli
enti esponenziali di comunità religiose
presenti sul territorio, non autorizza i
privati a procedere autonomamente
all’individuazione di immobili adatti e alla
trasformazione degli stessi in luoghi di
culto.
L’ostacolo costituito dalla zonizzazione non
aggiornata è superabile solo contestando in
via giudiziaria l’atteggiamento omissivo o
dilatorio dell’amministrazione,
eventualmente chiedendo la fissazione di un
termine per l’esame dei progetti di modifica
degli strumenti urbanistici
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 15.10.2018 n. 977 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
SENTENZA
1. I ricorrenti sono proprietari di un
immobile situato nel Comune di Viadana, in
vicolo ....
2. Il suddetto immobile, costituito da tre
locali più servizi igienici, è classificato
dal PGT in “Zona di valore storico,
artistico e insediativo compromesso”. Le
destinazioni d’uso ammesse sono le seguenti:
residenziale, uffici, attività commerciali
di vicinato.
3. In data 15.07.2012 uno dei ricorrenti
ha concesso in locazione l’immobile
all’associazione As. per 6 anni, con
rinnovo automatico per uguale periodo. Il
contratto (v. art. 3, 7 e 9) prevedeva
un’utilizzazione dei locali esclusivamente
commerciale.
4. L’associazione As. è stata iscritta
nel registro provinciale delle associazioni
di promozione sociale con decreto della
Provincia di Mantova di data 10.10.2012. Tra le finalità indicate nello statuto
di tale associazione rientra quella di
promuovere la conoscenza della cultura,
della storia e delle tradizioni islamiche
(v. art. 3-a). L’impostazione religiosa
dell’attività dell’associazione è
ulteriormente esplicitata nel regolamento
interno, datato 11 giugno 2012 (v. art. 2,
3, 7).
5. Nel corso di un sopralluogo condotto da
funzionari comunali il 21.01.2016 è
stato accertato che l’utilizzo degli spazi
dell’immobile non corrispondeva alle
destinazioni d’uso ammesse ma alle finalità
di carattere religioso dell’associazione As.. Di conseguenza, il responsabile del
SUAP/SUE, con ordinanza n. 36 di data 07.03.2016, ha ingiunto ai ricorrenti, in
qualità di proprietari, il ripristino dello
stato dei luoghi, ossia il ritorno
all’originaria destinazione d’uso
commerciale. Per l’ipotesi di mancata
ottemperanza nel termine di 90 giorni era
prevista l’applicazione della procedura sanzionatoria ex art. 31 del DPR
06.06.2001 n. 380.
...
13. Fatte queste precisazioni, sulle
questioni rilevanti ai fini della decisione
si possono svolgere le seguenti
considerazioni.
Sulla realizzazione di un luogo di culto
14. I plurimi sopralluoghi della Polizia
Locale hanno accertato la trasformazione
dell’immobile dei ricorrenti in luogo di
culto. Gli elementi raccolti (sistemazione
degli spazi, affluenza delle persone,
finalità dell’associazione) sono univoci in
questo senso.
15. La realizzazione di luoghi di culto è
disciplinata dalla LR 12/2005 in modo molto
rigoroso. In particolare, è sempre
assoggettata a permesso di costruire, anche
quando consista in un semplice mutamento
della destinazione d’uso senza opere (v.
art. 52, comma 3-bis), ed è inoltre
subordinata a una specifica previsione nel
piano per le attrezzature religiose (v. art.
72, commi 2 e 5) e alla stipula di una
convenzione urbanistica (v. art. 70, comma
2-ter).
Su questa materia, proprio con
riferimento alla Regione Lombardia, si è già
pronunciata la Corte Costituzionale (v.
sentenza n. 63 del 24.03.2016).
In
sintesi, la Corte ritiene che rientri nelle
competenze legislative regionali l’adozione
di specifiche disposizioni per la
programmazione e la realizzazione di luoghi
di culto, quando la regolamentazione
riguardi interessi di natura urbanistica.
Sono considerate illegittime solo le norme
regionali che possono interferire
direttamente con la libertà religiosa o con
la cura dell’ordine pubblico.
16. La qualifica di associazione di
promozione sociale non è quindi idonea a
consentire l’insediamento di un luogo di
culto nella sede associativa, se l’area
prescelta non è specificamente destinata a
tale funzione dalla pianificazione
urbanistica comunale. Al riguardo, non si
pone alcun problema di legittimità
costituzionale della disciplina regionale
(neppure in via mediata per contrasto con la
Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione
Europea).
Per i profili che rilevano nel
presente giudizio, infatti, le norme
regionali sopra richiamate si collocano
all’interno dell’ambito di competenza della
Regione, in quanto perseguono la finalità di
predisporre degli strumenti che assicurino
lo sviluppo equilibrato e armonico dei
centri abitati. Di conseguenza, tali norme
possono legittimamente limitare la
previsione statale di favore sulla
compatibilità delle sedi delle associazioni
di promozione sociale con qualsiasi
zonizzazione.
17. Il fatto che un comune non si sia ancora
dotato del piano per le attrezzature
religiose, o non abbia preso in
considerazione le richieste formulate dagli
enti esponenziali di comunità religiose
presenti sul territorio, non autorizza i
privati a procedere autonomamente
all’individuazione di immobili adatti e alla
trasformazione degli stessi in luoghi di
culto.
L’ostacolo costituito dalla
zonizzazione non aggiornata è superabile
solo contestando in via giudiziaria
l’atteggiamento omissivo o dilatorio
dell’amministrazione (v. sentenze del TAR
Brescia n. 1176 del 28.12.2013, e n.
3522 del 14.09.2010), eventualmente
chiedendo la fissazione di un termine per
l’esame dei progetti di modifica degli
strumenti urbanistici.
18. Poiché per la realizzazione di un luogo
di culto è sempre necessario il permesso di
costruire (sulla possibilità per la Regione
di esigere questo titolo edilizio anche in
mancanza di nuove costruzioni v. l’art. 10,
commi 2 e 3, del DPR 380/2001), ogni
intervento abusivo ricade nella previsione
dell’art. 31 del medesimo DPR 380/2001, e
dunque espone i proprietari dell’immobile
alla perdita della proprietà in caso di
mancato ripristino dello stato dei luoghi.
Sulla posizione dei proprietari locatori
19. I proprietari locatori possono evitare
le conseguenze ablative dell’abuso edilizio
posto in essere dai locatari solo qualora
dimostrino (a) che il bene era stato locato
per uno scopo conforme alla disciplina
urbanistica, e (b) che la realizzazione
dell’intervento abusivo costituisce una
deviazione imprevedibile rispetto alla
normale utilizzazione del bene.
20. Nello specifico, il primo requisito
(conformità urbanistica) appare sussistente,
in quanto il contratto di locazione
espressamente limitava l’utilizzo del bene a
scopi commerciali, e dunque rispettava le
opzioni consentite dal PGT (residenziale,
uffici, attività commerciali di vicinato).
Se il riferimento all’uso commerciale si
dovesse intendere non in senso letterale ma
come rinvio a una categoria residuale
comprendente tutti gli utilizzi diversi da
quello residenziale (tesi sostenuta
dall’associazione As. in una nota
inviata ai ricorrenti e al Comune in data 12.07.2016), il contratto diventerebbe
ambiguo, in quanto potrebbe riferirsi anche
a destinazioni d’uso non conformi. Questa
ambiguità si risolverebbe a sfavore dei
ricorrenti, responsabili per aver posto in
essere uno strumento negoziale idoneo a
creare le condizioni dell’abuso edilizio.
21. Anche ammettendo che i ricorrenti
intendessero l’uso commerciale in senso
letterale, manca però il secondo requisito
(legittimo affidamento circa l’utilizzo
probabile del bene da parte del locatario).
22. I proprietari locatori non possono
trincerarsi dietro i divieti formali
inseriti nel contratto di locazione, qualora
si possa ritenere che i locatari non saranno
verosimilmente disposti a fare un uso
dell’immobile entro i limiti stabiliti dalla
disciplina urbanistica. Le clausole
contrattuali hanno valore esimente quando
vietino attività rispetto alle quali i
locatari abbiano un’alternativa praticabile.
Se i locatari, pur avendo interesse a
utilizzare il bene secondo quanto convenuto
contrattualmente, decidono di passare a un
uso diverso, vietato contrattualmente e non
conforme alla disciplina urbanistica, i
proprietari locatori non rispondono come
coautori dell’innovazione abusiva, avendo
confidato senza colpa nella corretta
esecuzione di quanto pattuito.
Di
conseguenza, non sono neppure esposti alla
perdita della proprietà ex art. 31, commi 3 e
4, del DPR 380/2001, purché si attivino
tempestivamente per ottenere la risoluzione
del contratto di locazione, e, una volta
rientrati nel possesso del bene, provvedano
immediatamente al ripristino dello stato dei
luoghi.
23. L’immobile in esame è stato però
concesso in locazione a un’associazione che
per statuto e regolamento interno ha
finalità culturali e religiose, e nessuna
finalità di tipo commerciale. Era quindi
astrattamente prevedile che tra gli esiti
della locazione si potesse collocare anche
la realizzazione di un luogo di culto, non
consentito dalla disciplina urbanistica in
vigore.
È vero che la qualificazione come
luogo di culto è talvolta complessa,
intrecciandosi con la tutela delle
associazioni di promozione sociale, ma i
ricorrenti hanno accettato il rischio che
l’amministrazione rilevasse in concreto la
presenza di un luogo di culto, come in
effetti è avvenuto mediante i sopralluoghi
della Polizia Locale. Il suddetto rischio
comprende l’eventualità che il ripristino
dello stato dei luoghi non possa essere
effettuato nei tempi fissati
dall’amministrazione, e si creino così i
presupposti per la perdita della proprietà.
Conclusioni
24. Il ricorso deve quindi essere respinto.
25. Tuttavia, poiché la certezza del diritto
tra le parti può dirsi raggiunta solo con la
presente sentenza, risulta irrilevante il
superamento del termine di 90 giorni
originariamente previsto per il ripristino
dello stato dei luoghi.
Di conseguenza,
grazie al trasferimento della sede
dell’associazione As. intervenuto in
corso di causa, i ricorrenti evitano la
perdita della proprietà ex art. 31, commi 3 e
4, del DPR 380/2001, a condizione che la
nuova destinazione d’uso impressa
all’immobile sia conforme alla disciplina
urbanistica. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Svolgimento
dell’attività autoritativa e obbligo di
agire con lealtà e correttezza.
La giurisprudenza, sia
civile sia amministrativa, ha in più
occasioni affermato come, anche nello
svolgimento dell’attività autoritativa,
l’amministrazione sia tenuta a rispettare,
non soltanto, le norme di diritto pubblico
(la cui violazione implica, di regola,
l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da provvedimento per lesione
dell’interesse legittimo), ma anche le norme
generali dell’ordinamento civile che
impongono di agire con lealtà e correttezza.
La violazione di queste ultime, quindi, può
far nascere una responsabilità da
comportamento scorretto che incide non
sull’interesse legittimo, ma sul diritto
soggettivo di autodeterminarsi liberamente
nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà
di compiere le proprie scelte negoziali
senza subire ingerenze illegittime frutto
dell’altrui scorrettezza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 2267 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
9) Sempre in via preliminare, si rende
necessario, per la soluzione della
controversia in esame, qualificare il titolo
di responsabilità invocato da parte
ricorrente.
9.1) A tale scopo, il Collegio rammenta che
la giurisprudenza, sia civile che
amministrativa, ha in più occasioni
affermato come, anche nello svolgimento
dell’attività autoritativa,
l’amministrazione sia tenuta a rispettare,
non soltanto, le norme di diritto pubblico
(la cui violazione implica, di regola,
l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da provvedimento per lesione
dell’interesse legittimo), ma, anche le
norme generali dell’ordinamento civile, che
impongono di agire con lealtà e correttezza;
la violazione di queste ultime, quindi, può
far nascere una responsabilità da
comportamento scorretto, che incide non
sull’interesse legittimo ma sul diritto
soggettivo di autodeterminarsi liberamente
nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà
di compiere le proprie scelte negoziali
senza subire ingerenze illegittime frutto
dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le
altre, Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2013, n. 633; id., sez. IV,
06.03.2015, n.
1142; id., Ad. plen., 05.09.2005, n.
6; Cass. civ., Sez. un., 12.05.2008, n.
11656; Cass. civ., sez. I, 12.05.2015,
n. 9636; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014,
n. 15250). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Azione
risarcitoria non accompagnata
dall’impugnazione del provvedimento che ha
causato il danno.
Pur non essendovi preclusioni in rito
in ordine all’ammissibilità dell’azione risarcitoria per lesione dell’interesse
legittimo non accompagnata dall’impugnazione
del provvedimento asseritamente causativo
dei danni, nondimeno, occorre fare
applicazione dell’art. 30, co. 3 c.p.a., a
tenore del quale “Nel determinare il
risarcimento il giudice valuta tutte le
circostanze di fatto e il comportamento
complessivo delle parti e, comunque, esclude
il risarcimento dei danni che si sarebbero
potuti evitare usando l’ordinaria diligenza,
anche attraverso l’esperimento degli
strumenti di tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo
esplicito il disposto dell'art. 1227, comma
2, cod. civ., afferma che l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela
previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona
fede e del principio di solidarietà, ai fini
dell'esclusione o della mitigazione del
danno evitabile con l'ordinaria diligenza.
La tenuta, da parte del danneggiato, di una
condotta, attiva od omissiva, contraria al
principio di buona fede ed al parametro
della diligenza, che consenta la produzione
di danni che altrimenti sarebbero stati
evitati secondo il canone della causalità
civile imperniato sulla probabilità relativa
(secondo il criterio del "più probabilmente
che non") recide, in tutto o in parte, il
nesso casuale che, ai sensi dell'art. 1223
c.c., deve legare la condotta antigiuridica
alle conseguenze dannose risarcibili.
Di qui la rilevanza sostanziale, sul
versante prettamente causale, dell'omessa o
tardiva impugnazione come fatto che preclude
la risarcibilità di danni che sarebbero
stati presumibilmente evitati in caso di
rituale utilizzazione dello strumento di
tutela specifica predisposto
dall'ordinamento a protezione delle
posizioni di interesse legittimo onde
evitare la consolidazione di effetti dannosi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 2267 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Recentemente, anche il Consiglio di Stato,
in Adunanza Plenaria, ha ribadito che: “Le
regole di diritto pubblico hanno ad oggetto
il provvedimento (l’esercizio diretto ed
immediato del potere) e la loro violazione
determina, di regola, l’invalidità del
provvedimento adottato. Al contrario, la
regole di diritto privato hanno ad oggetto
il comportamento (collegato in via indiretta
e mediata all’esercizio del potere)
complessivamente tenuto dalla stazione
appaltante nel corso della gara. La loro
violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non
diversamente da quanto accade nei rapporti
tra privati, anche per la P.A. le regole di
correttezza e buona fede non sono regole di
validità (del provvedimento), ma regole di
responsabilità (per il comportamento
complessivamente tenuto)” (così, sentenza
04/05/2018, n. 5).
9.2) Ebbene, applicando le suesposte
coordinate ermeneutiche al caso di specie, è
agevole ricavare come l’esponente alleghi e
argomenti, in concreto, una responsabilità
dell’intimato Comune da provvedimento
illegittimo, la revoca, che, tuttavia, non
ha impugnato, provocandone così la
inoppugnabilità.
9.3) In siffatte evenienze, reputa il
Collegio che, pur non essendovi preclusioni
in rito in ordine all’ammissibilità
dell’azione risarcitoria per lesione
dell’interesse legittimo non accompagnata
dall’impugnazione del provvedimento
asseritamente causativo dei danni,
nondimeno, occorre fare applicazione
dell’art. 30, co. 3 c.p.a., a tenore del
quale “Nel determinare il risarcimento il
giudice valuta tutte le circostanze di fatto
e il comportamento complessivo delle parti
e, comunque, esclude il risarcimento dei
danni che si sarebbero potuti evitare usando
l’ordinaria diligenza, anche attraverso
l’esperimento degli strumenti di tutela
previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo
esplicito il disposto dell'art. 1227, comma
2, cod. civ., afferma che l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela
previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona
fede e del principio di solidarietà, ai fini
dell'esclusione o della mitigazione del
danno evitabile con l'ordinaria diligenza (cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen., Sent. 23.03.2011, n.
3, per cui “… il codice del processo
amministrativo sancisce la regola secondo
cui la tenuta, da parte del danneggiato, di
una condotta, attiva od omissiva, contraria
al principio di buona fede ed al parametro
della diligenza, che consenta la produzione
di danni che altrimenti sarebbero stati
evitati secondo il canone della causalità
civile imperniato sulla probabilità relativa
(secondo il criterio del "più probabilmente
che non": Cass., sezioni unite, 11.01.1008, n. 577; sez. III, 12.03.2010, n.
6045), recide, in tutto o in parte, il nesso
casuale che, ai sensi dell'art. 1223 c.c.,
deve legare la condotta antigiuridica alle
conseguenze dannose risarcibili. Di qui la
rilevanza sostanziale, sul versante
prettamente causale, dell'omessa o tardiva
impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati
presumibilmente evitati in caso di rituale
utilizzazione dello strumento di tutela
specifica predisposto dall'ordinamento a
protezione delle posizioni di interesse
legittimo onde evitare la consolidazione di
effetti dannosi”). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Vincolo paesaggistico -
Requisiti - Pubblicazione nella G.U. - Operatività del
vincolo - Notifica del decreto ai proprietari - Limiti -
Vincolo imposto sui singoli beni - Art. 44, lett. c), d.P.R.
n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
La pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale del D.M. impositivo di un vincolo paesaggistico
per un'intera zona è condizione sufficiente per
l'operatività del vincolo stesso, essendo necessaria la
notifica del decreto ai proprietari solo rispetto al vincolo
imposto sui singoli beni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2018 n. 46080 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Macroscopica
illegittimità dell'atto - Istruttoria palesemente lacunosa -
Prova del dolo intenzionale - Comportamento non iure
dell'agente Art. 323 cod. pen..
In tema di abuso d'ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui
all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento
dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica
illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non
discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non
iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Nel caso di specie, è stato adeguatamente approfondito dai
giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione
dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le
plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte
di un funzionario che, anche in considerazione della
contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti,
avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio
alle carenze e alle contraddizioni di una istanza
insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non
essendo di per sé dirimente in senso contrario il
conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di
altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo
riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il
provvedimento finale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2018 n. 46080 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Nelle gare ad evidenza
pubblica, la mancata conferma dell’aggiudicazione
provvisoria non dà luogo all'esercizio di alcun potere in
via di autotutela, tale da richiedere il raffronto tra
l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, con
conseguente puntuale obbligo di motivazione in capo
all’amministrazione.
In tale contesto, del resto, non è in alcun modo
prospettabile un affidamento del destinatario
dell'aggiudicazione provvisoria, in quanto tale atto non è
conclusivo del procedimento di evidenza pubblica e non vi è,
dunque, lo svolgimento di alcun procedimento di secondo
grado (che comporterebbe la necessità di una comunicazione
di avvio del procedimento e, soprattutto, l'esternazione
della motivazione inerente il pubblico interesse che
legittima la rimozione dell'atto emanato).
In effetti, sino al momento dell’aggiudicazione definitiva
la stazione appaltante può sempre riesaminare il
procedimento di gara al fine di emendarlo da eventuali
errori commessi o da illegittimità verificatesi, senza che
ciò costituisca manifestazione, in senso tecnico, del potere
di autotutela, il quale, avendo natura di atto di secondo
grado, presuppone esaurita la precedente fase procedimentale
con l’intervenuta adozione del provvedimento conclusivo
della stessa.
---------------
Sono del tutto residuali le ipotesi in cui la Commissione di
gara deve essere riconvocata a seguito dell’emersione di
errori o lacune nel suo operato: in via ordinaria, infatti,
a seguito del completamento dei lavori della Commissione, è
il Rup a dover esercitare i suoi poteri di verifica e
controllo, nell’esercizio della sua tipica funzione di
verifica e supervisione sull’operato della Commissione
medesima.
In tal modo la stazione appaltante esercita un controllo non
solo di legittimità ma anche nel merito dell’operato della
commissione giudicatrice, al fine di verificare la
rispondenza dell’offerta presentata agli obiettivi di
interesse pubblico da conseguire attraverso il contratto
posto a gara.
---------------
Neppure può riconoscersi, in termini più generali, la
sussistenza di una sostanziale contraddittorietà fra quanto
statuito dalla Commissione e quanto in seguito evidenziato
dal Rup, determinatosi –all’esito dei necessari controlli– a
proporre all’organo competente di non approvare, per ragioni
specifiche, l’aggiudicazione proposta e, quindi, di disporre
l’aggiudicazione in favore dell’impresa seconda graduata.
Ciò in ragione dei compiti di verifica e supervisione che
spettano al Rup sull’operato della Commissione e, comunque,
giacché l’esercizio di tali poteri è del tutto fisiologico
nell’ordinaria dinamica degli appalti pubblici e non
comporta alcuno dei profili di contraddittorietà lamentati
dall’appellante.
---------------
L’amministrazione –legittimata in base a motivate ragione
tecniche (evidenziate, come si è detto in precedenza, nella
proposta del Rup) a non procedere all’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria– può discrezionalmente
optare per due diverse soluzioni: o avvalersi, ai fini della
scelta del contraente, della procedura già espletata con
scorrimento della graduatoria precedentemente formata dalla
Commissione (come è avvenuto nel caso su cui si
controverte), o di indire un nuovo esperimento di gara.
Per contro, come già evidenziato in precedenza, non è
ordinariamente tenuta a rimettere gli atti alla Commissione
di gara per una nuova valutazione delle offerte.
---------------
Con il terzo motivo di appello viene in primo luogo eccepito
un presunto difetto di motivazione sia del provvedimento con
cui l’amministrazione aveva disposto l’aggiudicazione
provvisoria della gara in favore della Do.Ro. s.r.l.
–senza peraltro prima formalmente revocare quella già
disposta in favore dell’appellante– sia del successivo atto
di aggiudicazione definitiva.
Dagli stessi, in particolare, non sarebbero desumibili i
“presupposti che fondano la mancata aggiudicazione
definitiva in favore della ricorrente”, non essendo
sufficiente, al riguardo, il mero rinvio ad una relazione
tecnica, che non conterrebbe alcun riferimento all’offerta
tecnica, “né viene indicato, almeno nella forma
esemplificativa, in quale modo e quali sono le scelte
progettuali inficianti”.
Il motivo non è fondato.
Va in primo luogo ribadito il consolidato principio (ex multis, Cons. Stato, III, 11.01.2018, n. 136; V, 23.10.2014, n. 5266; III,
04.09.2013, n. 4433; V, 20.04.2012, n. 2338) secondo cui nelle gare ad evidenza
pubblica, la mancata conferma dell’aggiudicazione
provvisoria non dà luogo all'esercizio di alcun potere in
via di autotutela, tale da richiedere il raffronto tra
l'interesse pubblico e quello privato sacrificato, con
conseguente puntuale obbligo di motivazione in capo
all’amministrazione.
In tale contesto, del resto, non è in alcun modo
prospettabile un affidamento del destinatario
dell'aggiudicazione provvisoria, in quanto tale atto non è
conclusivo del procedimento di evidenza pubblica e non vi è,
dunque, lo svolgimento di alcun procedimento di secondo
grado (che comporterebbe la necessità di una comunicazione
di avvio del procedimento e, soprattutto, l'esternazione
della motivazione inerente il pubblico interesse che
legittima la rimozione dell'atto emanato).
In effetti, sino al momento dell’aggiudicazione definitiva
la stazione appaltante può sempre riesaminare il
procedimento di gara al fine di emendarlo da eventuali
errori commessi o da illegittimità verificatesi, senza che
ciò costituisca manifestazione, in senso tecnico, del potere
di autotutela, il quale, avendo natura di atto di secondo
grado, presuppone esaurita la precedente fase procedimentale
con l’intervenuta adozione del provvedimento conclusivo
della stessa (Cons. Stato, V, 03.07.2017, n. 3248).
Sotto altro profilo (motivo n. 3.2) viene invece dedotta la
violazione degli artt. 11, comma 5, 12, comma 1, ed 84 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture), per essere stato il Rup illegittimamente sostituito successivamente
all’approvazione dell’aggiudicazione –in violazione del
principio di unicità dello stesso in materia di appalti– e
per avere questi proceduto a rivalutare l’offerta tecnica
precedentemente ammessa dalla Commissione di gara
(nonostante fosse stata reputata la migliore fra quelle
proposte).
Il Rup, quindi, non avrebbe contestato all’Ati la mancanza
di un requisito di partecipazione –con conseguente
decadenza dall’aggiudicazione provvisoria ed automatica
aggiudicazione al secondo in graduatoria– ma avrebbe posto
in essere un’operazione valutativa di esclusiva competenza
della Commissione di gara.
Anche questo profilo di doglianza non è fondato.
In primo luogo non trova conferma, alla luce degli atti di
causa, la denunciata “sostituzione” del Rup da parte del
dirigente di settore, ing. Pa.. Invero, risulta che
successivamente alla nota del dirigente 04.02.2013,
proprio l’ing. Di Ba. –nella sua qualità di Rup–
abbia redatto la relazione allegata all’impugnata determina
n. 29 del 17.04.2013, determina nella quale (così come
nella successiva n. 59 del 2013) il suddetto l’ing. Di
Ba. viene correttamente indicato nella sua (attuale)
carica di responsabile unico del procedimento (e l’ing. Pa. in quella di dirigente di settore).
Del resto, già la nota prot. 237 del 13.12.2012,
contenente la proposta di “revoca” dell’aggiudicazione
provvisoria in favore dell’Ati Pa. s.r.l. era stata
sottoscritta dal Rup, il quale puntualmente evidenziava i
profili di contrarietà della soluzione tecnica migliorativa
proposta rispetto ai criteri indicati nella lex specialis di
gara.
Per quanto invece la pretesa esautorazione della Commissione
di gara da parte del Rup, ovvero del dirigente, va ricordato
che, una volta conclusisi i lavori della prima, avente
compiti di natura prettamente tecnica in funzione
“preparatoria”, finalizzati all’individuazione del miglior
contraente, spettava alla stazione appaltante –mediante gli
organi a ciò deputati– approvarne l’operato, ossia
verificarne la correttezza.
Nella specie, la proposta di aggiudicazione in favore dell’Ati
Pa. s.r.l. doveva dunque ritenersi implicitamente non
approvata.
Ciò premesso, ritiene il Collegio di dover fare applicazione
del principio espresso nel precedente di Cons. Stato, V, 30.05.2016, n. 2293, secondo cui sono del tutto residuali
le ipotesi in cui la Commissione di gara deve essere
riconvocata a seguito dell’emersione di errori o lacune nel
suo operato: in via ordinaria, infatti, a seguito del
completamento dei lavori della Commissione, è il Rup a dover
esercitare i suoi poteri di verifica e controllo,
nell’esercizio della sua tipica funzione di verifica e
supervisione sull’operato della Commissione medesima (in tal
senso, ex multis, Cons. Stato, Ad. plen. 29.11.2012,
n. 36).
In tal modo la stazione appaltante esercita un controllo non
solo di legittimità ma anche nel merito dell’operato della
commissione giudicatrice, al fine di verificare la
rispondenza dell’offerta presentata agli obiettivi di
interesse pubblico da conseguire attraverso il contratto
posto a gara.
Non può quindi ritenersi, per inciso, che la determinazione
impugnata si configuri come atto di ritiro rispetto alle
decisioni assunte dalla Commissione.
Neppure può riconoscersi, in termini più generali, la
sussistenza di una sostanziale contraddittorietà fra quanto
statuito dalla Commissione e quanto in seguito evidenziato
dal Rup, determinatosi –all’esito dei necessari controlli–
a proporre all’organo competente di non approvare, per
ragioni specifiche, l’aggiudicazione proposta e, quindi, di
disporre l’aggiudicazione in favore dell’impresa seconda
graduata.
Ciò in ragione dei compiti di verifica e supervisione che
spettano al Rup sull’operato della Commissione e, comunque,
giacché l’esercizio di tali poteri è del tutto fisiologico
nell’ordinaria dinamica degli appalti pubblici e non
comporta alcuno dei profili di contraddittorietà lamentati
dall’appellante (Cons. Stato, V, n. 2293 del 2016, cit.).
Ancora, sub punto 3.3, l’appellante denuncia –come già in
precedenza– la presunta sostituzione del Rup in corso
d’opera da parte del dirigente di settore.
Il motivo non è fondato, non risultando essere intervenuta
la dedotta sostituzione, come in precedenza detto.
Analogamente non è fondato il rilievo di cui al punto 3.4
dell’atto d’appello, nel quale si sostiene che l’art. 84 del
d.lgs. n. 163 del 2006 demanda la totalità delle operazioni
valutative di gara, relative all’aggiudicazione con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alla
Commissione giudicatrice e non già ai funzionari incardinati
nell’organigramma della stazione appaltante.
Sul punto, si richiama quanto già evidenziato da Cons.
Stato, VI, 24.04.2007, n. 1842, a mente del quale
l’amministrazione –legittimata in base a motivate ragione
tecniche (evidenziate, come si è detto in precedenza, nella
proposta del Rup) a non procedere all’approvazione
dell’aggiudicazione provvisoria– può discrezionalmente
optare per due diverse soluzioni: o avvalersi, ai fini della
scelta del contraente, della procedura già espletata con
scorrimento della graduatoria precedentemente formata dalla
Commissione (come è avvenuto nel caso su cui si
controverte), o di indire un nuovo esperimento di gara.
Per contro, come già evidenziato in precedenza, non è
ordinariamente tenuta a rimettere gli atti alla Commissione
di gara per una nuova valutazione delle offerte.
Per le medesime ragioni in precedenza esposte non può
trovare accoglimento il profilo di impugnazione di cui al
punto 3.5, che ulteriormente ribadisce la presunta –ma
insussistente– sostituzione del Rup (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.10.2018 n. 5863 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Il
canone concessorio non si detrae da Cosap e Tosap.
I comuni possono richiedere il pagamento del canone concessorio all'Enel, o
ad altre aziende erogatrici di pubblici servizi, in aggiunta alla Tosap o al
Cosap, per l'uso o l'occupazione delle strade. Peraltro, trattandosi di un
canone aggiuntivo l'importo non va detratto da quanto pagato per il Cosap o
la Tosap, in quanto è giustificato dai maggiori oneri a carico
dell'amministrazione per effetto dell'uso del suolo. Laddove la legge
dispone la detrazione, fa riferimento ad altri ipotetici canoni.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato, V Sez., con la
sentenza 11.10.2018 n. 5862.
Per i giudici di palazzo Spada, il canone concessorio non va «portato in
detrazione da quanto già corrisposto a titolo di Cosap o Tosap dal momento
che la norma che lo prevede lo qualifica espressamente come aggiuntivo a
questi ultimi (in quanto giustificato da maggiori oneri a carico
dell'amministrazione per effetto dell'uso o dell'occupazione del suolo
pubblico)». Secondo i giudici amministrativi, l'Enel fa impropriamente
riferimento «ad altri ipotetici canoni previsti da disposizioni di legge»,
riscossi dal comune e dalla provincia per la stessa occupazione.
Dunque, il canone concessorio e la tassa o il canone di occupazione spazi e
aree pubbliche sono compatibili. E le amministrazioni comunali o provinciali
possono richiedere il canone cosiddetto non ricognitorio unitamente alle
altre entrate. In questi casi non si realizza una doppia imposizione per la
stessa occupazione di suolo pubblico. Inoltre, la somma pagata per il canone
non deve essere detratta dall'importo versato per Tosap o Cosap.
Il Consiglio di Stato, in sede consultiva (parere 120/2017), si era già
espresso su un ricorso straordinario al presidente della repubblica proposto
sempre dall'Enel. Aveva, infatti, ritenuto infondato l'annullamento, per
doppia imposizione, della deliberazione del consiglio comunale con la quale
era stato approvato il regolamento per l'applicazione del canone concessorio
patrimoniale non ricognitorio, che costituisce per l'ente pubblico
proprietario del terreno un'entrata patrimoniale.
Il suddetto canone trova la sua giustificazione nella necessità di trarre un
corrispettivo per l'uso esclusivo e per l'occupazione dello spazio a
soggetti terzi. Mentre la tassa occupazione spazi e aree pubbliche è un
tributo e deve essere corrisposta all'amministrazione se si realizzano
determinati presupposti ritenuti indici di capacità contributiva. Il Cosap,
invece, è un'entrata di carattere patrimoniale, che comuni e province
possono istituire in alternativa alla tassa.
Qualche contrasto sui presupposti di legge per richiedere il pagamento del
canone è emerso all'interno del Consiglio di stato. Con la sentenza
1926/2016 il Cds ha stabilito che non può essere richiesto il canone
concessorio per qualsiasi utilizzo della sede stradale da parte delle
aziende erogatrici di acqua, luce e gas, ma solo per lo spazio soprastante
ad essa e a condizione che limiti il suo tipico uso pubblico. Ciò che conta
è l'uso della sede stradale, che il Codice della strada definisce come la
superficie compresa entro i confini stradali
(articolo ItaliaOggi del 14.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Appalto per la costruzione di un edificio - Gravi vizi
dell'opera - Infiltrazioni di acqua nelle fondazioni
dell'edificio - Artt. 1667 e 1669 c.c..
In tema di appalti, la domanda con la
quale venga chiesta la condanna dell'appaltatore ad
eliminare i vizi dell'opera, può essere riqualificata dal
giudice di merito quale domanda di risarcimento in forma
specifica del danno da responsabilità extracontrattuale ex
art. 1669 c.c. anziché quale richiesta di adempimento
contrattuale ex art. 1667 c.c., allorché a suo fondamento
siano dedotti difetti della costruzione così gravi da
incidere sugli elementi essenziali dell'opera stessa,
influendo sulla sua durata e compromettendone la
conservazione.
Pertanto, il giudice di merito nell'esercizio del potere di
interpretazione e di qualificazione della domanda non è
condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo
egli tenere conto piuttosto del contenuto sostanziale della
pretesa desumibile dalla situazione dedotta in causa e delle
eventuali precisazioni nel corso del giudizio nonché del
provvedimento chiesto in concreto, senza altri limiti che
quello di rispettare il principio della corrispondenza della
pronuncia alla richiesta e di non sostituire d'ufficio una
diversa azione a quella formalmente proposta.
...
Difetti della costruzione - Condanna dell'appaltatore -
Relazione geologica errata - Indagine sulla natura e la
consistenza del suolo edificatorio rientra nei compiti
dell'appaltatore - Esecuzione dell'opera a regola d'arte -
Garanzia da vizi nei confronti dei terzi acquirenti - Alea
d'impresa - Cambio della destinazione d'uso - Ininfluenza -
Giurisprudenza.
In tema di appalti, l'eventuale
inadeguatezza del progetto, per causa geologica o per alto
motivo comunque prevedibile con l'uso della diligenza
professionale richiesta ad un operatore specializzato del
settore, rientra nell'alea d'impresa. Infatti, nell'appalto
per la costruzione di un edificio, l'indagine sulla natura e
la consistenza del suolo edificatorio rientra nei compiti
dell'appaltatore, ove manchi una diversa previsione
contrattuale; in tale situazione, pertanto, i difetti della
costruzione, derivanti da vizi ed inidoneità del suolo,
comportano la responsabilità dello stesso.
Anche laddove il progetto fosse stato redatto dal
committente, l'appaltatore è comunque obbligato a
controllare, nell'ambito del suo dovere di osservare i
criteri generali della tecnica relativi al particolare
lavoro affidatogli e nei limiti delle sue cognizioni, la
bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal
committente e, ove queste siano palesemente errate, può
andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di
avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato
indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le
insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo.
Pertanto, in mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto,
a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua
obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le
imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il
concorso di colpa del progettista o del committente, né
l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni
impartite dal direttore dei lavori
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1463 del 23/01/2008; conformi,
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10048 del 24/04/2018; Cass. Sez.
1, Sentenza n. 2460 del 01/02/2008; Cass. Sez. 2, Sentenza
n. 20853 del 29/09/2009; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11740 del
01/08/2003; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 23594 del 09/10/2017;
conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8016 del 21/05/2012).
Altrettanto irrilevante è il fatto che
gli attori avessero modificato la destinazione d'uso del
piano interrato, non essendo revocabile in dubbio che quest'ultimo
dovesse essere esente da infiltrazioni a prescindere dalla
sua vocazione, abitativa o a locale di servizio. Sotto
questo profilo, la destinazione dell'interrato può al
massimo rappresentare un elemento rilevante ai fini
dell'apprezzamento del danno in concreto, ma non può certo
costituire una causa di esclusione del grave difetto
dell'opera.
...
Difetti di cose immobili - Prescrizione dell'azione ex art.
1669 c.c. - Dies a quo per il computo dei termini.
In tema esecuzioni di lavori su opere
edilizie, il dies a quo per il computo dei termini previsti
dall’art. 1669 c.c. va individuato dal momento in cui
l'attore acquisisce la conoscenza sicura dei difetti e tale
consapevolezza non può ritenersi raggiunta sino a quando non
si sia manifestata la gravità dei difetti medesimi e non si
sia acquisita, in ragione degli effettuati accertamenti
tecnici, la piena comprensione del fenomeno e la chiara
individuazione ed imputazione delle sue cause, non potendosi
onerare il danneggiato della proposizione di azioni
generiche a carattere esplorativo (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 10.10.2018 n. 25057 - link a www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Il condomino può apportare al muro perimetrale,
senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla
comunione, tutte le modificazioni che consentano di trarre
dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto
a quella goduta dagli altri condomini, ivi compreso
l'inserimento nel muro di elementi ad esso estranei e posti
al servizio esclusivo della sua porzione, purché non
impedisca agli altri condomini l'uso del muro comune e non
ne alteri la normale destinazione con interventi di
eccessiva vastità.
Corrispondentemente il singolo condomino ha titolo, anche se
il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio
consenso ad ottenere la concessione edilizia per un'opera a
servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale
comune che si attenga ai limiti suddetti.
---------------
Ad ogni modo, quand’anche si volesse ritenere che i muri
perimetrali fossero in comproprietà, per giurisprudenza
costante da cui non si ritiene doversi discostare “Il
condomino può apportare al muro perimetrale, senza bisogno
del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte
le modificazioni che consentano di trarre dal bene comune
una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta
dagli altri condomini, ivi compreso l'inserimento nel muro
di elementi ad esso estranei e posti al servizio esclusivo
della sua porzione, purché non impedisca agli altri
condomini l'uso del muro comune e non ne alteri la normale
destinazione con interventi di eccessiva vastità.
Corrispondentemente il singolo condomino ha titolo, anche se
il condominio non abbia dato o abbia negato il proprio
consenso ad ottenere la concessione edilizia per un'opera a
servizio della sua abitazione e sita sul muro perimetrale
comune che si attenga ai limiti suddetti” (ex multis:
C. di St. 11/2006; n. 6297/2004) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 10.10.2018 n. 1445 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Sottoprodotti - Terre e rocce da scavo - Certezza
sulla destinazione dell'utilizzo - Materiale stoccato e
deposito incontrollato - Autorizzazioni - Termine maggiore
per la durata dei lavori - Mancata indicazione della
normativa extrapenale - Principio di correlazione tra
sentenza ed accusa - Tutela del diritto di difesa - Artt.
184, 186, 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In materia di rifiuti, per
l'applicazione della disciplina sulle terre e rocce da
scavo, il presupposto della certezza sulla destinazione
all'utilizzo di tutto il materiale stoccato e che, in ogni
caso, anche a voler ritenere in qualche modo valide le
autorizzazioni di cui all'art. 186 D.lgs. n. 152 del 2006,
allora vigente, la durata del deposito si era protratta per
ben oltre l'anno consentito, a nulla rilevando la disciplina
prevista dall'art. 41-bis della legge n. 98 del 2013, che
consentirebbe una deroga all'anno laddove sia previsto un
termine maggiore per la durata dei lavori di sistemazione in
assenza di una certezza sulla destinazione dell'utilizzo.
Inoltre, la mancata indicazione della normativa extrapenale
(quella relativa alla disciplina delle terre e rocce da
scavo) integratrice della norma penale non determina alcuna
violazione del principio di correlazione tra sentenza ed
accusa e, neppure, alcuna lesione del diritto di difesa in
presenza di una indicazione di riferimento nella descrizione
del fatto (deposito incontrollato di rifiuti costituiti da
terre e rocce da scavo (smarino) derivante dai cantieri...
).
Va, poi, ricordato che, poiché il principio di correlazione
tra sentenza ed accusa è posto a tutela del diritto di
difesa, per il suo rispetto occorre verificare che
l'imputato possa avere chiara cognizione, ai fini della sua
difesa, di ciò che gli viene contestato
(Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, Diaji; Sez. 5, n. 38588
del 16/09/2008, Fornaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2018 n. 45272 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del
riposo delle persone - Modalità di acquisizione della prova
dell'inquinamento acustico - Elementi di prova liberamente
raggiunti - Adeguata motivazione - Necessità - Art. 659,
comma 1, cod. pen. - D.M. n. 447/1995 e D.M. 16/03/1998 -
Fattispecie: emissioni rumorose in presenza di Nulla Osta
Acustico e risarcimento dei danni.
In tema delle modalità di acquisizione
della prova dell'inquinamento acustico, ai sensi del D.M. n.
447/95 e del Decreto Ministero della Salute del 16/03/1998,
la contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. è integrata
allorché l'attività posta in essere dall'autore del fatto
sia concretamente idonea ad arrecare disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone, da cui la
conseguenza che la prova del disturbo può essere liberamente
raggiunta, purché il convincimento del giudice sia sorretto
da adeguata motivazione.
Sicché, la responsabilità per il reato di disturbo delle
occupazioni e del riposo delle persone non implica, attesa
la natura di reato di pericolo presunto, la prova
dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente
l'idoneità della condotta a disturbarne un numero
indeterminato (Sez.
1, n. 44905 dell'11/11/2011, Mistretta), di
talché priva di rilievo è l'ulteriore censura secondo cui la
circostanza che il disturbo sia stato arrecato ad un'unica
persona (poi costituita parte civile) esclude il reato.
Ed ancora, la prova dello stesso, poi, ben può essere
argomentata sulla scorta degli elementi di prova in atti non
essendo condizionata dalla osservanza delle norme dettate in
tema di inquinamento acustico.
Nei fatti, l'imputato era stato autorizzato a gestire una
discoteca all'aperto con prescrizione di ridurre al massimo
le emissioni sonore e, che, era stato rilevato il
superamento dei decibel consentiti e che il rumore risultava
particolarmente elevato e caratterizzato da musica, voci,
schiamazzi e cori degli avventori, che i residenti della
zona avevano depositato numerosi esposti lamentando
l'eccessivo rumore prodotto dalla discoteca, situazione
confermata, in particolare, dal teste presso la cui
abitazione erano stati svolti i rilievi fonometrici, e da
tali elementi ha tratto la prova del reato che ha
congruamente argomentato.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività o mestieri rumorosi -
Ambito di operatività dell'art. 659, c. 2° e c. 1°, cod.
pen. - Ottenimento del Nulla Osta Acustico - Limiti -
Illiceità dei rumori - Mero superamento dei limiti di
emissione - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento acustico,
l'ambito di operatività dell'art. 659 cod. pen. con
riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere
individuato nel senso che l'illecito amministrativo ricorre
solo nella residuale ipotesi in cui si verifichi soltanto il
mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i
criteri dettati dalla menzionata Legge quadro
sull'inquinamento acustico, attuato attraverso l'impiego o
l'esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima;
mentre, quando la condotta si sia concretizzata nella
violazione di disposizioni di legge o prescrizioni
dell'autorità che regolano l'esercizio del mestiere o
dell'attività, sarà applicabile la contravvenzione
sanzionata dall'art. 659 c.p., comma 2; ed ancora, nel caso
in cui le attività di cui sopra vengano svolti eccedendo
dalle normali modalità di esercizio, in modo da attuare una
condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà
configurabile la violazione sanzionata dall'art. 659 c.p.,
comma 1°. In tale ambito è inconferente che il ricorrente
avesse ottenuto il Nulla Osta Acustico.
In primo luogo, non copre l'illiceità dei rumori prodotti da
schiamazzi degli avventori tenuto conto che al gestore è
imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con
ricorso allo "ius excludendi" o all'autorità, che la
frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in
condotte contrastanti con le norme poste a tutela
dell'ordine e della tranquillità pubblica e, comunque, non
impedisce che si verifichi il superamento in concreto in un
contesto temporale che integra la condotta di disturbo del
riposo delle persone
(Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo).
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del
riposo delle persone - Art. 659, c. 1°, cod. pen. -
Emissioni rumorose in presenza di Nulla Osta Acustico - Atti
irripetibili - Misurazioni fonometriche - Tipici
accertamenti "a sorpresa" - RISARCIMENTO DANNO -
Risarcimento dei danni in favore della parte civile -
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Art. 431, c. 1°, lett. b), cod.
proc. pen. - Avviso all'indagato - Esclusione - Art. 360
cod. proc. pen..
Integra il reato di cui all'art. 659,
comma 1, cod. pen., (disturbo del riposo e l'occupazione dei
residenti), la gestione di uno spazio esterno adibito a
discoteca con attività di intrattenimento, emettendo
mediante impianto stereo emissioni acustiche al di sopra dei
limiti di legge e schiamazzi degli avventori.
L'accertamento del fatto in giudizio, legittima anche la
condanna, del legale rappresentante della discoteca al
risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Sul punto, rileva, come dato fattuale il verbale di polizia
giudiziaria, relativo all'accertamento in ordine alla
rumorosità, costituisce un accertamento urgente su cose o
situazioni suscettibili per loro natura di subire
modificazioni o di scomparire in tempi brevi e, in quanto
atto irripetibile, ai sensi dell'art. 431, comma primo,
lett. b) cod. proc. pen., non è soggetto ad alcuna
limitazione processuale circa i termini per la sua
acquisizione e costituisce atto contenuto nel fascicolo del
dibattimento e come tale utilizzabile.
I rilievi fonometrici sono tipici accertamenti "a sorpresa"
da inquadrare fra le attività svolte dalla polizia
giudiziaria ai sensi degli artt. 348 e 354, comma 2, cod.
proc. pen. e non tra gli accertamenti tecnici irripetibili
riguardanti cose e luoghi il cui stato é soggetto a
modificazione, per i quali l'art. 360 cod. proc. pen.
richiede, in quanto non ripetibili, il previo avviso
all'indagato. Consegue la perfetta utilizzabilità
dell'accertamento compiuto dalla Polizia Giudiziaria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2018 n. 45262 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Strepiti degli
animali - RISARCIMENTO DANNI - Risarcimento del danno a
terzi - Individuazione del responsabile nella norma civile -
Fattispecie: canile "di fatto" - Stretto collegamento tra
l’art. 659 cod. pen. e l’art. 2052 - Esclusione - Repertori
di giurisprudenza.
In tema di immissioni rumorose prodotti
da animali, uno stretto collegamento tra l'art. 659 cod.
pen. e l'art. 2052 cod. civ. non ha fondamento, perché la
norma penale sanziona, per quel che interessa, chiunque
arrechi disturbo alle occupazioni o riposo delle persone o
agli spettacoli, ritrovi o trattenimenti pubblici, non
impedendo gli strepiti degli animali, mentre la norma civile
colpisce il proprietario dell'animale o chi se ne serve per
il tempo in cui lo ha in uso, quando l'animale arrechi danno
a terzi, sia nel caso della custodia, sia nel caso di
smarrimento o fuga, salvo la prova del caso fortuito.
Sicché, dai repertori di giurisprudenza si ricava che l'art.
2052 cod. civ. è applicato nelle ipotesi di danni materiali
da aggressione dell'animale o da urto di veicolo, mentre
l'art. 659 cod. pen. nelle ipotesi di rumori molesti. Per
questo motivo, la formulazione relativa all'individuazione
del responsabile nella norma civile è più rigorosa rispetto
a quella penale.
Ciò nondimeno, nella dottrina civilistica l'espressione "chi
se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso" ha
un'interpretazione ampia che ricomprende chiunque eserciti
sull'animale un potere effettivo di governo del tipo di
quello che normalmente compete al proprietario, derivi
questo potere da un rapporto giuridico o anche soltanto da
un rapporto di fatto. Nella specie, l'impostazione è in
linea con lo sviluppo della teoria della responsabilità da
contratto nonché degli obblighi di protezione e garanzia, in
cui il ricorrente, pur non essendo formalmente il
proprietario dei cani (se non di pochi), intrattiene con gli
stessi comunque un rapporto di fatto, siccome dimorano nella
sua proprietà e si trovano quindi sotto il suo "governo".
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo alle occupazioni o riposo
delle persone - Elemento psicologico del reato di cui
all'art. 659 cod. pen. - Intenzione dell'agente di arrecare
disturbo alla quiete pubblica - Necessità - Esclusione.
Ai fini dell'elemento psicologico del
reato di cui all'art. 659 cod. pen., non occorre
l'intenzione dell'agente di arrecare disturbo alla quiete
pubblica, essendo sufficiente la volontarietà della condotta
desunta da obiettive circostanze (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2018 n. 45247 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Una tettoia ancorata al suolo e di notevole
dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo
non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione
per la quale è necessario il titolo edilizio.
In ogni caso, anche a volere sostenere la legittimità della
preesistente tettoia, secondo risalente ed altrettanto
condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa,
la chiusura di una tettoia di dimensioni non trascurabili,
nel comportare la piena utilizzabilità di un volume in
ampliamento del fabbricato cui accede, va qualificata come
ristrutturazione edilizia, e quindi assoggettata alla
disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso
di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c),
d.p.r. 380/2001.
E’ quindi del tutto giustificato e corretto che
l’amministrazione abbia fatto ricorso alla disciplina di cui
all’art. 31 d.p.r. 380/2001 per l’esercizio del potere
repressivo e sanzionatorio, di contrasto all’attività
abusiva.
Il menzionato art. 31, al comma 2, dispone infatti che il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o
la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
---------------
Riguardo poi all’assunto circa la remota preesistenza
del manufatto, è sufficiente osservare che lo stesso non è
assistito da una valida prova, il cui onere incombe
sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza,
l’amministrazione comunale non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione,
prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso
che è posto in capo al proprietario o al responsabile
dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato
costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732, con
riferimento specifico all'onere di provare la costruzione
dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd
Legge ponte).
---------------
Dall’ordine demolitorio non può sottrarsi il gazebo, in
quanto, benché aperto sui lati, risulta poggiato su una
piattaforma (platea) in conglomerato cementizio che di per
sé comporta uno sviluppo di superficie utile; alla stessa
disciplina sanzionatoria è soggetta l’ulteriore platea in
conglomerato cementizio la cui funzione è di sostegno ed
appoggio della piscina in plastica.
---------------
2.- Il ricorso è infondato.
2.1.- Infondato è il primo motivo di censura.
Le opere compiute dal ricorrente non possono essere
derubricate ad interventi di lieve entità, avendo comportato
un aumento di superficie pari a 100 mq con realizzazione di
tre vani ed accessori e conseguente incremento anche per il
profilo dei volumi.
La stessa Relazione tecnica di parte fa presente che
sull’area interessata esisteva un’originaria tettoia in
legno, con copertura a doppia falda inclinata.
In disparte la considerazione che, riguardo alla stessa
realizzazione della tettoia, il ricorrente non fornisce
alcun elemento attestante il relativo titolo legittimante,
la struttura è stata per di più chiusa ai lati,
sviluppandosi, in tal modo, un nuovo volume sulla
preesistente superficie, avente altezza interna di circa
2,30 metri lungo i lati longitudinali e 2.70 metri al centro
dei locali (colmo).
Secondo costante e condiviso orientamento della
giurisprudenza amministrativa, una tettoia ancorata al suolo
e di notevole dimensioni –com’è nel caso di specie- è
idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non
transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione per
la quale è necessario il titolo edilizio (cfr. ex multis,
Tar Torino, sez. II, 09.05.2018, n. 550; TAR Napoli,
sez. VII, 03.05.2018, n. 2967).
2.2.- In ogni caso, anche a volere sostenere la legittimità
della preesistente tettoia, secondo risalente ed altrettanto
condiviso orientamento della giurisprudenza amministrativa,
la chiusura di una tettoia di dimensioni non trascurabili,
nel comportare la piena utilizzabilità di un volume in
ampliamento del fabbricato cui accede, va qualificata come
ristrutturazione edilizia, e quindi assoggettata alla
disciplina propria delle opere edilizie soggette a permesso
di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c),
d.p.r. 380/2001 (TAR L'Aquila, sez. I, 07.03.2008, n.
127).
2.3.- E’ quindi del tutto giustificato e corretto che
l’amministrazione abbia fatto ricorso alla disciplina di cui
all’art. 31 d.p.r. 380/2001 per l’esercizio del potere
repressivo e sanzionatorio, di contrasto all’attività
abusiva.
Il menzionato art. 31, al comma 2, dispone infatti che il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o
la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene
acquisita di diritto, ai sensi del comma 3.
2.4.- Riguardo poi all’assunto circa la remota preesistenza
del manufatto, è sufficiente osservare che lo stesso non è
assistito da una valida prova, il cui onere incombe
sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza,
anche di questa Sezione (cfr. sentenza del 27.08.2016 n.
4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione,
prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso
che è posto in capo al proprietario o al responsabile
dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato
costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732, con
riferimento specifico all'onere di provare la costruzione
dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd
Legge ponte).
2.5.- Irrilevante appare poi la considerazione circa la non
abitabilità dei locali per altezza inferiore rispetto ai
minimi regolamentari, stabiliti dal menzionato D.M. 05.07.1975; questo aspetto può rivestire rilievo, eventuale, ai
fini della sanabilità dell’opera in sede di eventuale
richiesta di accertamento di conformità (ai sensi dell’art.
36 d.p.r. 380/2001).
3.- Dall’ordine demolitorio non può sottrarsi il gazebo, in
quanto, benché aperto sui lati, risulta poggiato su una
piattaforma (platea) in conglomerato cementizio che di per
sé comporta uno sviluppo di superficie utile; alla stessa
disciplina sanzionatoria è soggetta l’ulteriore platea in
conglomerato cementizio la cui funzione è di sostegno ed
appoggio della piscina in plastica (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 09.10.2018 n. 5839 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della
natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto; in
quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 L. n.
241/1990, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, conseguenziale ad un procedimento di natura
vincolata tipizzato e disciplinato in maniera puntuale dal
legislatore.
--------------
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il
verbale di accertamento di inottemperanza all'ordine di
demolizione è atto privo di contenuto dispositivo e di
portata lesiva, avendo natura meramente ricognitiva del
decorso del tempo e della mancata spontanea esecuzione del
provvedimento demolitorio.
---------------
4.- Infondata è anche la terza censura.
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento della
natura abusiva delle opere edilizie, come tutti i
provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto; in
quanto tale, non deve essere preceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 L. n.
241/1990, trattandosi di una misura sanzionatoria per
l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni
urbanistiche, conseguenziale ad un procedimento di natura
vincolata tipizzato e disciplinato in maniera puntuale dal
legislatore (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 05.06.2017 n. 2681; id., sez. V, 28.04.2014 n. 2194; TAR
Napoli, sez. III, 19.06.2018, n. 4048).
5.- Inammissibile, infine, si presenta il ricorso per motivi
aggiunti.
Come chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, il
verbale di accertamento di inottemperanza all'ordine di
demolizione è atto privo di contenuto dispositivo e di
portata lesiva, avendo natura meramente ricognitiva del
decorso del tempo e della mancata spontanea esecuzione del
provvedimento demolitorio (ex multis, Tar Napoli, sez. VI,
02.07.2018, n. 4357) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 09.10.2018 n. 5839 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Le verande realizzate sulla balconata di un
appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale
vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo
rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile
al pavimento che comportano la chiusura di una parte del
balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica
del prospetto.
Né può assumere rilievo la natura dei
materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove
realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio,
costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito,
va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni,
concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui
all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata
definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente
le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico,
chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente
apribili».
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o
di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in
senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo
locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad
aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò
solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e
superficie.
---------------
1.‒ L’appello è fondato.
2.‒ Va premesso che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera
c), del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001),
le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di
permesso di costruire se consistenti in interventi che
portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia). In via
residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di
demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma
dell’edificio preesistente).
Ebbene, le verande realizzate sulla balconata di un
appartamento, in quanto determinano una variazione
planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale
vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo
rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile
al pavimento che comportano la chiusura di una parte del
balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica
del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei
materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove
realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio,
costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito,
va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni,
concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui
all’articolo 4, comma 1-sexies del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata
definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente
le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico,
chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente
apribili».
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o
di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in
senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo
locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad
aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò
solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e
superficie (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.10.2018 n. 5801 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In linea di diritto, va ribadito che, il divieto
di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di
tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume.
Al riguardo, mentre ai fini edilizi un nuovo volume può non
essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo
fra le volumetrie assentibili (ad esempio, perché ritenuto
volume tecnico), ai fini paesaggistici invece può assumere
comunque una rilevanza e determinare una possibile
alterazione dello stato dei luoghi.
Questo vale dunque per i volumi non considerati normalmente
rilevanti per l'attività edilizia, perciò anche la
realizzazione di volumi sotterranei, della rampa di accesso
e del correlativo muro di contenimento laterale, come la
posa in opera di rilevanti superfici e delle griglie di
aerazione dei sottostanti locali, possono essere considerate
rilevanti dal punto di vista paesaggistico e come tali
essere in contrasto con le previsioni intese ad impedire
l'alterazione dello stato dei luoghi attraverso la
realizzazione di nuove strutture.
---------------
Per potersi parlare di volume tecnico, occorre trovarsi
dinanzi ad un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale,
anche solo potenziale, in quanto destinata solo a contenere,
senza possibilità di alternative e, comunque, per una
consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questo come possono essere, e sempre in
difetto dell'alternativa, quelli connessi alla condotta
idrica, termica e all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generale aumento di carico territoriale o di impatto visivo.
In altre parole, possono considerarsi volumi tecnici solo
quei volumi che sono realizzati per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione
di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori),
che non possono essere ubicati all'interno di questa e che
sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione
funzionale, anche potenziale.
---------------
2. Peraltro, il gravame è infondato nel merito.
2.1 In linea di fatto appaiono pacifici i seguenti elementi:
la consistenza degli abusi, l’assenza di titolo edilizio e
la relativa collocazione in area sottoposta a vincolo
paesaggistico.
In linea di diritto, va ribadito che, il divieto di
incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela
del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (cfr.
Consiglio di Stato, sez.VI 19.09.2018 n. 5466, sez. IV, 05.08.2013, n. 4079, e 12.02.1997, n. 102).
Al riguardo, mentre ai fini edilizi un nuovo volume può non
essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo
fra le volumetrie assentibili (ad esempio, perché ritenuto
volume tecnico), ai fini paesaggistici invece può assumere
comunque una rilevanza e determinare una possibile
alterazione dello stato dei luoghi. Questo vale dunque per i
volumi non considerati normalmente rilevanti per l'attività
edilizia, perciò anche la realizzazione di volumi
sotterranei, della rampa di accesso e del correlativo muro
di contenimento laterale, come la posa in opera di rilevanti
superfici e delle griglie di aerazione dei sottostanti
locali, possono essere considerate rilevanti dal punto di
vista paesaggistico e come tali essere in contrasto con le
previsioni intese ad impedire l'alterazione dello stato dei
luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture (cfr.
ad es. Consiglio di Stato sez. VI 02.09.2013 n. 4348
).
Ciò non può che valere a maggior ragione nel caso di specie,
a fronte di una pluralità di nuovi volumi i quali, fra
l’altro, appaiono solo affermati quali presunti volumi
tecnici, senza che parte appellante fornisca alcun elemento
specifico diverso dal riferimento alle dimensioni.
Al riguardo va ribadito che, per potersi parlare di volume
tecnico, occorre trovarsi dinanzi ad un'opera priva di
qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, in
quanto destinata solo a contenere, senza possibilità di
alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione
principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima; in sostanza si tratta di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun
modo ubicati all'interno di questo come possono essere, e
sempre in difetto dell'alternativa, quelli connessi alla
condotta idrica, termica e all'ascensore e simili, i quali
si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generale aumento di carico territoriale o di impatto visivo
(cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. V 11.07.2016 n.
3059 e sez. VI 16.06.2016 n. 2658).
In altre parole,
possono considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che
sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della
costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici,
idraulici, termici o di ascensori), che non possono essere
ubicati all'interno di questa e che sono del tutto privi di
propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale.
Nel caso di specie, nessun elemento di prova viene fornito
al riguardo da parte appellante, neppure circa la necessaria
strumentalità, né le esigenze tecnico funzionali della
costruzione principale. Né potrebbe esserlo, trattandosi
all’evidenza di autonomi e nuovi volumi destinati ad un
utilizzo continuo ed autonomo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.10.2018 n. 5779 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio
consolidato quello per cui
l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile
abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la
deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il
suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare
la sanzione demolitoria.
---------------
2.2 Parimenti infondati sono i rilievi concernenti la
risalenza dei manufatti ad un’epoca anteriore al 1942.
Costituisce principio consolidato (cfr. ad es. Consiglio di
Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472) quello per cui
l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile
abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la
deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il
suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione. Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare
la sanzione demolitoria.
Nel caso di specie l’appellante nel corso del giudizio di
primo grado non ha fornito elementi idonei a comprovare la
preesistenza del manufatto, nella sua attuale consistenza (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.10.2018 n. 5779 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione materiale - Natura di reato progressivo
nell'evento - Momento della consumazione e cessazione del
reato - Bene protetto uso e tutela del territorio - Artt.
29, 30, 44, lett. e), d.P.R. 380/2001.
La contravvenzione di lottizzazione
abusiva configuri un reato progressivo nell'evento, che
sussiste anche quando l'attività posta in essere sia
successiva agli atti di frazionamento o ad opere già
eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando
la configurazione del reato, non esauriscono il percorso
criminoso che si protrae con gli interventi successivi che
incidono sull'assetto urbanistico, in quanto l'esecuzione di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria compromette
ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del
territorio riservate alla competenza pubblica.
Pertanto, il reato di lottizzazione abusiva si può integrare
anche quando l'attività posta in essere è successiva agli
atti di frazionamento o ad opere già eseguite perché tali
attività iniziali, pur integrando la figura di reato, non ne
definiscono l'iter criminoso che si perpetuano negli
interventi che incidono sull'assetto urbanistico, tanto sul
presupposto che il reato in questione è, per un verso, un
reato a carattere permanente e progressivo e, per altro
verso, un reato a condotta libera, con la conseguenza che,
in primo luogo, non si riscontra alcuna coincidenza tra il
momento in cui la condotta assume rilevanza penale e il
momento di cessazione del reato, in quanto anche la condotta
successiva alla commissione del reato può dare luogo ad una
situazione antigiuridica di pari efficacia criminosa; in
secondo luogo, il reato di lottizzazione abusiva si realizza
anche mediante atti negoziali diretti al frazionamento della
proprietà, con previsioni pattizie rivelatrici
dell'attentato al potere programmatorio dell'autorità
deputata al governo del territorio, ciò non significava che
l'azione criminosa si esaurisce in questo tipo di condotta,
perché la esecuzione ulteriore di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria compromette le scelte di destinazione
e di uso del territorio riservate alla competenza statale o
comunale (Sez. 3,
n. 6970 del 04/05/1988, Antoniuccio; Sez. 3, n. 5105 del
13/02/2013, dep. 2014; Sez. 3, n. 12772 del 28/02/2012,
Tallarini; Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi; Sez. U,
n. 4708 del 24.04.1992, Fogliani).
...
Lottizzazione abusiva cosiddetta "materiale" -
Condotta lottizzatoria e reato permanente - Uso o
sfruttamento del territorio da parte di terzi contra ius
- Perpetuazione dell'offesa.
Il reato di lottizzazione abusiva è un
reato di durata ed ha natura di reato progressivo
nell'evento. Sicché, nella lottizzazione abusiva cosiddetta
"materiale", non sempre il reato si risolve e si consuma con
la sola realizzazione di opere, in quanto la condotta
lottizzatoria può perdurare ininterrottamente nel tempo,
alla stessa stregua del reato permanente, allorché,
indipendentemente dall'avvenuto completamento delle opere
programmate ed eseguite, o da ulteriori condotte criminose
del lottizzatore o di terzi, essa consenta, come nel caso in
esame, l'uso o lo sfruttamento del territorio da parte di
terzi, correlativamente impedendo o rendendo più
difficoltoso la concreta fruizione del bene da parte della
collettività, privata del verde pubblico e del servirsi dei
parcheggi, secondo la destinazione impressa alla zona dalla
pubblica amministrazione.
In tale caso, la situazione antigiuridica innescata
dall'iniziale condotta lottizzatoria si protrae nel tempo in
considerazione del perdurante attentato al bene giuridico
protetto dall'incriminazione, con la conseguenza che anche
il solo mantenimento della situazione contra ius è, in tal
caso, sufficiente a perpetuare e ad approfondire l'offesa.
...
Reati urbanistici ed edilizi e reato di lottizzazione
abusiva - Può essere commesso da chiunque violi la
disciplina in materia - Condotta illegittima - Commissione
del reato - Pluralità di soggetti, in concorso fra loro
(proprietari, costruttori, geometri, architetti, mediatori
di vendita, notai, esecutori di opere, pubblici ufficiali o
amministratori, committente, titolare del permesso di
costruire, direttore dei lavori, appaltatore dei lavori
ecc).
Il reato di lottizzazione abusiva, al
pari degli omologhi reati urbanistici ed edilizi il cui
modello legale è tipizzato nel testo unico ex d.P.R. n. 380
del 2001, può essere commesso da chiunque violi o concorra a
violare gli obblighi imposti dalla legge o dalle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati, e, quindi, dal proprietario, dal committente, dal
titolare del permesso di costruire e da qualsiasi altro
soggetto che abbia la disponibilità dell'immobile o
dell'area su cui esso insiste, nonché da coloro, come il
direttore e l'assuntore dei lavori, che abbiano esplicato
attività tecnica ed iniziato le opere senza il doveroso
controllo del rispetto degli adempimenti di legge.
Pertanto, la condotta illegittima, pur nella sua unitarietà,
può essere attuata in forme (il reato è a forma libera) e
momenti diversi e da una pluralità di soggetti, in concorso
fra loro (proprietari, costruttori, geometri, architetti,
mediatori di vendita, notai, esecutori di opere, pubblici
ufficiali o amministratori che, come nel caso in esame,
hanno rilasciato titoli abilitativi ecc.) sicché
correttamente si può configurare la figura del reato
progressivo nell'evento lesivo dell'interesse urbanistico
protetto.
Un riscontro normativo a detto orientamento si rinviene ora
nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 30, comma 7, (in precedenza
nella L. 28.02.1985, n. 47, art. 18, comma 7) il quale
prevede che l'ordinanza di sospensione da emettere da parte
del dirigente o da parte del responsabile del competente
ufficio comunale," qualora sia accertata l'effettuazione di
una lottizzazione abusiva, debba essere notificata (proprio
per evitare un successivo approfondimento dell'illecito)
anche agli altri soggetti indicati dell'art. 29, comma 1,
ossia, oltre ai proprietari delle aree, al titolare del
premesso di costruire, se rilasciato, al committente ed al
costruttore, sicché il momento di consumazione del reato si
protrae, di regola, fino all'ultimazione dell'ultimo
edificio programmato.
Sicché, il reato di lottizzazione è inquadrabile nel c.d.
reato progressivo nell'evento (che è cosa ben diversa dal
ritenere che la lottizzazione rientri nello schema del reato
progressivo) in cui possono concorrere, nell'unicità della
fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello
programmatorio mediante l'esecuzione di opere di
urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli
edifici.
...
Illecito lottizzatorio - Natura di reato progressivo
nell'evento e reato a consumazione prolungata o frazionata -
Medesima ratio - Momento della consumazione del reato.
La gravità dell'offesa nel reato di
lottizzazione abusiva, può invero spostare il tempo del
reato ed il diritto vivente, oltre al reato progressivo
nell'evento, tipico dell'illecito lottizzatorio,
evidenziando le categorie del reato a duplice schema (Sez.
2, n. 38812 del 01/10/2008, Barreca) e del reato a
consumazione prolungata o frazionata (Sez.
4, n. 17036 del 15/01/2009, Palermo) che
rispondono alla medesima ratio
(così, Sez. 3. n. 25182 del 13/06/2014, Durante).
Ne consegue che l'illecito lottizzatorio si
realizza (in altri termini, la consumazione ha inizio)
allorquando sia al completo dei requisiti necessari e
sufficienti per l'integrazione della fattispecie
incriminatrice ed il momento consumativo perdura nel tempo
sino a quando l'offesa tipica raggiunge, attraverso un
passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro ad
esso successivo, una sempre maggiore gravità, ed in ciò la
lottizzazione, quale reato progressivo nell'evento,
partecipa alla medesima disciplina del reato permanente,
anche mutuandone ricadute giuridiche, e del quale ha in
comune la struttura unitaria, l'instaurazione di uno stato
antigiuridico ed il suo mantenimento ma ha, in aggiunta, un
progressivo approfondimento dell'illecito attraverso
condotte successive, anche commesse da terzi ma causalmente
collegate al fatto proprio e colpevole dell'imputato,
dirette ad aggravare l'evento del reato, atteso che gli
interventi susseguenti incidono sull'assetto urbanistico,
compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di
uso del territorio riservate alla competenza pubblica.
...
Integrazione del reato di lottizzazione abusiva -
Illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del
territorio - Illegittimità permessi di costruire e gli atti
amministrativi successivi e conseguenti - Poteri del
Consiglio comunale.
Il reato di lottizzazione abusiva è
integrato da qualsiasi attività che oggettivamente comporti
anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o
diversa da quella programmata
(Sez. 3, n. 37383 del 16/07/2013, Desimine).
Quindi, per integrare il reato di
lottizzazione abusiva, diversamente dal mero abuso edilizio,
è dunque necessaria una illegittima trasformazione
urbanistica od edilizia del territorio, di consistenza tale
da incidere in modo rilevante sull'assetto urbanistico della
zona; ne consegue che il giudice deve verificare, nei
singoli casi, se le opere ritenute abusive abbiano una
valenza autonomamente punibile come mero abuso edilizio ai
sensi dell'articolo 44; comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001,
ovvero se esse siano idonee a conferire all'area un diverso
assetto territoriale, con conseguente necessità di
predisporre nuove opere di urbanizzazione o di potenziare
quelle già esistenti, in tal modo sottraendo le relative
scelte di pianificazione urbanistica agli organi competenti
(Sez. 3, n. 44946 del 25/01/2017; Giacobone).
Ne consegue che il reato di lottizzazione
abusiva è un reato di durata ed ha natura di reato
progressivo nell'evento. Nella specie, deve ritenersi
illegittimo un permesso di costruire avente ad oggetto
l'esecuzione di opere diverse da quelle previste su un'area
ricompresa in un piano di insediamento produttivo (PIP), se
rilasciato in assenza di previa modifica del piano medesimo
adottata dal competente consiglio comunale ed approvata
dalla Regione.
Sulla base di tali presupposti normativi e dei principi
interpretativi generali, è stato affermato che solo il
Consiglio comunale può apportare modifiche al piano,
spettando esclusivamente a tale organo di individuare
specificamente le aree interessate dal P.I.P., atteso che
non si tratta di una scelta meramente attuativa di opzioni
generali già effettuate, ma di scelta che implica una vera e
propria volizione che deve perciò coordinarsi con la
pianificazione urbanistica, pur non esaurendosi in essa.
Ne deriva pure che, in assenza di una modificazione di tale
assetto realizzata mediante le necessarie procedure previste
dalla legge, non possono considerarsi validamente emessi i
permessi di costruire e gli atti amministrativi successivi e
conseguenti (Sez.
3, n. 3649 del 03/12/2013, dep. 2014, Attolini).
...
Differenza tra opere precarie e non precarie - Titolo
abilitativo edilizio - Periodo transitorio.
In materia edilizia, le opere
effettivamente precarie sono quelle che in quanto tali non
richiedono alcun titolo abilitativo edilizio, mentre le
opere non precarie richiedono il titolo abilitativo o
interventi di programmazione urbanistica, non essendo
normativamente concepibili autorizzazioni che consentano di
realizzare nuove costruzioni in precario, per la
fondamentale ragione che atti di assenso del genere sono non
soltanto "extra legem" ma soprattutto "contra legem", in
quanto consentono di tollerare, sia pure per un periodo
transitorio (nel caso di specie, si trattava, poi, di un
periodo di ben nove anni) una situazione d'evidente abuso
urbanistico (Sez.
3, n. 15921 del 12/02/2009, Palombi) (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 08.10.2018 n. 44836 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Differenza tra opere precarie e non precarie - Titolo
abilitativo edilizio - Periodo transitorio.
In materia edilizia, le opere
effettivamente precarie sono quelle che in quanto tali non
richiedono alcun titolo abilitativo edilizio, mentre le
opere non precarie richiedono il titolo abilitativo o
interventi di programmazione urbanistica, non essendo
normativamente concepibili autorizzazioni che consentano di
realizzare nuove costruzioni in precario, per la
fondamentale ragione che atti di assenso del genere sono non
soltanto "extra legem" ma soprattutto "contra legem", in
quanto consentono di tollerare, sia pure per un periodo
transitorio (nel caso di specie, si trattava, poi, di un
periodo di ben nove anni) una situazione d'evidente abuso
urbanistico (Sez.
3, n. 15921 del 12/02/2009, Palombi) (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 08.10.2018 n. 44836 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Limitazioni
urbanistiche all’esercizio della libertà di culto al vaglio della Consulta.
Il tema della costruzione di moschee in Italia è molto
dibattuto nella politica nazionale, ma soprattutto a livello locale, dove si
registrano resistenze da parte di molte comunità.
Il dibattito è destinato a essere influenzato dal pronunciamento della
Consulta sulla soluzione normativa offerta dalla Regione Lombardia con la
legge 03.02.2015 n. 2, sulla quale sono state rimesse ben due questioni di
legittimità costituzionale.
La Sez. II Milano del Tar Lombardia, con la
sentenza 08.10.2018 n. 2227, ha interessato il giudice
sull'articolo articolo 75 laddove non detta alcun limite alla
discrezionalità del Comune nel decidere quando determinarsi (comma 5, «I
comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad
adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto
mesi») e in che senso (commi 1 e 2) a fronte di una richiesta di
individuazione di edifici o aree da destinare alla professione del culto (si
veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 15.10.2018).
Il precedente rinvio alla Corte Costituzionale, a mezzo della
sentenza non definitiva 03.08.2018 n. 1939, ha riguardato i commi
1 e 2 dello stesso articolo 75.
Legittimità di limiti urbanistici all'esercizio della
libertà di culto
Il Tar Milano ha posto la questione di legittimità costituzionale rispetto a
una scelta legislativa regionale che condiziona l'esercizio della libertà di
fede (pluralismo religioso), relativo ad aspetti essenziali e primari della
vita della persona, alla discrezionalità dell'ente locale nell'individuare o
meno nello strumento urbanistico luoghi destinati a servizi religiosi.
Ciò significa, più in generale, verificare se attraverso interventi sulle
attrezzature culturali e religiose si possa limitare –con norme tecniche–
l'ingresso della libertà di culto nel tessuto urbano (Tar Lazio, sezione
II-bis, 2501.2017 n. 1323; Consiglio di Stato, sezione V, 03.05.2016 n.
4188; Tar Lombardia, Milano, sezione II, 17.02.2016 n. 344 e ordinanza
12.01.2015 n. 36; Consiglio di Stato, sezione I, parere 29.07.2014 n. 2489;
Tar Lombardia sezione II, 28.12.2009 n. 6226).
La limitazione dell'esercizio della libertà religiosa
Le doglianze evidenziate dal giudice amministrativo riguardano una pluralità
di aspetti procedurali e di contenuto, destinati a comprimere (anche
indirettamente) la libertà di culto. Innanzitutto, il giudice lombardo nota
che la programmazione urbanistica comunale interviene con cadenze periodiche
pluriennali, non fissate a priori (sine die), con la conseguenza che
trovare una sede per esercitare il proprio culto è una questione incerta.
Decorso il termine di diciotto mesi per individuare l'area da destinare alle
attrezzature religiose (impregiudicato l'esito dell'istruttoria positiva o
di rigetto), non vi è un obbligo giuridico di avviare il procedimento di
revisione del piano di governo del territorio (Pgt) necessario per assolvere
l'adempimento. Inoltre non è prevista alcuna disposizione «sanzionatoria»,
quale la sostituzione commissariale per l'adozione del piano de quo.
Tale situazione di oggettiva e perdurante incertezza (oltre il termine
ragionevole, in base all’articolo 3 della Costituzione, nonché dell’articolo
2 della legge n. 241/1990) non appare compatibile con il rango
costituzionale del diritto di libertà religiosa, tenuto conto di quanto già
affermato dalla Consulta (24.03.2016 n. 63) secondo cui «Non è, invece,
consentito al legislatore regionale, all'interno di una legge sul governo
del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la
libertà di religione».
L'incertezza dei termini decisionali
La norma impugnata di fronte al giudice delle leggi, inoltre, «pare
violare altresì l'articolo 97 Costituzione e dell'articolo 117, comma 2,
lettera m)» laddove non stabilisce un termine certo per rispondere ad
un'esigenza riguardante l'esercizio di un diritto fondamentale della
persona.
Tale lacuna procedurale contrasta con il principio di buon andamento che
deve presiedere l'attività della pubblica amministrazione, il principio di
imparzialità dell'azione amministrativa, esprimendo uno sfavore
dell'amministrazione nei confronti del fenomeno religioso (contrasta anche
con gli articoli 2, 3 e 19 della Carta), e, infine, il principio della
certezza del termine di conclusione del procedimento, attinente al livello
minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale, nell'aspetto riguardante la
predeterminazione della durata massima dei procedimenti (in base
all’articolo 29 della legge n. 241/1990).
La violazione del principio di autonomia
L'ulteriore doglianza costituzionale riguarda poi il condizionamento
dell'adozione del «Piano delle attrezzature religiose» alla revisione
complessiva del piano generale del territorio; attività complessa e
dispendiosa, rispetto al termine iniziale, atteso anche che solo nei primi
diciotto mesi dall'entrata in vigore della norma le amministrazioni potevano
predisporre il piano senza mettere mano all'intera disciplina del governo
del territorio.
Scaduto il termine iniziale dei diciotto mesi, l'inserimento del piano
richiede quindi necessariamente la revisione dell'intero PGT con un
considerevole lavoro rispetto alla singola parte di revisione e conseguente
inevitabile aggravamento procedurale.
Tale diversa metodologia di intervento normativo finisce per determinare
un’ingiustificata compressione delle prerogative dei Comuni da parte della
Regione, integrando una pluralità di violazioni riguardanti:
- l'articolo 5 della Costituzione, atteso che frustra l'autonomia
dei Comuni;
- l'articolo 114, comma 2, della Costituzione, sotto un profilo
generale dell'autonomia riservata ai Comuni in relazione all'esercizio dei
poteri e delle funzioni di loro competenza;
- l'articolo 117, comma 6, terzo periodo Costituzione, sotto
l'ulteriore profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni
attribuite ai Comuni;
- l'articolo 118, comma 1, Costituzione per l'incidenza sul
principio di sussidiarietà verticale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come affermato dalla giurisprudenza le
pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove
rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del
comma 1 e del comma 4, lettera g), dell'articolo 10 del
decreto legislativo n. 42 del 2004 (recante “Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della
legge 06.07.2002, n. 137”, di seguito “Codice”), sono
qualificabili come “beni culturali” indipendentemente
dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del
Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono,
quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai
quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di
cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga
una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12.
Invero, è stato statuito:
- “il sistema di tutela dei beni in discorso (ovvero delle
pubbliche vie, strade ed altri spazi aperti urbani, la cui
esecuzione risalga ad oltre settanta anni) è imperniato su
una presunzione normativa di interesse culturale,
sufficiente a determinarne la sottoposizione al regime di
tutela di cui alla Parte II del Codice e suscettibile di
neutralizzazione solo a seguito dello svolgimento del
procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato
alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito
negativo”;
- "Il Collegio osserva che l'area in
questione ricade nell'ambito della Città Storica per cui, ai
sensi dell'art. 10, c. 4, lett. g), del D.Lgs n. 42 del 2004,
essa è soggetta a disposizioni di tutela fino alla
effettuazione della verifica di interesse”.
Pertanto, il vincolo di tutela sui beni in parola è
assunto ope legis e può essere eliminato solo a seguito di
apposita verifica di interesse ex art. 12 del Codice.
Verifica che ha lo scopo di accertare se l’interesse
culturale del bene presunto dalla legge sussista
effettivamente e, in caso negativo, di rimuovere la
qualifica di bene culturale e che non è legata, come
vorrebbe il ricorrente, esclusivamente all’esecuzione di
opere o lavori ai sensi dell’art. 21 del Codice.
---------------
Ai fini della qualifica di una via quale bene culturale è
irrilevante il fatto che la via sia stata pedonalizzata e
ripavimentata in tempi relativamente “recenti”, essendo
stata realizzata nel suo complesso ben oltre 70 anni fa,
tanto è vero che è fiancheggiata da edifici storici anche
importanti, appartenendo al Centro Storico.
Del resto, la contraria interpretazione della ricorrente
farebbe sì che anche un intervento di manutenzione, sia pure
straordinaria, nei centri storici potrebbe comportare la
sottrazione al vincolo ex lege dei beni in questione.
---------------
6. Il motivi di ricorso, che si esaminano congiuntamente in
quanto tra loro connessi, sono, ad avviso del Collegio,
infondati secondo le seguenti considerazioni.
7. Come affermato dalla giurisprudenza (Cfr. Consiglio di
Stato, sez. VI, sent. 5934/2014; ord. n. 3804/2013; sent. n.
4010/2013; sent. n. 4497/2013; sent. n. 482/2011) le
pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani, laddove
rientranti nell’ambito dei Centri Storici, ai sensi del
comma 1 e del comma 4, lettera g), dell'articolo 10 del
decreto legislativo n. 42 del 2004 (recante “Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della
legge 06.07.2002, n. 137”, di seguito “Codice”), sono
qualificabili come “beni culturali” indipendentemente
dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico ai sensi degli articoli 12 e 13 del
Codice.
Tali beni appartenenti a soggetti pubblici sono,
quindi, da considerare beni culturali ope legis, rispetto ai
quali trovano necessaria applicazione le norme di tutela di
cui alla parte II del Codice fino a quando non intervenga
una espressa verifica di interesse in senso contrario ex art. 12
(Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sent. 5934/2014 citata e,
da ultimo, Tar Salerno, Sez. I, sent. n. 517/2016 secondo
cui “il sistema di tutela dei beni in discorso (ovvero delle
pubbliche vie, strade ed altri spazi aperti urbani, la cui
esecuzione risalga ad oltre settanta anni) è imperniato su
una presunzione normativa di interesse culturale,
sufficiente a determinarne la sottoposizione al regime di
tutela di cui alla Parte II del Codice e suscettibile di
neutralizzazione solo a seguito dello svolgimento del
procedimento di verifica del suddetto interesse, demandato
alla competente amministrazione, e del suo eventuale esito
negativo”; nonché Tar Lazio, sez. II, sent. n. 1233/2017
dove si si legge “Il Collegio osserva che l'area in
questione ricade nell'ambito della Città Storica per cui, ai
sensi dell'art. 10, c. 4, lett. g), del D.Lgs n. 42 del 2004,
essa è soggetta a disposizioni di tutela fino alla
effettuazione della verifica di interesse”).
7.1. Pertanto, il vincolo di tutela sui beni in parola è
assunto ope legis e può essere eliminato solo a seguito di
apposita verifica di interesse ex art. 12 del Codice.
Verifica che ha lo scopo di accertare se l’interesse
culturale del bene presunto dalla legge sussista
effettivamente e, in caso negativo, di rimuovere la
qualifica di bene culturale e che non è legata, come
vorrebbe il ricorrente, esclusivamente all’esecuzione di
opere o lavori ai sensi dell’art. 21 del Codice.
7.2. Nel caso in questione, via San Fermo, in quanto
ricompresa nel Centro Storico di Padova e bene appartenente
ad ente pubblico territoriale, è stata correttamente
considerata bene culturale ope legis con conseguente
applicazione delle disposizioni di tutela di cui al titolo
II del Codice e in particolare dell’art. 106, comma 2-bis,
che richiede l’autorizzazione da parte della Soprintendenza
nel caso di concessione per uso individuale del bene.
7.3. Ai fini della qualifica di via di San Fermo quale bene
culturale è, poi, irrilevante, ad avviso del Collegio,
quanto dedotto con il secondo motivo di ricorso in relazione
al fatto che la via sia stata pedonalizzata e ripavimentata
in tempi relativamente “recenti”, essendo stata realizzata
nel suo complesso ben oltre 70 anni fa, tanto è vero che è
fiancheggiata da edifici storici anche importanti,
appartenendo al Centro Storico di Padova. Del resto, come
correttamente rilevato dalla difesa del Ministero
resistente, la contraria interpretazione della ricorrente
farebbe sì che anche un intervento di manutenzione, sia pure
straordinaria, nei centri storici potrebbe comportare la
sottrazione al vincolo ex lege dei beni in questione
e, pertanto, va disattesa (TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 08.10.2018 n. 927 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’installazione di
un plateatico, come chiarito dalla giurisprudenza,
“comporta un utilizzo permanente, a fini privati, di spazi
pubblici sottratti all'uso comune” e, pertanto, rientra nel concetto di uso
individuale del bene culturale ai sensi dell’articolo 106
citato, per cui è necessaria l’autorizzazione della
Soprintendenza, che viene rilasciata a condizione che “il
conferimento garantisca la conservazione e la fruizione
pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della
destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del
bene medesimo”.
---------------
7.4. Non è condivisibile, inoltre, l’affermazione della
ricorrente secondo la quale il richiamo all’art. 106 operato
dalla Soprintendenza sarebbe inconferente perché tale
articolo disciplinerebbe “un uso individuale e quindi
esclusivo del bene pubblico, tale cioè da non permettere
l’utilizzabilità da parte di terzi” mentre l’uso richiesto
della Sa.Fe.20 S.r.l. “non è esclusivo ma, al contrario,
rivolto ad una generalità di soggetti”.
L’installazione di
un plateatico, infatti, come chiarito dalla giurisprudenza,
“comporta un utilizzo permanente, a fini privati, di spazi
pubblici sottratti all'uso comune” (Cfr. Tar Venezia, Sez. II,
24.07.2018, n. 820) e pertanto rientra nel concetto di uso
individuale del bene culturale ai sensi dell’articolo 106
citato, per cui è necessaria l’autorizzazione della
Soprintendenza, che viene rilasciata a condizione che “il
conferimento garantisca la conservazione e la fruizione
pubblica del bene e sia assicurata la compatibilità della
destinazione d'uso con il carattere storico-artistico del
bene medesimo”.
7.5. Inoltre, non è fondata la tesi della ricorrente,
secondo cui l’articolo 106 citato non sarebbe applicabile
perché la fattispecie in questione tutt’al più ricadrebbe
esclusivamente nella disciplina di cui all’art. 52 del
Codice che, invece, “prevede un intervento “consultivo” a
monte della Soprintendenza, ovvero all’interno del
procedimento di individuazione delle aree da sottoporre a
regolamentazione”, senza che sia prevista “alcuna misura di
salvaguardia nelle more dell’approvazione dell’atto comunale
di individuazione delle aree pubbliche in cui l’esercizio
del commercio è vietato o sottoposto a limitazioni”.
La previsione di cui all’art. 52 non esclude, infatti, ad
avviso del Collegio, l’applicazione dell’art. 106 dal
momento che:
- entrambe le norme trovano fondamento nel riconoscimento
della competenza del Ministero per i Beni e le Attività
culturali in materia, ma, mentre l’articolo art. 106 del
Codice è finalizzato a disciplinare qualsiasi uso
individuale di un bene culturale appartenente ad un ente
pubblico, l’art. 52 mira a coordinare le competenze statali
in materia di tutela dei beni culturali e quelle comunali in
materia di regolamentazione del commercio, in un’ottica
programmatoria e sul presupposto del riconoscimento delle
diverse competenze in materia;
- l’interpretazione sostenuta dalla ricorrente finirebbe per
privare le strade, le piazze e gli altri spazi urbani
pubblici nei centri storici della tutela prevista per i beni
culturali nelle more del perfezionamento dell’iter, che può
essere lungo e complesso, degli strumenti pianificatori di
cui all’articolo 52 e, pertanto, non può essere condivisa (TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 08.10.2018 n. 927 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Un argine ai criteri su misura. CONCORSI
PUBBLICI/SENTENZA DEL TAR DEL LAZIO.
In
tema di concorsi pubblici, la commissione di valutazione degli elaborati
ovvero delle qualità di un candidato deve predeterminare nella prima
riunione i criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio delle
prove e ciò deve avvenire prima che siano conosciute le generalità dei
concorrenti, onde scongiurare il rischio che la confezione dei criteri
predetti avvenga su misura, in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Così si è pronunciato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con la
sentenza
03.10.2018 n.
9714.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un candidato impugnava gli
atti afferenti a una procedura concorsuale indetta dall'agenzia spaziale
italiana per la copertura di un posto a tempo indeterminato nel profilo di
tecnologo, lamentando la violazione dell'art. 12 del dpr n. 487/1994 che
impone alle commissioni esaminatrici di stabilire i criteri e le modalità di
valutazione delle prove concorsuali nella prima riunione utile.
Sosteneva,
infatti, il ricorrente che la commissione si sarebbe limitata a stabilire
solo dei criteri di valutazione di massima non accompagnati dalla necessaria
fissazione dei relativi pesi valutativi, non consentendo di conoscere ex
post quanto ciascuna delle enucleate caratteristiche possa aver concorso
nella formazione del giudizio finale di ogni candidato. Da ciò discenderebbe
l'illegittimità del conseguente voto numerico attribuito ai candidati,
insufficiente ad esplicitare le motivazioni ad esso sottese secondo tutti i
criteri o solo alcuni di essi.
Chiamato a decidere la controversia, il collegio ha avuto modo di precisare
come, ai sensi dell'art. 12 dpr 09.05.1994 n. 487, la predeterminazione
di adeguati criteri valutativi assurga ad elemento essenziale nello
svolgimento di un concorso pubblico. Il principio di trasparenza
dell'attività amministrativa, infatti, pone l'accento sulla necessità che la
determinazione e verbalizzazione dei criteri di valutazione avvenga in un
momento in cui non possa sorgere il sospetto che questi ultimi possano
essere volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, individuando la fase
immediatamente antecedente alla concreta valutazione degli elaborati come
l'ultimo momento utile per la valida individuazione dei criteri guida.
Ciò posto, osserva il collegio come la commissione di valutazione si sia
solo limitata a predisporre una serie di canoni di massima e generali (quali
l'aderenza dell'elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva et
similia) che, non essendo accompagnati dalla necessaria fissazione dei
relativi pesi, finiscono con l'arrestarsi a caratteristiche e qualità degli
elaborati piuttosto che a criteri motivazionali. Detta rassegnata mancanza
rende illegittimo il procedimento di concorso per violazione dell'art. 12
del dpr n. 487/1994.
Osserva, inoltre, il collegio come, nel caso di specie, il voto numerico sia
comunque insufficiente a motivare le ragioni della valutazione di un
elaborato, atteso che il regolamento del personale applicabile alla
struttura prevede comunque che la valutazione debba essere effettuata
tramite punteggi numerici e giudizi sintetici.
Ed infatti, sebbene
costituisca ormai diritto vivente il principio della idoneità del voto
numerico a sintetizzare il giudizio tecnico discrezionale della commissione
sulle prove scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di
abilitazione), contenendo il voto in sé la sua motivazione senza bisogno di
ulteriori spiegazioni e chiarimenti, detto principio può trovare
applicazione solo ove disposizioni specifiche e settoriali non stabiliscano
una diversa regula iuris, sancendo, come nel caso di specie, la
necessità che venga allestito, in aggiunta all'espressione di un voto
numerico, anche un giudizio discorsivo quantunque sintetico
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.10.2018).
---------------
MASSIMA
3. Ritiene il Collegio fondata la censura.
3.1. Osserva al riguardo come sia ormai acquisito da tempo il principio
secondo cui la commissione di valutazione degli elaborati di un concorso
ovvero delle qualità di un candidato debba predeterminare nella prima
riunione i criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio delle
prove e che ciò debba avvenire prima che siano conosciute le generalità di
concorrenti, onde scongiurare il ischio che la confezione dei criteri
predetti avvenga su misura in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Stabilisce invero l’art 12 del D.P.: b. 487/1994 che “Le commissioni
esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di
valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali,
al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove.”.
La giurisprudenza ha fornito un’interpretazione conservativa della norma,
precisando che l’attività di predeterminazione può avvenir anche dopo lo
svolgimento delle prove scritte, purché prima che si proceda alla loro
correzione. Si è in tal senso puntualizzato che “La fissazione di
sub-criteri per la valutazione delle prove concorsuali, ai sensi dell'art.
12 del d.P.R. n. 487 del 1994, non è soggetta a una pubblicazione
antecedente allo svolgimento delle prove, avendo una simile operazione il
solo scopo di scongiurare il sospetto di favoritismi verso singoli
candidati, con la conseguenza che si dovrà ritenere legittima la
determinazione dei predetti criteri dopo l'effettuazione delle prove
concorsuali, purché prima della loro concreta valutazione, cioè
antecedentemente all'effettiva correzione delle prove scritte.” (TAR Emilia
Romagna-Bologna Sez. I, 19.06.2015 n. 597).
Si è espresso in tal senso anche questo Tribunale (TAR Lazio-Roma, Sez.
I, 10.01.2017 n. 368; TAR Lazio-Roma, Sez. III 07.05.2014 n.
4733). L’assunto è enunciato anche dal Giudice d’appello che ha al riguardo
precisato che “Il principio di preventiva fissazione dei criteri e delle
modalità di valutazione delle prove concorsuali che, ai sensi dell'art. 12, d.P.R.
09.05.1994, n. 487, devono essere stabiliti dalla commissione
nella sua prima riunione (o tutt'al più prima della correzione delle prove
scritte), deve essere inquadrato nell'ottica della trasparenza dell'attività
amministrativa perseguita dal legislatore, il quale pone l'accento sulla
necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un
momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano
volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che è
legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove
concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro
concreta valutazione.” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.03.2015 n. 1411).
3.2. La predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge pertanto ad
elemento essenziale nello svolgimento di un concorso pubblico. La mancata
predeterminazione dei criteri nel corso della prima riunione della
Commissione, di per sé sola, rende illegittimo il procedimento di concorso
per violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (cfr., Consiglio di
Stato, sez. V, 20.04.2016, n. 1567: “Nei concorsi a pubblici impieghi,
ai sensi dell’art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, rientra nella
competenza delle Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità
di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali
al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove”.
3.3. Nel caso di specie, per il vero, la commissione esaminatrice nella
seduta del 04.08.2016 ha predisposto una serie di criteri, quali
l’aderenza dell’elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva,
della capacità di sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica
nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di valorizzazione
funzionalità e applicabilità ai casi concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e generali, che non
sono accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi valutativi,
finendo con l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati
piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto ciascuna delle
enucleate caratteristiche abbia pesato e concorso nella formazione del
giudizio finale di ogni candidato.
Ha fatto infatti difetto la doverosa fissazione dei criteri motivazionali.
Va al riguardo richiamato il recente precedente della Sezione secondo il
quale i “Criteri di valutazione [che] ad avviso della Sezione devono essere
formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a
determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e
fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità
concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole
prove.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 25.07.2018 n. 8426).
3.4. Oltretutto va soggiunto che la necessità che i criteri di valutazione
siano corredati anche dei criteri motivazionali, ovvero dei criteri di
attribuzione dei punteggi è sancita expressis verbis dall’art. 5, co. 4, del
Regolamento del personale ASI del 13.01.2012, il quale dispone che “La
valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici
sulla base dei criteri generali e di attribuzione di punteggi resi noti
dall’interno del bando”.
Occorreva quindi che già il bando facesse menzione specifica dei criteri di
valutazione nonché di quelli di attribuzione dei punteggi.
Ed invero la ricorrente lamenta illegittimità anche del bando di concorso,
laddove censura al primo motivo “un bando colpevolmente silente sul punto”.
Il primo motivo di ricorso è pertanto fondato e va accolto, con annullamento
del verbale della commissione del 04.08.2016 nonché di tutti quelli successivi
e dello stesso bando di concorso per omessa previsione dei criteri di
valutazione e dei criteri di attribuzione dei punteggi.
4. Con il secondo mezzo parte ricorrente lamenta che il voto numerico è
insufficiente a motivare le ragioni della valutazione di un elaborato,
atteso che l’art. 5 del regolamento del personale ASI entrato in vigore a
maggio 2012 stabilisce al comma 4 secondo periodo che “la valutazione verrà
effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei
criteri generali e di attribuzione dei punteggi resi noti all’interno del
bando”.
4.1. La sintetizzata censura si presta a positiva considerazione e va dunque
accolta.
E’ bensì noto che la giurisprudenza amministrativa, suggellata dalla Corte
Costituzionale ha in subiecta materia sancito da tempo che nei concorsi
pubblici la valutazione dei candidati è sufficientemente espressa con un
voto numerico, idoneo a condensare la motivazione, avendo affermato che "il
voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte o
orali di un concorso pubblico (o di un esame di abilitazione) esprime e
sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa,
contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni
e chiarimenti" (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV,19.07.2004, n. 5175 e Sez. VI,
02.04.2012, n. 1939, sez. III 28.09.2015
n. 4518; Consiglio di Stato, Sez. V, 30.11.2015,n. 5407). Tale
principio è stato definito "diritto vivente" dalla stessa Corte
Costituzionale (cfr. sentenze 30.01.2009, n. 20, e sentenza 15.06.2011, n. 175).
4.2. Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed opposta soluzione
allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano invece una
diversa regula iuris, sancendo, come nella specie, la necessità che venga
allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico, anche un giudizio
discorsivo, quantunque sintetico.
E’ quanto stabilisce l’art. 5, co. 4 del Regolamento per il personale
approvato dall’ASI con deliberazione del Consiglio di amministrazione del
13.01.2012 n. CdA201XII/44/2012 (estratto dal Collegio dal Sito web
dell’Amministrazione alla Sezione “Leggi, norme e regolamenti ASI”,
sottosezione Regolamenti interni).
Tale norma dispone infatti che “La valutazione verrà effettuata tramite
punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di
attribuzione di punteggi resi noti dall’interno del bando”.
Ciascun elaborato doveva essere dunque valutato sia mercé l’assegnazione di
un punteggio numerico sia mediante l’esternazione di un giudizio ancorché
sintetico.
La norma regolamentare dettante la regola del caso concreto non è stata
fatta oggetto di modifica da parte dell’amministrazione che era dunque
tenuta a seguirla.
Viceversa la mancata espressione anche di un giudizio sintetico da parte
della Commissione ha integrato un patente violazione del disposto del
riportato art. 5, co. 4, del Regolamento del personale ASI, contribuendo a
colorare di illegittimità l’intera procedura di gara.
In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni che precedono il ricorso si
profila fondato e va accolto, potendosi assorbire il terzo motivo dedicato
alla composizione della commissione e non potendosi scrutinare le censure
svolte al quarto mezzo ed espressamente formulate dalla ricorrente in via
gradata, ossia per l’ipotesi di negativo scrutinio di quelle trancianti
dirette contro l’intera procedura di concorso.
L’annullamento degli atti concorsuali importa la caducazione del contrato di
lavoro a tempo indeterminato stipulato il 22.12.2016 (produzione
controinteressata del 27.07.2017 dall’ASI con la controinteressata Sa.Mi..
Le spese seguono la soccombenza nella misura definita in dispositivo. |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha
chiarito che la deroga all’onerosità della concessione
prevista dall’art. 9 della legge n. 10 del 1977
(successivamente sostituito dall’art. 17, comma 3, lett. b),
del DPR n. 380 del 2001) ha un fondamento sociale, con
l'effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve
avere una accezione strutturale ma socio-economica,
coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole
per gli interventi di ristrutturazione dell'abitazione di un
trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie
edilizie.
---------------
2 Con il secondo motivo si deduce la violazione
dell'art. 9, lett. d), della legge n. 10 del 1977, eccesso
di potere e difetto di motivazione.
Si sostiene che il costo di costruzione non potesse essere
richiesto, in quanto l'intervento autorizzato rientrerebbe
fra le ipotesi di esenzione contemplate dal richiamato
articolo 9 il quale prevede che il contributo di concessione
non sia dovuto ... “d) per gli interventi di restauro, di
risanamento conservativo, di ristrutturazione e di
ampliamento in misura non superiore al 20 per cento, di
edifici unifamiliari”.
2.1 La censura non può essere condivisa. L’intervento in
questione prevede la demolizione e la ricostruzione di un
edificio preesistente, oltre al cambio di destinazione d’uso
con opere di un annesso agricolo.
2.2 Si può prescindere dai contrasti giurisprudenziali
sull’applicabilità della norma citata agli interventi di
demolizione e ricostruzione (per la prima ipotesi, v. Tar
Marche, 05.08.2009, n. 854 e 22.05.2012, n. 446; contra
Tar Campania Napoli, 09.05.2012, n. 2136), dato che comunque
i presupposti per l’esenzione non sono dimostrati nel caso
concreto.
2.3 Difatti, la giurisprudenza ha chiarito che la deroga
all’onerosità della concessione prevista dall’art. 9 della
legge n. 10 del 1977 (successivamente sostituito dall’art.
17, comma 3, lett. b), del DPR n. 380 del 2001) ha un
fondamento sociale, con l'effetto che la nozione di edificio
unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma
socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà
immobiliare, meritevole per gli interventi di
ristrutturazione dell'abitazione di un trattamento
differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie (Tar
Campania Salerno, 22.06.2015, n. 1416; Tar Lombardia Milano,
10.10.1996, n. 1480; Tar Toscana, 26.04.2017, n. 616; Tar
Marche, 09.01.2018, n. 9)
(TAR
Marche,
sentenza 01.10.2018 n. 631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di compensare gli oneri di
urbanizzazione con le somme versate dal privato per la
realizzazione in proprio delle opere di urbanizzazione
costituisce oggetto di una valutazione ampiamente
discrezionale da parte dell'amministrazione (che ben può
optare per soluzioni diverse senza obbligo di specifica
motivazione) ed un vero e proprio diritto sorge in capo al
privato proponente solo allorché, a fronte della
realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero
dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di
"accettazione" consensuale da parte della stessa
amministrazione.
---------------
3 Con il terzo
motivo si deduce la violazione dell’art. 11 della
richiamata legge n. 10 del 1977, per il mancato
riconoscimento delle opere di urbanizzazione realizzate dai
concessionari.
Sul punto il Collegio nota come la giurisprudenza più
recente sia del tutto maggioritaria nel ritenere che la
possibilità di compensare gli oneri di urbanizzazione con le
somme versate dal privato per la realizzazione in proprio di
tali opere costituisca oggetto di una valutazione ampiamente
discrezionale da parte dell'amministrazione (che ben può
optare per soluzioni diverse senza obbligo di specifica
motivazione) e che un vero e proprio diritto sorge in capo
al privato proponente solo allorché, a fronte della
realizzazione da parte sua di opere di urbanizzazione ovvero
dell'impegno a realizzarle, vi sia stato un espresso atto di
"accettazione" consensuale da parte della stessa
amministrazione (tra le tante decisioni, Cons. Stato, IV,
21.04.2008, n. 1811; Tar Toscana, 02.12.2013, n. 1718; Tar
Campania, Napoli, 07.07.2010, n. 16606) (TAR
Marche,
sentenza 01.10.2018 n. 631 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina edilizia
del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava
all'interno di un locale, interponendovi un solaio, non è
definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in
relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, è necessario il permesso di costruire
quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti
una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente,
ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con
incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva,
ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece
nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell'immobile.
In linea con l'indirizzo suindicato si dispiega la
giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente,
evidenziato come la realizzazione di un soppalco rientra nel
novero degli interventi di ristrutturazione edilizia qualora
determini una modifica della superficie utile
dell'appartamento con conseguente aggravio del carico
urbanistico.
---------------
1. Il sig. Fr.Ro. ha impugnato il provvedimento con il quale
il Comune di Napoli ha ordinato, ai sensi dell’art. 33 TUED,
il ripristino dello stato dei luoghi in relazione a un
soppalco realizzato all’interno dell’immobile di via ... 16,
privo di permesso di costruire, come accertato a seguito di
sopralluogo della Polizia Municipale.
...
5. Il ricorso va respinto.
Il soppalco in questione ha superficie di 20 mq ed è
impostato a m. 1,90 dal calpestio ed a m. 2,10 dalla
copertura.
Come rilevato nel provvedimento impugnato, esso non rispetta
le altezze minime previste per gli ambienti abitativi
dall’art. 43 legge 457/1978 (il quale richiede che l’altezza
dei locali sottostanti il soppalco non deve essere inferiore
a mt. 2,70 per gli ambienti abitativi e a 2,40 per i vani
accessori).
Il dato è, oltretutto, incontestato, e nessun riferimento ad
esso viene fatto nel ricorso né nella memoria depositata
dalla parte in vista del merito.
Ciò basta per decretare il rigetto del ricorso.
6. Per completezza si aggiungono le considerazioni che
seguono.
6.1. L’eccezione relativa alla mancata comunicazione di
avvio del procedimento va respinta in quanto, per
giurisprudenza consolidata e costante, gli ordini di
demolizione di un'opera abusiva non devono essere
necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atti dovuti e rigorosamente
vincolati, con riferimento ai quali non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto
è costituto unicamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo
abilitativo.
6.2. Gli ordini di demolizione di opere edilizie abusive non
necessitano di apposita motivazione, essendo
sufficientemente motivati con riferimento all'oggettivo
riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura
assoggettabilità di queste al regime concessorio, non
essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico né al decorso del tempo (sul punto si
vedano le Ad. Pl. 8 e 9 del 2017), in quanto a fronte di un
abuso edilizio -che arreca un vulnus all'assetto del
territorio e che assume natura di illecito permanente
ponendosi in perdurante contrasto con le leggi
amministrative sino a quando non viene ripristinato lo stato
dei luoghi- non può neppure invocarsi il principio di
proporzionalità dell'azione amministrativa, in quanto il
giudizio di antigiuridicità dell'operato è già
complessivamente contenuto nella legge e non vi è pertanto
ragione di una specifica motivazione sulla preminenza
dell'interesse pubblico.
6.3. Infine, alla stregua delle risultanze istruttorie in
atti, e segnatamente dal verbale di sopralluogo del
07.08.2009, emerge che il soppalco in contestazione –oltre
che a non essere conforme alle altezze minime stabilite
dalla disciplina di settore e fissate in mt 2,70 per i vani
con destinazione residenziali e mt 2,40 per i vani
accessori- occupa l’intera superficie dell’appartamento e in
esso è stato ricavato un locale wc, di talché si è
determinato per effetto della sua realizzazione un
incremento della superficie utile.
Per i profili qui in rilievo vanno condivise la
qualificazione dell'illecito come ristrutturazione abusiva e
la spedizione della misura ripristinatoria, come in più
occasioni ha stabilito la giurisprudenza di questa Sezione
(da ultimo, sentenza 28.03.2018, n. 1981).
Ha affermato il collegio che “la disciplina edilizia del
soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava
all'interno di un locale, interponendovi un solaio, non è
definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in
relazione alle caratteristiche del manufatto. In linea di
principio, è necessario il permesso di costruire quando il
soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una
sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai
sensi dell'art. 3, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con
incremento delle superfici dell'immobile e, in prospettiva,
ulteriore carico urbanistico; si rientrerà invece
nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell'immobile (Consiglio di Stato, sez. VI, 02/03/2017, n.
985).
In linea con l'indirizzo suindicato si dispiega la
giurisprudenza di questa Sezione che ha, di recente,
evidenziato come la realizzazione di un soppalco rientra nel
novero degli interventi di ristrutturazione edilizia qualora
determini una modifica della superficie utile
dell'appartamento con conseguente aggravio del carico
urbanistico (cfr. Tar Sardegna, Sez. II, 23.09.2011, n. 952;
Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 11.07.2011, n. 1863; Tar
Campania, Napoli, Sez. II, 21.03.2011, n. 1586).
Lo stesso è a dirsi rispetto al frazionamento del manufatto
in plurime unità abitative che, persino nei casi in cui
avvenga senza aumento di superficie, a differenza della mera
redistribuzione degli spazi interni, all'epoca della
realizzazione dei lavori, era considerata dalla normativa
edilizia quale ristrutturazione pesante, che necessitava del
permesso di costruire (cfr. ex multis TAR Napoli,
(Campania), sez. IV, 13/03/2017, n. 1434).”
Per completezza si aggiunga che non assumono rilievo, in
ossequio al principio tempus regit actum, le
sopravvenute modifiche confluite nella novellata lett. b),
dell'art. 3, comma 1, del d.p.r. 380/2001, del d.l. n. 133
del 2014 (conv. in l.) secondo cui “nell'ambito degli
interventi di manutenzione straordinaria sono ricompresi
anche quelli consistenti nel frazionamento o accorpamento
delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se
comportanti la variazione delle superfici delle singole
unità immobiliari nonché del carico urbanistico purché non
sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si
mantenga l'originaria destinazione di uso".
7. Il ricorso va quindi respinto (TAR Campania-Napoli, Sez.
IV.
sentenza 27.09.2018 n. 5645 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Potere
della Commissione di gara di riesaminare il
procedimento di gara già espletato.
Non può negarsi il
potere della Commissione di gara di
riesaminare, nell’esercizio del potere di autotutela,
il procedimento di gara già espletato,
riaprendolo per emendarlo da errori commessi
o da illegittimità verificatesi, in
relazione all’eventuale illegittima
ammissione o esclusione dalla gara di
un’impresa concorrente.
Potere il cui esercizio richiede la previa
revoca dell’aggiudicazione definitiva,
proprio per creare le condizioni necessarie
alla rinnovazione della fase del
procedimento riconducibile alla specifica
competenza della Commissione tecnica
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 25.09.2018 n. 906 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Invero, ritiene il Collegio che l’improvvida
schematizzazione non sia sufficiente a
giustificare la revoca dell’aggiudicazione,
a fronte di una difficile lettura dei
documenti di gara, che ha addirittura
indotto il RUP ad acquisire un parere terzo,
per le ragioni che si andranno a chiarire
nel prosieguo.
Non prima, però, di aver provveduto
all’esame dell’eccezione di inammissibilità
del ricorso per carenza di interesse,
fondata dall’ASSL sull’asserita
applicabilità alla fattispecie della teoria
dei vizi non invalidanti, dal momento che
quello compiuto sarebbe un mero accertamento
tecnico, privo di discrezionalità, la cui
illegittimità, per ciò stesso, non potrebbe
comunque condurre all’annullamento ex art.
21-octies citato.
In relazione a ciò appare innanzitutto
necessario chiarire che, nel caso di specie,
non ricorrono le condizioni di applicabilità
né della prima parte del secondo comma di
tale norma, né della seconda parte del
secondo comma, espressamente correlata alla
presenza del solo vizio della mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento,
non ravvisabile nel caso di specie e la cui
estensione analogica in presenza di altri
vizi formali, operata negli anni dalla
giurisprudenza, non potrebbe in alcun modo
arrivare fino a comprendere l’ipotesi in cui
l’atto sia affetto da incompetenza relativa,
dal momento che, in assenza di una ratifica
da parte dell’organo competente non potrebbe
comunque affermarsi che il provvedimento non
avrebbe potuto avere contenuto diverso, così
come, invece, richiesto dalla disposizione
in commento.
Diventa, dunque, essenziale stabilire se il
RUP fosse o meno titolare non tanto del
potere di adottare la revoca impugnata,
quanto di ravvisare i presupposti per
l’implicita esclusione dalla gara della
ricorrente e la sua aggiudicazione alla
controinteressata, dal momento che
l’eventuale incompetenza non potrebbe essere
superata alla luce della teoria dei vizi non
invalidanti, nemmeno in ragione di quanto
previsto dalla prima parte del secondo comma
dell’art. 21-octies in parola, in quanto
quello censurato non può comunque essere
qualificato come un atto dovuto.
La revoca dell’aggiudicazione, infatti,
sarebbe qualificabile come atto dovuto solo
se fosse oggettivamente dimostrata la
carenza di un requisito ritenuto essenziale
per l’ammissibilità dell’offerta,
oggettivamente rilevabile dal RUP.
È pur vero che, in applicazione di quella
stessa giurisprudenza invocata da parte
resistente (Consiglio di Stato, sentenza n.
742/2017), secondo cui la revoca del
provvedimento spetta allo stesso soggetto
che ha adottato l’atto di primo grado, nel
caso di gara, colui che può procedere al
ritiro degli atti è la stesso soggetto che
ha disposto l’aggiudicazione e, dunque, nel
caso in esame, il Dirigente dell’Ufficio
Comune di ARO 7/BA, ma ciò può accadere tout
court se il vizio dell’atto di primo grado
sia imputabile alla sfera di competenza
dello stesso, mentre, in caso contrario, ciò
presuppone la rimessione della verifica
della legittimità della fase viziata
all’organo competente al suo espletamento.
Nella fattispecie in esame, l’illegittima
aggiudicazione sarebbe derivata da un errore
della commissione tecnica che, secondo il
RUP, avrebbe equivocato sull’offerta tecnica
della Di., ritenendo che il prodotto
offerto possedesse tutti i requisiti
essenziali richiesti e, in particolare, un
“sistema automatico di aspirazione dei
vapori” che, invece, non avrebbe corredato
il processatore “Donatello”, ma solo la sua
successiva evoluzione, sviluppata nelle more
dell’aggiudicazione.
Considerato che la commissione tecnica, nel
proprio verbale, afferma il contrario, a
fronte del dubbio emerso dopo
l’aggiudicazione, il RUP, anziché chiedere
un parere terzo per confutare l’affermazione
della commissione tecnica, avrebbe dovuto
riconvocare quest’ultima per il rinnovo
dell’attività.
Se, infatti, il giudizio è, nella fisiologia
del procedimento di gara, demandato alla
Commissione, che deve accertare il possesso
del requisito e attribuire il relativo
punteggio, il contrarius actus non può che
essere demandato alla Commissione stessa,
che deve procedere al rinnovo della
valutazione.
Diversamente opinando, quel giudizio che ha
condotto a ritenere ammissibile l’offerta da
parte della Commissione tecnica, a tal fine
appositamente costituita, finirebbe per
essere sostituito da un giudizio personale
del RUP, che avrebbe così superato la
discrezionalità tecnica esercitata dalla
Commissione nel ritenere che il sistema di
aspirazione mediante pressione verso il
basso dei gas, conglobati nel sistema di
aerazione, previo passaggio nei filtri
(attivata dunque dal basso), descritto negli
atti di gara fosse idoneo a integrare quel
sistema automatico di aspirazione richiesto
dalla lex specialis di gara. E che di
discrezionalità tecnica e non di mero
accertamento del requisito si tratti pare
confermato dal fatto che ciò che è
contestato non è l’assenza del sistema
descritto, ma la possibilità di ricondurlo
al concetto di sistema di aspirazione
automatica. Possibilità sussistente a fronte
della generica descrizione del requisito
richiesto, derivante dalla mancata
specificazione delle modalità secondo cui
l’aspirazione doveva essere garantita.
Tutto quanto sin qui rappresentato vale, in
primo luogo, ad escludere che l’atto
impugnato fosse un atto dovuto, non essendo
oggettiva e comprovata la sussistenza del
presupposto, ovvero l’effettiva carenza del
requisito richiesto, ma conduce anche a
ravvisare la illegittimità della revoca
disposta dal RUP, in quanto soggetto non
competente, non all’adozione dell’atto di
secondo grado in sé, ma all’accertamento
della sussistenza del presupposto
oggettivo/tecnico per farne discendere le
ulteriori conseguenze in ordine alla
definizione della gara.
La censurata revoca dell’aggiudicazione
risulta, dunque, illegittima per la dedotta
carenza del presupposto essenziale, il cui
accertamento avrebbe dovuto essere compiuto
dalla Commissione tecnica all’uopo
riconvocata, sì da consentire alla stessa la
valutazione dell’ammissibilità dell’offerta
alla luce di quanto successivamente emerso.
Conseguentemente il provvedimento impugnato
deve essere annullato, ancorché nella sola
parte in cui, dopo aver disposto la revoca
dell’aggiudicazione definitiva, il RUP, al
di fuori dei poteri propri di tale organo,
ha ritenuto che sussistessero i presupposti
per l’esclusione della ricorrente dalla gara
e per l’aggiudicazione alla
controinteressata.
A fronte della sussistenza del dubbio circa
il possesso del requisito tecnico minimo di
cui si controverte, infatti, il RUP avrebbe
dovuto annullare l’aggiudicazione a favore
di Di. s.p.a., riconvocare la
commissione di gara per verificare, in sede
di autotutela, se l’offerta di tale
concorrente fosse stata legittimamente
ammessa o avrebbe dovuto essere esclusa e
solo in quest’ultimo caso avrebbe potuto
disporre l’esclusione dalla gara della
ricorrente e l’aggiudicazione alla
controinteressata.
Come chiarito dal giudice d’appello,
infatti, non può negarsi il potere della
Commissione di gara di riesaminare,
nell’esercizio del potere di autotutela, il
procedimento di gara già espletato,
riaprendolo per emendarlo da errori commessi
o da illegittimità verificatesi, in
relazione all’eventuale illegittima
ammissione o esclusione dalla gara di
un’impresa concorrente (Consiglio di Stato,
sez. III, 11/01/2018 n. 136):
potere il cui
esercizio richiedeva la previa revoca
dell’aggiudicazione definitiva, proprio per
creare le condizioni necessarie alla
rinnovazione della fase del procedimento
riconducibile alla specifica competenza
della Commissione tecnica, che dovrà,
quindi, provvedervi.
Data la natura interpretativa della
questione dedotta e formale del rilevato
vizio di incompetenza, le spese del giudizio
possono trovare compensazione tra le parti
in causa. |
EDILIZIA PRIVATA: Localizzazione
degli impianti per la telefonia mobile.
E' illegittima una
prescrizione di un regolamento comunale
recante la disciplina della localizzazione
degli impianti per la telefonia mobile che
ammette l’installazione di detti impianti
negli ambiti soggetti a trasformazione
urbanistica mediante pianificazione attuativa,
purché venga sottoscritto un atto
impegnativo da allegare all’istanza con il
quale il gestore dell’impianto assume
l’obbligo di procedere, a seguito di
semplice richiesta del Comune, all’integrale
rimozione dell’impianto al fine di
consentire la trasformazione prevista dallo
strumento urbanistico, e stabilisce che
l’amministrazione può prescrivere la
prestazione di fideiussione per un importo
pari al presumibile costo di rimozione del
manufatto e di remissione in pristino
dell’area.
Nella
sostanza, la statuizione persegue proprio
l’obiettivo vietato dal legislatore, ossia
l’introduzione di un divieto generalizzato –seppur temporalmente differito–
di ubicazione delle strutture in aree estese
del Comune, con un forte potere di
dissuasione, atteso che l’operazione di
allocazione dell’impianto risulterebbe del
tutto aleatoria, esposta a tempo indefinito
al rischio di uno spostamento coatto
susseguente alle scelte discrezionali degli
organi comunali, del tutto imprevedibili e
del tutto scevre da limiti predefiniti
(anche di carattere motivazionale)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.09.2018 n. 879 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Rilevato:
- che, sotto il profilo della compatibilità
urbanistica, il Comune di Bergamo ha
sostenuto che il nuovo impianto ricade in
ambito assoggettato a trasformazione
urbanistica (At) n. 8 denominato “Porta
Sud”;
- che l’Ente locale ha invocato l’art. 7 del
regolamento comunale di disciplina della
localizzazione degli impianti per la
telefonia e la minimizzazione
dell’esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici;
- che detta disposizione ammette
l’installazione negli ambiti soggetti a
trasformazione urbanistica mediante
pianificazione attuativa, “purché venga
sottoscritto un atto impegnativo da allegare
all’istanza con il quale il gestore
dell’impianto assume l’obbligo di procedere,
a seguito di semplice richiesta del Comune,
all’integrale rimozione dell’impianto al
fine di consentire la trasformazione
prevista dallo strumento urbanistico”, e
stabilisce che “l’amministrazione può
prescrivere la prestazione di fidejussione
per un importo pari al presumibile costo di
rimozione del manufatto e di remissione in
pristino dell’area”;
- che il legislatore riconosce a tali
impianti il carattere di “pubblica utilità”
(art. 90 del D.Lgs. 259/2003), e assimila
le infrastrutture di comunicazione
elettronica alle opere di urbanizzazione
primaria di cui all'articolo 16, comma 7, del
D.P.R. 380/2001 (art. 86, comma 3, del
predetto D.Lgs.);
- che, come ha sostenuto il Consiglio di
Stato, sez. IV – 17/04/2018 n. 2308, “secondo
la Corte costituzionale, la scelta di
inserire le infrastrutture di reti di
comunicazione tra le opere di urbanizzazione
primaria esprime un principio fondamentale
della legislazione urbanistica (Corte cost.,
n. 336 del 27.07.2005)” e inoltre “Anche
la giurisprudenza successiva ha
concordemente sottolineato la necessità di
una capillare distribuzione sul territorio
delle reti di telecomunicazione (Cons.
Stato, Sez. III, n. 2455 del 13.05.2014)
e la loro compatibilità, in linea di
principio, con qualsiasi destinazione
urbanistica (Cons. Stato, Sez. III, sentenza
n. 119 del 15.01.2014), fatto salvo il
potere a contenuto pianificatorio dei Comuni
di fissare, ai sensi dell'art. 8, ultimo
comma, l. n. 36 del 2001, criteri
localizzativi per assicurare il corretto
insediamento urbanistico e territoriale
degli impianti in esame (Cons. Stato, Sez.
VI, sentenza n. 3646 del 15.06.2011)”;
- che, recentemente, questo TAR (cfr.
sentenza sez. II – 15/02/2018 n. 188) ha
ribadito che <<l’assimilazione delle SRB
alle opere di urbanizzazione primaria e la
considerazione che gli impianti in questione
e le opere accessorie occorrenti per la loro
funzionalità rivestano “carattere di
pubblica utilità”, postulano la possibilità
che gli stessi siano ubicati in qualsiasi
parte del territorio comunale, essendo
compatibili con tutte le destinazioni
urbanistiche (ex multis, TAR Campania,
Salerno, sez. II, 06.06.2016, n. 1331;
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 12.03.2015,
n. 764; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 01.04.2014, n. 951)>>;
- che l’interesse pubblico perseguito dal
legislatore con le citate disposizioni “è
quello di garantire una costante e/o
continua ed omogenea erogazione del servizio
pubblico di telefonia mobile, in modo da
ottenere un’uniforme copertura e/o un
dimensionamento ottimale di tale servizio
pubblico su tutto il territorio nazionale,
capace di collegare con un livello
qualitativo accettabile gli utenti in
qualsiasi parte del territorio e perciò
anche durante il loro movimento ed
all’interno degli edifici” (TAR
Basilicata – 19/05/2018 n. 337, secondo la
quale “.... i Piani comunali ex art. 8,
comma 6, L. n. 36/2001, oltre a non poter
stabilire valori di attenzione diversi da
quelli determinati dallo Stato ai sensi
dell’art. 4, comma 1, lett. a), L. n.
36/2001, non possono statuire limiti alla
localizzazione degli impianti di telefonia
mobile generici e/o di carattere assoluto,
come quelli oggetto della controversia in
esame, ma possono prevedere criteri
localizzativi, che, oltre a tutelare le aree
più sensibili, garantiscano comunque il
completamento della rete cellulare e
l’efficace copertura di tale servizio su
tutto il territorio comunale ...)”;
- che la realizzazione dell’opera di
pubblica utilità può soccombere al cospetto
di rilevanti interessi di natura pubblica;
- che, infatti, il regolamento comunale
previsto dall'art. 8, comma 6, della L.
36/2001, nel disciplinare il corretto
insediamento nel territorio degli impianti,
può contenere regole a tutela di particolari
zone e beni di pregio paesaggistico o
ambientale o storico artistico, o anche per
la protezione dall'esposizione ai campi
elettromagnetici di zone sensibili (scuole,
ospedali etc.), mentre non può imporre
limiti generalizzati all'installazione degli
impianti;
- che il Consiglio di Stato (cfr. sez. VI –
03/08/2017 n. 3891) ha nuovamente richiamato
la giurisprudenza costituzionale (cfr.
sentenze n. 331/2003 e 307/2003) la quale ha
affermato che le disposizioni ostative si
palesano come illegittime qualora rendano
impossibile la realizzazione di una rete
completa di infrastrutture per le
telecomunicazioni, con la conseguenza che i
«criteri di localizzazione» si
trasformerebbero in «limitazioni alla
localizzazione», mentre le disposizioni
poste a tutela di siti sensibili sono
legittime se consentono «una sempre
possibile localizzazione alternativa» e non
determinano «l’impossibilità della
localizzazione»;
- che, di conseguenza, sono illegittimi gli
atti che limitino la localizzazione delle
infrastrutture di carattere generale e
riguardanti intere ed estese porzioni del
territorio comunale, in assenza di una
plausibile ragione giustificativa (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI – 01/08/2017 n.
3853);
Evidenziato:
- che l’art. 7 del regolamento comunale,
ritualmente gravato, reca una disciplina che
investe ampie porzioni di territorio (tutti
gli Ambiti di Trasformazione assoggettati a
pianificazione attuativa) e, pur consentendo
l’iniziale installazione degli impianti, di
fatto introduce una prescrizione che
disincentiva i possibili investimenti delle
Società di telecomunicazioni, in quanto al
momento dell’approvazione del Piano
attuativo il gestore dovrà rimuovere
l’impianto dal punto in cui è collocato;
- che, nella sostanza, la statuizione
persegue proprio l’obiettivo vietato dal
legislatore, ossia l’introduzione di un
divieto generalizzato –seppur temporalmente
differito– di ubicazione delle strutture in
aree estese del Comune di Bergamo;
- che la fattispecie ad effetto inibitorio,
seppur futura ed eventuale, assume un forte
potere di dissuasione;
- che, infatti, l’operazione di allocazione
dell’impianto risulterebbe del tutto
aleatoria, esposta a tempo indefinito al
rischio di uno spostamento coatto
susseguente alle scelte discrezionali degli
organi comunali, del tutto imprevedibili e
del tutto scevre da limiti predefiniti
(anche di carattere motivazionale);
Considerato:
- che è altresì fondato il motivo che
censura l’elevazione a profilo ostativo del
mancato approfondimento di alcuni argomenti
tecnici a supporto della scelta di
delocalizzare l’impianto (impossibilità di
disaccoppiamento con i gestori esistenti,
sovraccarico statico, saturazione del campo
elettromagnetico);
- che, anzitutto, l’art. 89, comma 1, del
Codice delle comunicazioni elettroniche,
stabilisce testualmente che: “Quando un
operatore che fornisce reti di comunicazione
elettronica ha il diritto di installare
infrastrutture su proprietà pubbliche o
private … l’Autorità, anche mediante
l’adozione di specifici regolamenti, può
imporre la condivisione di tali
infrastrutture o proprietà, nel pieno
rispetto del principio di proporzionalità
…”;
- che la norma riserva all’Autorità
nazionale di regolamentazione del settore il
potere di imporre la co-ubicazione degli
impianti, entro i limiti e con le modalità
individuati dal legislatore;
- che non spetta dunque al Comune assumere
decisioni sulla co-localizzazione degli
impianti, ed è illegittimo il diniego del
rilascio del provvedimento autorizzatorio in
caso di omesso accordo del richiedente con
il gestore titolare dell’impianto
preesistente (TAR Puglia Lecce, sez. II –
26/06/2018 n. 1070; sez. III – 29/12/2017 n.
2050; TAR Veneto, sez. II – 28/03/2013 n.
459);
- che l’art. 9 del Regolamento comunale
degli impianti esprime una netta
“preferenza” per il co-siting;
- che, in quest’ottica, impone all’operatore
–nel caso di antenna esistente nelle
immediate vicinanze– il deposito di una
relazione tecnica che attesti
l’impossibilità vera e propria di collocare
il nuovo impianto in co-siting;
- che, come già osservato, è consentito ai
Comuni, nell'esercizio dei loro poteri di
pianificazione territoriale, minimizzare
l’impatto elettromagnetico, e in questi
termini sono reputate legittime solo le
disposizioni che non consentono (in
generale) la localizzazione degli impianti
nell'area del centro storico (o in
determinate aree del centro storico) o nelle
adiacenze di siti sensibili (come scuole ed
ospedali), purché sia garantita la copertura
di rete, anche nel centro storico e nei siti
sensibili, con impianti collocati in altre
aree (cfr. TAR Abruzzo Pescara –
14/06/2018 n. 200, e la giurisprudenza ivi
citata);
- che è per conseguenza inaccettabile la
prescrizione, quale obbligo cogente, di
dimostrare l’impossibilità assoluta di
collocazione delle strutture in co-siting;
- che, nel rispetto dei criteri generali di
localizzazione, l’Ente locale non può
interferire con le legittime valutazioni
economiche delle Società del settore
esigendo l’avallo di studi tecnici
approfonditi, non richiesti dalla pertinente
normativa primaria già richiamata;
- che la relazione tecnica di supporto alla
delocalizzazione –prodotta dalla parte
ricorrente– non può essere invalidata
adducendo il mancato approfondimento di
alcuni profili tecnici e il dato fattuale
della “poca distanza” all’impianto
esistente, trattandosi di elementi che
esulano dalla competenza specifica
attribuita ai Comuni;
Ritenuto, in definitiva:
- che il gravame è fondato e merita
accoglimento; |
URBANISTICA: Modificazione
della pianificazione in presenza di una
convenzione urbanistica già stipulata.
La stipulazione di una
convenzione urbanistica attribuisce al
privato una posizione di affidamento
qualificato che deve essere adeguatamente
ponderata dall’Amministrazione laddove
questa intenda modificare la disciplina
urbanistica dell’area.
La modificazione della pianificazione
richiede, in questo caso particolare, una
motivazione specifica, ordinariamente non
richiesta per le scelte di piano, che sono
di regola adeguatamente sorrette dai soli
criteri generali di impostazione dello
strumento
(TAR Lombardia-Milano, Sez0. II,
sentenza 05.09.2018 n. 2047 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
8. Il ricorso è fondato, nei sensi e nei
termini che si espongono di seguito.
9. Deve premettersi che l’esistenza di un
corridoio ecologico primario nella porzione
del territorio di Roncello interessata dal
progetto SUAP 2 è stata esclusa dalla
sentenza di questa Sezione n. 1138 del 2015,
sopra richiamata, avverso la quale pende
appello.
Il Collegio ritiene tuttavia che, a
prescindere dalle conclusioni in fatto cui
quella pronuncia è pervenuta, la Provincia
di Monza e della Brianza non potesse
comunque imporre il regime di tutela
stabilito dal PTCP nell’area SUAP 2, senza
valutare specificamente la particolare
situazione dell’area, ad essa ben nota.
10. Come sopra detto, la Provincia aveva
infatti partecipato alla conferenza di
servizi indetta ai fini dell’esame del
progetto SUAP 2, e aveva espresso in quella
sede il proprio dissenso al progetto.
Inoltre, la stessa Provincia aveva impugnato
la determinazione finale della conferenza,
con ricorso che è stato, peraltro, respinto
da questo Tribunale amministrativo (dapprima
con la sentenza n. 2466 del 2012, e poi con
la sentenza n. 1138 del 2015).
In una tale situazione, la Provincia era
tenuta, nell’elaborazione del PTCP, a
prendere in considerazione la destinazione
dell’area, risultante dalle determinazioni
assunte in esito al procedimento di
sportello unico alle attività produttive,
cui lo stesso Ente aveva partecipato.
In particolare, deve tenersi presente che
l’approvazione definitiva del progetto, con
effetto di variante al PGT di Roncello, è
avvenuta nell’agosto del 2011 e che la
stipulazione della convenzione urbanistica
accessoria e il rilascio del permesso di
costruire risalgono al 22.12.2011,
ossia alla medesima data di adozione del PTCP (avvenuta con deliberazione del
Consiglio provinciale n. 31 del 22.12.2011); adozione poi resa nota con la
pubblicazione dell’avviso sul BURL del 18.01.2012.
Alla data in cui è intervenuto il PTCP, il
procedimento SUAP 2 era, perciò, concluso e
la posizione del privato proponente era da
ritenere particolarmente qualificata, stante
la stipulazione anche della convenzione
urbanistica. Di tale situazione la Provincia
non avrebbe potuto non tenere conto, in
quanto la sottoscrizione della convenzione
in pari data all’adozione del PTCP –e
quindi prima che il Piano potesse assumere
concretamente efficacia, sia pure in via
interinale– le era stata rappresentata
dall’odierna ricorrente mediante la
formulazione di osservazioni nel
procedimento pianificatorio.
11. Al riguardo, occorre tenere presente
che, secondo l’orientamento consolidato
della giurisprudenza, costantemente
affermato anche da questa Sezione, la
stipulazione di una convenzione urbanistica
attribuisce al privato una posizione di
affidamento qualificato, che deve essere
adeguatamente ponderata dall’Amministrazione
laddove questa intenda modificare la
disciplina urbanistica dell’area. La
modificazione della pianificazione richiede,
in questo caso particolare, una motivazione
specifica, ordinariamente non richiesta per
le scelte di piano, che sono di regola
adeguatamente sorrette dai soli criteri
generali di impostazione dello strumento (cfr.
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 05.03.2018, n. 615; Id., 25.10.2017, n. 2020; Id., 23.03.2015, n. 783; Id., 30.09.2014, n. 2404; Id., 22.07.2014, n. 1972).
Se è vero perciò che, in linea di principio,
la Provincia non sarebbe stata tenuta a
motivare specificamente l’imposizione di una
disciplina di tutela, nel caso in esame la
ponderazione dell’interesse privato era da
ritenere necessaria, in considerazione della
particolare posizione della parte.
12. Tale onere motivatorio non risulta
essere stato assolto dalla Provincia, la
quale ha basato la classificazione dell’area
come AAS sui soli parametri di carattere
generale assunti a questo scopo, e
l’inclusione nella RV sulle previsioni della
RER, senza prendere in considerazione
l’affidamento qualificato del privato.
Anche in sede di controdeduzione alle
osservazioni, la Provincia si è limitata a
richiamare l’impugnazione da essa stessa
proposta contro la delibera comunale di
approvazione del progetto SUAP 2
(impugnazione, come detto, respinta in primo
grado, con sentenza avverso la quale pende
appello), aggiungendo che: “Vero è che il
progetto di SUAP prevede, con un ulteriore
spostamento verso sud delle compensazioni,
il potenziale ripristino del corridoio
ecologico mediante nuovi interventi di
mitigazione ambientale; deve essere tuttavia
considerato che esse ricadrebbero quasi
totalmente nel territorio comunale di
Trezzano Rosa (provincia di Milano), su
terreni di proprietà privata, nei confronti
dei quali nessuna efficacia previsionale può
essere esercitata dal Comune di Roncello.
Si deve pertanto considerare che
l'attuazione del SUAP andrebbe a precludere
totalmente il corridoio ecologico primario
all'interno del Comune di Roncello, nulla
potendosi prevedere in relazione alla
pianificazione del territorio esterno allo
stesso Comune ed alla Provincia di Monza e
Brianza”.
In altri termini, la Provincia non esclude
affatto che la soluzione oggetto
dell’intervento approvato possa essere
concretamente idonea a tutelare i valori
ambientali, ma fa ricadere sul privato un
potenziale difetto di coordinamento tra le
competenze della Regione Lombardia (che ha
stabilito il tracciato della RER), delle
Province di Milano e di Monza e Brianza (nel
cui ambito ricadono i territori,
rispettivamente, dei Comuni di Trezzano Rosa
e di Roncello) e dei Comuni interessati.
13. In definitiva, il ricorso va accolto,
nei sensi e nei termini sin qui esposti, con
assorbimento delle residue censure. Per
l’effetto, deve essere disposto
l’annullamento del PTCP, nella parte di
interesse della ricorrente. |
EDILIZIA PRIVATA: Opere
di ristrutturazione o di manutenzione
straordinaria su manufatto abusivo.
Non possono realizzarsi
opere di ristrutturazione o di manutenzione
straordinaria su un manufatto abusivo, per
il quale non sia stata ancora definita la
procedura di sanatoria o di condono
edilizio.
Infatti, in presenza di manufatti
abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure
riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione straordinaria
del restauro e/o del risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche) ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale alla quale ineriscono
strutturalmente, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.09.2018 n. 2046 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3.3 Il motivo di censura di cui al punto 3)
verte sulla qualificazione giuridica
dell’intervento: si tratterebbe di un
intervento di manutenzione e risanamento, ai
fini anche di un adeguamento alle normative
vigenti e sopravvenute, che prevede un
accorpamento e un contestuale frazionamento,
con adeguamento dei servizi igienici, senza
aumento di volume o s.l.p. e senza modifica
della destinazione d’uso. Al più, secondo la
ricorrente, l’intervento può essere
classificato come intervento di risanamento
conservativo, ai sensi dell’art. 3, comma 1,
lettera c), del DPR 380/2001, come recentemente
modificato dall'art. 65-bis della legge n.
96 del 2017.
Contra, l’Amministrazione ha applicato la
diversa categoria della “ristrutturazione
edilizia”, considerando l’intervento in modo
unitario.
Va ricordato che la qualificazione
dell’intervento ha rilevanza, in quanto non
possono realizzarsi opere di
ristrutturazione o di manutenzione
straordinaria su un manufatto abusivo, per
il quale non sia stata ancora definita la
procedura di sanatoria o di condono
edilizio. Infatti, secondo l’orientamento
consolidato, in presenza di manufatti
abusivi non sanati né condonati, gli
interventi ulteriori (sia pure
riconducibili, nella loro oggettività, alle
categorie della manutenzione straordinaria
del restauro e/o del risanamento
conservativo, della ristrutturazione, della
realizzazione di opere costituenti
pertinenze urbanistiche), ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera
principale alla quale ineriscono
strutturalmente, con conseguente obbligo del
Comune di ordinarne la demolizione (ex multis Tar Bari, (Puglia), sez. III,
03/04/2018, n. 496; Tar Napoli, (Campania),
sez. VI, 05/03/2018, n. 1407). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento, creando due nuove unità, rese
indipendenti tra di loro dalla costruzione
di una nuova parete trasversale di
separazione realizzata in muratura piena,
comporta l’alterazione sostanziale
dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione
edilizia, stante la differente distribuzione
della superficie interna e dei volumi, il
rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed una alterazione
dell'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile.
Non possono
qualificarsi come strettamente manutentivi
di una costruzione preesistente, ovvero
diretti al suo consolidamento o restauro
conservativo, i lavori che determinano la
creazione di un organismo nuovo che veda
alterata la sua struttura; infatti, gli
interventi edilizi che alterino l'originaria
consistenza fisica di un immobile e
comportino l'inserimento di nuovi impianti e
la modifica e ridistribuzione dei volumi,
non possono configurarsi né come
manutenzione straordinaria né come restauro
o risanamento conservativo, ma rientrano
nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
---------------
Il Collegio non ritiene vi siano elementi
per discostarsi da quanto affermato in sede
cautelare, circa la qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione
edilizia.
Va premesso che correttamente
l’Amministrazione ha effettuato una
valutazione globale delle opere, non dei
singoli interventi: artificiose
frammentazioni, in luogo di una corretta
qualificazione unitaria dell'intervento,
comportano una scomposizione virtuale delle
opere finalizzata a “declassare”
l’intervento, che deve invece essere
complessivamente considerato.
E’ infatti sempre necessaria una visione
globale e non atomistica dell'intervento
edilizio, dal momento che la sua
qualificazione deriva non dalla singola
opera, ma dall’insieme delle variazioni
apportate all’assetto del territorio.
Nel caso in esame le singole opere sono
state puntualmente descritte nella relazione
del tecnico comunale: all’esterno vengono
eliminati “importanti e consistenti tratti
di muratura perimetrale dell’originario
fabbricato, (fronte interno) volti a
consentire la fusione di questo con gli
spazi dell’immobile antistante, anch’esso
oggetto di significative opere di
sostituzione degli elementi di
tamponamento”; vengono poi create due unità,
dotate di nuovi servizi igienici, con un
nuovo sistema di reti di scarico; oltre alle
nuove opere per il contenimento del consumo
energetico, vengono sostituite le esistenti
luci con nuove finestre, quindi con una
modifica anche delle facciate.
L’intervento, creando due nuove unità, rese
indipendenti tra di loro dalla costruzione
di una nuova parete trasversale di
separazione realizzata in muratura piena,
comporta l’alterazione sostanziale
dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione
edilizia, stante la differente distribuzione
della superficie interna e dei volumi, il
rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed una alterazione
dell'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile. Non possono
qualificarsi come strettamente manutentivi
di una costruzione preesistente, ovvero
diretti al suo consolidamento o restauro
conservativo, i lavori che determinano la
creazione di un organismo nuovo che veda
alterata la sua struttura; infatti, gli
interventi edilizi che alterino l'originaria
consistenza fisica di un immobile e
comportino l'inserimento di nuovi impianti e
la modifica e ridistribuzione dei volumi,
non possono configurarsi né come
manutenzione straordinaria né come restauro
o risanamento conservativo, ma rientrano
nell'ambito della ristrutturazione edilizia
(Tar Lecce, (Puglia), sez. I, 05/04/2018, n.
554).
Già la sola indicazione di voler procedere a
demolizione, prevista per un ampio tratto di
muratura perimetrale, mette in evidenza come
l’intervento nel suo complesso sia tutt’altro
che esiguo.
Né è pertinente il richiamo alla nuova
disciplina del c.d. sblocca Italia: il d.l.
n. 133/2014 (convertito nella L. n.
164/2014) ha ampliato la categoria di
intervento della manutenzione straordinaria,
includendovi una serie di opere
tradizionalmente rientranti nella
ristrutturazione edilizia con aumento di
carico urbanistico (come, ad esempio, il
frazionamento dell'immobile in più unità
immobiliari e le opere che aumentano la
superficie calpestabile “entro sagoma”) allo
scopo di assoggettarle a SCIA “semplice” o a
C.I.L. e non più a permesso di costruire.
Nel caso in esame, come detto, la
qualificazione come ristrutturazione è
determinata dal rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio e dall'alterazione
dell'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e
risanamento, che invece presuppongono pur
sempre la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio (nella
sua lata accezione di componenti strutturali
originali o meramente riproduttivi) e che
cioè determinino la conservazione formale e
funzionale dell’organismo edilizio.
Il motivo va quindi respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.09.2018 n. 2046 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito incontrollato di rifiuti speciali non
pericolosi - Deposito di macerie di demolizione edile a
cielo aperto - Sottoprodotto - Esclusione della disciplina
sui rifiuti - Onere della prova - Artt. 184-bis, 256 d.lgs.
n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di distinzione tra rifiuto e
sottoprodotto, l'assunto secondo cui si verserebbe in
presenza di materia prima secondaria, con conseguente
sottrazione del materiale di specie alla nozione di rifiuto,
non trova spazio alcuno spazio ad inficiare la sentenza di
condanna laddove si sono implicitamente ritenuti mancanti
gli specifici requisiti necessari, ex art. 184-bis del
d.lgs. n. 152 del 2006, per qualificare le sostanze come
sottoprodotto e la cui prova è a carico di chi li invoca
(Sez.3, n. 56066 del 19/09/2017, sacco e altro).
...
RIFIUTI -
Gestione di rifiuti - Attività qualificabile come di
amministrazione di fatto - Apprezzabile attività gestoria
svolta in modo non episodico né occasionale - Necessità -
Gestione o cogestione societaria - Art. 2639 c.c. -
Giurisprudenza.
In tema di gestione di rifiuti, al fine
di ritenere sussistente un'attività qualificabile come di
amministrazione di fatto, pur non richiedendosi l'esercizio
di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, è
necessario tuttavia, anche in relazione a quanto disposto
dall'art. 2639 c.c. che, seppure dettato con riferimento ai
reati societari, assume tuttavia una valenza interpretativa
di carattere generale, "l'esercizio di un'apprezzabile
attività gestoria svolta in modo non episodico né
occasionale" (tra
le altre, Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, Faruolo; Sez.3, n.
22108/15 del 19/12/2014, Berni ed altri; Sez. 5, n. 35346
del 20/06/2013, Tarantino; Sez.5, n. 46962 del 22/11/2007,
Cristiano; sez. 5, n. 43388 del 17/10/2005, Carboni);
si è aggiunto che l'accertamento degli elementi
sintomatici di una tale continuativa gestione o cogestione
societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che
è insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuto da
motivazione congrua e logica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.08.2018 n. 39244 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: Realizzazione
di impianti di smaltimento e recupero
rifiuti e pianificazione urbanistica.
Il Consiglio di Stato,
in ordine all’effetto modificativo ex art.
208 del d.lgs. n. 152/2006 delle previsioni
urbanistiche relative all’aree in relazione
alle quali viene autorizzata la
realizzazione di impianti di smaltimento e
recupero rifiuti, precisa che la ratio della
disposizione in esame -che è quella di
dotare la nazione di una adeguata rete di
impianti di smaltimento dei rifiuti
superando le fisiologiche lungaggini insite
nell’acquisizione di atti di assenso da
parte dei molteplici livelli di governo
territoriale (anche di natura espropriativa)-
non consente di alterare la gerarchia dei
valori che si compongono nella gestione del
territorio e che vedono collocati al più
basso gradino di una scala ideale, dal punto
di vista spaziale e funzionale “quelli
compendiati dalla pianificazione urbanistica
comunale”.
La legge statale ha individuato il punto di
equilibrio fra i contrapposti interessi
coniugando il massimo della semplificazione
burocratica facente capo ai tre livelli di
governo territoriale (regione, provincia e
comune) relativamente agli atti e
provvedimenti individuali, con la
compromissione dei poteri pianificatori al
minore livello possibile (che è quello
urbanistico comunale).
L’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006 introduce
quindi una norma eccezionale che deroga, per
superiori esigenze pubbliche, il normale
quadro degli assetti procedimentali e
sostanziali in materia di costruzione e
gestione di impianti di smaltimento di
rifiuti (anche pericolosi); da qui
l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp.
prel. c.c., di una esegesi rigorosa della
norma medesima che sia, ad un tempo,
conforme agli obbiettivi (nazionali ed
europei) di razionale gestione del ciclo dei
rifiuti a tutela della salute pubblica, ma
al contempo rispettosa degli ulteriori
valori legati alla tutela del paesaggio,
dell’ecosistema e comunque espressione di
interessi fondamentali che necessitino, per
la loro cura, di un livello dimensionale e
funzionale superiore rispetto a quello
assicurato dalla pianificazione urbanistica
comunale (nel caso di specie, le previsioni
contenute nel Piano di gestione dei rifiuti
speciali e nel Piano Urbanistico
Territoriale Tematico "Paesaggio" della
Regione Puglia)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.08.2018 n. 5065 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Ciò premesso, l’appello è infondato.
18. Accantonato quanto evidenziato dalla
stessa appellante in ordine ad una possibile
improcedibilità del ricorso di primo grado
contro il PRGRS del 2009 conseguente
all’approvazione nel 2015 di un nuovo Piano
regionale di gestione dei rifiuti speciali
(tesi infondata in quanto il provvedimento
impugnato si è formato sotto l’egida di
quello strumento di pianificazione), va
rilevato che con il primo e principale
motivo di appello la società Fer.Live ha
sostanzialmente negato di aver censurato
anche il PRGRS del 2009.
Il Tar ha invece sottolineato che: “Il
punto nodale della controversia è costituito
dal divieto di localizzazione dell’impianto
e della annessa discarica in area non
industriale, ma agricola, ai sensi del PRGRS
della Regione Puglia, oltre che in area
classificata come Ambito Territoriale Esteso
di tipo C del PUTT/Puglia.
L’impugnato diniego di AIA, alla luce della
sua inequivocabile motivazione, configura un
mero atto applicativo del PRGRS, il quale,
rispetto al primo, costituisce l’atto
generale presupposto che in esso trova la
sua applicazione e che avrebbe dovuto essere
impugnato congiuntamente allo stesso, al
fine di costituire il presupposto
processuale per l’auspicata accoglimento
della domanda di annullamento.
Malgrado l’impugnativa in via subordinata
del PRGRS così come svolta nell’ultima parte
del ricorso introduttivo, il gravame così
come strutturato non è stato notificato alla
Regione Puglia, da considerarsi viceversa
come parte necessaria del presente giudizio,
nella qualità di Pubblica Amministrazione
che ha emanato l’atto impugnato ex art. 41,
comma 2, c.p.a..”.
In sostanza, il giudice di prime cure ha
posto a premessa della inammissibilità per
mancata notifica alla Regione il rilievo
diretto ed indiretto nella causa del Piano
regionale.
19. Le conclusioni del Tar non possono
che essere condivise.
Deve evidenziarsi l’inammissibilità delle
prospettazioni contenute nel primo motivo di
appello posto che le stesse tendono
sostanzialmente a smentire una circostanza
evidente del giudizio di primo grado (la
contestazione e l’errata interpretazione del
PRGRS del 2009) e ad introdurre un ulteriore
profilo di censura del provvedimento
impugnato.
20. E, infatti, principio pacifico (cfr.
Cons. Stato, Ad. Plen. n. 5 del 2015) che,
in ordine logico, è preliminare l’esame da
parte del giudice delle diverse declinazioni
dell’interesse materiale avuto di mira dal
ricorrente, il cui esito può rilevare, anche
in relazione alle singole censure, ai fini
della valutazione della sussistenza delle
condizioni dell’azione, ma non assume valore
dirimente per individuare se si è in
presenza di una o più domande di
annullamento, perché ciò che conta è
l’effetto cassatorio avuto di mira, che è
unico, se si dispiega nei confronti di
singoli e ben individuati atti (nel caso in
esame il provvedimento di diniego dell’AIA
adottato con riferimento al PRGRS del 2009).
D’altra parte, anche le richiamate sentenze
del Consiglio di Stato (sez. V n. 2683/2013
e n. 2432/2014) hanno avuto ad oggetto
l’annullamento di una specifica previsione
contenuta nell’ultimo comma del paragrafo 15
del Piano del 2009 (disciplina delle
discariche in zone argillose) che non
riguardava il caso in esame.
Seguendo la tassonomia propria delle
questioni, infatti, l’esame della questione
di inammissibilità del ricorso precede
quello della questione di improcedibilità.
21. Il primo giudice, pertanto, non si è
discostato dai principi elaborati dalla
Plenaria n. 5 del 2015 per individuare
l’ordine di esame delle questioni.
22. Anche gli ulteriori motivi di appello
non sono fondati.
24. Innanzitutto, richiamando ancora
l’Adunanza Plenaria n. 5 del 2015, essendo
stato respinto il motivo prioritario
relativo alla declaratoria di omessa
notifica del ricorso di primo grado alla
Regione, risulterebbe inutile passare
all’esame dei motivi che si incentrano sulla
illegittimità di tale delibera.
25. Quanto al richiamato parere favorevole
del comune di Bitonto al progetto della Fer.
Live anche da un punto di vista ambientale,
va rilevato che la stessa Amministrazione ha
espresso un’esplicita clausola di riserva
con un rinvio di approfondimento sulla
localizzazione dell’impianto al procedimento
di AIA (clausola peraltro non impugnata
dalla società appellante).
26. Oltre alla evidente inammissibilità
delle censure che a diverso titolo chiamano
in causa il Piano regionale del 2009 e alla
ininfluenza nel presente giudizio della
proposizione del ricorso straordinario
contro l’annullamento della determina di
proroga della VIA, va poi evidenziato che
anche la tesi incentrata sull’effetto
modificativo ex art. 208 del d.lgs. n.
152/2006 delle previsioni urbanistiche
relative all’area non può essere condivisa.
Come ricordato dal Consiglio di Stato (sez.
V, n. 5659/2015) la ratio della disposizione
in esame -che è quella di dotare la nazione
di una adeguata rete di impianti di
smaltimento dei rifiuti superando le
fisiologiche lungaggini insite
nell’acquisizione di atti di assenso da
parte dei molteplici livelli di governo
territoriale (anche di natura espropriativa)- non consente di alterare la gerarchia dei
valori che si compongono nella gestione del
territorio e che vedono collocati al più
basso gradino di una scala ideale, dal punto
di vista spaziale e funzionale “quelli
compendiati dalla pianificazione urbanistica
comunale”.
La legge statale ha poi individuato il punto
di equilibrio fra i contrapposti interessi
coniugando il massimo della semplificazione
burocratica facente capo ai tre livelli di
governo territoriale (regione, provincia e
comune) relativamente agli atti e
provvedimenti individuali, con la
compromissione dei poteri pianificatori al
minore livello possibile (che è quello
urbanistico comunale).
27. D’altra parte, come sottolineato dalla
stessa sentenza del Consiglio di Stato n.
5659/2015, il sistema di principi,
cristallizzati da una ormai consolidata
giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte
cost., 23.11.2011, n. 309; 29.10.2009, n. 272; 23.12.2008, n. 437;
07.11.2007, n. 367) e amministrativa (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, n, 4244 del 2010)
salvaguarda una concezione del paesaggio
quale valore “primario”, di “morfologia del
territorio” per i contenuti ambientali e
culturali che contiene (la cui conservazione
è attribuita alla competenza esclusiva
statale in separazione funzionale rispetto
alla fruizione dello stesso affidata alla
competente legislativa concorrente), la cui
tutela trova espressione diretta nei piani
territoriali a valenza ambientale o nei
piani paesaggistici redatti dalle regioni.
28. L’art. 208 del d.lgs. n. 152/2006
introduce quindi una norma eccezionale che
deroga, per superiori esigenze pubbliche, il
normale quadro degli assetti procedimentali
e sostanziali in materia di costruzione e
gestione di impianti di smaltimento di
rifiuti (anche pericolosi). Da qui
l’indefettibile necessità, ex art. 14, disp.
prel. c.c., di una esegesi rigorosa della
norma medesima che sia, ad un tempo,
conforme agli obbiettivi (nazionali ed
europei) di razionale gestione del ciclo dei
rifiuti a tutela della salute pubblica ma al
contempo rispettosa degli ulteriori valori
(pure questi di rilievo costituzionale ed
europeo dianzi evidenziati) legati alla
tutela del paesaggio, dell’ecosistema e
comunque espressione di interessi
fondamentali che necessitino, per la loro
cura, di un livello dimensionale e
funzionale superiore rispetto a quello
assicurato dalla pianificazione urbanistica
comunale (nel caso di specie, le previsioni
contenute nel PRGRS del 2009 e nel PUTT
della Puglia).
29. In sostanza, la Provincia non avrebbe
mai potuto derogare, ai sensi del citato
art. 208, ai divieti di localizzazione
dell’impianto e della annessa discarica in
area non industriale, ma agricola, previsti
dal PRGRS, oltre che la classificazione
dell’area come Ambito Territoriale Esteso di
tipo C indicata dal PUTT, consentendo la
realizzazione di un impianto per il
trattamento ed il recupero dei metalli da
rifiuti con annessa discarica per l’abbancamento
di due milioni di mc di rifiuti.
30. Infine, per quel che riguarda la dedotta
incompetenza della Provincia in materia di
discariche, va rilevato che le competenze in
materia di autorizzazione degli impianti di
trattamento dei rifiuti sono state delegate
dalla regione Puglia alle province con legge
regionale n. 30/1986 (cfr. art. 5 – delega
successivamente confermata con legge
regionale n. 17/2007).
31. A tale osservazione, va poi aggiunto
che, contrariamente a quanto affermato
dall’appellante, la Regione è l’unico
soggetto competente a provvedere
all’eventuale progetto con efficacia di
variante urbanistica di cui all’art. 208 del
d.lgs. n. 152/2006, non avendo la stessa
Amministrazione delegato, insieme a quelle
ambientali, le funzioni urbanistiche (cfr.
sul punto nota del Dirigente Assetto del
territorio-urbanistica della regione Puglia
prot. 5121 del 09.06.2003).
32. Per le ragioni sopra esposte, l’appello
va respinto e, per l’effetto, va confermata
la sentenza impugnata. |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è consolidata nel ritenere
che le controversie inerenti la
contestazione degli oneri di urbanizzazione,
qualora non vengano dedotte censure
derivanti da atti generali autoritativi di
determinazione degli oneri presupposti di
quello impugnato, attengono a posizioni di
diritto soggettivo azionabili innanzi al
Giudice amministrativo in sede di
giurisdizione esclusiva nel termine di
prescrizione, e a prescindere
dall’impugnazione del relativo atto di
imposizione.
Ciò in quanto gli atti con i
quali, in applicazione dei criteri
legislativi e regolamentari stabiliti,
l’amministrazione comunale quantifica le
somme dovute e le pone a carico del
titolare, sia a titolo di oblazione che a
titolo di contributo, hanno natura di atti
paritetici.
Fatta quindi eccezione per le
impugnative degli atti regolamentari con i
quali le Regioni e i Consigli comunali
stabiliscono i criteri generali per la
determinazione del contributo, tutte le
altre controversie relative all’an e al
quantum delle somme dovute a tali titoli,
riservate dalla legge alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo,
riguardano diritti soggettivi delle parti in
relazione ai quali l’amministrazione è
sfornita di potestà autoritativa, dovendo
compiere un’attività di mero accertamento in
base ai parametri normativi prefissati.
Ne consegue, pertanto, il diritto per i
soggetti interessati di contestare, mediante
azione di accertamento, l’erroneità della
imposizione operata dall’Amministrazione
secondo i criteri fissati in via normativa o
regolamentare, indipendentemente dalla
rituale impugnazione degli atti emanati, i
quali si risolvono in definitiva in mere
operazioni materiali
o di calcolo.
---------------
1. Con il ricorso originario, le parti
ricorrenti impugnano il provvedimento emesso
dal Comune di Carnago che dà avvio alla
conclusione del procedimento per la
determinazione degli oneri concessori
inerenti il fabbricato di proprietà dei
ricorrenti e al pagamento della sanzione
prevista dall’articolo 36 del D.P.R.
380/2001, quantificata in euro 55.731,28,
oltre agli interessi legali. Con il
successivo ricorso per motivi aggiunti i
ricorrenti impugnano la relativa ingiunzione
di pagamento emessa dal Comune con nota del
23.12.2014.
2. Preliminarmente occorre esaminare
l’eccezione di inammissibilità del ricorso
originario e del ricorso per motivi aggiunti
formulata dal Comune. Secondo l’Ente
resistente le doglianze dei ricorrenti
risultano incompatibili con la richiesta di
accertamento di conformità ex articolo 36
del D.P.R. 380/2001.
L’eccezione è infondata
tenuto conto che, come osservato dallo
stesso Comune, la richiesta di pagamento è
emessa nell’ambito del procedimento di
permesso di costruire in sanatoria
presentata il 04.03.2014. La questione
relativa all’intervenuta formazione della
D.I.A. 34/2009 costituisce un aspetto di
merito –di seguito oggetto di esame da
parte del Collegio– che, tuttavia, non
inficia l’ammissibilità delle contestazioni
svolte in ordine alla quantificazione delle
somme dovute, effettuata dal Comune
nell’ambito dello specifico procedimento in
cui la richiesta di pagamento si inserisce.
2.1. Parimenti infondata è la seconda
eccezione con la quale il Comune deduce che
il ricorso originario risulterebbe
inammissibile perché relativo ad un atto
privo di valenza provvedimentale.
Va,
infatti, considerato che la giurisprudenza è
consolidata nel ritenere che le controversie
inerenti la contestazione degli oneri di
urbanizzazione, qualora non vengano dedotte
censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri
presupposti di quello impugnato, attengono a
posizioni di diritto soggettivo azionabili
innanzi al Giudice amministrativo in sede di
giurisdizione esclusiva nel termine di
prescrizione, e a prescindere
dall’impugnazione del relativo atto di
imposizione (cfr., ex multis, Consiglio di
Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6281, id.,
sez. V, 09.02.2001, n. 584, id., sez. V,
21.04.2006, n. 2258, C.G.A.S., 02.03.2007, n. 64).
Ciò in quanto gli atti con i
quali, in applicazione dei criteri
legislativi e regolamentari stabiliti,
l’amministrazione comunale quantifica le
somme dovute e le pone a carico del
titolare, sia a titolo di oblazione che a
titolo di contributo, hanno natura di atti
paritetici.
Fatta quindi eccezione per le
impugnative degli atti regolamentari con i
quali le Regioni e i Consigli comunali
stabiliscono i criteri generali per la
determinazione del contributo, tutte le
altre controversie relative all’an e al
quantum delle somme dovute a tali titoli,
riservate dalla legge alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo,
riguardano diritti soggettivi delle parti in
relazione ai quali l’amministrazione è
sfornita di potestà autoritativa, dovendo
compiere un’attività di mero accertamento in
base ai parametri normativi prefissati (in
questi termini: Consiglio di Stato, sez. V,
22.11.1996, n. 1388; in termini anche
TAR per la Campania – sede di Napoli,
sez. III, 17.09.2009, n. 4983; TAR
per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 15.11.2006, n. 12461; TAR per la Puglia
– sede di Lecce, sez. III, 13.05.2005, n. 2744).
Ne consegue, pertanto, il diritto per i
soggetti interessati di contestare, mediante
azione di accertamento, l’erroneità della
imposizione operata dall’Amministrazione
secondo i criteri fissati in via normativa o
regolamentare, indipendentemente dalla
rituale impugnazione degli atti emanati, i
quali si risolvono in definitiva in mere
operazioni materiali (TAR Campania, sede
di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983)
o di calcolo.
Pertanto, l’impugnazione
svolta con il ricorso principale,
qualificabile ai sensi dell’articolo 32,
comma 2, del codice del processo
amministrativo come un’azione di
accertamento, risulta come tale ammissibile
anche in difetto di immediata lesività del
provvedimento impugnato.
...
5. Il motivo di ricorso svolto con il
ricorso per motivi aggiunti è parimenti
privo di fondamento.
Come affermato ancora di recente dal
Consiglio di Stato, “il calcolo dei
contributi dovuti al Comune per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione si
esegue inserendo gli elementi caratteristici
dell’immobile cui ci si riferisce –tipicamente la sua superficie e talune sue
caratteristiche– in una tabella predisposta
dal Comune, e spesso presentata anche nelle
forme di un foglio di calcolo elettronico.
Applicando agli elementi inseriti, che per
forza di cose il privato interessato
conosce, i coefficienti determinati in via
generale dal Comune stesso, si ottiene il
totale dovuto. In tal senso, si tratta di un
procedimento automatico, e chiunque può
controllarne l’esattezza, semplicemente
eseguendo in proprio il calcolo ed
evidenziando gli eventuali errori commessi.
In tal senso, quindi, non si può parlare di
un difetto di motivazione dell’atto, perché
il percorso logico che porta a determinare
il dovuto è sempre riproducibile” (Consiglio
di Stato, sez. VI, 26.07.2018, n. 4566).
Inoltre, come affermato da questa sezione,
“il […] procedimento di determinazione
dell’importo dovuto non è che una mera
applicazione delle tariffe ritenute operanti
sulla base delle dimensioni dell’immobile
che non sono contestate dalle parti” (TAR
per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
06.06.2018).
Del resto, deve considerarsi
che “la posizione giuridica dedotta in
giudizio dalla parte ricorrente ha natura di
diritto soggettivo avente carattere
patrimoniale, sicché la domanda proposta è
qualificabile esclusivamente come azione di
accertamento e non involge la legittimità
dell’esercizio del potere pubblico”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 17.05.2018, n. 2830), con conseguente possibilità
di diretta verifica dell’esattezza della
pretesa che, in parte qua, non trova
analitica contestazione da parte dei
ricorrenti e che, al contrario, è
esattamente individuata negli scritti
difensivi comunali (cfr., ff. 23 ss della
memoria del 27.02.2015).
6. In definitiva il ricorso introduttivo e
il ricorso per motivi aggiunti devono essere
respinti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.08.2018 n. 2020 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Istanza
priva della documentazione prescritta o di
uno dei presupposti per la realizzazione
dell’intervento edilizio.
Per la formazione di un
titolo edilizio è necessario che l’istanza
sia assistita da tutti i presupposti di
accoglibilità, giacché in assenza della
documentazione prescritta dalle norme o di
uno dei presupposti per la realizzazione
dell’intervento edilizio, alcun titolo
tacito può formarsi, considerato che
l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non
può far guadagnare agli interessati un
risultato che gli stessi non potrebbero mai
conseguire in virtù di un provvedimento
espresso, trattandosi non di una deroga al
regime autorizzatorio, ma di modalità
semplificata di conseguimento
dell’autorizzazione.
---------------
Con riferimento poi alla d.i.a., i
presupposti indefettibili perché una d.i.a.
possa essere produttiva di effetti sono la
completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute
nell’autocertificazione, per cui il decorso
del termine di trenta giorni non legittima
l’intervento edilizio se la dichiarazione
non corrisponde al modello legale prescritto
dalla legge, o comunque risulti inesatta o
incompleta, sicché l’Amministrazione, in
tale ipotesi, non decade dal potere di
inibire l’attività o di sospendere i lavori
e ciò anche se la dichiarazione di inizio
attività non dà vita ad una fattispecie
provvedimentale di assenso tacito, bensì
riflette un atto del privato volto a
comunicare l’intenzione di intraprendere
un’attività direttamente ammessa dalla legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.08.2018 n. 2020 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Entrando nel merito, occorre prende le
mosse dall’esame del primo motivo (comune al
ricorso introduttivo e al ricorso per motivi
aggiunti) che può vagliarsi unitamente al
terzo motivo di tali atti processuali per
evidente connessione tra le questioni
sottoposte all’attenzione del Collegio. Le
parti ricorrenti deducono l’illegittimità
dei provvedimenti impugnati in ragione della
mancata notificazione del provvedimento di
esercizio del potere inibitorio in relazione
alla D.I.A. 34/2009, da cui deriverebbe
l’intervenuta formazione del titolo.
3.1. Il Collegio ritiene che il titolo non
possa ritenersi formato a prescindere dalla
valenza preclusiva della mera adozione
dell’atto, non seguita da rituale
notificazione. Infatti, nel caso in esame,
la D.I.A. 34/2009 presenta comunque delle
carenze consistenti nella mancanza: a) della
dichiarazione relativa al collegamento con
la precedente pratica edilizia; b) del
documento di regolarità contributiva; c)
della documentazione di cui alla legge
10/1991 e al d.lgs. 192/2005; d) del computo
metrico estimativo e della tabella di
determinazione della classe di edificio; e)
della documentazione fotografica; f)
dell’esatta descrizione delle opere proposte
sia con riferimento allo stato di fatto
iniziale che alle opere di ampliamento di
cui alla D.I.A. 54/2008.
Ora, secondo un consolidato insegnamento
della giurisprudenza amministrativa –a cui
il Collegio ritiene di aderire– per la
formazione di un titolo edilizio è
necessario che l’istanza sia assistita da
tutti i presupposti di accoglibilità,
giacché in assenza della documentazione
prescritta dalle norme o di uno dei
presupposti per la realizzazione
dell’intervento edilizio, alcun titolo
tacito può formarsi, considerato che
l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non
può far guadagnare agli interessati un
risultato che gli stessi non potrebbero mai
conseguire in virtù di un provvedimento
espresso, trattandosi non di una deroga al
regime autorizzatorio, ma di modalità
semplificata di conseguimento
dell’autorizzazione (TAR per la Lombardia
– sede di Milano, sez. II, 03.04.2018, n.
882; TAR per la Puglia, sede di Bari, III,
12.05.2017, n. 492).
Con riferimento
alla d.i.a., poi, è stato rilevato che i
presupposti indefettibili perché una d.i.a.
possa essere produttiva di effetti sono la
completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute
nell’autocertificazione, per cui il decorso
del termine di trenta giorni non legittima
l’intervento edilizio se la dichiarazione
non corrisponde al modello legale prescritto
dalla legge, o comunque risulti inesatta o
incompleta, sicché l’Amministrazione, in
tale ipotesi, non decade dal potere di
inibire l’attività o di sospendere i lavori
(v., ex multis, TAR Lombardia, Milano, sez.
II, 28.07.2017 n. 1706), e ciò anche se
la “dichiarazione di inizio attività” non dà
vita ad una fattispecie provvedimentale di
assenso tacito, bensì riflette un atto del
privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente
ammessa dalla legge (v., tra le altre, TAR
Lazio, II, 05.07.2017 n. 7858).
Né può
omettersi di rammentare, infine, la
posizione espressa dal Consiglio di Stato
secondo cui "in caso di presentazione di
dichiarazione di inizio attività, l'inutile
decorso del termine previsto ai fini
dell'esercizio del potere inibitorio
all'effettuazione delle opere ... non
comporta che l'attività del privato,
ancorché del tutto difforme dal paradigma
normativo, possa andare esente dalle
sanzioni previste dall'ordinamento per il
caso di sua mancata corrispondenza alle
norme di legge e di regolamento, alle
previsioni degli strumenti urbanistici ed
alle modalità esecutive fissate nei titoli
abilitativi" (Consiglio di Stato, Sez. VI,
04.03.2015, n. 1058; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.11.2014, n. 5888;
Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.04.2013,
n. 1909).
Pertanto, in considerazione di quanto
esposto, il primo motivo del ricorso
introduttivo e del ricorso per motivi
aggiunti deve ritenersi infondato. |
URBANISTICA: Obblighi
di ripubblicazione del PGT a seguito
dell’accoglimento di osservazioni.
In sede di approvazione
del PGT, nel caso in cui, recependo una
osservazione della Commissione del
paesaggio, venga introdotta una nuova
destinazione, privando in tal modo il
privato della facoltà di presentare
osservazioni sulla nuova destinazione,
occorre procedere a una nuova pubblicazione
dello strumento urbanistico
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.08.2018 n. 2004 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
1) Il presente ricorso è proposto avverso la
delibera di approvazione del PGT, con cui
l’Amministrazione ha impresso all’area della
ricorrente una destinazione di
inedificabilità, variando quella prevista
nel piano adottato, in cui era stata
riconosciuta una parziale edificabilità.
2) La ricorrente nella memoria del 24.04.2018
ha sollevato l’eccezione di tardività della
costituzione del Comune; con la memoria di
replica sono state sollevate due eccezioni
di tardività: una rispetto alla memoria
difensiva comunale e l’altra rispetto alla
documentazione prodotta in ottemperanza
all’ordinanza collegiale.
L’eccezione di tardività della costituzione
è infondata, in quanto è vero che il Comune
si è costituito il 04.09.2017, dopo la
prima udienza di discussione del 15.06.2017, tuttavia con l’ordinanza n. 1798 del
15.6.2017, il Collegio ha rinviato il
giudizio all’udienza pubblica del 30.05.2018, per cui la tempestività della
costituzione e delle memorie deve essere
calcolata in relazione alla nuova udienza.
Con altra eccezione la ricorrente osserva
che la memoria difensiva comunale, in quanto
depositata in data 30.04.2018 alle ore 16.34,
quindi oltre 30 giorni liberi previsto dal c.p.a., sarebbe tardiva e dunque
inutilizzabile, in quanto avrebbe dovuto
essere depositata entro e non oltre il
giorno di venerdì 27.04.2018, entro le
ore 12.
Infatti, il giorno di scadenza (ossia il 31°
giorno) coincideva con il giorno di domenica
29.04.2018, per cui il deposito, come
prescritto dal combinato disposto dell’art.
73 c.p.a. con l’art. 52,
commi 3 e 4, c.p.a., avrebbe dovuto essere
anticipato al giorno antecedente non
festivo, ossia venerdì 27.04.2018.
L’eccezione va accolta, ma con la
precisazione che la memoria avrebbe dovuto
essere depositata in data 28.04.2018,
non il venerdì 27 aprile.
Infatti secondo
quanto statuito dal Consiglio di Stato, il
sabato è equiparato ai giorni festivi (in
virtù della novella di cui all'art. 2, co.
11, d.l. n. 263 del 2005, in vigore dal 01.03.2006) solo al fine del compimento
degli atti processuali svolti fuori
dell'udienza che scadono di sabato, onde
consentire agli avvocati di procedere ai
relativi adempimenti, concernenti i termini
di notifica e deposito che scadono di
sabato, il successivo lunedì; a tutti gli
altri effetti il sabato è considerato giorno
lavorativo. Il c.p.a. esplicita
l'applicabilità della disciplina sul sabato
anche al processo amministrativo (art. 52,
co. 5, c.p.a).
Questa regola, però, vale
solo per i termini che si calcolano in
avanti, e non anche per i termini che si
calcolano a ritroso; infatti l'art. 52, co.
5, c.p.a. estende al sabato solo la proroga
di cui al comma 3, ossia la proroga dei
giorni che scadono di giorno festivo, e
dunque non anche il meccanismo di
anticipazione di cui al co. 4; ne consegue
che se un termine a ritroso scade di sabato,
esso non va anticipato al venerdì, così come
se il termine a ritroso scade di domenica,
va anticipato al sabato e non al venerdì (Cons.
St. Sez. V, 31.05.2011 n. 3252, Sez. V - 25.07.2011, n. 4454).
Pertanto l’eccezione va accolta.
Rispetto al deposito documentale, osserva il
Collegio che il palese mancato rispetto del
termine non rende non utilizzabile la
documentazione prodotta, in quanto il
termine assegnato dal giudice è meramente
ordinario e non perentorio, non potendo
trovare applicazione in subiecta materia la
generale previsione dell'art. 52, comma 1, c.p.a., bensì la sola disposizione speciale
del successivo art. 68 c.p.a. per i termini
dell'istruttoria, che rinvia alle
disposizioni del c.p.c. e, tra queste,
all'art. 152, comma 1, c.p.c., secondo cui i
termini possono essere stabiliti dal giudice
anche a pena di decadenza, soltanto se la
legge lo permette espressamente.
Tuttavia nel caso in esame, oltre al mancato
rispetto dei termini, seppur non perentori,
risulta evidente la mancata ottemperanza
all’ordinanza, essendosi limitato il Comune
a depositare un rilievo planimetrico, a
fronte di un ordine chiaro circa il
contenuto di quanto doveva essere prodotto.
3) Il ricorso è fondato.
Come emerge dalla ricostruzione in fatto il
Consiglio Comunale, in sede di approvazione
definitiva del PGT ha modificato la
destinato delle aree della ricorrente,
rispetto a quanto statuito in sede di
adozione, recependo le indicazioni della
Commissione Comunale per il paesaggio.
E’ pacifico che l’Amministrazione goda di
ampia discrezionalità nella scelta
pianificatoria, discrezionalità a cui non
corrisponde, generalmente, una posizione di
affidamento del privato, per cui ben può
variare il contenuto di una piano tra la
fase di adozione e quella di approvazione.
Ugualmente, quando sono introdotte modifiche
al piano adottato, solo ove queste superino
il limite di rispetto dei canoni-guida del
piano, sussiste l'obbligo della
ripubblicazione da parte del Comune.
Tuttavia nel caso in esame,
l’Amministrazione è incorsa in una evidente
violazione procedimentale: come osserva la
ricorrente nella prima censura, la nuova
destinazione è stata introdotta, recependo
una osservazione della Commissione del
paesaggio, privando in tal modo la stessa
ricorrente della facoltà di presentare
osservazioni sulla nuova destinazione.
E’
pacifico che la pubblicazione del piano,
finalizzata alla presentazione delle
osservazioni da parte dei soggetti
interessati, non è generalmente richiesta
per le successive fasi del procedimento,
anche se il piano originario risulti
modificato a seguito dell'accoglimento di
alcune osservazioni o in sede di
approvazione regionale.
Tuttavia, la
peculiarità del caso in esame, risiede nel
fatto che l’Amministrazione d’ufficio (e non
a seguito dell’accoglimento di una
osservazione del proprietario), ha
introdotto una modifica radicale della
disciplina del piano, relativamente all’area
della ricorrente, privando quindi la stessa
proprietà di quel potere collaborativo
proprio delle osservazioni. Tra l’altro
l’osservazione è stata presentata da una
Commissione che è parte integrante
dell’apparato comunale, per cui in sostanza
la variazione della destinazione si è
concretizzata in una modifica d’ufficio
della destinazione prima impressa con il
piano adottato.
L’illegittimità della delibera emerge anche
sotto il profilo del difetto di motivazione.
La variazione della destinazione d’uso
dell’area è stata introdotta in recepimento
all’osservazione di una Commissione
Comunale, che invero, avrebbe dovuto
esprimere il parere in sede di redazione del
piano, con la finalità di tutelare “il
Castello”.
Il Castello, al di là del nome, è un
immobile certamente di pregio, che ha perso
le caratteristiche originarie a causa dei
numerosi interventi superfetativi e
parcellizzati; non è mai stato destinatario
di alcun vincolo e si trova in uno stato di
scarsa manutenzione.
Il Consiglio Comunale ha quindi ritenuto di
recepire acriticamente l’osservazione, senza
una precisa motivazione sul valore del bene
da preservare e senza alcuna puntuale
istruttoria sullo stato di fatto del bene.
Non solo.
Da quanto emerge dalla memoria di replica di
parte ricorrente, il Consiglio Comunale
avrebbe richiamato generiche esigenze di
preservare equilibri urbanistici della zona:
anche questa motivazione sarebbero frutto di
un travisamento dello stato dei luoghi. Al
di là della circostanza che
l’Amministrazione avrebbe dovuto dare
precise indicazioni in risposta
all’ordinanza istruttoria, tuttavia come
osserva la ricorrente il lotto in questione
è estraneo rispetto al sistema insediativo
circostante in quanto è un segmento
dell’unità produttiva e da sempre incluso
nel più vasto compendio immobiliare che
comprende anche i laboratori tessili della
Is. s.n.c..
Pertanto anche sotto questo profilo la
destinazione appare illogica e non motivata.
4) Il ricorso va quindi accolto, con
conseguente annullamento della delibera
nella parte in cui classifica l’area
identificata al mappale 5217, foglio 9, della
ricorrente come “Area non idonea ai fini
edificabili”. |
EDILIZIA PRIVATA:
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134,
primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la
riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex
art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di
urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni,
restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice
la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio
con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con
l'eventuale provvedimento di fermo.
La giurisdizione amministrativa non viene meno a
seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai
sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto,
“in materia di opposizione all'ingiunzione per la
riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la
disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14 aprile 1910, n.
639 non reca deroga alle norme regolatrici della
giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto,
non può essere invocata per ricondurre nella sfera di
competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze
che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla
normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla
cognizione di altro giudice”.
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento
e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante
all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva
del giudice amministrativo.
---------------
I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e
al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione
normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario
di dieci anni ex art. 2946 c.c.. Il "dies a quo", in
generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e,
quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli
elementi utili alla determinazione dell'entità del
contributo.
---------------
1. In via preliminare occorre soffermarsi sulle questioni in
rito.
Il Comune di Prato ha eccepito l’inammissibilità, per
difetto di giurisdizione, della quarta e della quinta
censura proposta con i motivi aggiunti, trattandosi da un
lato di questioni dedotte dalla ricorrente in relazione alla
validità formale dell’impugnata ingiunzione e non di
contestazioni del momento autoritativo del rapporto tra
pubblica amministrazione e privato, e dall’altro della
attuale persistenza del credito per decorso del termine di
prescrizione, appartenente alla cognizione del giudice
civile.
L’eccezione è infondata.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (fra le
più recenti, TAR di Cagliari, Sez. II, n. 555/2016, Cass.
Civ. Sez. Un., n. 15209/2015 e TAR Lombardia, Milano, IV,
n. 389/2014), la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134,
primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la
riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex
art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di
urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni,
restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice
la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio
con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con
l'eventuale provvedimento di fermo (TAR Sicilia, Catania, II,
11.10.2016, n. 2531; TAR Campania, Salerno, II, 04.04.2008, n.
474).
La giurisdizione amministrativa non viene meno a
seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai
sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto,
“in materia di opposizione all'ingiunzione per la
riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la
disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14.04.1910, n.
639 non reca deroga alle norme regolatrici della
giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto,
non può essere invocata per ricondurre nella sfera di
competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze
che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla
normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla
cognizione di altro giudice” (Cons. Stato, VI, 29.11.2005,
n. 6748).
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento
e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante
all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva
del giudice amministrativo.
Ciò premesso, entrando nel merito della trattazione del
ricorso e dei motivi aggiunti, valgono le seguenti
considerazioni.
...
9. Con la quarta
censura in cui si articolano i motivi aggiunti (ottava
doglianza, considerando anche quelle dedotte in via
principale) l’esponente ha eccepito la prescrizione
quinquennale degli oneri di urbanizzazione e del costo di
costruzione.
Il rilievo è infondato.
I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e
al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione
normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario
di dieci anni ex art. 2946 c.c. (ex multis: TAR Puglia,
Bari, III, 09.05.2018, n. 678; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.06.2014 n. 1493, 11.02.2014 n. 412 e
16.10.2014 2013 n. 1888; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 152). Il "dies a quo", in
generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e,
quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli
elementi utili alla determinazione dell'entità del
contributo
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Definizione di deposito controllato o temporaneo
non disciplinato dalla normativa sui rifiuti - Rispetto
delle norme tecniche - Nozione e differenza tra deposito
preliminare, messa in riserva, deposito incontrollato o
abbandono e discarica abusiva - Giurisprudenza - Art. 183,
208, e 256 d.lgs n. 152/2006.
Per deposito controllato o temporaneo,
si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima
della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, quando
siano presenti precise condizioni relative alla quantità e
qualità dei rifiuti, al tempo di giacenza, alla
organizzazione tipologica del materiale ed al rispetto delle
norme tecniche elencate nel d.lgs. n. 152 del 2006
(Sez. 3 n. 38676 del 20/05/2014).
Tale deposito è libero, non disciplinato
dalla normativa sui rifiuti, (ad eccezione degli adempimenti
in tema di registri di carico e scarico e del divieto di
miscelazione) anche se sempre soggetto ai principi di
precauzione ed azione preventiva che, in base alle direttive
comunitarie, devono presiedere alla gestione dei rifiuti e
che solo in difetto di anche uno dei menzionati requisiti,
il deposito non può ritenersi temporaneo, ma deve essere
considerato:
deposito preliminare, se il collocamento di rifiuti è prodromico
ad una operazione di smaltimento che, in assenza di
autorizzazione o comunicazione, è sanzionato penalmente dal
d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1;
messa in riserva, se il materiale è in attesa di una operazione
di recupero che, essendo una forma di gestione, richiede il
titolo autorizzativo la cui carenza integra gli estremi del
reato previsto dal d.lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma
1);
deposito incontrollato o abbandono quando i rifiuti non sono
destinati ad operazioni di smaltimento o recupero. Tale
condotta è sanzionata come illecito amministrativo se posta
in essere da un privato e come reato contravvenzionale se
tenuta da un responsabile di enti o titolare di impresa.
Invece, quando l'abbandono dei rifiuti è reiterato nel tempo
e rilevante in termini spaziali e quantitativi, il fenomeno
può essere qualificato come discarica abusiva
(Sez. 3, n. 49911 del 10/11/2009, Manni) e
il reato di discarica abusiva è configurabile anche in caso
di accumulo di rifiuti che, per le loro caratteristiche, non
risultino raccolti per ricevere nei tempi previsti una o più
destinazioni conformi alla legge e comportino il degrado
dell'area su cui insistono, anche se collocata all'interno
dello stabilimento produttivo
(Sez. 3, n. 41351 del 18/09/2008, Fulgori).
...
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata -
Reato contravvenzionale - Elemento psicologico dolo e colpa
- Errore scusabile e ignoranza della legge penale - Buona
fede - Elementi e limiti - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 256, comma l),
del d.lgs. n. 152 del 2006 è reato contravvenzionale, punito
in via generale, quanto all'elemento psicologico, sia a
titolo di dolo che di colpa (art. 42, comma 4, cod. pen.)
colpa la quale nella fattispecie, attese le modalità della
condotta, si appalesa all'evidenza dalla oggettività degli
accertamenti. Costituisce, del resto, principio generale che
lo svolgimento di un'attività in uno specifico campo
comporta un dovere di informazione sulle norme che regolano
detta attività, con la conseguenza che l'inosservanza di
tale obbligo rende colpevole e non scusabile l'eventuale
ignoranza della legge penale
(Sez. 3, n. 23998 del 12/05/2011; Sez. 3, n. 18928 del
15/03/2017).
Va ricordato che, la buona fede, che
esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo,
non può essere determinata dalla mera non conoscenza della
legge ma da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un
comportamento della autorità amministrativa deputata alla
tutela dell'interesse protetto dalla norma, idoneo a
determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento
della liceità della condotta
(Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015; Sez. 3, n. 42021 del
18/07/2014) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2018 n. 34145 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inizio dei lavori segna il dies a quo della
tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an
della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull'area), mentre laddove
si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.) il dies
a quo va fatto coincidere con il completamento dei lavori
ovvero con il grado di sviluppo degli stessi, ove renda
palese l'esatta dimensione, consistenza, finalità,
dell'erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da
parte di chi solleva l'eccezione di tardività, di provare,
anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza
del provvedimento lesivo in capo al ricorrente.
In particolare è stato affermato che:
a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza del provvedimento, che -fatte salve le
precisazioni di seguito esposte- si intende realizzata al
completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una
conoscenza anticipata.
Una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività
del ricorso, e può essere desunta anche da elementi
presuntivi che evidenzino la potenziale lesione portata
all'interesse del ricorrente; in quest'ambito assume un
ruolo importante l'eventuale presenza del cartello dei
lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia;
b) l'obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente
sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la
giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad
eventuali controinteressati di far valere le proprie
doglianze innanzi all'autorità amministrativa.
La presenza del cartello, pertanto, costituisce un indizio
grave preciso e concordante ai fini della integrazione della
prova presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte
del ricorrente;
c) la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i
termini di proposizione del ricorso in quanto la data del
permesso di costruire pubblicata sul cartello di cantiere
fissa la decorrenza del termine entro il quale deve essere
presentata l'impugnativa; termine che non può essere
dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti.
Ed infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino
la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando
una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali.
---------------
2.2. Il Collegio ritiene di aderire a quanto affermato dal
Consiglio di Stato in ordine ai criteri di verifica della
tempestività del ricorso, onde verificarne la ricevibilità,
con particolare riguardo all'ambito dell'attività edilizia (cfr.,
in termini, Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.03.2017, n.
998).
L’inizio dei lavori segna il dies a quo della
tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l'an
della edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun
manufatto poteva essere edificato sull'area), mentre laddove
si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.)
il dies a quo va fatto coincidere con il
completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo
degli stessi, ove renda palese l'esatta dimensione,
consistenza, finalità, dell'erigendo manufatto, ferma
restando la possibilità, da parte di chi solleva l'eccezione
di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la
concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in
capo al ricorrente (cfr., ex plurimis, Consiglio di
Stato, Sez. IV, 21.03.2016 n. 1135; Consiglio di Stato, Sez.
IV 28.10.2015, n. 4910 e n. 4909; Sez. IV, 22.12.2014 n.
6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n.
2209, che si conformano sostanzialmente all'insegnamento
dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011 sviluppandone i logici
corollari).
In particolare è stato affermato che:
a) il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla
piena conoscenza del provvedimento, che -fatte salve le
precisazioni di seguito esposte- si intende realizzata al
completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una
conoscenza anticipata; una simile prova va addossata a chi
eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta
anche da elementi presuntivi che evidenzino la potenziale
lesione portata all'interesse del ricorrente; in quest'ambito
assume un ruolo importante l'eventuale presenza del cartello
dei lavori ex art. 27, co. 4, t.u. edilizia;
b) l'obbligo di esposizione del cartello dei lavori, penalmente
sanzionato, è posto a presidio, anche secondo la
giurisprudenza penale, della esigenza di consentire ad
eventuali controinteressati di far valere le proprie
doglianze innanzi all'autorità amministrativa (cfr., Cass.
pen., Sez. III, 22.05.2012, n. 40118). La presenza del
cartello, pertanto, costituisce un indizio grave preciso e
concordante ai fini della integrazione della prova
presuntiva della conoscenza del provvedimento da parte del
ricorrente;
c) la richiesta di accesso non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso in quanto la
data del permesso di costruire pubblicata sul cartello di
cantiere fissa la decorrenza del termine entro il quale deve
essere presentata l'impugnativa; termine che non può essere
dilazionato dalla richiesta di accesso agli atti. Ed
infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, così determinando
una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 18.07.2018 n. 1747 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permessi, deroghe sono tassative. Cds
su strutture sanitarie private.
Le
circostanze che ammettono deroghe alla normale onerosità del permesso di
costruire sono tassative e di stretta interpretazione.
Lo ha affermato la quarta sezione del Consiglio di stato che, con
sentenza
09.07.2018 n. 4159, ha limitato
il campo interpretativo dell'art. 17 del Testo unico edilizia, relativo
all'esenzione del pagamento del contributo di costruzione, con particolare
riferimento alla realizzazione di strutture sanitarie private.
L'imposizione del pagamento degli oneri di urbanizzazione a soggetti privati
che intendono realizzare strutture sanitarie non è sempre stata pacifica dal
momento che gli orientamenti giurisprudenziali sul punto sono stati spesso
ondivaghi a volte negando l'esenzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n.
2467/2013) a volte affermandola (cfr. Tar Toscana, Sez. III, n. 1570/2016).
La quarta sezione evidenzia ora che occorre distinguere tra ciò che gli
strumenti urbanistici locali consentono e ciò che espressamente dispongono.
Nel caso specifico della realizzazione di strutture sanitarie private, ai
fini dell'esenzione, è necessario che gli strumenti urbanistici prevedano
espressamente che l'esecuzione dell'opera sia destinata al servizio di
interessi generali. Solo in virtù di una espressa disposizione in tal senso
la struttura sanitaria, realizzata da un soggetto privato, costituisce
attuazione ed esecuzione di una specifica previsione di piano, rientrando
così nell'ipotesi di esenzione prevista dall'articolo 17, comma 3, lett. c),
del Testo Unico Edilizia.
Ne risulta una restrizione di campo
dell'operatività del citato articolo. La ratio sottesa è quella di evitare
una contribuzione a carico di un'opera destinata a soddisfare esclusivamente
interessi generali. Il principio enucleato dal Consiglio di Stato supera,
dunque, quell'orientamento giurisprudenziale che non prevede la necessità
che lo strumento urbanistico indichi con esattezza o con effetti vincolanti
la distribuzione delle varie opere su ogni singola porzione di terreno (cfr.
Cons. Giust. Amm. Sicilia, n. 223/2014) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.10.2018).
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SENTENZA
L’appello non è fondato e va come tale respinto, con integrale conferma
della sentenza gravata.
Con il primo motivo l’appellante sostiene che la normativa vigente
attribuisce la competenza a realizzare e gestire le infrastrutture urbanizzative dell’area ASI al relativo Consorzio, di talché il comune non
sopporta alcun onere e non ha quindi titolo a pretendere alcun ristoro per
le trasformazioni edilizie che intervengono nell’agglomerato.
Il mezzo –benché dedotto in forma articolata e assai suggestiva– va
disatteso.
In limine sul piano testuale si ricorda che, ai sensi del comma 9 dell’art.
39 citato, il pagamento del contributo concessori costituisce (diversamente
da quanto avvenuto con la legge n. 47 del 1985 ) condizione per il rilascio
del titolo in sanatoria e che “Coloro che in proprio o in forme consortili
abbiano eseguito o intendano eseguire parte delle opere di urbanizzazione
primaria, secondo le disposizioni tecniche dettate dagli uffici comunali,
possono invocare lo scorporo delle aliquote, da loro sostenute, che
riguardino le parti di interesse pubblico.”.
Dal momento che la legge consente eventualmente lo scorporo degli interventi
urbanizzativi realizzati in proprio o in forma consortile, è evidente a
contrario che in linea generale il contributo concessorio per condoni ex
legge n. 724 di interventi realizzati in aree ASI è dovuto al comune
condonante.
A prescindere da questi rilievi testuali, sul piano generale la
Giurisprudenza della Sezione, confermando gli indirizzi assunti da ultimo
dal TAR Salerno, ha ormai chiarito la debenza del contributo anche per gli
interventi realizzati in area ASI, sia perché –in sintesi– il comune
partecipa strutturalmente alla provvista dei mezzi finanziari necessari al
funzionamento dei Consorzi, sia perché soprattutto la competenza del
Consorzio alla gestione dell’agglomerato non esonera il comune dall’obbligo
di realizzare le infrastrutture essenziali all’esterno e anche all’interno
dell’area (cfr. per tutte IV sez. n. 5546 del 2016 cui si fa integrale
riunivo per ragioni di sinteticità).
Con il terzo e centrale motivo ( del quale si anticipa l’esame) l’appellante
sostiene che il poliambulatorio (in quanto accreditato e convenzionato col SSR) costituisce esso stesso opera di urbanizzazione secondaria ed è dunque
esente dal contributo, giusta il disposto dell’art. 10, c. 1, L. n. 10 del
1977 (ora art. 16, c. 8, Tu n. 380 del 2001).
Anche questo mezzo, benché supportato da argomentazioni di grande spessore,
risulta in realtà non fondato e va pertanto disatteso.
Come è noto, l’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha introdotto
nell’ordinamento il principio fondamentale secondo cui ogni attività
comportante trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa
agli oneri da essa derivanti.
Gli oneri di urbanizzazione sono previsti, infatti, a carico del
costruttore, quale prestazione patrimoniale, a titolo di partecipazione al
costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della
collettività che scaturiscono dagli interventi di edificazione e dal maggior
carico urbanistico che si realizza per effetto della costruzione. Detti
oneri prescindono dall'esistenza o meno delle opere di urbanizzazione e
vengono determinati indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario
ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti
per realizzare siffatte opere.
La partecipazione del privato a tali spese, quando ottiene la concessione a
costruire, si atteggia quindi come assunzione di una quota dei costi della
vocazione edificatoria impressa al territorio, e trova giustificazione nel
beneficio, economicamente rilevante in termini di valore del suolo, che il
privato medesimo riceve per effetto della concreta attuabilità del suo
progetto di costruzione (cfr. tra le molte TAR Liguria n. 955 del 2016)
L’onerosità del permesso di costruire costituisce inoltre principio
fondamentale della normativa di settore, quindi non derogabile dalla
legislazione regionale (cfr. ad es. Corte cost. n. 231 del 2016)
Rispetto a tale regime generale oggi riprodotto dall’art. 11, c. 2, TU n. 380
del 2001, l’art. 17 del citato T.U. contempla alcune ipotesi di riduzione o
esonero dal contributo di costruzione.
Queste ipotesi devono considerarsi –e questo profilo va sottolineato perché
decisivo- tassative e di stretta interpretazione proprio perché, come
chiarito dalla costante giurisprudenza della Sezione, derogatorie rispetto
alla regola della normale onerosità del permesso (cfr. tra le molte IV
sez. n. 2754 del 2012).
Per quanto rileva nella presente controversia, l’art. 17, comma 3, lettera c),
prevede dunque che il contributo di costruzione non è dovuto “per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti
urbanistici”.
Nel caso all’esame la pretesa dell’appellante poggia sul fatto che
l’intervento ha realizzato una “attrezzatura sanitaria” la quale per
espressa previsione di legge costituisce appunto opera di urbanizzazione
secondaria ex art. 16, comma 8, T.U..
Al riguardo è però da osservare che l’opera di cui si discute –anche a
volerla annoverare fra quelle di urbanizzazione secondaria benché a rigore
edificata per private ragioni imprenditoriali e cioè non pertinente al SSN-
non risulta comunque eseguita in attuazione di specifica previsione dello
strumento urbanistico, come la legge richiede.
Infatti –come evidenziato dalla giurisprudenza della Sezione- l’opera di
urbanizzazione consegue l’esenzione solo se sia specificamente prevista e
così espressamente qualificata dallo strumento urbanistico (cfr. IV Sez.
n. 595 del 2016).
Infatti, ai fini dell’esenzione dal contributo per opere di urbanizzazione
devesi utilizzare lo stesso criterio che vige nel caso simmetrico dello
scomputo per realizzazione diretta dell’infrastruttura secondaria, nel quale
la materiale realizzazione dell’opera da parte del privato non rileva se non
è preceduta da un atto della p.a. che individui il tipo e l’entità delle
opere ammesse a scomputo. (cfr. CGA n. 223 del 2014).
Applicando detta regola si rileva che nel caso all’esame la variante al prg
approvata dal comune non ha apposto all’area di insistenza la qualificazione
propria delle attrezzature di interesse comune o a disposizione della
collettività, con la conseguenza che la struttura non costituisce attuazione
o esecuzione di una specifica previsione di piano.
In realtà, come si vedrà subito, è da dubitare in radice che la destinazione
d’uso conferita all’immobile fosse pienamente rispondente alla previsione di
piano.
Tuttavia, ciò che qui importa, non basta comunque che il piano consenta ma
occorre –ai fini dell’esenzione– che il piano preveda quell’opera
destinata ( e qualificata) al servizio di interessi generali.
Detto questo sul punto nodale, è comunque da osservare che l’ambulatorio
ricade in zona omogenea D4 (piccola industria, artigianale, commercio):
quindi è anche in radice da dubitare, come si è anticipato, della ricomprensione dell’intervento nell’ambito di quelli ivi consentiti.
Peraltro, anche sul piano logico è evidente come un poliambulatorio
sanitario solo con molte difficoltà possa essere assimilato alle strutture
di impianto tipico in un’area di sviluppo industriale la quale ha come
finalità (cfr. art. 8 Statuto Consorzio ASI Salerno) la creazione e lo
sviluppo di attività imprenditoriali nei settori industria e servizi alle
imprese.
Il punto però non va approfondito perché il comune ha definitivamente
ritenuto (come confermano le modalità di calcolo dell’oblazione) la
compatibilità dell’opera con la destinazione ( genericamente) terziaria
imposta dal prg.
Da ultimo l’appellante lamenta l’applicazione di interessi moratori al 10%,
da considerare sproporzionati rispetto al tasso legale (1%) all’epoca
vigente.
Anche questo mezzo va disatteso, in quanto l’espressa previsione contenuta
nell’art. 39 ridetto non rinvia al saggio legale ma quantifica l’interesse
dovuto dagli istanti nella misura del 10% in caso di ritardato pagamento del
contributo (cfr. IV Sezione n. 1817 del 2018).
D’altra parte, come evidenziato dal TAR, tale pretesa attiene al ritardato
pagamento di somme dovute per l’adozione di un provvedimento di assoluto
favore, mediante il quale l’autore di un intervento abusivo ne consegue la
piena regolarizzazione, e quindi non può dubitarsi della ragionevolezza del
saggio speciale, fissato dal Legislatore nella sua discrezionalità.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello va pertanto
respinto, con integrale conferma della gravata sentenza. |
EDILIZIA PRIVATA:
In ordine al fondamento giuridico dell’art. 96
del RD 523/1904, le sezioni unite della Corte di Cassazione
hanno statuito che i divieti previsti da tale disposizione
“sono informati alla ragione pubblicistica di assicurare,
oltre che alla possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali, anche (e soprattutto) il libero deflusso delle
acque di fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici”, così
giungendo ad affermare che la fascia di rispetto implica e
giustifica un regime di inedificabilità assoluta.
Di conseguenza si è ritenuto che “il divieto di costruzione
ad una certa distanza dagli argini dei corsi d’acqua
demaniali (c.d. fascia di servitù idraulica), contenuto
nell’art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904 n. 523, abbia
carattere assoluto ed inderogabile”.
Anche la giurisprudenza di merito si è allineata a tale
impostazione, rilevando che “la norma suddetta risponde
all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza
a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a
tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione
preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che
potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli
interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il
vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente
ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia
di rispetto”.
Quanto al rapporto tra le normativa statale e quella locale,
sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha osservato
che “alla luce del generale divieto di costruzione di opere
in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il rinvio alla
normativa locale assume carattere eccezionale. Tale
normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere
carattere specifico, ossia essere una normativa
espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela
delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni,
che tenga esplicitamente conto della regola generale
espressa dalla normativa statale e delle peculiari
condizioni delle acque e degli argini che la norma locale
prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale
deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche
mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può
essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale
strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla
regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli
argini anche in eventuale deroga alla disposizione della
lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica
condizione locale delle acque di cui trattasi”.
---------------
La disciplina di cui all’art. 96 RD 523/1904 “ha carattere
sussidiario, essendo destinata a prevalere solo in assenza
di una specifica normativa locale; tuttavia, a fronte dei
fini di tutela e sicurezza perseguiti, quest'ultima, che può
anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per
derogare alla norma statale deve essere espressamente
destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini,
esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela
delle acque e degli argini che giustifichino la
determinazione di una distanza maggiore o minore di quella
indicata dalla norma statale”.
---------------
Nel merito il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.
Potendosi prescindere dall’esame del primo motivo, anch’esso
oramai improcedibile, con cui è stata censurata la
violazione del giudicato cautelare, occorre esaminare il
secondo motivo aggiunto, con cui è stata dedotta la
violazione dell’art. 96 del RD 523/1904 e dell’art. 12 delle
NTA dello studio del reticolo idrico minore.
In ordine al fondamento giuridico del sopra citato art. 96,
le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno statuito
che i divieti previsti da tale disposizione “sono
informati alla ragione pubblicistica di assicurare, oltre
che alla possibilità di sfruttamento delle acque demaniali,
anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque di
fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici” (SS.UU.
05.07.2004, n. 12271; id., 30.07.2009, n. 17784), così
giungendo ad affermare che la fascia di rispetto implica e
giustifica un regime di inedificabilità assoluta.
Di conseguenza si è ritenuto che “il divieto di
costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi
d’acqua demaniali (c.d. fascia di servitù idraulica),
contenuto nell’art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904 n.
523, abbia carattere assoluto ed inderogabile” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814; id.
23.06.2014, n. 3147).
Anche la giurisprudenza di merito si è allineata a tale
impostazione, rilevando che “la norma suddetta risponde
all’evidente finalità di interrompere la pericolosa tendenza
a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a
tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione
preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che
potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli
interessi pubblici tutelati comporta, pertanto, che il
vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente
ampio determinando l'inedificabilità assoluta della fascia
di rispetto (TAR Toscana, sez. III, 08.03.2012, n. 439)”
(cfr. altresì, TAR Lombardia–Brescia, 02.10.2013, n. 814).
Quanto al rapporto tra le normativa statale e quella locale,
sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha osservato
che “alla luce del generale divieto di costruzione di
opere in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il
rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale.
Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve
avere carattere specifico, ossia essere una normativa
espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela
delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni,
che tenga esplicitamente conto della regola generale
espressa dalla normativa statale e delle peculiari
condizioni delle acque e degli argini che la norma locale
prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale
deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche
mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può
essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale
strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla
regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli
argini anche in eventuale deroga alla disposizione della
lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica
condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass.
civ., SS. UU., 18.07.2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV,
29.04.2011, n. 2544)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
23.06.2014, n. 3147).
Rispetto a tali profili di sicurezza idraulica, dall’esame
degli atti si registra quanto segue:
a) con nota del 10.03.2015 il sig. Br. ha personalmente dichiarato
che “l’edificio oggetto d’intervento è già situato ad una
quota di sicurezza rispetto all'alveo, e che quindi le opere
previste non comprometteranno la sicurezza dell'edificio in
caso di piena torrente Visina”;
b) nella memoria del 10.04.2017 il difensore del Comune di Carate
Urio ha sostenuto che “la sponda del torrente sia molto
"incisa", profonda, e presenti un dislivello molto
accentuato: più che un torrente una cascata. Ciò non esclude
in radice la possibilità di esondazioni ma le rende
realisticamente molto improbabili. Verosimilmente
l’allagamento potrebbe interessare la sottostante via Regina
ma non via De Cristoforis e l'abitazione del signor Br. o
quelle circostanti” (cfr. pagg. 4 – 5);
c) nella memoria di replica del 06.04.2018 il difensore del
controinteressato ha sostenuto che “nella fattispecie,
gli interessi pubblici tutelati dalla normativa non
risultano pregiudicati, non essendo ravvisabile alcun reale
rischio per il corso d’acqua, che certo non viene in alcun
modo impedito”; e, ancora, che nella relazione tecnica
del progettista di fiducia, ing. Ma., sarebbe stato “chiarito
che le opere sono previste ad una quota di oltre 11 metri
rispetto alla scalinata pedonale su via De Cristoforis ed ha
descritto le caratteristiche del reticolo idrico minore in
cui è classificato il torrentello, caratterizzato da un
letto e da pareti in roccia che costituiscono gli argini
fortemente inclinati che ne delimitano il corso e si
incanala sotto la strada provinciale n. 71 (via Regina
Teodolinda vecchia) attraverso un cunicolo, che non ha mai
innescato situazioni di criticità in termini di drenaggio e
scarico delle acque meteoriche rispetto alla strada
carrabile” (cfr. pag. 13);
d) nel parere reso in data 17.11.2016 il geologo incaricato dal
Comune ha preso atto di “una nuova soluzione progettuale
che comporta una ridistribuzione del sottotetto con
formazione di locali accessori che presentano altezze
inferiori ai minimi richiesti per locali abitabili”,
facendo discendere da tale premessa che “la nuova
proposta non è in contrasto con la normativa vigente di
carattere idraulico relativa ai corsi d'acqua di gestione
comunale”.
Ad avviso del Collegio il sopra citato parere geologico
–indipendentemente dal fatto che il professionista (dott.
St.Fr.) sia stato il redattore delle norme tecniche di
attuazione dello studio del reticolo idrico minore, adottate
nel 2005– è palesemente inidoneo a sostanziare, sul piano
tecnico, l’ammissibilità dell’intervento oggetto del
contendere, viceversa reputato scevro da qualsiasi rischio a
leggere la spontanea dichiarazione del diretto interessato
sig. Br., i sopra citati scritti difensivi e, infine, la
relazione elaborata da un tecnico di parte dello stesso
controinteressato.
È singolare avvedersi della perentorietà di tali valutazioni
(prive –tranne che nel caso della relazione tecnica del
giugno 2016– di connotazione tecnica), quella che, invece,
sarebbe stato imprescindibile pretendere proprio dal geologo
comunale, il quale, nel parere del 3.11.2014, ha richiamato
la disciplina di cui all’art. 11 delle NTA dello studio del
RIM (che ammette gli “interventi di ristrutturazione che
non comportino aumenti volumetrici o di capacità insediativa
all'interno della fascia di rispetto”), evidenziando che
tale norma “ha come finalità il non aggravio di una
situazione di rischio già esistente in quanto l'edificio non
presenta una distanza di sicurezza dall'alveo del torrente e
limita i possibili interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria sullo stesso”.
Rapportando la prescrizione generale al caso particolare
sarebbe stato, dunque, doveroso e tecnicamente
imprescindibile che l’Amministrazione acquisisse dal tecnico
incaricato una valutazione reale e approfondita (anziché
poche righe) sull’intervento oggetto del contendere.
Il proprium tecnico dell’autorizzazione idraulica
–cioè escludere possibili pericoli per la corretta e
regolare regolazione delle acque– è stato esaurito in una
formalistica presa d’atto dell’ammissibilità dell’aumento
volumetrico prefigurata, ma in linea generale, dal combinato
disposto tra l’art. 11 delle norme del RIM e la disciplina
del piano delle regole (art. 16.2).
Non vi è stato un apprezzamento in concreto dello stato dei
luoghi; neppure si è ritenuto di pronunciarsi, nel solco
della prevalente interpretazione giurisprudenziale (cfr.
sezioni unite n. 12271/2004), sull’attuale presenza, o meno,
di una massa d’acqua pubblica, e ciò al fine di motivare il
superamento di ciò che, nell’orientamento recente della
Suprema Corte (cfr. Cassazione civile, sezioni unite,
28.09.2016, n. 19066), continua ad essere definita la “perdurante
operatività del divieto di costruire a meno di dieci metri
dall’alveo”.
Vero è, inoltre, che la disciplina di cui all’art. 96 “ha
carattere sussidiario, essendo destinata a prevalere solo in
assenza di una specifica normativa locale; tuttavia, a
fronte dei fini di tutela e sicurezza perseguiti, quest'ultima,
che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico,
per derogare alla norma statale deve essere espressamente
destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini,
esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela
delle acque e degli argini che giustifichino la
determinazione di una distanza maggiore o minore di quella
indicata dalla norma statale” (cfr. TAR Liguria,
12.03.2013, n. 476). Ma nella normativa comunale non è stata
prevista una distanza specifica.
È, perciò, ravvisabile un travisamento di fondo
nell’istruttoria procedimentale, ossia che l’assenso alla
deroga al regime di inedificabilità –sotteso alla (pacifica)
circostanza che l’immobile del controinteressato ricada
parzialmente nella fascia di rispetto idraulico– potesse
essere subordinato al mero contenimento della volumetria.
Si è detto che così non è.
Nella specie è stato proposto un intervento di
ristrutturazione edilizia (sostanzialmente riconducibile al
recupero di un sottotetto: il che, dunque, comporta la
reiezione del quarto motivo aggiunto), comportante un
aumento volumetrico di circa mc 30, sussumibile nella
fattispecie di cui all’art. 27, comma 1, lett. d), della
legge regionale 12/2005, connotato dalla riduzione
dell’altezza interna del nuovo corpo edilizio a mt. 2,38,
dunque ad una quota molto prossima al limite previsto
dall’art. 63, comma 6 della citata legge regionale (“altezza
media ponderale di metri 2,40”) per l’abitabilità.
In più, dal primo al secondo progetto è stata proposta una
modificazione non significativa della destinazione d’uso
della programmata unità edilizia (da “nuovo locale
sgombero e una piccola toilette” a “locale sgombero
come ad esempio guardaroba-spogliatoio-stireria e una
piccola lavanderia, di pertinenza all'unità residenziale
unifamiliare”), pur sempre correlata alle “esigenze
abitative familiari” del controinteressato (cfr. pag. 7
della replica): il che, a maggior ragione, avrebbe reso
necessaria una verifica reale sulla capacità insediativa e,
di riflesso, sul possibile incremento del carico
urbanistico, altro profilo disatteso nel corso
dell’istruttoria comunale.
Al riguardo, il Collegio registra che è stato il sig. Br.,
nella dichiarazione del 10.3.2015, ad affermare che “l’ampliamento
previsto non determinerà un incremento del peso insediativo
dell'immobile in quanto di fatto subirà solo un incremento
della superficie non residenziale”; e ciò con il
probabile intento di superare il rilievo contenuto nel primo
parere del geologo, in cui è stato significato –questa volta
con richiamo appropriato– che “la capacità insediativa di
un immobile ad uso residenziale può essere valutata sulla
base sia della superficie netta di abitazione, sia del
numero delle stanze da letto disponibili e delle relative
superfici (vedi regolamento locale di igiene). Nel caso il
recupero del sottotetto determini, quindi, la formazione di
nuove stanze da letto all'interno della fascia di rispetto
e/o un aumento della superficie netta calpestabile ad uso
abitativo, tale intervento di fatto rende l'immobile idoneo
ad ospitare un maggior numero di residenti con conseguente
aumento della capacità insediativa”.
Nell’ordinanza cautelare n. 738/2016 la Sezione ha inteso
sollecitare un approfondimento su tale situazione,
disponendo un riesame che, però, l’Amministrazione comunale
ha inopinatamente ritenuto di eludere per il sol fatto che,
medio tempore, fosse stata presentata una domanda di
permesso in variante, finendo per accordare un nuovo assenso
edilizio, per giunta sulla base di un parere geologico
(quello del 17.11.2016) notevolmente deficitario (per le
ragioni sopra illustrate).
È, pertanto, fondato anche il sesto motivo aggiunto, con cui
è stata dedotto il difetto d’istruttoria (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2018 n. 1245 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
distanza di 10 metri tra edifici antistanti va calcolata con
riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole
parti frontistanti.
---------------
Il decreto ministeriale 1444/1968, in quanto emanato su
delega dell'art. 41-quinquies inserito nella L. 17.08.1942,
n. 1150, dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17, ha efficacia
di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza
tra i fabbricati, cui i Comuni sono tenuti a conformarsi
nella redazione o revisione dei loro strumenti urbanistici,
prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti
locali successivi, alle quali si sostituiscono per
inserzione automatica, con conseguente loro diretta
operatività nei rapporti tra privati.
---------------
La distanza legale di 10 metri tra fabbricati è stata
reputata inderogabile dalla prevalente giurisprudenza:
- “in presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è
consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art.
9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante,
in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di
natura urbanistica, superiore a quello individuale dei
proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente
tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879, comma 2
c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse
integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i
regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si
applica in luogo delle stesse”.
---------------
Meritevole di accoglimento è anche il terzo motivo
aggiunto, con cui è stata censurata la violazione del regime
delle distanze legali articolato nell’art. 9 del DM
1444/1968 e dell’art. 5 delle NTA del piano delle regole del
PGT.
Ad avviso del controinteressato, nella specie non sarebbe
applicabile il citato DM in quanto i fabbricati non si
fronteggerebbero, né, comunque, sarebbe preclusiva
l’esistenza di una distanza inferiore ai 10 metri (7,20
metri, come prospettato dai ricorrenti: circostanza non
contestata ai sensi dell’art. 64, comma 2, del codice del
processo amministrativo), invocando la deroga prevista
dall’art. 879, comma 2, del codice civile in ragione della
via pubblica De Cristoforis.
Quanto al primo rilievo, l’art. 5 delle NTA del piano delle
regole ha definito “distanza tra edifici: la misura
minore della distanza tra tutti i punti dei due edifici
valutata su ciascun piano orizzontale fino alle altezze
massime dei due edifici”. Tale definizione risulta
coerente con l’orientamento secondo cui la distanza di 10
metri tra edifici antistanti va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti frontistanti
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 05.12.2005, n. 6909, che
riprende id., sez. V, 16.02.1979, n. 89). Dunque, anche in
caso di allineamento sussisterebbe il presupposto per
l’applicazione della normativa nazionale.
Con riguardo, invece, all’ammissibilità della deroga,
occorre considerare, “sulla scorta della sentenza delle
sezioni unite 01.07.1997 n. 5889, (…) che il decreto
ministeriale, in quanto emanato su delega dell'art.
41-quinquies inserito nella L. 17.08.1942, n. 1150, dalla L.
06.08.1967, n. 765, art. 17 ha efficacia di legge, sicché le
sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati, cui i
Comuni sono tenuti a conformarsi nella redazione o revisione
dei loro strumenti urbanistici, prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con
conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra
privati (v., tra le più recenti, le sentenze 19.11.2004 n.
21899, 30.03.2006 n. 7563, 11.02.2008 n. 3199)” (cfr.
Corte di Cassazione, sezioni unite, 07.07.2011, n. 14953;
sulla prevalenza sulla potestà legislativa regionale, cfr.
Corte Costituzionale, 16.06.2005, n. 232; sulla prevalenza
sulla potestà regolamentare e pianificatoria dei Comuni, cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 02.11.2010, n. 7731).
La distanza legale di 10 metri tra fabbricati –confermata,
nella specie, dallo stesso art. 5 delle citate NTA– è stata
reputata inderogabile dalla prevalente giurisprudenza (“in
presenza di una strada pubblica tra due fondi, non è
consentito derogare alla distanza minima stabilita dall’art.
9 D.M. 02.04.1968 tra pareti finestrate di edifici
antistanti, neppure con il consenso del vicino frontistante,
in quanto, trattandosi di tutelare un interesse pubblico, di
natura urbanistica, superiore a quello individuale dei
proprietari dei fondi finitimi (interesse specificamente
tutelato dalle norme del codice civile sulle distanze nelle
costruzioni), non trovano applicazione -ex art. 879, comma 2
c.c.- le disposizioni civilistiche (e quelle di esse
integrative) sulle distanze, in quanto recessive rispetto
alla speciale normativa urbanistico-edilizia (le “leggi e i
regolamenti” di cui all’art. 879, comma 2 c.c.), che si
applica in luogo delle stesse”, cfr. TAR Liguria,
20.07.2011 n. 1148).
Lo spazio per un’applicazione temperata sarebbe stato, in
ogni caso, riscontrabile solo in caso di edifici “tra i
quali siano interposte strade destinate al traffico dei
veicoli” (art. 9 del citato DM), mentre alcuna
disciplina particolare è stata dettata per il caso di
edifici separati da strada pubblica pedonale, come pare
essere quella oggetto del presente giudizio (le fotografie
raffigurano inequivocabilmente una scalinata).
Conseguentemente, la minore distanza di 10 metri tra
l’immobile dei ricorrenti e quello del sig. Br. viola sia la
disciplina nazionale, sia quella locale; non potendosi già
in partenza ravvisare il rispetto di tale standard, resta,
pertanto, assorbito il quinto motivo aggiunto, con cui i
ricorrenti hanno dedotto che la costruzione del
controinteressato sarebbe in contrasto con la disciplina di
cui all’art. 8 del DM 1444/1968.
In conclusione, il ricorso principale dev’essere dichiarato
improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse e il
ricorso per motivi aggiunti va accolto, con annullamento
dell’impugnato permesso di costruire (la domanda
risarcitoria non è stata più coltivata) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2018 n. 1245 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' posto in capo al
proprietario, o al responsabile dell'abuso, dimostrare il
momento in cui il manufatto è stato costruito.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata dell'Amministrazione, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti -tra cui
l'ordinanza di demolizione- costituiscono atti doverosi per
la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione
di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, la mancata comunicazione di avvio del
procedimento, laddove considerata anche in quest’ipotesi
dovuta, sarebbe derubricata a mera irregolarità non
invalidante, secondo lo schema disegnato dall'art. 21-octies
L. n. 241/1990.
In altri termini, in materia di repressione degli abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto
e vincolato che, in linea generale, non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto nonché all'individuazione e alla
qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione con l'interesse privato alla
conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito e al
ripristino della legalità.
---------------
3.- Infondato è anche il secondo motivo.
L’assunto circa la preesistenza del manufatto non è
assistito da una valida prova, il cui onere incombe
sull’interessato, come osservato da consolidata e condivisa
giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. sentenza, 27.08.2016 n. 4108).
Al riguardo, l’amministrazione comunale non deve fornire,
quale condizione di legittimità per l’irrogazione della
sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione
dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al
responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il
manufatto è stato costruito (cfr., sempre questa Sezione,
sentenza 10.10.2017, n. 4732 con riferimento specifico
all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca
anteriore alla legge n. 765/1967 cd. Legge ponte, ma
estensibile, per analogia, anche all’ipotesi controversa).
...
5.- Infondato, infine, si palesa il quarto motivo.
5.1.- Riguardo all’asserita mancanza di partecipazione al
procedimento, costante e condivisa giurisprudenza ha
chiarito che l'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce attività vincolata dell'Amministrazione,
con la conseguenza che i relativi provvedimenti -tra cui
l'ordinanza di demolizione- costituiscono atti doverosi per
la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione
di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto (Cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 26.08.2014 n. 4279; id., 07.07.2014 n. 3438; id., 20.05.2014 n. 2568; id.,
09.05.2014 n. 2380; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 06.10.2016 n. 4574; TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 22.05.2014 n. 1324; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 16.05.2014 n. 2718; id., sez.
II, 15.05.2014 n. 2713; anche questa Sezione, 19.12.2017, n. 5967).
5.2.- In ogni caso, la mancata comunicazione di avvio del
procedimento, laddove considerata anche in quest’ipotesi
dovuta, sarebbe derubricata a mera irregolarità non
invalidante, secondo lo schema disegnato dall'art. 21-octies
L. n. 241/1990.
In altri termini, in materia di repressione degli abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto
e vincolato che, in linea generale, non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto nonché all'individuazione e alla
qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione con l'interesse privato alla
conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa
l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito e al
ripristino della legalità (cfr. sul punto questa Sezione, 28.08.2017 n. 4142; Cons. St., sez. IV, 28.02.2017 n.
908; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 21.06.2017 n. 3377).
Nel caso di specie, l'ordinanza demolitoria impugnata
adempie ad entrambi gli elementi motivazionali, posto che
indica nel dettaglio le opere abusive riscontrate e le
normative applicabili, con riguardo anche ai molteplici
regimi vincolistici esistenti sull'area (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 03.05.2018 n. 2989 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Nel
valutare un intervento edilizio consistente in una pluralità
di opere si deve operare una valutazione globale delle
stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione.
---------------
Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito
precisati.
Quanto alla prima censura, la parte ricorrente sostiene che
si tratta di opere meramente interne, mentre per i capannoni
sarebbe stata presentata domanda di condono. Orbene, occorre
in primo luogo osservare come tale domanda di condono non
sia stata allegata; mentre, dalla documentazione allegata
dal Comune, si evince che anche i capannoni sono abusivi, e
che sono già stati oggetto di precedenti ordinanze di
demolizione.
Comunque, per costante giurisprudenza, “Nel
valutare un intervento edilizio consistente in una pluralità
di opere si deve operare una valutazione globale delle
stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione” (così, tra le più recenti, TAR Campania
Napoli Sez. VI, 23.03.2018, n. 1907) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2970 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per la motivazione dell'ordine di demolizione è
necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
mentre non è necessaria la descrizione precisa della
superficie occupata e dell'area di sedime destinata ad
essere gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in
caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, potendo la
specificazione intervenire nella successiva fase
dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine
di demolizione.
---------------
Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue
necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al
Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R.
n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire
l’Amministrazione comunale deve disporne senz’altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse.
---------------
L’indicazione dell'area di sedime destinata ad essere
gratuitamente acquisita al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all'ordine di demolizione, si tratta di una
specificazione che ben può intervenire nella successiva fase
dell'accertamento dell'eventuale inottemperanza all'ordine
di demolizione.
---------------
Ai fini della valutazione della legittimità di un ordine di
demolizione di un manufatto abusivo, deve ritenersi non
configurabile il vizio di disparità di trattamento, atteso
che gli atti sanzionatori che vengono in rilievo in materia
edilizia hanno carattere vincolato e non discrezionale.
---------------
Risulta destituita di ogni fondamento la censura incentrata
sull’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
E, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene
necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di
demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in
esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990
(introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui
dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento … qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in
presenza di opere realizzate in assenza del prescritto
titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il
contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di
demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata
data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
È infondata anche la seconda censura.
Per giurisprudenza costante, per la motivazione dell'ordine
di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, mentre non è necessaria la descrizione
precisa della superficie occupata e dell'area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza all'ordine di
demolizione, potendo la specificazione intervenire nella
successiva fase dell'accertamento dell'eventuale
inottemperanza all'ordine di demolizione (tra le tante, Tar
Campania, Napoli, VI, n. 2000/2012).
È infondata anche la terza censura, con cui ci si duole del
fatto che il provvedimento impugnato sia stato adottato
senza una preventiva valutazione della sanabilità delle
opere.
Infatti dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36
del D.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della
legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria consegue necessariamente ad
un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai
sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001,
l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale. Pertanto,
una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del
prescritto permesso di costruire l’Amministrazione comunale
deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta
a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006,
n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
È infondata anche la quarta censura, con cui ci si duole
della mancata indicazione dell'area concretamente necessaria
alla realizzazione di un’opera analoga a quella abusiva.
Infatti, così come l’indicazione dell'area di sedime
destinata ad essere gratuitamente acquisita al patrimonio
comunale in caso di inottemperanza all'ordine di
demolizione, si tratta di una specificazione che ben può
intervenire nella successiva fase dell'accertamento
dell'eventuale inottemperanza all'ordine di demolizione.
È infondata la quinta censura, con cui ci si duole di una
disparità di trattamento, attesa la mancata sanzione di
opere analoghe esistenti nella stessa zona.
Per
giurisprudenza costante, “Ai fini della valutazione della
legittimità di un ordine di demolizione di un manufatto
abusivo, deve ritenersi non configurabile il vizio di
disparità di trattamento, atteso che gli atti sanzionatori
che vengono in rilievo in materia edilizia hanno carattere
vincolato e non discrezionale” (così TAR Sicilia Palermo
Sez. III, 06.12.2013, n. 2404).
Infine, risulta destituita di ogni fondamento la censura
incentrata sull’omessa comunicazione dell’avvio del
procedimento in quanto i provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla
comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti
tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e,
seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del
prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta
palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza
di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse
stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2970 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, il termine per
impugnare il permesso di costruire decorre dall’effettiva
conoscenza dell’atto, senza che rilevino forme di pubblicità
quale l'apposizione nel cantiere di un cartello indicante
gli estremi del titolo o l'affissione dell'atto all'albo
pretorio.
Chi intende eccepire la tardività del ricorso ha dunque l’onere di provare che il
ricorrente aveva già una piena ed effettiva conoscenza
dell’atto impugnato; conoscenza che, per il terzo controinteressato,
di regola coincide col momento in cui le opere rivelino, in
modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi,
l'entità delle violazioni urbanistiche.
Tale
orientamento, tuttavia, appare ragionevole se riferito –nel
caso del permesso di costruire– al “vicino” che è in grado
di seguire i lavori e di percepirne, ad un certo punto, la lesività per i propri interessi.
---------------
Secondo una consolidata giurisprudenza, la legittimazione ex
lege delle associazioni ambientaliste può esser riconosciuta
non solo nel caso di atti inerenti la materia ambientale, ma
anche per quelli che "incidono sulla qualità della vita in
un dato territorio"; tali associazioni sono state ritenute
legittimate ad agire in giudizio non solo per la tutela
degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche per
quelli ambientali in senso lato, comprendenti la
conservazione e la valorizzazione dell'ambiente, del
paesaggio urbano, rurale, naturale e dei centri storici
"intesi tutti quali beni e valori idonei a caratterizzare in
modo peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico
territoriale rispetto ad altri".
Dunque, per un verso non può ritenersi che manchi il
“danno ambientale” –come si vedrà oltre, il fatto che i box
siano interrati non è, di per sé, sufficiente ad evitare un
pregiudizio di natura ambientale, atteso che trattasi
comunque di un intervento edilizio molto invasivo ed idoneo
a pregiudicare la destinazione naturale dell’area– per
altro verso non può sostenersi che la legittimazione ex
lege n. 349/1986, stante la sua natura eccezionale, debba
essere limitata soltanto alla deduzione di censure che
concernono direttamente l’assetto normativo di tutela
dell’ambiente oppure la violazione di norme poste a
salvaguardia dell’ambiente.
Al contrario, la giurisprudenza riconosce che gli atti che
costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la
localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di
interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare
danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di
impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in
quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente",
in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la
legittimazione delle predette associazioni, attesa “l'ormai
pacifica compenetrazione delle problematiche ambientali in
quelle urbanistiche”.
Né può sostenersi che manchi la legittimazione per mancanza
di uno specifico legame dell’associazione col territorio
della penisola sorrentina.
Infatti, come ritenuto da giurisprudenza costante, quando si
è in presenza di una legittimazione riconosciuta ex lege
(cioè per effetto dell'inclusione nell'elenco delle
"associazioni di protezione ambientale riconosciute" ai
sensi dell'art. 13 della L. n. 349 del 1986, come accade nel
caso di specie) non è necessario accertare la sussistenza
dei requisiti che, in mancanza del riconoscimento ex lege,
sono ritenuti necessari per poter radicare, in capo
all’associazione, la legittimazione a ricorrere in base ad
una valutazione caso per caso: requisiti che sono relativi,
per l’appunto:
a) alle finalità statutarie dell'ente, ovvero al perseguimento, in
modo non occasionale, di obiettivi di tutela ambientale;
b) alla stabilità del suo assetto organizzativo;
c) nonché alla c.d. vicinitas rispetto all'interesse sostanziale
che si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e
a tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende (recte:
può essere ammesso ad) agire in giudizio.
---------------
L’eccezione è infondata.
Per giurisprudenza costante, infatti, il termine per
impugnare il permesso di costruire decorre dall’effettiva
conoscenza dell’atto, senza che rilevino forme di pubblicità
quale l'apposizione nel cantiere di un cartello indicante
gli estremi del titolo o l'affissione dell'atto all'albo
pretorio (così, tra le tante, TAR Campania Napoli Sez.
VIII, 24/11/2016, n. 5466).
Chi intende eccepire la tardività del ricorso ha dunque l’onere di provare che il
ricorrente aveva già una piena ed effettiva conoscenza
dell’atto impugnato (così Cons. Stato Sez. V, 16.04.2013, n.
2107); conoscenza che, per il terzo controinteressato, di
regola coincide col momento in cui le opere rivelino, in
modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi,
l'entità delle violazioni urbanistiche (così, tra le tante,
TAR Campania Napoli Sez. VIII, 23.08.2016, n. 4049).
Tale
orientamento, tuttavia, appare ragionevole se riferito –nel
caso del permesso di costruire– al “vicino” che è in grado
di seguire i lavori e di percepirne, ad un certo punto, la lesività per i propri interessi.
Nel caso di specie, ad
impugnare il permesso di costruire è un’associazione
ambientalista, sicché non può pretendersi –ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione– la proposizione del
ricorso entro sessanta giorni dal momento in cui le opere
rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche
e, quindi, l'entità delle violazioni urbanistiche; perché,
per l’appunto, non si tratta di un soggetto che vive nelle
vicinanze del luogo in cui l’opera dev’essere realizzata.
Dunque, l’Amministrazione resistente avrebbe dovuto provare
una conoscenza anticipata del provvedimento impugnato da
parte dell’associazione ricorrente; e tale prova non appare
fornita.
L’Amministrazione eccepiva inoltre l’inammissibilità del
ricorso per difetto di legittimazione in capo
all’associazione ricorrente. Infatti, eccepiva il Comune di
Meta, i box, del tutto interrati, non recano alcun
pregiudizio all’ambiente; né l’Associazione ricorrente ha
provato l’effettivo e concreto danno ambientale che
deriverebbe dall’esecuzione delle opere.
Eccepiva inoltre
che la legittimazione ex lege n. 349/1986, stante la sua
natura eccezionale (in quanto derogatoria del principio
generale di cui all’art. 81 c.p.c.), deve essere limitata
soltanto alla deduzione di censure che concernono
direttamente l’assetto normativo di tutela dell’ambiente
oppure la violazione di norme poste a salvaguardia
dell’ambiente, mentre essa deve essere esclusa con
riferimento agli atti e ai profili che abbiano una valenza
di carattere urbanistico: ciò significa che non possono
essere proposti motivi aventi una diretta valenza
urbanistico-edilizia, e che soltanto in via strumentale ed
indiretta possano determinare un effetto utile (anche) ai
fini della tutela dei valori ambientali.
Anche i controinteressati eccepivano la carenza di legittimazione e
di interesse a ricorrere dell’associazione, atteso che per
un verso non sarebbe provato alcun danno ambientale che
determini l’interesse dell’associazione a ricorrere, per
altro verso non vi sarebbe alcun legame tra il territorio
del comune di Meta e la Onlus ricorrente.
Anche tale eccezione è infondata.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza, la
legittimazione ex lege delle associazioni ambientaliste può
esser riconosciuta non solo nel caso di atti inerenti la
materia ambientale, ma anche per quelli che "incidono sulla
qualità della vita in un dato territorio" (Cons. Stato, sez.
IV, 14.04.2011, n. 2329; TAR Lombardia Milano Sez. II,
22.10.2013, n. 2336); tali associazioni sono state
ritenute legittimate ad agire in giudizio non solo per la
tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche
per quelli ambientali in senso lato, comprendenti la
conservazione e la valorizzazione dell'ambiente, del
paesaggio urbano, rurale, naturale e dei centri storici
"intesi tutti quali beni e valori idonei a caratterizzare in
modo peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico
territoriale rispetto ad altri" (Cons. Giust. Amm. Reg.
Sic., sentenza n. 811/2012).
Dunque, per un verso non può
ritenersi che manchi il “danno ambientale” –come si vedrà
oltre, il fatto che i box siano interrati non è, di per sé,
sufficiente ad evitare un pregiudizio di natura ambientale,
atteso che trattasi comunque di un intervento edilizio molto
invasivo ed idoneo a pregiudicare la destinazione naturale
dell’area– per altro verso non può sostenersi che la
legittimazione ex lege n. 349/1986, stante la sua natura
eccezionale, debba essere limitata soltanto alla deduzione
di censure che concernono direttamente l’assetto normativo
di tutela dell’ambiente oppure la violazione di norme poste
a salvaguardia dell’ambiente.
Al contrario, la
giurisprudenza riconosce che gli atti che costituiscono
esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione
di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi
edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per
l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da
parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti
latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione
alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione
delle predette associazioni (così Cons. Stato Sez. IV,
19.02.2015, n. 839), attesa “l'ormai pacifica
compenetrazione delle problematiche ambientali in quelle
urbanistiche” (così Cons. Stato Sez. V, 28.07.2015, n.
3711).
Né può sostenersi, contrariamente a quanto sostenuto
dai controinteressati, che manchi la legittimazione per
mancanza di uno specifico legame dell’associazione col
territorio della penisola sorrentina.
Infatti, come ritenuto
da giurisprudenza costante, quando si è in presenza di una
legittimazione riconosciuta ex lege (cioè per effetto
dell'inclusione nell'elenco delle "associazioni di
protezione ambientale riconosciute" ai sensi dell'art. 13
della L. n. 349 del 1986, come accade nel caso di specie)
non è necessario accertare la sussistenza dei requisiti che,
in mancanza del riconoscimento ex lege, sono ritenuti
necessari per poter radicare, in capo all’associazione, la
legittimazione a ricorrere in base ad una valutazione caso
per caso: requisiti che sono relativi, per l’appunto:
a)
alle finalità statutarie dell'ente, ovvero al perseguimento,
in modo non occasionale, di obiettivi di tutela ambientale;
b) alla stabilità del suo assetto organizzativo;
c) nonché
alla c.d. vicinitas rispetto all'interesse sostanziale che
si assume leso per effetto dell'azione amministrativa e a
tutela del quale, pertanto, l'ente esponenziale intende (recte:
può essere ammesso ad) agire in giudizio (così anche questa
Sezione, sent. n. 2025/2016) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2965 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le normative comunali, che ammettono una limitata
possibilità di realizzare in zona agricola interventi
edilizi, devono essere interpretate nel senso che si deve
comunque assicurare tutela al territorio agricolo e alla sua
concreta utilizzazione a fini alimentari, dovendo al
contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità
di una zona agricola la realizzazione di strutture che ne
pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del
territorio e comportano la sua deruralizzazione.
Dunque,
se l’area è classificata
come agricola, ciò significa che tutti gli interventi che su
di essa insistono devono essere interpretati e riguardati
nella prospettiva degli usi agricoli, come del resto si
evince dall’art. 16, comma 1, del PRG; le utilizzazioni
infrastrutturali di mobilità che la norma consente, in
quanto compatibili con l’area de qua, sono dunque quelle
infrastrutture leggere e funzionali all’uso agricolo che non
incidano sullo stesso, prevaricandolo.
Nel caso di specie
sono state autorizzate due autorimesse interrate per un
numero complessivo di 47 box pertinenziali: costruzioni,
evidentemente, del tutto slegate da un rapporto di
funzionalità con l’uso agricolo, ma funzionali all’utilizzo
residenziale intenso, escluso in zona agricola.
Ed è pacifico, in giurisprudenza, che la destinazione
agricola del suolo non deve rispondere necessariamente
all'esigenza di promuovere specifiche attività di
coltivazione, e quindi essere funzionale ad un uso
strettamente agricolo del terreno, potendo essere volta a
sottrarre parti del territorio comunale a nuove
edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l'equilibrio
delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella
quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a
compensare gli effetti dell'espansione urbana.
---------------
Deve peraltro ritenersi fondata anche la seconda censura.
Infatti, “Le normative comunali, che ammettono una limitata
possibilità di realizzare in zona agricola interventi
edilizi, devono essere interpretate nel senso che si deve
comunque assicurare tutela al territorio agricolo e alla sua
concreta utilizzazione a fini alimentari, dovendo al
contrario ritenersi del tutto inconciliabili con le finalità
di una zona agricola la realizzazione di strutture che ne
pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del
territorio e comportano la sua deruralizzazione” (così
TAR Piemonte Torino Sez. II, 18.01.2017, n. 134).
Dunque,
come osservato da parte ricorrente, se l’area è classificata
come agricola, ciò significa che tutti gli interventi che su
di essa insistono devono essere interpretati e riguardati
nella prospettiva degli usi agricoli, come del resto si
evince dall’art. 16, comma 1, del PRG; le utilizzazioni
infrastrutturali di mobilità che la norma consente, in
quanto compatibili con l’area de qua, sono dunque quelle
infrastrutture leggere e funzionali all’uso agricolo che non
incidano sullo stesso, prevaricandolo.
Nel caso di specie
sono state autorizzate due autorimesse interrate per un
numero complessivo di 47 box pertinenziali: costruzioni,
evidentemente, del tutto slegate da un rapporto di
funzionalità con l’uso agricolo, ma funzionali all’utilizzo
residenziale intenso, escluso in zona agricola.
Ed è
pacifico, in giurisprudenza, che la destinazione agricola
del suolo non deve rispondere necessariamente all'esigenza
di promuovere specifiche attività di coltivazione, e quindi
essere funzionale ad un uso strettamente agricolo del
terreno, potendo essere volta a sottrarre parti del
territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire
ai cittadini l'equilibrio delle condizioni di vivibilità,
assicurando loro quella quota di valori naturalistici e
ambientali necessaria a compensare gli effetti
dell'espansione urbana (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
16.12.2016 n. 5334; id. 12.05.2016 n. 1917; Sez. II, 07.03.2013
n. 1066; Sez. IV, 16.11.2011 n. 6049; id. 27.07.2011 n. 4505;
18.01.2011 n. 352; 13.10.2010 n. 7478; 27.07.2010 n. 4920).
Attesa la fondatezza della seconda e della terza censura, la
prima può ritenersi assorbita (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2965 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Sul negato
riconoscimento, tra i debiti fuori bilancio, dell’indennità
di fine mandato al Sindaco uscente.
Il riconoscimento fuori bilancio è una procedura
di regolarizzazione contabile necessaria all’adempimento del
debito eventualmente assunto senza il preventivo impegno di
spesa, ma non incide sulla qualificazione giuridica delle
posizioni giuridiche involte, in quanto il rapporto di
debito/credito tra le parti, è, in astratto, del tutto
indipendente dalle ricadute contabili date dal
riconoscimento della legittimità del debito e sussiste a
prescindere da quel riconoscimento.
Nel caso di mancato
riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio,
ai fini della sua iscrizione in bilancio, la sostanziale lesività
nei confronti del creditore è data dall'inadempimento del
rapporto sostanziale e non già dalla deliberazione
consiliare che neghi i presupposti per il riconoscimento.
Del resto la giurisprudenza ha già avuto occasione di
affermare che rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario la controversia avente a oggetto l'impugnazione di
una deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha
escluso il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai
sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000; ciò in
quanto l'atto di regolarizzazione contabile -il
riconoscimento del debito fuori bilancio- non ha natura provvedimentale, ma solo ricognitiva del presupposto (vale a
dire, l'arricchimento per l'Ente), ai fini dell'inserimento
nel bilancio dell'Amministrazione locale del debito
irregolarmente assunto, sicché la posizione correlata non è
di interesse legittimo, bensì di diritto soggettivo, con
conseguente cognizione spettante al g.o..
---------------
La giurisprudenza contabile, con riferimento proprio
all’ipotesi dell’erogazione dei ratei di indennità di
funzione e di fine mandato ad un ex Sindaco, ai sensi
dell’art. 82 del d.lgs. n. 267 del 2000, in assenza di
corrispondente stanziamento nei relativi bilanci consuntivi
e di previsione, ha ribadito che «la prestazione del Sindaco
discende dalla legge, ossia dalla consultazione elettorale,
e la prestazione indennitaria è prevista anch’essa dalla
normativa di settore; quindi, la verifica dell’utilità e
dell’arricchimento dell’Ente sono superate e non necessarie
nel caso di specie».
Ove non siano stati previsti i necessari stanziamenti di
bilancio, una volta acclarato che il credito è
giuridicamente esistente (valutazione rimessa all’Ente) ciò
che necessita è il reperimento delle risorse di bilancio;
«[l]’Ente, pertanto, può ricorrere in modo atipico alla
procedura di cui all’art. 194 al fine di reperire le risorse
necessarie, qualora gli stanziamenti di bilancio finalizzati
alle spese in esame non siano capienti. Di contro, qualora
le risorse siano già presenti nel bilancio dell’Ente, nulla
esclude che si possa dare copertura alla spesa in esame sul
bilancio corrente».
Da quanto esposto deriva che la controversia portata
all’attenzione di questo Collegio involge, quindi, la
lesione di diritti soggettivi estranea alla giurisdizione di
legittimità del g.a..
In conclusione deve dichiararsi il difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario.
---------------
1. Con ricorso n. 870/2015, il sig. Or.Ma. ha impugnato la
D.C.C. n. 45 del 05.08.2015, chiedendone l’annullamento
nella parte in cui è stato negato il riconoscimento, tra i
debiti fuori bilancio, dell’indennità di fine mandato a
Sindaco nei riguardi dello stesso ricorrente e in ogni altra
parte lesiva della posizione giuridica dello stesso, nonché,
ogni altro atto presupposto, conseguente e/o comunque
connesso, ivi comprese la D.C.C. n. 46 del 05.08.2015 e
la D.C.C. n. 44 del 05.08.2015.
2. Si è costituito il Comune di Polino, nella persona del
Sindaco pro-tempore, contestando l’avverso ricorso, in
quanto irricevibile, improcedibile, inammissibile e,
comunque, infondato nel merito, chiedendone, pertanto, il
rigetto. In particolare, si eccepisce il difetto di
giurisdizione e la prescrizione dell’indennità relativa alle
annualità 2004-2008.
3. In vista dell’udienza pubblica il ricorrente ha
depositato una nota di discussione eccependo la tardività
delle memorie di controparte.
4. La controversia ha ad oggetto le deliberazioni del
Consiglio comunale richiamate per quanto concerne il mancato
riconoscimento quali debiti fuori bilancio dell’indennità di
fine mandato reclamata dall’odierno ricorrente relative alla
carica di Sindaco ricoperta dallo stesso per due mandati
consecutivi.
5. Preliminarmente va esaminata la questione di
giurisdizione che, benché oggetto di eccezione tardiva, può
comunque essere vagliata, potendo essere affrontata anche
d’ufficio dal Collegio.
Il decreto ministeriale 04.04.2000, n. 119, in attuazione
dell’art. 82, commi 1 e 8, del d.lgs. n. 267 del 2000,
determina l’indennità di funzione spettante tra gli altri al
sindaco, prevedendo all’art. 10 che «[a] fine mandato,
l'indennità dei sindaci e dei presidenti di provincia è
integrata con una somma pari ad una indennità mensile
spettante per 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto
per periodi inferiori all'anno».
Quella richiesta dal ricorrente si configura come una
indennità puntualmente prevista dalla legge e predeterminata
nel suo ammontare. La natura giuridica della posizione
sostanziale effettivamente azionata dal ricorrente è di
diritto soggettivo, riguardando un credito derivante da un
trattamento necessariamente previsto dalla norma -nella
specie, oltre ad essere stabilito nella debenza, è anche
preventivamente quantificato nell’importo- senza che, in
proposito, assuma rilievo dirimente il fatto che, ove il
Comune non abbia provveduto negli anni alla corretta
iscrizione di tali spettanze, possa risultare necessaria per
l'adempimento lo svolgimento della procedura di iscrizione
fuori bilancio.
Il riconoscimento fuori bilancio è, infatti, una procedura
di regolarizzazione contabile necessaria all’adempimento del
debito eventualmente assunto senza il preventivo impegno di
spesa, ma non incide sulla qualificazione giuridica delle
posizioni giuridiche involte, in quanto il rapporto di
debito/credito tra le parti, è, in astratto, del tutto
indipendente dalle ricadute contabili date dal
riconoscimento della legittimità del debito e sussiste a
prescindere da quel riconoscimento. Nel caso di mancato
riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio,
ai fini della sua iscrizione in bilancio, la sostanziale
lesività nei confronti del creditore è data
dall'inadempimento del rapporto sostanziale e non già dalla
deliberazione consiliare che neghi i presupposti per il
riconoscimento (in tal senso TAR Liguria, sez. I, 05.02.2014, n. 187).
Del resto la giurisprudenza ha già avuto occasione di
affermare che rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario la controversia avente a oggetto l'impugnazione di
una deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha
escluso il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai
sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000; ciò in
quanto l'atto di regolarizzazione contabile -il
riconoscimento del debito fuori bilancio- non ha natura provvedimentale, ma solo ricognitiva del presupposto (vale a
dire, l'arricchimento per l'Ente), ai fini dell'inserimento
nel bilancio dell'Amministrazione locale del debito
irregolarmente assunto, sicché la posizione correlata non è
di interesse legittimo, bensì di diritto soggettivo, con
conseguente cognizione spettante al g.o. (TAR Molise,
Campobasso, sez. I, 13.03.2015, n. 90).
Si evidenzia che anche la giurisprudenza contabile, con
riferimento proprio all’ipotesi dell’erogazione dei ratei di
indennità di funzione e di fine mandato ad un ex Sindaco, ai
sensi dell’art. 82 del d.lgs. n. 267 del 2000, in assenza di
corrispondente stanziamento nei relativi bilanci consuntivi
e di previsione, ha ribadito che «la prestazione del Sindaco
discende dalla legge, ossia dalla consultazione elettorale,
e la prestazione indennitaria è prevista anch’essa dalla
normativa di settore; quindi, la verifica dell’utilità e
dell’arricchimento dell’Ente sono superate e non necessarie
nel caso di specie».
Ove non siano stati previsti i
necessari stanziamenti di bilancio, una volta acclarato che
il credito è giuridicamente esistente (valutazione rimessa
all’Ente) ciò che necessita è il reperimento delle risorse
di bilancio; «[l]’Ente, pertanto, può ricorrere in modo
atipico alla procedura di cui all’art. 194 al fine di
reperire le risorse necessarie, qualora gli stanziamenti di
bilancio finalizzati alle spese in esame non siano capienti.
Di contro, qualora le risorse siano già presenti nel
bilancio dell’Ente, nulla esclude che si possa dare
copertura alla spesa in esame sul bilancio corrente» (Corte
conti, sez. reg. controllo Liguria, del. 12.12.2016,
n. 99).
Da quanto esposto deriva che la controversia portata
all’attenzione di questo Collegio involge, quindi, la
lesione di diritti soggettivi estranea alla giurisdizione di
legittimità del g.a..
6. In conclusione deve dichiararsi il difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo in favore del
giudice ordinario, innanzi al quale la causa potrà essere
riassunta con salvezza degli effetti sostanziali e
processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo
di giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne
risulta munito, secondo le disposizioni di cui all’art. 11
cod. proc. amm. (TAR Umbria,
sentenza 03.05.2018 n. 262 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ legittima l’ordinanza di demolizione, per assenza del
permesso di costruire, adottata nei confronti di un
intervento di installazione di una manufatto realizzato in
zona agricola che, sebbene definita dai ricorrenti come
“roulotte” costituita da tubolari e poggiante su ruote, in
realtà costituisce un’opera di natura edilizia di dimensioni
rilevanti (70 mq) e non precaria, poiché realizzata su una
soletta in calcestruzzo dello spessore di 5 cm che palesa la strumentalità del posizionamento dei pilastrini
su ruote gommate.
---------------
Col ricorso in esame i sigg. Ge.Bo. e An.Ma.Ur. impugnano
l'ordinanza dirigenziale n. 137 del 22.11.2013 con cui il
Comune di Palma Campania ha ingiunto loro, nella rispettiva
qualità di autore degli abusi e di proprietaria del fondo,
la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi con
riferimento alla realizzazione, in difetto di titolo
edilizio, di una pluralità di opere sul suolo sito in Palma
Campania alla Via ... s.n.c., censito in catasto al foglio
19, p.lla 1355, siccome costituenti, nel loro insieme, un
unico organismo edilizio con specifica rilevanza
autonomamente utilizzabile con significativa alterazione
della destinazione d’uso del lotto (ricadente in zona
agricola) ed aggravio urbanistico, così descritte nel
provvedimento: «1) vialetto di circa 250 mq. (1000 x 2,5)
eseguito con quadroni lapidei di cm.40 x 40;
2) forno a legna prefabbricato di circa 3 mq;
3) box prefabbricato tipo container di mq. 7,70 (m. 3,50 x
2,20), alto m. 2,30, pari a un volume di 18 mc;
4) tettoia (gazebo) in legno aperto su tutti e 4 i lati con
copertura di manto di tegole a falde inclinate avente una
superficie di mq. 21,0 (5,00 x 4,20), un’altezza media di m.
3,35 (2,90 + 3,80 )/2, sorretta da 4 pilastrini infissi a
terra;
5) manufatto di mq. 70,00 (10,00 x 7,00) un'altezza media di
m. 3,35 (2,90 + 3,80)/2 e un volume di 220 mc., realizzato
con pannelli coibentati tipo "isopan" e getto di soletta in
calcestruzzo montati sulla vecchia struttura costituita da
tubolari in ferro sorretta da terra da 6 pilastrini montati
su altrettante ruote gommate;
6) piscina domestica di mq. 40,5 (m. 9,0 x 4,5), mediamente
profonda m. 1,30;
7) manufatto di m. 26,10, alto m. 2,30, pari a mc. 60,
realizzato sul confine est dell'attuale particella catastale
n. 1355, costruito in parte con blocchi di lapillo e in
parte con lamiere coibentate, formato da varie celle
destinate al ricovero di animali domestici».
...
Il ricorso è infondato.
I ricorrenti, sostenendo di aver installato semplicemente “una
roulotte costituita da tubolari e poggiante su ruote”,
priva di impianto idrico, scarichi ed energia elettrica,
costituente una struttura amovibile, non infissa al suolo,
che non andrebbe ad aggravare il carico urbanistico e non
richiederebbe alcuna autorizzazione o concessione edilizia
da parte del Comune di Palma Campania, con un unico motivo
di doglianza denunciano il difetto di motivazione del
provvedimento impugnato –che non avrebbe dato conto delle
ragioni per cui sarebbe stato sanzionato con l’ordine di
demolizione un manufatto assolutamente precario– e
l’illegittima assegnazione, a suo tempo, di un termine
ridotto per il ripristino dello stato dei luoghi, pur in
assenza di motivate ragioni di celerità ed urgenza, in
violazione all'art. 44 L. 47/1985.
Il motivo non ha pregio, atteso che esso si riferisce ad una
struttura che i ricorrenti definiscono “roulotte” ma
che, in realtà, costituisce un’opera di natura edilizia di
dimensioni rilevanti (70 mq) e non precaria, poiché
realizzata su una soletta in calcestruzzo dello spessore di
5 cm che palesa la strumentalità del posizionamento dei
pilastrini su ruote gommate (cfr. la relazione tecnica di
sopralluogo del 22.11.2013, prot. 20578: «l'attuale
manufatto, artatamente montato su 6 ruote gommate che
sorreggono altrettanti pilastrini in ferro che distanziano
il piano di calpestio di circa 55 cm. da terra, ha una
superficie lorda d'uso di mq. 70,00 (10,00 x 7,00) ed un
volume lordo di mc. 220,0, essendo l'altezza media di m.
3,15 [(3,25 + 3,05)/2]. Il pavimento è costituito da una
soletta di calcestruzzo di circa 5 cm. di spessore. Al suo
interno sono stati rinvenuti alcuni pannelli in gesso
poggiati a terra per delineare probabilmente l'ingombro di
un wc e di una stanza. Altri pannelli simili erano poggiati
su alcuni bancali avvolti in cellophane stivati all'esterno
vicino ai manufatti abusivi»).
I restanti manufatti costituiscono chiaramente un insieme di
opere unitariamente destinate, con quella testé menzionata,
alla trasformazione urbanistica dell’area, classificata in
zona agricola.
Infine, non corrisponde al vero che l’amministrazione abbia
assegnato un termine ridotto per il rispristino dello stato
dei luoghi, il quale, nel provvedimento in questa sede
impugnato non diversamente che nella precedente ordinanza di
demolizione n. 91 dell’08.07.2013 (non impugnata e solo in
parte eseguita: cfr. relazione di sopralluogo cit.), risulta
ordinariamente fissato in novanta giorni.
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere
respinto (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 11.04.2018 n. 2339 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa ha più volte
esplorato le caratteristiche che connotano il restauro ed il
risanamento conservativo anche per distinguere detta
categoria da quella più prossima della ristrutturazione.
Si
è affermato in giurisprudenza che ricorre la prima categoria
allorquando sussiste un’attività rivolta «… a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso)
…, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «…il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o
deteriorati di tal organismo preesistente non consente, … di
confondere la relativa vicenda con quella della
ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura
nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e
nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di
manutenzione straordinaria e risanamento, che invece
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata
accezione di componenti strutturali originali o meramente
riproduttivi) e la distribuzione interna della sua
superficie.
Di recente la Sezione ha ribadito i capisaldi dell’istituto,
riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31
della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico
di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento,
il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali
dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni
d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia
risiede essenzialmente nella conservazione formale e
funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi
rispetto alla seconda.
---------------
5.- Il ricorso è infondato alla stregua delle considerazioni che
seguono.
6.- I ricorrenti affidano le proprie difese alla circostanza
che sul fondo di loro proprietà era preesistente un
fabbricato rurale che essi avrebbero semplicemente risanato,
senza chiedere alcun titolo edilizio.
Ritengono che le opere
eseguite siano ascrivibili alla categoria del risanamento
conservativo e come tali da assoggettare, stante la loro
realizzazione in assenza di Scia, a semplice sanzione
pecuniaria.
6.1.- La giurisprudenza amministrativa ha più volte
esplorato le caratteristiche che connotano il restauro ed il
risanamento conservativo anche per distinguere detta
categoria da quella più prossima della ristrutturazione.
Si
è affermato in giurisprudenza che ricorre la prima categoria
allorquando sussiste un’attività rivolta «… a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso)
…, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili …».
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche «…il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso…», l'eliminazione di elementi o estranei, o
deteriorati di tal organismo preesistente non consente, … di
confondere la relativa vicenda con quella della
ristrutturazione edilizia.
Invero, quest’ultima si configura
nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e
nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di
manutenzione straordinaria e risanamento, che invece
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata
accezione di componenti strutturali originali o meramente
riproduttivi) e la distribuzione interna della sua
superficie (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 17.03.2014 n.
1326; id., 17.07.2014 n. 3796; id., 05.09.2014 n.
4253).
Di recente la Sezione (cfr. Cons. St., IV, 25.07.2013 n. 3968) ha ribadito i capisaldi dell’istituto,
riconoscendo il restauro ed il risanamento, fin dall'art. 31
della l. 05.08.1978 n. 457, in quell’insieme sistematico
di opere anche sulla struttura (compresi il consolidamento,
il ripristino ed il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio) che rispettino gli elementi fondamentali
dell'organismo edilizio e ne assicurino le destinazioni
d'uso compatibili con questi ultimi.
Sicché la differenza tra essi e la ristrutturazione edilizia
risiede essenzialmente nella conservazione formale e
funzionale dell'organismo edilizio, che connota i primi
rispetto alla seconda (ex multis Cons. St. n. 3505
del 2015) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.04.2018 n. 530 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un intervento sul “fabbricato rurale semidiruto”
parimenti sarebbe richiesto il permesso di costruire.
E’ pacifico in giurisprudenza che è ancora oggi da escludere
che la ricostruzione di un rudere sia riconducibile
nell'alveo della ristrutturazione edilizia nel caso in cui
manchino elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e
le caratteristiche dell'edificio da recuperare: in
particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze di
mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura
e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente.
Le disposizioni testé citate non hanno quindi sottratto al
regime del permesso di costruire le opere delle quali non
sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo
restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata
deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima
sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi
di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione.
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile
valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da
consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla
stregua di un'area non edificata.
---------------
7.- Ad ogni modo, anche laddove volesse configurarsi, in
ipotesi, un intervento sul “fabbricato rurale semidiruto” –di cui, comunque, non è provata la preesistente consistenza- parimenti sarebbe richiesto il permesso di costruire (ex multis
Cons. St. n. 1725 del 2018).
7.1.- E’ pacifico in giurisprudenza che è ancora oggi da
escludere che la ricostruzione di un rudere sia
riconducibile nell'alveo della ristrutturazione edilizia nel
caso in cui manchino elementi sufficienti a testimoniare le
dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare:
in particolare, un manufatto costituito da alcune rimanenze
di mura perimetrali, ovvero un immobile in cui sia presente
solo parte della muratura predetta, e sia privo di copertura
e di strutture orizzontali, non può essere riconosciuto come
edificio allo stato esistente (cfr. Cons. St., sez. IV,
sentenza n. 5174 del 21.10.2014, e TAR Lombardia, Brescia,
sentenza n. 1167 del 26.09.2017).
Le disposizioni testé citate non hanno quindi sottratto al
regime del permesso di costruire le opere delle quali non
sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo
restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata
deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima
sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi
di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione (cfr.
Cass. pen., sez. III, sentenza n. 40342 del 03.06.2014).
In mancanza di elementi strutturali non è infatti possibile
valutare l'esistenza e la consistenza dell'edificio da
consolidare ed i ruderi non possono che considerarsi alla
stregua di un'area non edificata (Cons. St., sez. V,
sentenza n. 1025 del 15.03.2016) (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.04.2018 n. 530 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere
al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una
siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è
del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza
degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata
conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire
meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile
non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la
cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le
conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale
della misura ripristinatoria della demolizione e la sua
precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario
rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in
cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità
della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il
responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga
all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere
motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta
doverosità delle sue conseguenze non consentono di
valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità
soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini
diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle
ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile
dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi
per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul
doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione
delle regole urbanistiche ed edilizie.
---------------
1.‒ Con il secondo motivo di gravame, l’appellante invoca il
principio del legittimo affidamento. Il Comune, prima di
ordinare la demolizione dell’opera abusiva, avrebbe dovuto
verificare se, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso e per il protrarsi dell’inerzia degli
organi preposti alla vigilanza, si fosse ingenerato un
affidamento nel privato, al quale l’immobile era pervenuto
in via ereditaria.
1.1.‒ La censura è stata respinta dall’Adunanza plenaria,
con la predetta sentenza n. 9 del 2017, con le seguenti
motivazioni.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere
al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una
siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è
del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza
degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata
conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire
meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile
non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la
cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le
conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale
della misura ripristinatoria della demolizione e la sua
precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario
rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in
cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità
della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il
responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga
all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere
motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta
doverosità delle sue conseguenze non consentono di
valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità
soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini
diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle
ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile
dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi
per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul
doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione
delle regole urbanistiche ed edilizie (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.04.2018 n. 2134 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Nei procedimenti preordinati all’emanazione di
ordinanze di demolizione di opere edilizie abusive la
violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio
dell’iter procedimentale non produce ‒ai sensi
dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990‒
l’annullamento del provvedimento quando, come accade nella
vicenda in esame, emerga che il contenuto dell’ordinanza
conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello che è stato in concreto adottato.
Per le ragioni espresse dall’Adunanza plenaria, i contenuti
partecipativi che gli appellanti lamentano di non aver
potuto rappresentare ‒la risalenza nel tempo degli abusi
realizzati dalla loro comune dante causa; il legittimo
affidamento riposto nella mancata adozione di provvedimenti
repressivi da parte dell’autorità; il contegno
contraddittorio serbato dal Comune di Fiumicino, il quale
aveva continuato nel corso degli anni ad introitare i
tributi locali per l’immobile in parola, in tal modo
rafforzando il convincimento circa la mancata attivazione
dei poteri repressivi‒ non avrebbero potuto distogliere
l’Amministrazione dal rispristino della legalità sul
territorio. Il vizio di mancata comunicazione
procedimentale, dunque, nel caso in esame, non rileva perché
la comunicazione, ove effettuata, comunque non avrebbe
potuto condurre all’adozione di un provvedimento diverso.
---------------
2.‒ Con il primo motivo di appello viene lamentata
l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha
ritenuto infondata la censura di violazione delle norme in
materia di partecipazione procedimentale.
2.1.‒ La censura non può essere accolta.
È dirimente richiamare il consolidato orientamento della
Sezione secondo cui, nei procedimenti preordinati
all’emanazione di ordinanze di demolizione di opere edilizie
abusive la violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio dell’iter procedimentale non produce ‒ai sensi
dell’art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990‒
l’annullamento del provvedimento quando, come accade nella
vicenda in esame, emerga che il contenuto dell’ordinanza
conclusiva del procedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello che è stato in concreto adottato (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 12.08.2016, n.
3620; Consiglio Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880; IV, 17.02.2014, n. 734; IV,
04.02.2013, n. 666).
Per le ragioni espresse dall’Adunanza plenaria, i contenuti
partecipativi che gli appellanti lamentano di non aver
potuto rappresentare ‒la risalenza nel tempo degli abusi
realizzati dalla loro comune dante causa; il legittimo
affidamento riposto nella mancata adozione di provvedimenti
repressivi da parte dell’autorità; il contegno
contraddittorio serbato dal Comune di Fiumicino, il quale
aveva continuato nel corso degli anni ad introitare i
tributi locali per l’immobile in parola, in tal modo
rafforzando il convincimento circa la mancata attivazione
dei poteri repressivi‒ non avrebbero potuto distogliere
l’Amministrazione dal rispristino della legalità sul
territorio. Il vizio di mancata comunicazione
procedimentale, dunque, nel caso in esame, non rileva perché
la comunicazione, ove effettuata, comunque non avrebbe
potuto condurre all’adozione di un provvedimento diverso (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.04.2018 n. 2134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli
interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal
permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che
«quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione».
La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria,
disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque
essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase
esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto
all’ordine di demolizione.
---------------
3.‒ Neppure può essere ritenuta condivisibile la censura
relativa alla legittimità dell'ordinanza di demolizione
emanata ai sensi dell'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3.1.‒ L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli
interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal
permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che
«quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione». La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria,
disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque
essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase
esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto
all’ordine di demolizione (Consiglio di Stato, sez. VI 29.11.2017, n. 5585; sez. VI, 12.04.2013,
n. 2001) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.04.2018 n. 2134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cattiva insonorizzazione dell’immobile: perché
rispondono costruttore, progettista ed
esecutore.
Il TRIBUNALE di Savona, sentenza 06.04.2018 n. 532,
accoglie la domanda risarcitoria proposta dall'acquirente
per i gravi vizi di insonorizzazione dell'immobile
acquistato, soffermandosi sul riparto di responsabilità tra
costruttore-venditore, progettista ed esecutore.
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ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi: Trib. Milano sez. VII 13/11/2015; App.
Bologna 26/09/2017; App. L'Aquila 11/01/2017; Trib. Pistoia
04/03/2010; Trib. Padova 21/10/2013; Trib. Roma, sez. X,
23/06/2014, n. 13550.
Difformi: Non si rinvengono precedenti.
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La questione sottoposta al Tribunale è un classico caso di
responsabilità ex art. 1669 c.c. L'attore, in particolare,
aveva acquistato un appartamento, edificato da una società
costruttrice in esecuzione di contratto di appalto
intercorso con la società proprietaria dell'area; la
progettazione e la direzione lavori erano state affidate ad
una società terza.
L'acquirente, dunque, lamentava come l’appartamento
acquistato fosse risultato privo di fondamentali requisiti
acustici, in altri termini malamente insonorizzato, ed aveva
promosso un atp e, poi, il giudizio contro le suddette
società (committente, appaltatrice e
progettista/DL), chiedendo il risarcimento dei danni,
consistenti nei costi necessari per riparare i difetti
acustici riscontrati e nel minor valore dell’immobile. Il
CTU aveva accertato che, come denunciato, l'appartamento
aveva un inadeguato isolamento acustico, causato sia dalla
mancanza di una progettazione acustica, sia dall’utilizzo di
materiali non adeguati.
Il problema preliminare, come in quasi tutte le cause in
materia di appalto, è quello della prescrizione/decadenza.
La responsabilità del costruttore, come noto, dura
dieci anni con decorrenza dal giorno in cui i lavori sono
stati ultimati; entro un anno dalla scoperta della rovina, o
del pericolo di rovina, o dei gravi difetti, affinché possa
esercitare l’azione di responsabilità, il proprietario
dell’immobile dovrà farne denunzia all’appaltatore,
mentre nell’anno successivo a tale denunzia si prescrive il
diritto ad esercitare l’azione giudiziaria.
Quindi, scoperto il difetto, entro un anno, deve essere
fatta la denuncia, a pena di decadenza (art. 1669, comma 2,
c.c.) e, entro un anno dalla denuncia, deve essere iniziato
il giudizio, a pena di prescrizione (art. 1669, ultimo
comma).
La giurisprudenza consolidata, tuttavia, afferma che il
termine decorre non dal momento in cui il committente o i
suoi aventi causa abbiano percepito meri segni o
manifestazioni esteriori dei vizi dell’opera, bensì in
quello in cui essi abbiano acquistato un apprezzabile grado
di conoscenza, obiettiva e completa e non soltanto
presuntiva, non solo della consistenza dei difetti e del
pericolo che ne deriva, ma anche del loro collegamento
causale con l’attività di esecuzione dell’opera.
Ed una tale conoscenza, salvo casi eclatanti, presuppone la
presa visione dell’elaborato peritale, da cui risulti
dimostrata la piena comprensione dei fenomeni e la chiara
individuazione ed imputazione delle loro cause.
In sostanza, detto termine decorre immediatamente solo
quando si tratti di un problema di immediata percezione,
anche per un profano, nella sua reale entità e nelle sue
possibili origini (Cass. n. 9966/2014); nella fattispecie,
la causa della eccessiva rumorosità dell’appartamento era
stata accertata solo a seguito dell'espletata CTU.
Con riferimento al particolare problema della rumorosità,
infatti, numerose sentenze, menzionate da quella in esame (Trib.
Milano sez. VII, sentenza, 13/11/2015; App. Bologna
26/09/2017; App. L'Aquila, 11/01/2017; Trib. Pistoia
04/03/2010, Trib. Padova, sentenza, 21/10/2013; Trib. Roma,
sez. X, 23/06/2014, n. 13550), hanno riconosciuto la
necessità, per l'accertamento del vizio acustico e delle sue
cause, dell'esecuzione di specifici rilievi acustici da
parte di tecnici abilitati: solo con l'indagine sulle cause
dei difetti denunciati, il termine per la denuncia comincia
a decorrere.
Con l'ulteriore precisazione che il deposito dell’Atp
determina l’effetto interruttivo della prescrizione (Cass.
n. 3357/2016), ed è quindi solo è solo con il deposito della
relazione del consulente nominato in sede di ATP che deve
presumersi che il committente abbia acquisito la conoscenza
non solo dell’esistenza dei difetti, ma pure delle loro
specifiche cause. Sicché è dal momento di detto deposito che
va fatta risalire la scoperta dei difetti dell’opera ed il
decorso del termine annuale per la denuncia ai fini della
decadenza, cui risulta collegato, sotto il profilo
cronologico, quello successivo di prescrizione, anch’esso
annuale per l’esercizio dell’azione di responsabilità.
Entrando nello specifico della problematica tecnica dell'insonorizzazione,
la sentenza diventa estremamente tecnica, perché le parti
avevano lungamente dibattuto in ordine alla normativa
tecnica applicabile ratione temporis.
Sul punto viene richiamata la nutrita giurisprudenza in tema
di immissioni, che esclude che le leggi speciali
anti-inquinamento, acustico e atmosferico, dettate per
difendere la salute dei cittadini o l'ambiente possano
applicarsi direttamente ai rapporti interprivatistici in
quanto rivolte alla PA, ma possono rilevare ai fini della
valutazione dell’intollerabilità delle immissioni, nel senso
che il superamento dei limiti fissati è sintomatico
dell’illiceità delle immissioni, mentre il rispetto di tali
limiti non comporta automaticamente che queste siano lecite.
Rimandiamo al testo della sentenza per questi
approfondimenti, che il Tribunale risolve prendendo il sacco
dalla cima: nel determinare se l’opera presenta o meno
difetti, spiega la sentenza, bisogna confrontarla con quella
realizzata secondo le leges artis del buon costruire,
che devono determinare l'edificazione di un’abitazione
idonea a preservare la tranquillità domestica, con
un’adeguata insonorizzazione. Il punto, quindi, non è quale
sia la normativa tecnica di riferimento, ma piuttosto la
vivibilità degli immobili acquistati dagli attori e
l'adeguatezza dell'isolamento acustico, secondo le regole
dell'ars media.
Gli accertamenti compiuti avevano accertato che la casa era
troppo rumorosa, al punto da impedire il riposo delle
persone: tanto basta per integrare il “grave difetto”
che giustifica l'applicazione della responsabilità prevista
dall'art. 1669 c.c.
Tocca, ora, al riparto di responsabilità tra i soggetti
coinvolti.
Ferma restando la responsabilità solidale nei confronti di
parte attrice, i tre convenuti sono da ritenersi egualmente
responsabili, in quanto “L’aspetto dei requisiti acustici
passivi degli edifici non è stato preso in considerazione né
nella fase progettuale né in quella realizzativa”.
Vi è, quindi, un concorso di responsabilità tra tutti i
soggetti coinvolti: del committente, per non aver
svolto le dovute verifiche della rispondenza acustica del
progetto; del progettista, per le carenze in fase
progettuale e di direzione dei lavori; dell’esecutore,
per non aver controllato, la bontà del progetto o delle
istruzioni impartite dal committente.
Come noto, infatti, rientra nei compiti dell'appaltatore
verificare che il progetto non presenti delle evidenti
criticità, come nel caso di specie e “...può andare
esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere
manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad
eseguirle, quale "nudus minister", per le insistenze del
committente ed a rischio di quest'ultimo. Pertanto, in
mancanza di tale prova, l'appaltatore è tenuto, a titolo di
responsabilità contrattuale, derivante dalla sua
obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le
imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il
concorso di colpa del progettista o del committente, né
l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni
impartite dal direttore dei lavori” (Cass. 23594/2017).
Nel caso di specie, come evidenziato dal ctu, l'appaltatore
ben poteva e doveva accorgersi delle deficienze acustiche
del progetto consegnatogli.
La sentenza è chiara, condivisibile e ben motivata; è quasi
una sentenza “paradigmatica”, per come dovrebbero
essere articolate le pronunce in questa materia: attenta
analisi delle questioni preliminari, approfondita
valutazione delle risultanze tecniche ed esame accurato
delle rispettive responsabilità dei soggetti coinvolti (commento
tratto da www.quotidianogiuridico.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolizioni edilizie, basta la Scia se non c'è
ricostruzione con modifica di volume.
Deve escludersi che interventi di demolizione di opere già
esistenti, versanti in condizioni fatiscenti e prive di
qualsiasi valore storico e/o artistico, possano essere
annoverati fra gli interventi che richiedano il rilascio del
permesso di costruire, in luogo della segnalazione
certificata di inizio di attività (SCIA).
E' quanto ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 27.03.2018 n. 3416, accogliendo il
ricorso contro la determina con la quale Roma Capitale aveva
contestato al proprietario di uno stabilimento di aver
demolito due manufatti aderenti all'edificio principale in
assenza del permesso di costruire, ed ingiunto allo stesso
la rimessa in pristino ai sensi degli articoli 10 e 33 del
testo unico dell'edilizia (di seguito "TUE").
Provvedimento che il ricorrente aveva impugnato deducendo
che gli interventi contestati erano stati erroneamente
qualificati come di "ristrutturazione edilizia" e non
semplici demolizioni di opere, prive di valore
storico–artistico, in pessimo stato di manutenzione e, per
di più, realizzate sulla scorta di titoli edilizi.
TESTO UNICO EDILIZIA, NORME A CONFRONTO
Articolo 10 (interventi subordinati a permesso di
costruire)
Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di
costruire:
a) gli interventi di nuova costruzione;
b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino modifiche della volumetria
complessiva degli edifici o dei prospetti
Articolo 22 (Interventi subordinati a segnalazione
certificata di inizio attività)
Sono realizzabili mediante SCIA:
a) gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora riguardino
le parti strutturali dell'edificio;
b) gli interventi di restauro e di risanamento conservativo,
qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia. Sono anche soggette
alla SCIA le varianti a permessi di costruire che non
incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che
non modificano la destinazione d'uso e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano
le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di
costruire.
La pronuncia
Il Tar Lazio ha rilevato che l'amministrazione capitolina ha
"sanzionato non la trasformazione dei luoghi mediante la
realizzazione di nuove opere, bensì l'avvenuto rispristino
allo stato originario di questi ultimi" sulla base di
una interpretazione strettamente letterale dell'articolo 3,
comma 1, lettera e), del TUE ("si intendono per
‘interventi di nuova costruzione': […] quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio").
Interpretazione per effetto della quale l'amministrazione ha
ricompreso gli interventi di demolizione fra quelli soggetti
al permesso di costruire, anziché a SCIA, senza peraltro
tener conto che il vaglio sugli interventi di cui
all'articolo 10 del TUE (nuova costruzione, ristrutturazione
urbanistica eccetera) si connota per la complessità e
l'ampiezza degli elementi oggetto di verifica, tali da
giustificare il più articolato procedimento finalizzato al
rilascio di un permesso di costruire, a differenza della
demolizione di opere, "rispetto alla quale è […] del
tutto coerente al sistema ritenere idonea la denuncia di
inizio di attività [ora SCIA]" (Tar Puglia-Lecce,
sentenza 27.01.2011, n. 172).
Indirizzo giurisprudenziale
La Corte di Cassazione ha costantemente affermato che la
semplice demolizione di un manufatto:
- non integra il reato di cui all'articolo 44, comma 1, lettera b),
del testo unico dell'edilizia (TUE), "in quanto per tale
tipo di intervento è sufficiente la DIA la cui mancanza
costituisce illecito amministrativo" (sentenza
17.06.2011, n. 24423);
- non rientra fra gli interventi subordinati al permesso di
costruire perché estranea alle fattispecie contemplate
dall'articolo 10 del TUE (sentenza 04.10.2007, n. 4098), ed
ha escluso il carattere reità anche nel caso in cui un
soggetto, munito di titolo edilizio per procedere alla
ristrutturazione di un fabbricato, "abbia demolito
l'intero immobile con l' intento di una totale ricostruzione
e l'illecito si sia esaurito nel solo fatto della
demolizione senza ulteriore attività edilizia"
(Cassazione, Sezione III, sentenza 27.05.2004, n. 30127).
Principi ai quali la giurisprudenza prevalente si è attenuta
anche dopo l'entrata in vigore della legge 25.03.1982, n. 94
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge
23.01.1982, n. 9 recante norme per l'edilizia residenziale e
provvidenze in materia di sfratti) che, all'articolo 7,
lettera c), prevedeva una specifica autorizzazione per le
opere di demolizione, i reinterri e gli scavi. Con l'effetto
che l'esecuzione di interventi di demolizione in assenza di
tale autorizzazione non veniva configurata un'ipotesi di
reato (articolo Edilizia e Territorio del 29.05.2018). |
APPALTI:
Il fatto che una stazione appaltante ricorra
all’“affidamento
diretto” non significa che essa sia esonerata dal rispetto
dei principi generali di pubblicità e trasparenza, stante il
chiarissimo disposto contenuto nell’art. 36, comma 1, del D.L.vo 50/2016, il quale stabilisce che “L’affidamento e
l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel
rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e
42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli
inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare
l’effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese…”.
I principi di pubblicità e trasparenza che governano la
disciplina comunitaria e nazionale, richiamati dall’art 30
d.lgs. 50/2016, implicano che le fasi salienti debbano
essere effettuate in seduta pubblica, qualsiasi sia la
tipologia di procedura: la pubblicità investe tutte quelle
operazioni della commissione di gara (tra cui l’apertura
della documentazione e delle offerte), attraverso cui si
effettuano le operazioni di “accoppiamento” tra partecipanti
e offerte e controllo del contenuto della documentazione
richiesta.
---------------
Il D.L.vo n. 56/2017 ha introdotto nel corpo dell’art. 95
D.L.vo 50/2016 la previsione secondo cui “La stazione
appaltante, al fine di assicurare l'effettiva individuazione
del miglior rapporto qualità/prezzo, valorizza gli elementi
qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da
garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili
tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un
tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del
30 per cento”.
La norma testé riportata si riferisce chiaramente alla
ipotesi in cui l’aggiudicazione di un appalto pubblico debba
avvenire secondo il criterio della offerta economicamente
più vantaggiosa, e deve conseguentemente ritenersi norma di
portata vincolante in tutti i casi in cui il ricorso al
citato criterio di aggiudicazione sia obbligatorio.
Come noto, nel sistema disegnato dal D.L.vo 50/2016 il
criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, quale
criterio di aggiudicazione di un appalto pubblico, è ormai
divenuto la regola, potendosi derogare ad esso, in favore
del criterio del minor prezzo, solo in determinate
circostanze da considerarsi tassative.
---------------
Posto che l’Amministrazione resistente eccepisce che nella
fattispecie si è proceduto con un affidamento ai sensi
dell’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, occorre
domandarsi se gli affidamenti disposti ai sensi di tale
norma siano effettivamente soggetti all’obbligo generale di
aggiudicazione secondo il criterio della offerta
economicamente più vantaggiosa, poiché in tal caso essi
sarebbero automaticamente vincolati anche al rispetto della
previsione di cui all’art. 95, comma 10-bis, del Codice.
La risposta è, ad avviso del Collegio, negativa, in quanto
gli affidamenti ex art. 36, comma 2, lett. a), del Codice
sono tenuti al rispetto dei principi generali menzionati
all’art. 30, comma 1, tra i quali il criterio di
aggiudicazione in esame non pare rientrarvi.
Valga del resto la considerazione che gli affidamenti
diretti, ancorché preceduti da una consultazione tra più
operatori, sono contraddistinti da informalità e dalla
possibilità per la stazione appaltante di negoziare le
condizioni contrattuali intavolando anche con vari operatori
trattative parallele: ebbene, rispetto alla informalità di
tali consultazioni l’obbligo di scegliere il contraente
secondo il criterio della offerta economicamente più
vantaggiosa, quantomeno nella forma rigidamente disciplinata
dall’art. 95, appare distonico e, dunque, incompatibile.
Anche il Consiglio di Stato, nel parere della Commissione Speciale n. 782
del 30.03.2017, reso sulla proposta del c.d. “decreto
correttivo”, ha riconosciuto che “ferma restando la spiccata
preferenza per l'aggiudicazione tramite il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del
miglior rapporto qualità/prezzo, il decreto correttivo ha
proceduto, modificando l'art. 95 recante “Criterio di
aggiudicazione dell'appalto”, a meglio perimetrare l'obbligo
di utilizzo di tale criterio: a) introducendo una possibile
deroga per gli appalti di cui all'art. 95, comma 3, lett.
a), nel caso di affidamenti diretti sino a € 40.000;……”.
Tenuto conto della dianzi esposte considerazioni il Collegio
ritiene che nel corso delle procedure di cui all’art. 36,
comma 2, lett. a), del Codice, cioè le procedure finalizzate
all’affidamento di un contratto di valore inferiore ai
40.000,00 Euro, ancorché caratterizzate dalla consultazione
di due o più operatori, la stazione appaltante non è tenuta
al rispetto dell’art. 95, sia nel senso che può liberamente
disporre l’affidamento secondo il criterio del minor prezzo
anche nei casi in ciò sarebbe vietato dall’art. 95, sia nel
senso che può disporre l’affidamento secondo il criterio del
miglior rapporto tra qualità e prezzo derogando ai principi
dettati dall’art. 95, tra i quali anche il principio secondo
il quale il punteggio relativo alla offerta economica non
può superare il 30% del punteggio totale.
---------------
10. Risulta invero manifestamente fondato il primo dei
motivi di ricorso, a mezzo del quale parte ricorrente
censura il mancato rispetto dei principi di pubblicità e
trasparenza, violati per il fatto che nessuna delle
operazioni di gara, e segnatamente l’apertura delle buste
contenenti la documentazione amministrativa, l’offerta
tecnica e l’offerta economica, risulta essere stata
effettuata nel corso di seduta pubblica.
11. Va chiarito, a miglior comprensione di quanto infra si
dirà, che il fatto che una stazione appaltante ricorra all’“affidamento
diretto” non significa che essa sia esonerata dal rispetto
dei principi generali di pubblicità e trasparenza, stante il
chiarissimo disposto contenuto nell’art. 36, comma 1, del D.L.vo 50/2016, il quale stabilisce che “L’affidamento e
l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alle soglie di cui all’articolo 35 avvengono nel
rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e
42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli
inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare
l’effettiva possibilità di partecipazione delle
microimprese, piccole e medie imprese…”.
12. Come, poi, la Sezione ha già avuto modo di chiarire
(sentenza n. 1324 del 07.12.2017) “I principi di
pubblicità e trasparenza che governano la disciplina
comunitaria e nazionale, richiamati dall’art 30 d.lgs.
50/2016, implicano che le fasi salienti debbano essere
effettuate in seduta pubblica, qualsiasi sia la tipologia di
procedura: la pubblicità investe tutte quelle operazioni
della commissione di gara (tra cui l’apertura della
documentazione e delle offerte), attraverso cui si
effettuano le operazioni di “accoppiamento” tra partecipanti
e offerte e controllo del contenuto della documentazione
richiesta”.
13. Ciò chiarito, è evidente che ove pure la gara per cui è
causa dovesse effettivamente qualificarsi come procedura
finalizzata a pervenire ad un affidamento diretto, ciò non
escluderebbe la necessità di rispettare i principi di
pubblicità e trasparenza, che si declinano –come dianzi
ricordato– anche nella necessità di effettuare in seduta
pubblica taluni adempimenti, tra i quali l’apertura delle
buste contenenti le offerte tecniche ed economiche, ciò che
nel caso di specie pacificamente non è avvenuto, nonostante
l’autovincolo al rispetto dei principi di trasparenza e
pubblicità enunciato nell’avviso pubblico indetto
dall’Istituto scolastico.
14. La acclarata fondatezza del primo motivo di ricorso,
avente portata di per sé assorbente, dovrebbe comportare
l’annullamento di tutti gli atti di gara a partire dal
momento di apertura delle buste; tuttavia, tenuto conto del
fatto che le buste contenenti le offerte economiche sono
state ormai aperte, che in ossequio a consolidato
orientamento di giurisprudenza si impone la retrocessione
del procedimento alla fase di presentazione delle offerte e
che dunque la gara deve praticamente essere nuovamente
celebrata quasi dall’inizio, reputa il Collegio che nella
specie sussista l’interesse del ricorrente alla disamina del
secondo motivo di ricorso, dal cui accoglimento
conseguirebbe l’annullamento della lettera di invito ma
anche, correlativamente, la tutela dell’interesse del
ricorrente a che la gara venga reiterata nel rispetto della
legislazione vigente ed emendata dai vizi denunciati.
15. Con il secondo motivo, dunque, il ricorrente ha fatto
valere l’illegittimità della lettera di invito nella parte
in cui, all’art. 12, essa prevede che alla offerta economica
sono attribuiti fino a 50 punti su cento, in violazione di
quanto prevede l’art. 95, comma 10-bis, del D.L.vo 50/2016.
16. La censura è fondata.
17. Il D.L.vo n. 56/2017 ha introdotto nel corpo dell’art.
95 D.L.vo 50/2016 la previsione secondo cui “La stazione
appaltante, al fine di assicurare l'effettiva individuazione
del miglior rapporto qualità/prezzo, valorizza gli elementi
qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da
garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili
tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un
tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del
30 per cento”.
18. La norma testé riportata si riferisce chiaramente alla
ipotesi in cui l’aggiudicazione di un appalto pubblico debba
avvenire secondo il criterio della offerta economicamente
più vantaggiosa, e deve conseguentemente ritenersi norma di
portata vincolante in tutti i casi in cui il ricorso al
citato criterio di aggiudicazione sia obbligatorio.
19. Come noto, nel sistema disegnato dal D.L.vo 50/2016 il
criterio della offerta economicamente più vantaggiosa, quale
criterio di aggiudicazione di un appalto pubblico, è ormai
divenuto la regola, potendosi derogare ad esso, in favore
del criterio del minor prezzo, solo in determinate
circostanze da considerarsi tassative.
20. Posto che l’Amministrazione resistente eccepisce che
nella fattispecie si è proceduto con un affidamento ai sensi
dell’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, occorre
domandarsi se gli affidamenti disposti ai sensi di tale
norma siano effettivamente soggetti all’obbligo generale di
aggiudicazione secondo il criterio della offerta
economicamente più vantaggiosa, poiché in tal caso essi
sarebbero automaticamente vincolati anche al rispetto della
previsione di cui all’art. 95, comma 10-bis, del Codice.
21. La risposta è, ad avviso del Collegio, negativa, in
quanto gli affidamenti ex art. 36, comma 2, lett. a), del
Codice sono tenuti al rispetto dei principi generali
menzionati all’art. 30, comma 1, tra i quali il criterio di
aggiudicazione in esame non pare rientrarvi. Valga del resto
la considerazione che gli affidamenti diretti, ancorché
preceduti da una consultazione tra più operatori, sono
contraddistinti da informalità e dalla possibilità per la
stazione appaltante di negoziare le condizioni contrattuali
intavolando anche con vari operatori trattative parallele:
ebbene, rispetto alla informalità di tali consultazioni
l’obbligo di scegliere il contraente secondo il criterio
della offerta economicamente più vantaggiosa, quantomeno
nella forma rigidamente disciplinata dall’art. 95, appare
distonico e, dunque, incompatibile.
Anche il Consiglio di Stato, nel parere della Commissione
Speciale n. 782 del 30.03.2017, reso sulla proposta del c.d.
“decreto correttivo”, ha riconosciuto che “ferma
restando la spiccata preferenza per l'aggiudicazione tramite
il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, il decreto
correttivo ha proceduto, modificando l'art. 95 recante
“Criterio di aggiudicazione dell'appalto”, a meglio
perimetrare l'obbligo di utilizzo di tale criterio: a)
introducendo una possibile deroga per gli appalti di cui
all'art. 95, comma 3, lett. a), nel caso di affidamenti
diretti sino a € 40.000;……”.
22. Tenuto conto della dianzi esposte considerazioni il
Collegio ritiene che nel corso delle procedure di cui
all’art. 36, comma 2, lett. a), del Codice, cioè le
procedure finalizzate all’affidamento di un contratto di
valore inferiore ai 40.000,00 Euro, ancorché caratterizzate
dalla consultazione di due o più operatori, la stazione
appaltante non è tenuta al rispetto dell’art. 95, sia nel
senso che può liberamente disporre l’affidamento secondo il
criterio del minor prezzo anche nei casi in ciò sarebbe
vietato dall’art. 95, sia nel senso che può disporre
l’affidamento secondo il criterio del miglior rapporto tra
qualità e prezzo derogando ai principi dettati dall’art. 95,
tra i quali anche il principio secondo il quale il punteggio
relativo alla offerta economica non può superare il 30% del
punteggio totale (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.03.2018 n. 353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La circolare costituisce mero atto normativo
interno, nella specie specificamente indirizzato alle
commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale «nominate in esecuzione
di provvedimenti giurisdizionali», e non già fonte normativa
a diretta rilevanza esterna integrativa dell’ordinamento
giuridico generale, con conseguente non impugnabilità
autonoma se non unitamente all’eventuale provvedimento di
attuazione lesivo della posizione del soggetto destinatario.
---------------
7. Premesso che la censura di omessa pronuncia, dedotta con i
primi
tre motivi d’appello, non comporta l’annullamento
dell’impugnata sentenza con rinvio al primo giudice ai sensi
dell’art. 105, comma 1, cod. proc. amm., bensì il
potere/dovere del giudice d’appello di decidere le questioni
ritualmente introdotte in primo grado, non affrontate
nell’impugnata sentenza e devolute in secondo grado con
l’atto d’impugnazione, si osserva che nel caso di specie il
Tar effettivamente, in violazione dell’art. 112 cod. proc.
civ., non ha affrontato le censure dedotte in primo grado
avverso al circolare M.i.u.r. n. 0001844 dell’11.02.2016, sicché, per quanto innanzi detto, occorre esaminarle
nella presente sede.
I relativi profili di censura, tra di loro connessi e da
esaminare congiuntamente, sono, tuttavia, inammissibili e,
comunque, infondati nel merito, in quanto:
- la circolare costituisce mero atto normativo interno,
nella specie specificamente indirizzato alle commissioni per
l’abilitazione scientifica nazionale «nominate in esecuzione
di provvedimenti giurisdizionali», e non già fonte normativa
a diretta rilevanza esterna integrativa dell’ordinamento
giuridico generale, con conseguente non impugnabilità
autonoma se non unitamente all’eventuale provvedimento di
attuazione lesivo della posizione del soggetto destinatario;
- nella specie, l’odierna appellante ha, bensì, presentato
(in data 29.03.2016) al M.i.u.r. «istanza di riesame in autotutela con contestuale istanza di estensione del
giudicato», ma non risulta che sia stato adottato un
eventuale atto di diniego basato sulla menzionata circolare,
con conseguente inammissibilità dell’impugnazione di quest’ultima;
- in ogni caso, la circolare ha fatto corretta applicazione
del principio per cui l’efficacia erga omnes ed ex tunc del
giudicato di annullamento di un atto regolamentare a
contenuto generale e inscindibile trova un suo limite nei
rapporti esauriti, non essendo idoneo a incidere sugli
effetti irreversibili già prodottisi, poiché la
retroattività degli effetti del giudicato di annullamento di
una norma regolamentare incontra un limite negli effetti che
la stessa, ancorché successivamente rimossa
dall’ordinamento, abbia irrevocabilmente prodotto qualora
resi intangibili dall’esaurimento dello specifico rapporto
giuridico disciplinato dalla norma espunta dall’ordinamento
giuridico, per intervenuta decadenza o mancata impugnazione
del provvedimento attuativo della disposizione regolamentare
annullata (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 20.03.2018 n. 1777 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per ricorrente giurisprudenza, la realizzazione
di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico
come intervento di nuova costruzione e non di natura pertinenziale, essendo assente il requisito della
individualità fisica e strutturale propria della pertinenza.
Il manufatto costituisce, infatti, parte integrante
dell'edificio e la nozione di costruzione deve estendersi a
qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di
posa e di elevazioni dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua
conformità alle disposizioni del testo unico dell'edilizia
(D.P.R. n. 380/2001) e alle norme dallo stesso richiamate in
tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr. art. 12),
tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
----------------
Gli appellanti insistono nel sostenere che la
realizzazione di una tettoia in legno non può qualificarsi
come un intervento di ristrutturazione né tanto meno come
nuova costruzione, assumendo che la tettoia in questione non
determina alcuna volumetria in quanto aperta su tre lati ed
è coperta da un cannucciato di bambù rimovibile.
La tesi non è condivisibile perché la natura precaria e temporanea della struttura
realizzata, secondo noto e consolidato orientamento, non può
certamente inferirsi dal genere del materiale di costruzione
impiegato, bensì dall'essere o meno la costruzione destinata
al soddisfacimento di esigenze temporanee … e nella specie
la struttura realizzata è all'evidenza preordinata al
soddisfacimento di esigenze non temporanee.
---------------
1. La sig.ra Lu.Ca., comproprietaria insieme al sig.
An.Am. di un immobile sito in Bari alla via
... n. 28, presentava in data 16.02.2009 una
D.I.A. (n. 321/2009) per la realizzazione di una tettoia
amovibile, al quarto piano del suddetto immobile.
Il progetto prevedeva la realizzazione di una struttura in
legno lamellare, con pilastri e arcarecci sui quali poggiava
un cannucciato in bambù e un pannello di policarbonato,
aperta su tre lati e poggiata sul muro della costruzione.
La sig.ra Ca. presentava la documentazione richiesta
dal Comune e versava la somma di €. 1.637,92 a titolo di
oneri concessori e con nota del 09.11.2009 comunicava
di aver concluso i lavori in data 03.09.2009, secondo
il progetto proposto alla presentazione della D.I.A..
In data 26.10.2009, la società Nu.Ge.Im. s.p.a., proprietaria di un immobile sito in Bari alla via
... n. 64, di fronte a quello di proprietà dei sigg.
Ca. e Am., proponeva ricorso al TAR per la
Puglia per l'accertamento dei presupposti per
l'ammissibilità dell'intervento oggetto della D.I.A..
Il TAR con sentenza n. 3032 del 04.12.2009, resa in
forma semplificata, ha accolto il ricorso ed ha dichiarato
l'insussistenza dei presupposti per la formazione della D.I.A..
...
2. Con un primo motivo di censura gli appellanti lamentano
la violazione degli artt. 3, 10 e 22 del D.P.R. n. 380/2001
nonché degli artt. 14 e 18 delle N.T.A. del Piano Regolatore
Generale del Comune di Bari.
Con un ulteriore motivo di censura, strettamente collegato
al primo, gli appellanti lamentano la violazione dell'art.
22 del D.P.R. n. 380/2001 con riferimento all'art. 9 del
D.M. n. 1444/1968 e dell'art. 49 delle N.T.A. del P.R.G. del
Comune di Bari.
3. Si può prescindere da approfondimenti in ordine alla
eccezione sollevata dalla società Nu.Ge.Im.
s.p.a. circa l'inammissibilità della produzione documentale
versata dagli appellanti agli atti del giudizio in data 04.01.2018, che sarebbe preclusa nel giudizio di appello ai
sensi dell'art. 104, comma 2, del c.p.a. e ciò in
considerazione del fatto che l'appello è infondato e va
respinto.
4. Nel merito gli appellanti assumono che il TAR avrebbe
errato nel ritenere che la struttura in questione, pur
avendo natura accessoria e pertinenziale rispetto alla
costruzione principale, avrebbe dovuto considerarsi come
nuova costruzione a tutti gli effetti e ciò in quanto la
stessa sarebbe preordinata al soddisfacimento di esigenze
non temporanee e, ulteriormente, che la sentenza del TAR
sarebbe erronea laddove il giudice di prima istanza ha
ritenuto violata la disciplina relativa alle distanze legali
tra le pareti finestrate previste dal D.M. n. 1444/1968 e
dalle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Bari.
E ciò perché l'art. 22 del D.P.R. n. 380/2001 consentirebbe
la realizzazione di interventi mediante D.I.A. ad eccezione
di quelli indicati nell'art. 10, che riguardano una
ristrutturazione urbanistica o edilizia o la realizzazione
di nuove costruzioni.
4.2. Orbene, il Collegio osserva che il TAR Puglia ha
correttamente evidenziato che l'effetto autorizzativo che
consegue alla D.I.A. (e che tiene luogo, per equivalenza,
del provvedimento amministrativo favorevole esplicito) non
deriva direttamente dalla dichiarazione del privato, bensì
consegue al decorso del termine, finalizzato proprio a
consentire all'Amministrazione di procedere alla verifica
dei necessari presupposti (e) nell'ipotesi di cattivo
esercizio da parte dell’Amministrazione dei poteri di verifica
e di controllo della sussistenza dei presupposti sostanziali
richiesti, è data tutela innanzi al Giudice Amministrativo.
Nel caso di specie a rilevare non è quale sia il titolo
utile per realizzare la copertura in questione (D.I.A. o
permesso di costruire), bensì l'illegittimità
dell'intervento, per assenza dei presupposti legali alla sua
esecuzione.
L'opera attiene, infatti, ad una copertura realizzata in
legno lamellare con copertura in policarbonato e e
cannucciato, posata su tre pilastri in legno ancorati con
basamento in cemento e bulloni al pavimento che, a
prescindere dalla sua incidenza in termini di superficie o
di incremento volumetrico, per il suo carattere di
costruzione rileva in ordine alla distanza tra edifici.
4.3. Per ricorrente giurisprudenza, invero, la realizzazione
di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico
come intervento di nuova costruzione e non di natura
pertinenziale, essendo assente il requisito della
individualità fisica e strutturale propria della pertinenza.
Il manufatto costituisce, infatti, parte integrante
dell'edificio e la nozione di costruzione deve estendersi a
qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di
posa e di elevazioni dell'opera.
Per la tettoia come realizzata, necessita, quindi, la sua
conformità alle disposizioni del testo unico dell'edilizia
(D.P.R. n. 380/2001) e alle norme dallo stesso richiamate in
tema di disciplina urbanistica ed edilizia (cfr. art. 12),
tra cui quella sulle distanze previste dal codice civile.
4.4. Non può trovare condivisione la tesi degli appellanti
che l'art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 prevederebbe che gli interventi come quello di interesse
possono essere considerati nuova costruzione solo se le
N.T.A. del P.R.G. del Comune lo evidenzino espressamente o
nel caso in cui si realizzino opere che abbiano un volume
superiore al 20% del volume dell'edificio principale, atteso
che nulla si evince al riguardo dalla disciplina di settore
del Comune e, comunque, a rilevare è, come si è accennato,
la disciplina statale sulle distanze tra edifici, che
essendo volta alla salvaguardia di imprescindibili esigenze
igienico-sanitarie, è tassativa ed inderogabile nell'imporre
al proprietario dell'area confinante di costruire il proprio
edificio ad almeno 10 metri, senza alcuna deroga.
5. Gli appellanti insistono nel sostenere, ancora, che la
realizzazione di una tettoia in legno non può qualificarsi
come un intervento di ristrutturazione né tanto meno come
nuova costruzione, assumendo che la tettoia in questione non
determina alcuna volumetria in quanto aperta su tre lati ed
è coperta da un cannucciato di bambù rimovibile.
5.2. La tesi, ripetitiva di quanto già sostenuto ai punti
precedenti, non è condivisibile, perché, come rilevato dal
TAR Puglia la natura precaria e temporanea della struttura
realizzata, secondo noto e consolidato orientamento, non può
certamente inferirsi dal genere del materiale di costruzione
impiegato, bensì dall'essere o meno la costruzione destinata
al soddisfacimento di esigenze temporanee … e nella specie
la struttura realizzata è all'evidenza preordinata al
soddisfacimento di esigenze non temporanee.
Né quanto osservato dai tecnici comunali a seguito del
sopralluogo effettuato in data 17.11.2009, su disposizione
del Giudice nel parallelo procedimento civile azionato dagli
appellanti, inficia la conclusione cui si è pervenuti in
ordine alla qualificazione sul piano giuridico
dell'intervento edilizio de quo e al mancato rispetto delle
distanze tra edifici (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2018 n. 1309 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale formatosi in questa
materia, come è noto, i valori del costo del lavoro
risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un
limite inderogabile, ma solo un parametro di valutazione
della congruità dell'offerta sotto tale profilo, di modo che
l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative
voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia,
potendo essere accettato purché, però, esso risulti
puntualmente e rigorosamente giustificato.
Se un'offerta non può, pertanto, ritenersi anomala ed essere
esclusa per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato
calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle
tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, è però ben
possibile dubitare della sua congruità ove la discordanza
dalle tabelle sia considerevole e ingiustificata.
Per quanto precede non vi è dubbio, allora, che l’onere di
giustificazione degli scostamenti, quando –come nella
specie- significativi, incomba sull’offerente, come conferma
l’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016.
---------------
6c Quanto alle articolate deduzioni elaborate dalla parte
ricorrente in merito ai propri costi orari del lavoro, si
presentano decisive, in proposito, le obiezioni
pregiudiziali sollevate ex adverso dalla difesa del
Consorzio Umana Solidarietà.
La medesima ha fatto notare, invero, che le appellanti,
nelle giustificazioni presentate alla Commissione di gara,
avevano indicato delle voci di costo della manodopera
sensibilmente inferiori a quelle recate dalle tabelle
ministeriali -con uno scarto quantificato dalla Commissione
in misura non inferiore al 13%- senza fornire, però, alcuna
spiegazione in merito, così rendendosi inadempienti al
proprio onere di dimostrare il carattere giustificato dei
relativi scostamenti tabellari.
Questa obiezione coglie nel segno.
Secondo l’indirizzo giurisprudenziale formatosi in questa
materia, come è noto, i valori del costo del lavoro
risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un
limite inderogabile, ma solo un parametro di valutazione
della congruità dell'offerta sotto tale profilo, di modo che
l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative
voci di costo non legittima ex se un giudizio di
anomalia, potendo essere accettato purché, però, esso
risulti puntualmente e rigorosamente giustificato (cfr.
C.d.S., V, 17.11.2014, n. 5633; IV, 22.03.2013, n. 1633; V,
12.03.2009, n. 1451; VI, 21.07.2010, n. 4783).
Se un'offerta non può, pertanto, ritenersi anomala ed essere
esclusa per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato
calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle
tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, è però ben
possibile dubitare della sua congruità ove la discordanza
dalle tabelle sia considerevole e ingiustificata (cfr. C.d.S.,
V, 30.03.2017, n. 1465; III, 15.04.2016, n. 1533;
09.12.2015, n. 5597; n. 3329 del 03.07.2015).
Per quanto precede non vi è dubbio, allora, che l’onere di
giustificazione degli scostamenti, quando –come nella
specie- significativi, incomba sull’offerente, come conferma
l’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016.
Parimenti chiaro, inoltre, è che l’attuale appellante sia
rimasta inottemperante a tale onere: le giustificazioni da
essa fornite (doc. 9 della sua produzione d’appello) si
risolvevano, in punto di costo del personale, in una mera
tabella riassuntiva, preceduta dalla vaga affermazione che
segue: “Disporre di una collaudata “struttura di governo”
della commessa è certamente garanzia di una più sinergica e
razionale utilizzazione del personale in particolare con
riferimento alla fruizione delle ferie e dei permessi
maturati nonché in occasione di eventi quali le malattie ed
in generale al verificarsi di assenze non comunicate
preventivamente”.
Donde l’immunità da vizi della conclusione raggiunta dalla
Commissione, con il provvedimento impugnato, che non fossero
state fornite idonee giustificazioni in relazione alla
mancata applicazione delle tariffe salariali di cui alla
vigente tabella del Ministero del Lavoro.
Da qui l’ulteriore conseguenza che la ricorrente non può
essere seguita nelle sue deduzioni tese a giustificare
direttamente in sede contenziosa la congruità delle singole
voci di costo del lavoro da essa esposte, in quanto tutte le
giustificazioni possibili andavano da essa fornite già a
tempo debito, in sede procedimentale; e il Giudice non
potrebbe certo sostituirsi all’Amministrazione nella
relativa disamina (CGARS,
sentenza 31.01.2018 n. 46 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E’ pacifico in giurisprudenza che ai sensi dell’art. 20,
comma 8, del d.P.R. n. 380/2001, il silenzio-assenso
previsto in tema di permesso di costruire non si forma per
il solo fatto dell’inutile decorso del termine prefissato
per la pronuncia espressa dell’amministrazione comunale e
dell’adempimento degli oneri documentali necessari per
l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova
della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi ed
oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo
edilizio, tra i quali rientra, dal punto di vista oggettivo,
la conformità dell’intervento progettato alla normativa urbanistico-edilizia.
Ne deriva che il titolo abilitativo
tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso
soltanto ove la domanda sia conforme al relativo modello
legale e, quindi, sia in grado di comprovare che ricorrano
tutte le condizioni previste per il suo accoglimento,
inclusa la conformità urbanistico-edilizia, impedendo in
radice la mancanza di talune di queste che possa avviarsi (e
concludersi) il procedimento autorizzativo.
---------------
5.- Preliminarmente il Collegio deve sottoporre a scrutinio
la doglianza articolata con il primo motivo di ricorso
inteso a censurare la circostanza, ritenuta dirimente, e
cioè che il diniego è intervenuto quanto ormai era maturato
il silenzio assenso sulla richiesta di permesso di costruire
e si era quindi consumato il potere di provvedere,
eventualmente riesercitabile solo con le garanzie proprie
del procedimento di autotutela.
Nella prospettazione attorea sussisterebbero i presupposti
per l’applicazione della relativa normativa di
semplificazione (art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380/2001),
quali il decorso di 100 giorni dalla presentazione
dell’istanza, nel mentre il Comune ha provveduto ad esitare
la domanda di p.d.c. dopo 230 giorni dalla presentazione
dell’istanza e 153 giorni dall’invio del preavviso di
rigetto.
Aggiunge che alla formazione del silenzio-assenso, tipizzata
dalla norma evocata, non sarebbe di ostacolo neppure la non
conformità urbanistica dell’istanza.
5.1.- Il Collegio ritiene di non potere condividere la
censura in esame.
E’ pacifico in giurisprudenza che ai sensi dell’art. 20,
comma 8, del d.P.R. n. 380/2001, il silenzio-assenso
previsto in tema di permesso di costruire non si forma per
il solo fatto dell’inutile decorso del termine prefissato
per la pronuncia espressa dell’amministrazione comunale e
dell’adempimento degli oneri documentali necessari per
l’accoglimento della domanda, ma occorre, altresì, la prova
della sussistenza di tutti i requisiti soggettivi ed
oggettivi ai quali è subordinato il rilascio del titolo
edilizio, tra i quali rientra, dal punto di vista oggettivo,
la conformità dell’intervento progettato alla normativa urbanistico-edilizia.
Ne deriva che il titolo abilitativo
tacito può formarsi per effetto del silenzio assenso
soltanto ove la domanda sia conforme al relativo modello
legale e, quindi, sia in grado di comprovare che ricorrano
tutte le condizioni previste per il suo accoglimento,
inclusa la conformità urbanistico-edilizia, impedendo in
radice la mancanza di talune di queste che possa avviarsi (e
concludersi) il procedimento autorizzativo (orientamento
consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.07.2015 n. 3661; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 25.02.2016 n. 1032; Sez. VI
n. 4493/2017) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 06.12.2017 n. 1248 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E’ pacifico in
giurisprudenza che:
-
il volume dei fabbricati è determinato dalla somma dei
prodotti delle superfici utili di ogni piano per le relative
altezze lorde, misurate da pavimento a pavimento;
-
i regolamenti edilizi possono disporre in ordine al computo
dei volumi interrati in ragione della loro destinazione
d’uso, laddove questi ultimi siano destinati a residenza,
uffici o attività produttive;
-
in mancanza di disposizioni in tal senso, nel calcolo del
volume complessivo dell’edificio rientra anche il
seminterrato per la sola parte emergente dal piano di
campagna;
- in particolare, per calcolare quale sia la
volumetria assentibile (in un intervento edilizio su
immobile preesistente) non può rilevare qualsiasi situazione
in fatto esistente ma la sola volumetria legittimamente
esistente.
---------------
Nella specie, il Collegio è dell’avviso –in applicazione
del principio onus probandi incumbit ei qui dicit- che non
risulta dimostrata l’invocata conformità urbanistico-edilizia dell’istanza denegata, per le ragioni
che di seguito si andranno ad esporre.
6.- E’ pacifico in giurisprudenza che:
-
il volume dei fabbricati è determinato dalla somma dei
prodotti delle superfici utili di ogni piano per le relative
altezze lorde, misurate da pavimento a pavimento;
-
i regolamenti edilizi possono disporre in ordine al computo
dei volumi interrati in ragione della loro destinazione
d’uso, laddove questi ultimi siano destinati a residenza,
uffici o attività produttive;
-
in mancanza di disposizioni in tal senso, nel calcolo del
volume complessivo dell’edificio rientra anche il
seminterrato per la sola parte emergente dal piano di
campagna;
-
in particolare, per calcolare quale sia la volumetria
assentibile (in un intervento edilizio su immobile
preesistente) non può rilevare qualsiasi situazione in fatto
esistente ma la sola volumetria legittimamente esistente (ex multis Cons. St. n. 5196/2016);
6.1.- Trasponendo le riferite acquisizioni giurisprudenziali
al caso in esame, deve ritenersi legittimo il diniego
opposto dall’amministrazione che, nell’atto impugnato, ha
precisato di non potere assentire la richiesta di p.d.c. con
i benefici del c.d. piano casa “in quanto nel calcolo della
volumetria esistente è considerata in toto la volumetria del
piano seminterrato e non solamente la parte fuori terra”,
escludendo sostanzialmente che l’intero piano seminterrato
potesse essere computato “in toto” (e non per la sola parte
emergente dal piano di campagna) nel calcolo della
volumetria assentibile con il bonus volumetrico.
6.2.- Né la circostanza che il piano seminterrato sia stato
oggetto del permesso di sanatoria n. 68 del 27.01. 2004,
rilasciato ex l. n. 47/1985, arreca utilità alla tesi del
ricorrente che al riguardo invoca la previsione dell’art. 4
della l.r. n. 14/2009 (in ordine alla computabilità delle
volumetrie sanate) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 06.12.2017 n. 1248 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha chiarito che:
- la domanda di condono edilizio concerne il perdono ex lege
per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto
in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione
sostanziale);
- la domanda di condono (ontologicamente diversa dalla
domanda di accertamento di conformità) ammette la
regolarizzazione, nella misura in cui le specifiche norme di
legge lo consentano, di manufatti che, oltre a non essere
formalmente autorizzati, risultino eventualmente anche in
contrasto con le prescrizioni urbanistiche.
La materia del condono, cioè, è regolata da un corpus
normativo speciale e autonomo rispetto all’ordinario regime
urbanistico ed edilizio, soggetto a specifici presupposti e
a definite modalità per la concessione, nonché limitato a
precisi ambiti temporali.
Infatti, la concessione del condono non implica una modifica
dello strumento urbanistico, a meno che non sia adottata
nelle forme previste dall’ordinamento un’apposita variante
finalizzata al recupero degli insediamenti abusivi, e non
comporta alcuna legittimazione o giustificazione in ordine
alla realizzazione di opere ulteriori di trasformazione e
ampliamento, sia pur “migliorative”, destinate al mutamento
delle destinazioni d’uso, sia pur “convenienti”, dei
manufatti condonati, che restano invece assoggettati alle
prescrizioni urbanistiche vigenti, non modificate per
effetto del condono, che non ha certamente gli effetti di
una variante.
---------------
6.2.1.- In proposito la giurisprudenza, con valutazione che
il Collegio condivide e da cui non vi è motivo per
discostarsi, ha chiarito che:
- la domanda di condono edilizio concerne il perdono ex lege
per la realizzazione sine titulo abilitativo di un manufatto
in contrasto con le prescrizioni urbanistiche (violazione
sostanziale) (TAR Lazio, sezione I-quater, 11.01.2011,
n. 124 e 22.12.2010, n. 38207; TAR Campania Napoli,
sezione VI, 03.09.2010, n. 17282);
- la domanda di condono (ontologicamente diversa dalla
domanda di accertamento di conformità) ammette la
regolarizzazione, nella misura in cui le specifiche norme di
legge lo consentano, di manufatti che, oltre a non essere
formalmente autorizzati, risultino eventualmente anche in
contrasto con le prescrizioni urbanistiche (ex multis, Cons.
St., sez. VI, 02/02/2015, n. 466).
La materia del condono, cioè, è regolata da un corpus
normativo speciale e autonomo rispetto all’ordinario regime
urbanistico ed edilizio, soggetto a specifici presupposti e
a definite modalità per la concessione, nonché limitato a
precisi ambiti temporali.
Infatti, la concessione del condono non implica una modifica
dello strumento urbanistico, a meno che non sia adottata
nelle forme previste dall’ordinamento un’apposita variante
finalizzata al recupero degli insediamenti abusivi, e non
comporta alcuna legittimazione o giustificazione in ordine
alla realizzazione di opere ulteriori di trasformazione e
ampliamento, sia pur “migliorative”, destinate al mutamento
delle destinazioni d’uso, sia pur “convenienti”, dei
manufatti condonati, che restano invece assoggettati alle
prescrizioni urbanistiche vigenti, non modificate per
effetto del condono, che non ha certamente gli effetti di
una variante.
6.3.- Chiarito quanto sopra, la circostanza che
l’amministrazione comunale abbia assentito in sanatoria ex
l. n. 47/1985 l’immobile abusivo attuale (compreso il piano
seminterrato) non autorizza a ritenere che -in sede di
rilascio del permesso in sanatoria n. 68 del 2004- abbia
preso in considerazione l’intera volumetria del piano
seminterrato e non solamente quella relativa alla sola parte
emergente dal piano di campagna.
Né parte ricorrente ha offerto al Collegio elementi di prova
in tal senso depositando copia della domanda di condono
edilizio, utile a dimostrare -con la voce riportata alla
parte seconda del modello predisposto dal Ministero Lavori
Pubblici, relativa al volume complessivo, oggetto della
domanda– che nel calcolo dell’oblazione e del contributo di
concessione, l’intera volumetria del seminterrato sia stata
computata a tal fine.
Può concludersi per la reiezione del ricorso (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 06.12.2017 n. 1248 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per le recinzioni con reti amovibili non serve un titolo
edilizio.
Una recinzione costituita da rete metallica sorretta da
paletti in ferro a “T” senza opere murarie non richiede il
previo rilascio di un titolo edilizio. Diversamente, la
realizzazione di muri di cinta, cordoli in calcestruzzo o
simili vanno assoggettati a Scia o a permesso di costruire,
a seconda della loro entità e dell'impatto.
Come affermato dalla giurisprudenza, "la
valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo
edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va
effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di
conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di
costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad
esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto
entro tali limiti la posa in essere di una recinzione
rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la
delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è
necessario il titolo abilitativo quando la recinzione
costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo
durevole e non precario sull'assetto edilizio del
territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di
sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da
opera muraria".
L'orientamento prevalente del Consiglio di Stato, inoltre, è
nel senso di ritenere "che più che all'astratto genus o
tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella
categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui
fondi finitimi) occorrere far riferimento all'impatto
effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul
territorio: con la conseguenza che si deve qualificare
l'intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne
consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli
abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di
determinare significative trasformazioni urbanistiche e
edilizie".
---------------
Sulla base di tale approccio sostanzialista, attento al
rapporto effettivo dell'innovazione con la preesistenza
territoriale e che prescinde dal mero e astratto nomen
iuris utilizzato per qualificare l'opera realizzata, è
possibile affermare che una recinzione costituita da rete metallica sorretta da
paletti in ferro a “T”, senza opere murarie, avente un
ridotto impatto visivo e quindi non comportante una
permanente e apprezzabile alterazione dello stato dei
luoghi, non richiede il previo rilascio di un titolo
edilizio: diversamente, la realizzazione di muri di cinta,
cordoli in calcestruzzo o simili vanno assoggettati al
regime della DIA o, in seguito, della SCIA ovvero al regime
del permesso di costruire, a seconda della loro entità e
dell'impatto, per dimensioni e tipologia, che generano
sull'ambiente circostante in termini di trasformazione
urbanistica o edilizia.
Va acclarata quindi, sul piano strettamente edilizio,
l’insussistenza del presupposto –connesso alla necessità di
acquisizione della s.c.i.a.– posto a fondamento del
provvedimento ripristinatorio impugnato (fermo restando che,
anche in caso contrario, sarebbe stato precluso l’esercizio
del potere demolitorio, ai sensi dell’art., 37, comma 1,
d.P.R. n. 380/2001, secondo cui “la realizzazione di
interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in
assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata
di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile
conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e
comunque in misura non inferiore a 516 euro”).
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 29 del
01.12.2015, con la quale si è ordinato al ricorrente, quale
erede testamentario di An.Ma.Co., responsabile delle
asserite opere abusive, la demolizione di una recinzione
realizzata con paletti a “T” e rete metallica zincata lungo
il fondo agricolo sito in località Scaragonelle del Comune
di Pietrastornina, di tutti gli atti connessi e presupposti.
...
Espone il ricorrente di essere proprietario iure
hereditatis di un fondo agricolo sito nel Comune di
Pietrastornina, località Sacaragonelle, recinto con paletti
a “T” e rete metallica zincata, la cui esistenza veniva
constatata dall’amministrazione in occasione del sopralluogo
eseguito in data 18.09.2015, a seguito del quale il
ricorrente rappresentava che la recinzione era stata
realizzata da tempo immemore dal defunto genitore e
trasmetteva al Comune la c.i.l. prot. n. 7747 del
24.12.2010, con la quale il de cuius aveva notiziato
l’amministrazione dei lavori di recinzione del fondo.
Per mero tuziorismo, inoltre, il ricorrente presentava in
data 20.11.2015 istanza di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, risultando l’intervento pienamente conforme alle
Norme Generali di Salvaguardia di cui all’allegato 2B del
Parco Regionale del Partenio.
Lamenta quindi che il Comune di Pietrastornina, con il
provvedimento impugnato, ha ordinato la demolizione della
suddetta recinzione metallica, assumendo che l’intervento
non rientrerebbe tra quelli disciplinati dall’art. 6 d.P.R.
n. 380/2001 ma sarebbe subordinato a s.c.i.a. di cui
all’art. 22, comma 1, d.P.R. cit..
Mediante le censure formulate in ricorso, viene dedotto che
la recinzione, per le sue modalità costruttive, non produce
alcun effetto di irreversibile trasformazione del
territorio, rientrando quindi nell’ambito dell’attività
edilizia libera, in quanto mera estrinsecazione dello ius
excludendi alios immanente alle facoltà dominicali del
proprietario, né la conclusione potrebbe essere diversa in
considerazione del vincolo ambientale esistente in zona,
tanto più in quanto il ricorrente si è premurato di attivare
il procedimento per la sanatoria paesaggistica
dell’intervento, essendo conforme alle norme di tutela
ambientale.
In ogni caso, conclude la parte ricorrente, anche assumendo
che la recinzione richieda la presentazione di una s.c.i.a.,
la sua mancanza sarebbe sanzionabile con una mera sanzione
pecuniaria, restando precluso all’amministrazione
l’esercizio del potere demolitorio.
Né potrebbe addivenirsi a diverse conclusioni sulla scorta
del fatto che l’area ricade all’interno del Parco del
Partenio, sancendo l’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 380/2001
l’obbligo del Comune di richiedere all’Autorità preposta
alla tutela del vincolo un parere vincolante circa l’obbligo
di restituzione in pristino ovvero l’applicazione della
sanzione pecuniaria, tanto più in quanto il ricorrente, in
data 20.11.2015, ha presentato una richiesta di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, non ancora
definita, ma che sarà certamente esaminata favorevolmente
attesa la conformità della recinzione alle modalità
costruttive di cui al punto 2.2 delle Norme Generali di
Salvaguardia di cui all’allegato 2B del Parco regionale del
Partenio.
Il Comune intimato si oppone all’accoglimento del ricorso,
deducendone l’infondatezza.
Tanto sinteticamente premesso, la domanda di annullamento è
meritevole di accoglimento.
Come affermato dalla giurisprudenza, infatti, "la
valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo
edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va
effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di
conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di
costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad
esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto
entro tali limiti la posa in essere di una recinzione
rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la
delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è
necessario il titolo abilitativo quando la recinzione
costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo
durevole e non precario sull'assetto edilizio del
territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di
sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da
opera muraria" (in termini, TAR Puglia Bari, sez. III,
15.09.2015, n. 1236; in senso conforme, TAR Piemonte Torino,
sez. II, 15.09.2015, n. 1342; TAR Umbria, sez. I,
07.08.2013, n. 434; TAR Salerno, sez. I, 07.03.2011, n.
430).
L'orientamento prevalente del Consiglio di Stato, inoltre, è
nel senso di ritenere "che più che all'astratto genus o
tipologia di intervento edilizio (sussumibile nella
categoria delle opere funzionali a chiudere i confini sui
fondi finitimi) occorrere far riferimento all'impatto
effettivo che le opere a ciò strumentali generano sul
territorio: con la conseguenza che si deve qualificare
l'intervento edilizio quale nuova costruzione (con quanto ne
consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli
abilitativi) quante volte abbia l'effettiva idoneità di
determinare significative trasformazioni urbanistiche e
edilizie" (Cons. Stato, VI, 04.01.2016, n. 10 e
04.07.2014, n. 3408).
Sulla base di tale approccio sostanzialista, attento al
rapporto effettivo dell'innovazione con la preesistenza
territoriale e che prescinde dal mero e astratto nomen
iuris utilizzato per qualificare l'opera realizzata, è
possibile affermare che una recinzione, come quella oggetto
di giudizio, costituita da rete metallica sorretta da
paletti in ferro a “T”, senza opere murarie, avente un
ridotto impatto visivo e quindi non comportante una
permanente e apprezzabile alterazione dello stato dei
luoghi, non richiede il previo rilascio di un titolo
edilizio: diversamente, la realizzazione di muri di cinta,
cordoli in calcestruzzo o simili vanno assoggettati al
regime della DIA o, in seguito, della SCIA ovvero al regime
del permesso di costruire, a seconda della loro entità e
dell'impatto, per dimensioni e tipologia, che generano
sull'ambiente circostante in termini di trasformazione
urbanistica o edilizia.
Acclarata quindi, sul piano strettamente edilizio,
l’insussistenza del presupposto –connesso alla necessità di
acquisizione della s.c.i.a.– posto a fondamento del
provvedimento ripristinatorio impugnato (fermo restando che,
anche in caso contrario, sarebbe stato precluso l’esercizio
del potere demolitorio, ai sensi dell’art., 37, comma 1,
d.P.R. n. 380/2001, secondo cui “la realizzazione di
interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in
assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata
di inizio attività comporta la sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile
conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e
comunque in misura non inferiore a 516 euro”), deve
rilevarsi che, per i profili di carattere paesaggistico, la
parte ricorrente ha avuto cura di presentare istanza di
autorizzazione paesaggistica postuma, ai sensi dell’art, 167
d.lvo n. 42/2004, sì che sarebbe stato obbligo
dell’amministrazione di provvedere espressamente sulla
stessa prima di intervenire in chiave repressiva.
Il ricorso, in conclusione, deve essere accolto, potendo
disporsi l’assorbimento delle censure non esaminate (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 13.04.2017 n. 735 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Chi presenta istanza di
permesso di costruire ha l'onere di accludere dati,
documenti e misurazioni idonei a dare esatta contezza della
situazione dei luoghi con la conseguenza che, ove invece
fornisca dati incompleti, non rispondenti alla superficie e
al volume impegnati dalla progettata edificazione e comunque
tali da fornire un’errata rappresentazione dello stato dei
luoghi, l'Amministrazione legittimamente interviene sul
piano dell'autotutela e annulla d'ufficio il titolo
abilitativo già rilasciato.
---------------
2. Passando al merito, il ricorso è infondato e deve essere
respinto.
Il permesso di costruire è stato annullato in quanto
prevedeva la costruzione in aderenza a pareti dotati di
aperture. Non v’è dubbio, come sostiene parte ricorrente,
che la normativa sopra citata consenta la costruzione in
aderenza. Ovviamente, però, tale normativa non può
consentire la costruzione in aderenza a pareti finestrate.
In particolare, è incontestato come il permesso annullato
–autorizzando la costruzione in aderenza sul prospetto est
dell’edificio– avrebbe comportato la chiusura delle aperture
finestrate presenti su tale prospetto in corrispondenza del
piano primo dell'edificio, non di proprietà dei ricorrenti.
Nel provvedimento impugnato sono richiamate le norme del
codice civile (l’art. 907 prevede una distanza minima di 3
metri) e la disciplina urbanistica riguardo le distanze tra
pareti finestrate.
Di conseguenza l’amministrazione ha correttamente annullato
il permesso di costruire rilasciato ai ricorrenti.
2.1 Come dedotto dal Comune resistente, chi presenta istanza
di permesso di costruire ha l'onere di accludere dati,
documenti e misurazioni idonei a dare esatta contezza della
situazione dei luoghi con la conseguenza che, ove invece
fornisca dati incompleti, non rispondenti alla superficie e
al volume impegnati dalla progettata edificazione e comunque
tali da fornire un’errata rappresentazione dello stato dei
luoghi, l'Amministrazione legittimamente interviene sul
piano dell'autotutela e annulla d'ufficio il titolo
abilitativo già rilasciato (Cons. Stato. IV, 27.01.2012 n.
422, si veda anche Tar Marche 03.06.2016 n. 358).
2.2 E’ incontestato, nel caso in esame, che le citate pareti
finestrate non comparissero negli elaborati progettuali
allegati alla domanda presentata dai ricorrenti. Non era
quindi necessaria alcuna valutazione dell’interesse pubblico
in sede di annullamento in autotutela del permesso di
costruire 268/2003 (TAR Marche,
sentenza 24.01.2017 n. 86 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piano di lottizzazione – convenzioni – opere di
urbanizzazione – prescrizioni.
Sulle convenzioni di lottizzazione, sugli
oneri previsti dal piano di lottizzazione.
Ove si tratti di asservire per la prima
volta ad insediamenti edilizi aree non ancora utilizzate,
che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo
con il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o
il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria volte a soddisfare le esigenze della
collettività, si rende necessario un piano attuativo
(particolareggiato o di lottizzazione), quale presupposto
per il rilascio del permesso di costruire.
Lo scopo è di garantire che all’edificazione del territorio
a fini residenziali corrisponda l’approvvigionamento delle
dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a
loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un
aggregato urbano. Diversamente opinando, con il rilascio di
singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli
interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera
proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla
collettività i costi conseguenti alla realizzazione di
infrastrutture per i nuovi insediamenti.
La possibilità di derogare all’obbligo dello strumento
attuativo è –in verità– ammissibile ma esclusivamente in
ipotesi del tutto eccezionali, caratterizzate da una
situazione di fatto che da quello strumento consenta di
prescindere con sicurezza, in quanto oggettivamente non più
necessario, essendo stato pienamente raggiunto il risultato
(in termini di adeguata dotazione di infrastrutture,
primarie e secondarie previste dal piano regolatore) cui lo
stesso strumento è finalizzato.
---------------
Il piano di lottizzazione –previsto dall’art. 28 della legge
17.08.1942, n. 1150, come modificato dall’art. 8 della legge
06.08.1967, n. 765– perde efficacia alla scadenza del
termine massimo di dieci anni (così come avviene per il
piano particolareggiato): affinché tale strumento possa
ritenersi perfezionato è, altresì, necessaria la
stipulazione di un’apposita convenzione (la quale accede al
piano stesso), cui resta subordinato anche il rilascio dei
titoli abilitativi necessari per la realizzazione delle
opere.
Incidendo la convenzione sulla stessa procedura di
perfezionamento del Piano di lottizzazione e, dunque,
sull’efficacia di quest’ultimo, la mancata stipula della
convenzione inibisce il rilascio da parte
dell’Amministrazione dei titoli abilitativi utili per la
realizzazione del Piano stesso.
Ove, invece, la convenzione sia stata stipulata, il rilascio
dei titoli abilitativi di cui si discute è possibile, con
l’ulteriore precisazione che –a tale fine– non è comunque
necessario che le parti abbiano già provveduto
all’adempimento di tutti gli incombenti sugli stessi
gravanti, realizzando le opere di urbanizzazione primarie e
secondarie prescritte. Come ampiamente riconosciuto in
giurisprudenza, “il rilascio delle licenze edilizie
nell’ambito dei singoli lotti è” meramente “subordinato
all’impegno della contemporanea esecuzione delle opere di
urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi” e non,
quindi, all’effettiva e concreta realizzazione di quest’ultime.
---------------
Ancorché la convenzione sia scaduta e, quindi, risulti
maturato il termine ultimo prescritto per l’esecuzione delle
opere di urbanizzazione previste, ove quest’ultime risultino
incomplete l’obbligo per i lottizzanti di ultimare le stesse
permane.
La completa realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria contemplate nella convenzione di
lottizzazione non costituisce –di per sé– una condizione per
il rilascio di titoli edilizi da parte dell’Amministrazione.
---------------
Con il decorso del termine di dieci anni per il piano di
lottizzazione, diventano inefficaci unicamente le previsioni
del piano attuativo che non abbiano avuto concreta
attuazione, “cosicché non potranno più eseguirsi gli
espropri, preordinati alla realizzazione delle opere
pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si
potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti
previsioni del piano regolatore generale e con le
prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha
efficacia ultrattiva”.
Scaduta la convenzione, l’Amministrazione riassume
pienamente le proprie potestà di pianificazione
territoriale, risultando pienamente reintegrata nella
discrezionalità in ordine alle scelte sul governo del
territorio, ivi compresa quella di imprimere alle aree una
destinazione diversa da quella convenzionale, con l’unico
limite della tutela di stati di affidamento, eventualmente
suscitati dalla convenzione stessa qualora questa “sia stata
… pienamente adempiuta”
(massima tratta da www.dirittoamministrazioni.it).
---------------
1. Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e, pertanto,
vada respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, il ricorrente
lamenta l’illegittimità del permesso di costruire n. 22,
prot. n. 3407, rilasciato dal Comune di Labico in data
20.05.2011.
A tale fine il ricorrente denuncia violazione di legge (in
particolare, art. 17 della legge n. 1150/1942) ed eccesso di
potere sotto svariati profili, sostenendo essenzialmente che
–essendo cessata l’efficacia della convenzione per il piano
di lottizzazione– per le aree in cui il piano è rimasto inattuato “non è più possibile l’edificazione” e “spirato il
termine di durata decennale di efficacia del piano di
lottizzazione, la non esecuzione e predisposizione delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria porta al
divieto, per la Pubblica Amministrazione, di rilasciare
nuovi ed ulteriori permessi di costruire”.
Tali censure non sono meritevoli di condivisione per le
ragioni di seguito indicate.
2. Ai fini del decidere, appare opportuno ricordare che:
- è noto che -ove si tratti di asservire per la prima volta
ad insediamenti edilizi aree non ancora utilizzate, che
obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il
potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano attuativo (particolareggiato
o di lottizzazione), quale presupposto per il rilascio del
permesso di costruire (cfr., tra le altre, C.d.S., 04.12.2007, n. 6171; C.d.S., Sez. IV, 22.05.2006, n.
3001);
- i c.d. piani particolareggiati o di lottizzazione hanno,
infatti, “lo scopo di garantire che all’edificazione del
territorio a fini residenziali corrisponda
l’approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta,
garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato
urbano. Diversamente opinando, con il rilascio di singoli
permessi di costruire in area non urbanizzata, gli
interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera
proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla
collettività i costi conseguenti alla realizzazione di
infrastrutture per i nuovi insediamenti” (TAR Campania, Sez.
VIII, 12.06.2014, n. 3272; cfr., tra le altre, C.d.S.,
Sez. V, 03.03.2004, n. 1013);
- in termini più generali, costituisce regola generale ed
imperativa, in materia di governo del territorio, il
rispetto delle previsioni del P.R.G. che impongono, per una
determinata zona, la pianificazione di dettaglio (cfr. C.d.S.,
Sez. IV, n. 3001/2006, già citata);
- la possibilità di derogare all’obbligo dello strumento
attuativo è –in verità– ammissibile ma esclusivamente in
ipotesi del tutto eccezionali, caratterizzate da una
situazione di fatto che da quello strumento consenta di
prescindere con sicurezza, in quanto oggettivamente non più
necessario, essendo stato pienamente raggiunto il risultato
(in termini di adeguata dotazione di infrastrutture,
primarie e secondarie previste dal piano regolatore) cui lo
stesso strumento è finalizzato (cfr., ex multis, TAR Puglia,
Lecce, Sez. III, 03.09.2014, n. 2247).
Tenuto conto delle peculiarità che connotano il caso di
specie, va rilevato ancora che:
- il piano di lottizzazione –previsto dall’art. 28 della
legge 17.08.1942, n. 1150, come modificato dall’art. 8
della legge 06.08.1967, n. 765– perde efficacia alla
scadenza del termine massimo di dieci anni (così come
avviene per il piano particolareggiato);
- affinché tale strumento possa ritenersi perfezionato è,
altresì, necessaria la stipulazione di un’apposita
convenzione (la quale accede al piano stesso), cui resta
subordinato anche il rilascio dei titoli abilitativi
necessari per la realizzazione delle opere (cfr. TAR Puglia,
Lecce, Sez. III, 05.08.2014, n. 2133);
- si introduce così la tematica delle c.d. convenzioni
urbanistiche, inquadrabili –secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza– nel novero degli accordi
sostitutivi di provvedimento di cui all’articolo 11 della
legge n. 241 del 1990 (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV,
08.07.2013, n. 3597; C.d.S., Sez. IV, 21.01.2013, n.
324);
- secondo quanto di recente ribadito dal Consiglio di Stato,
“la giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare,
all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la
prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti,
si è affermato (C.d.S., Sez. V, 10.01.2003, n. 33; C.d.S., Sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che, sebbene sia
innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei
profili di stampa giuspubblicistico che si accompagnano allo
strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un
istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in
questo si assista all’incontro di volontà delle parti
contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal
codice civile” (Sez. IV, 22.01.2013, n. 351, che
richiama testualmente il precedente della stessa Sezione IV,
01.04.2011, n. 2040);
- la causa tipica di tali convenzioni è –in ogni caso–
quella di disciplinare diritti e obblighi delle parti in
relazioni alla realizzazione delle trasformazioni previste
dallo strumento attuativo e si caratterizzano proprio per
l’assunzione dell’impegno della parte pubblica al rilascio
dei titoli abilitativi, alle condizioni previste, a fronte
dell’esecuzione delle obbligazioni poste a carico della
parte private;
- mediante la stipulazione della Convenzione, i Comuni
pattuiscono, dunque, le modalità per la realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria necessarie ai
fini dell’insediamento abitativo e, in genere, convengono di
porre tali opere a carico della parte privata, rinunciando
così a percepire gli importi in danaro ordinariamente
richiesti a titolo di oneri di urbanizzazione (TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 23.07.2014, n. 1997).
Da tali assunti si trae che:
- incidendo la convenzione sulla stessa procedura di
perfezionamento del Piano di lottizzazione e, dunque,
sull’efficacia di quest’ultimo, la mancata stipula della
convenzione inibisce il rilascio da parte
dell’Amministrazione dei titoli abilitativi utili per la
realizzazione del Piano stesso (cfr., tra le altre, TAR
Puglia, Lecce, n. 2133/2014, già citata);
- ove, invece, la convenzione sia stata stipulata, il
rilascio dei titoli abilitativi di cui si discute è
possibile, con l’ulteriore precisazione che –a tale fine–
non è comunque necessario che le parti abbiano già
provveduto all’adempimento di tutti gli incombenti sugli
stessi gravanti, realizzando le opere di urbanizzazione
primarie e secondarie prescritte. Come ampiamente
riconosciuto in giurisprudenza, “il rilascio delle licenze
edilizie nell’ambito dei singoli lotti è” meramente
“subordinato all’impegno della contemporanea esecuzione
delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti
stessi” e non, quindi, all’effettiva e concreta
realizzazione di quest’ultime (C.d.S., Sez. IV, 26.08.2014, n. 4278);
- ancorché la convenzione sia scaduta e, quindi, risulti
maturato il termine ultimo prescritto per l’esecuzione delle
opere di urbanizzazione previste, ove quest’ultime risultino
incomplete l’obbligo per i lottizzanti di ultimare le stesse
permane. Come precisato anche dalla Sezione in epoca recente
(cfr. sent. 26.03.2014, n. 3326), sussiste, infatti, la
possibilità per l’Amministrazione di chiedere l’esecuzione
coercitiva in forma specifica delle obbligazioni poste in
convenzione di lottizzazione entro il termine prescrizionale
di dieci anni e -a tale fine- il dies a quo va individuato
nella data di “scadenza del termine per adempiere, a norma
dell’art. 2935 c.c.”, ossia del termine ultimo concesso alle
parti per l’ultimazione delle opere di urbanizzazione.
In base a tali considerazioni il Collegio ritiene, dunque,
di poter affermare che la completa realizzazione delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria contemplate nella
convenzione di lottizzazione non costituisce –di per sé–
una condizione per il rilascio di titoli edilizi da parte
dell’Amministrazione.
Del resto, non è riscontrabile alcuna previsione normativa
che disponga in tale senso ed, anzi, anche la disamina del
caso in trattazione –in cui proprio il ricorrente ha
ottenuto l’idoneo titolo abilitativo per realizzare il
proprio immobile– dimostra il contrario.
2.1. Stanti le peculiarità del caso, è necessario passare ad
un’analisi più specifica e, precipuamente, sorge l’esigenza
di valutare l’iniziative assumibili dall’Amministrazione in
presenza di una convenzione “scaduta”.
Come già detto, la predetta è comunque titolare del potere
di agire per pretendere l’esecuzione in forma specifica
della convenzione.
Per quanto attiene, invece, al rilascio di permessi di
costruire il Collegio riconosce la rilevanza dell’art. 17,
comma 1, della legge n. 1150 del 1942, il quale dispone che:
“Decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano
particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in
cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione
di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare
che:
- le previsioni del piano attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata;
- in linea di principio, le medesime previsioni rimangono
efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono
le regole determinative del contenuto della proprietà delle
aree incluse nel piano attuativo);
- con il decorso del termine di cui sopra (dieci anni per il
piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, “cosicché non potranno più eseguirsi
gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere
pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né si
potrà procedere all’edificazione residenziale, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti
previsioni del piano regolatore generale e con le
prescrizioni del piano attuativo, che per questa parte ha
efficacia ultrattiva” (C.d.S., n. 4278 del 2014, già citata;
cfr., tra le altre, anche C.d.S., Sez. IV, 04.12.2007,
n. 6170; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 19.02.2014,
n. 429);
- scaduta la convenzione, l’Amministrazione riassume
pienamente le proprie potestà di pianificazione
territoriale, risultando pienamente reintegrata nella
discrezionalità in ordine alle scelte sul governo del
territorio, ivi compresa quella di imprimere alle aree una
destinazione diversa da quella convenzionale, con l’unico
limite della tutela di stati di affidamento, eventualmente
suscitati dalla convenzione stessa qualora questa “sia stata
… pienamente adempiuta” (TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 17.11.2011, n. 1737; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 10.04.2006, n. 374), ma, “fino a quando tale potere non
viene esercitato” –come risulta essere avvenuto nel caso di
specie– “l’assetto urbanistico dell’area rimane definito
nei termini disposti con la convenzione di lottizzazione” (C.d.S.,
Sez. IV, 19.02.2007, n. 851).
In definitiva, alla scadenza del piano di lottizzazione e
della relativa convenzione non sovviene il divieto assoluto
di edificare sulle aree in cui il piano è rimasto inattuato,
attesa l’ultrattività generalmente riconosciuta alle
disposizioni del piano scaduto disciplinanti l’edificazione
e le prescrizioni di zona, “affinché non sia alterato lo
sviluppo urbanistico-edilizio così come programmato dallo
strumento scaduto” (cfr. TAR Lazio, Sez. II-bis, 20.01.2010, n. 612), mentre la non completa realizzazione delle
opere di urbanizzazione da parte dei lottizzanti a ciò
tenuti può comportare l’assunzione di iniziative da parte
dell’Amministrazione utili per l’adempimento degli impegni
assunti ma –in alcun modo– rappresenta un elemento –di
per sé- preclusivo del rilascio di nuovi titoli edilizi.
Ciò trova –del resto– conferma anche in quelle pronunce
del giudice amministrativo che –valutando la legittimità di
richieste di contributi di oneri di urbanizzazione in sede
di rilascio di nuovi permessi di costruire sulla base dello
stadio di realizzazione delle opere di urbanizzazione
contemplate in convenzioni di lottizzazione scadute–
implicitamente ammettono o, meglio, riconoscono la piena
facoltà dell’Amministrazione di procedere al rilascio di
titoli edilizi pur in presenza di un adempimento parziale da
parte dei lottizzanti agli obblighi assunti (cfr., ex multis,
TAR Marche, Ancona, Sez. I, 08.02.2010, n. 31; TAR
Marche, Ancona, Sez. I, 14.06.2006, n. 422).
Orbene, in ragione di quanto su riportato il Collegio
ritiene che le asserzioni su cui poggia il ricorso secondo
cui:
- “una volta scaduto il termine di efficacia della
convenzione, nella zona considerata non è più possibile
l’edificazione”;
- “la non esecuzione e predisposizioni delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria porta al divieto, per
la Pubblica Amministrazione, di rilasciare nuovi ed
ulteriori permessi di costruire”;
-
siano prive di fondamento, attesa la necessità di valutare
ogni singolo caso in relazione alle previsioni del piano di
lottizzazione e del P.R.G. e allo stato di avanzamento delle
opere di urbanizzazione, nel rispetto dell’ordinato sviluppo
della zona.
Ciò detto e fatta –comunque– salva la persistenza
dell’obbligo di realizzare le opere di urbanizzazione
primaria e secondaria previste nella convenzione, è doveroso
pervenire alla conclusione che le censure formulate non sono
meritevoli di positivo riscontro.
3. In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 22.09.2014 n. 9907 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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